Adolfo Venturi (storico dell'arte)

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Adolfo Venturi

Adolfo Venturi (1856 – 1941), storico dell'arte e accademico italiano.

Citazioni di Adolfo Venturi[modifica]

  • [Michelangelo Merisi da Caravaggio] ...cancella il valore disegnativo dato alla forma dai fiorentini, rifugge dai partiti decorativi, semplifica la visione degli oggetti per mezzo di un taglio, nitido, notturno, tra luce e ombra; approfondisce e semplifica la composizione. Dalle opere giovanili, composte ad armonia di chiari colori, sotto luci bionde e velari leggieri di ombre trasparenti, alle ultime, cupe e notturne, schiarate da luci crude e costrette, l'arte del Caravaggio sempre più afferma i suoi principi fondamentali plastico-luminosi, che fanno di lui il precursore dei massimi geni del Seicento europeo: da Franz Hals e Rembrandt, al primitivo Velàzquez.[1]
  • E benedetta sia quella fotografia che nella pittura e nel ritratto in ispecie, ci libera dalla produzione di tanti imbianchini, e tanto più preziosa fa divenire la grande arte, per la rarità del suo uso.[2]

Leonardo e la sua scuola[modifica]

  • Tra gli scolari più antichi di Leonardo, Marco d'Oggiono (n. 1407?–1530), tendente al manierismo di lusso e di gran pratica, ripete, in modo pedestre, costantemente, le opere del maestro, le traduce nei proprii forti contrasti di chiaroscuro e nel proprio intenso colore. Il suo momento massimo è rappresentato dal "Salvator Mundi" della Galleria Borghese e dalla "Madonna allattante" del Museo del Louvre: opere con diligenza condotte, con i capelli delle figure lumeggiati uno ad uno, le sottili pieghe delle vesti color di rubino. La modellatura non manca di finezza, ma le teste son compresse, le mani gonfie, gli occhi sporgenti dall'orbita. (p. XXXII)
  • Marco [d'Oggiono] dipinse i tre Arcangeli nella Galleria di Brera, facendo del vinciano Gabriele un vezzoso manichino; di Michele una macchinosa figura che oscura il cielo con le enormi ali distese e gli sbuffi tondeggianti del mantello; di Raffaele una grassa donzella imbarazzata nel sacco di pieghe delle vestimenta. Tra Gabriele e Raffaele è piombato Lucifero con la liscia testa di porcellana, le braccia sottili, le mani piccolette, le scure piante artigliate. L'artista già cade nella più uggiosa maniera, dimentico di proporzioni, di rapporti tra le figure e il paese, legnoso nelle figure memori del linearismo convenzionale del Civerchio[3], cupreo nell'effetto di colore. (p. XXXII)
  • Nella tarda "Assunzione" [di Marco d'Oggiono] della Galleria di Brera in Milano, gli Apostoli, che in terra si agitano per mirare l'Assunta in cielo, tra corone di nubi e di cherubini, non hanno più posto per muoversi; si attaccano, si accatastano, mentre i cherubini che attornian Maria con le ciocche della chioma al vento, con le gonfie vesti fasciate, volano, nuotano, cadono all'ingiù, perdon l'equilibrio. Tutto è sgangherato, tutto è come strappato a viva forza, per il grido dell'enfasi, per il tumulto degli elementi. Spentasi davanti agli occhi di Marco d'Oggiono la luce accesa dal maestro, egli s'irretì sempre più. Incapace di vedere un paese nella sua linea d'insieme, si contentò di far tutto di convenzione: paesaggio, figura umana, panneggio; cercò l'effetto nell'enfasi del gesto, nel turbinio barocco delle lucide pieghe, nell'accesa tonalità dei colori; parve anticipare i giorni del manierismo romano, senza pur possedere la virtuosità, la forza, propria ai maggiori seguaci di Raffaello e di Michelangelo. (p. XXXII)

Storia dell'arte italiana[modifica]

Incipit[modifica]

La religione del Nazzareno arrivò dall'Oriente a Roma imperiale, ancora rigida nelle sue forme, avvolta nel mistero dell'infinito, tremante di ritrarre la immagine del Sommo Dio, e paurosa di rendere con forme d'arte i propri fasti.
La civiltà greco-romana, trasformata dalla religione cristiana, trasformò questa a sua volta, e la fece erede dell'arte antica, dandole forme esteriori, una costituzione che si fondò su quella dell'Impero e l'ellenico elevatissimo sentimento del destino umano. Mentre il cristianesimo si diffondeva nel mondo greco-romano, la filosofia giunse ad una nuova concezione del divino, che si approssimava singolarmente a quella dei cristiani; i pensatori adoravano il Dio a cui avevano innalzato un altare nel cuore; Dio che, non avendo alcuna forma concreta, poteva essere rappresentato solo per mezzo di simboli e di allegorie, così come lo rappresentavano i cristiani.
Il simbolismo primitivo de' cristiani è quindi della maggiore semplicità; l'arte teme di esprimersi in modo chiaro, e raccoglie anche dalla Giudea segni ideografici, antichissimi geroglifici che graffisce sulle tombe.

Citazioni[modifica]

Dai primordi dell'arte cristiana al tempo di Giustiniano[modifica]

  • Quando i primitivi cristiani ricorsero all'arte classica, chiesero forme molto semplici: erano perseguitati ed oppressi, e non conveniva loro la magnificenza dell'arte per i ritrovi sotterranei. Al lume delle lucerne e delle faci, nelle necropoli, bastava alle anime pie di vedere abbozzati quegli elementari simboli che s'incontravano dall'Italia alle rive del Nilo e alle vallate della Siria, come in tutte le città cristiane dei morti. Erano le parole della nuova lingua universale della fede. (vol. I, p. 3)
  • Mentre nelle catacombe aleggia la speranza, sulla porta di Santa Sabina si afferma la vittoria e il predominio della Chiesa. All'arte simbolica primitiva era succeduta un'arte concreta, sorta sotto l'influsso dello spirito latino e delle tendenze pratiche di Roma, un'arte con intendimenti d'insegnare e di erudire figurando il catechismo sulla porta della casa di Dio. (vol. I, p. 477)

Dall'arte barbarica alla romanica[modifica]

  • La contesa degl'iconoclasti giovò tuttavia al progresso dell'arte, staccandola da forme rituali, poi che le immagini, considerate quali mezzi d'insegnamento e di decorazione, dovevano conformarsi al sentimento popolare, esprimersi in una favella intesa facilmente da tutti. Certi antichi tipi dovevan divenire ogni giorno più oscuri e misteriosi, più lontani dalla vita a cui la contesa religiosa contribuì a ritornarli. E la decorazione naturalistica che tenne luogo delle sacre immagini, quella di animali d'ogni specie, di rappresentazioni di caccia e di pesca, tanto biasimate da San Nilo scrivendo ad Olimpiodoro, non andò perduta, anzi restò nelle abitudini dell’arte medioevale. (vol. II, pp. 131-132)
  • I Dialoghi di San Gregorio sono una raccolta di miracoli e di visioni relative alla vita dei santi, fatta da un uomo di strana e malata sensibilità; ma essi formarono il modello che gli artisti seguiranno fedelmente; il pontefice che prima d'essere consacrato vedeva l'angiolo sulla mole adrianea[4] riporre nel fodero la spada di fuoco, e che pregò poi per la salute dell'anima di Traiano imperatore, fu uomo preso or dall'entusiasmo, ora dalla disperazione; un veggente della collera di Dio, il profeta che si estolle sui campi della morte. (vol. II, p. 137)

L'arte romanica[modifica]

  • Niccola [Pisano] col suo potente ingegno aveva raccolto in sé la forza che erompe dall'antico, la pienezza, la robustezza, il naturalismo sincero; quella forza che quasi due secoli dopo raccolse Jacopo della Quercia nelle sue forme poderose e sane, e quindi Michelangelo ne' suoi atleti. (vol. III, p. 992)
  • Giovanni Pisano, che segue amoroso le tracce paterne, è arcaico al confronto, perché non ebbe la forza tutta individuale di Niccola nel frangere le convenzioni, dominare la materia col pensiero, rispecchiare la bellezza antica, penetrare nella verità della vita. (vol. III, p. 1000)
  • La vita moderna scaturisce dall'antichità classica nell'opera di Niccola [Pisano]; del linguaggio greco e latino si giova per dire più correttamente e nobilmente nel dolce stil nuovo; passando sulle rovine dell'arte dei bassi tempi, con le tradizioni cristiane nel cuore, arrivò a toccare il lido di un mondo quasi sconosciuto. (vol. III, p. 1000)
  • Non rattenuto da schemi iconografici, sciolto dai vincoli chiesastici, Niccola d'Apulia[5] all'esterno del battistero fece rifiorire le forme italo-greche e romane, mentre stampò costumi e uomini del suo tempo, or mettendo un turbante a un busto aureliano, ora trattando anche per masse le chiome di figure che con i grandi occhi scoppianti fuori dalle orbite guardano innanzi a sé; ora rendendoci tipi di gaudenti, di cortigiani superbi, di uomini di scienza solenni, di vecchi austeri che sembran muovere rampogne, di orientali, di donne rubiconde, ecc.
    Il mondo di Niccola d'Apulia è lì come sopra un gran ponte gettato tra l'antichità e l'evo moderno. (vol. III, p. 1004)

La scultura del Trecento e le sue origini[modifica]

  • Ne' personaggi di questa tragedia [la Strage degl'innocenti nel pulpito della chiesa di Sant'Andrea di Pistoia] si scorgono i corpi allungati, le teste oblunghe, i movimenti contorti; e si manifesta, anche sotto la guida del padre [Nicola], Giovanni Pisano, nelle mosse brusche a lui naturali, nelle crude e taglienti determinazioni del vero. (vol. IV, p. 3)
  • Queste quattro statue [nel ciborio della basilica romana di San Paolo fuori le mura] ci rivelano la grande arte di Arnolfo: appena nella figura dell'oratore, nel movimento avanzato dell'anca sinistra, si nota una lieve contorsione gotica: in tutto il resto esse sono forti e salde, e la testa naturalistica del vecchio frate, la superba figura dell'oratore, sicuro di sé, ci dicono come le grandi fonti dell'antico e della natura si unissero nell'arte di Arnolfo quali due torrenti nell'alveo di un fiume. (vol. IV, p. 80)
  • Compiuto il monumento di Bonifacio VIII in San Pietro, Arnolfo tornò a Firenze a continuar l'opera di Santa Maria del Fiore, e a rinnovare, con la potenza del suo genio, l'arte fiorentina. Ma ben presto, l'8 di marzo 1302, secondo le ricerche del Frey[6], venne meno il grande scultore e architetto, il maestro caro a Carlo I d'Angiò ed ai romani Pontefici, desiderato dai Perugini quando ancora Giovanni Pisano lavorava alla fonte di Piazza. Morì lasciando un'orma eterna, facendo sorgere come per incanto, in un breve corso d'anni, Santa Croce, Santa Maria del Fiore e il Palazzo Vecchio di Firenze. La scultura iconica ebbe da lui il maggiore sviluppo, l'architettura nuovi fondamenti. (vol. IV, p. 167)
  • Lorenzo Maitani disegnò la facciata del Duomo [di Orvieto], ancora mancante, e fu il provveditore della sua decorazione. Gli angeli, che egli stesso gettò, per circondarne il gruppo della Vergine col Bambino assisa sotto un padiglione disposto sull'architrave della porta maggiore, hanno tale corrispondenza con il maggior numero delle figure de' bassorilievi, da farci ritenere che una stessa mano abbia eseguito gli uni e gli altri, o almeno che modelli di forme del tutto simili siano stati dati al fonditore e ai marmorari. (vol. IV, p. 323)
  • Lorenzo Maitani, nella sua città natale [Siena] e in Firenze nella bottega del grande scultore da Pontedera[7], cercò gli esecutori delle sue idee grandiose; e questo spiega come nelle sculture della facciata del Duomo di Orvieto, in quella della Visitazione, ad esempio, la scena sia similissima all'altra della porta in bronzo d'Andrea Pisano. (vol. IV, pp. 325-328)
  • Andrea di Cione Arcangnuolo o Arcangio o Arcagnio, detto l'Orcagna, compare per la prima volta nel 1343 tra i pittori fiorentini, e, nove anni dopo, iscritto tra i maestri di pietra e di legname. Pittore, musaicista, scultore, architetto, poeta, fu esempio della versatilità artistica italiana, personificazione dell'unità delle arti. (vol. IV, p. 637)
  • Niuna delle figure [del tabernacolo di Orsanmichele] ha il capo circondato del nimbo o è avvolta da un'aureola, perché già gli uomini raccontavano di avvenimenti sacri come di cose famigliari, e si avvicinava il momento in cui l'arte religiosa rifletterà la vita sociale ne' suoi aspetti. L'Orcagna tolse i simboli, perché sentì di esprimere anche senza di essi, sinceramente, la sua devozione. (vol. IV, p. 640)
  • Nel rappresentare [nel tabernacolo di Orsanmichele] una scena solenne, come quella dell'Assunzione, [l'Orcagna] ricordò d'essere non solo scultore, ma anche musaicista, per ottenere gli effetti più vivi e abbaglianti, col fondo di smalto azzurro sparso di stelle. E ricordò d'essere architetto quando quei bassorilievi e quei musaici dispose nel tabernacolo, mirabile per l'armonia delle parti, per la nobilissima eleganza dell'insieme, per la maestà assunta dallo stile gotico. Dalle sue sculture spira un'aria grave, melanconica. Non sembra giusto di figurarci l'Orcagna come uno spirito irrequieto che tenti sempre cose nuove; è piuttosto un maestro laborioso, pratico e sodo. Le sue figure non hanno quella vita degli occhi che spira nelle opere trecentesche; tuttavia la Fede dalle pupille estasiate, Maria che riceve l'annuncio della fine della vita mortale, gli angioli presi da incanto che abbassano le ali lungo i pilastri del tabernacolo, mostrano quanto fosse alto nell'Orcagna il sentimento della convenienza religiosa. (vol. IV, p. 662)

La pittura del Trecento e le sue origini[modifica]

  • Abbiamo veduto così, tra i maestri che dipinsero le tavole del Dugento[8], il Berlinghieri ligio a forme antiquate, Margaritone disfatto, Giunta grossolano, Coppo di Marcovaldo imitatore garbato de' Bizantini, Guido da Siena stampatore di Madonne, ecc. Tuttavia dagli uni agli altri le forme si vanno elaborando e digrossando, finché Cimabue irrompe con la sua passione tra gli stanchi fantasmi dell'arte romanica, e sopraggiungono Pietro Cavallini, a ridare romana forza ad Apostoli e Santi, Duccio di Boninsegna, a coronare le tradizioni bizantine; Giotto a creare il damma sacro, la divina Commedia. (vol. V, pp. 121-122)
  • Nel 1291, quando Pietro Cavallini lavorava i musaici di Santa Maria in Trastevere, un gran progresso dovette essere avvenuto nella sua maniera, [...]. Non si vedono più figure piatte su fondi d'oro, ma scene aventi rilievo e gareggianti con la pittura, vesti a colori schiariti e svaniti nelle parti avvivate da bianche luci, intensi gradatamente nelle ombre. L'oro, non steso più ne' manti come su lastre metalliche, s'intesse ne' broccati e nelle tele, trae dalle penne del pavone il suo splendore per raggiare nell'ala dell'angiolo dell'Annunciazione, filetta i contorni, sparge di moschette o alluciola i panni per mettere all'unisono il fondo con le figure sovrapposte, che sembrano intagliate nelle onici o nelle gemme. (vol. V, pp. 141-143)
  • Nonostante le affinità che si devono riconoscere tra i due maestri, Cimabue è più plastico, poderoso e massiccio, il Cavallini più grandioso e monumentale; Cimabue modella con insistenza le figure, come se dovesse formarle nel bronzo, il Cavallini dà loro slancio potente; Cimabue elabora tipi bizantini rendendoli grifagni, Cavallini è più libero dalla convenzione bizantina e più classico; Cimabue prepara gl'intonachi con una tinta nerastra, il Cavallini di rosso. (vol. V, pp. 201-206)
  • L'ultima opera certa di lui, la tavola della Natività della Vergine, nel Museo dell'Opera di Siena, ci mostra come, invecchiando, debole di spirito e di forma, sempre più si accostasse alla vita, vestendo de' costumi del tempo i personaggi, staccandosi dagli esemplari di Duccio[9] e avvicinandosi sempre di più al fratello[10]. Ma la morte troncò, verso il 1350, i nuovo conati di Pietro Lorenzetti. Gli ultimi suoi anni sono avvolti nel mistero; e la notizia d'un quadro di lui, esistente nella chiesa di San Francesco ad Avignone, potrebbe generare il sospetto che là si recasse il maestro dopo avvenuta la morte di Simone Martini. (vol. V, p. 678)
  • Un ciclo di pitture che ha reso famoso Pietro Lorenzetti è quello della basilica inferiore d'Assisi. Prudentemente il Thode[11] notò che si ebbe ragione a toglierle a Puccio Capanna, a Pietro Cavallini e a Giotto, ma che si andò troppo oltre nell'assegnarle a quell'autore e non a' suoi seguaci. (vol. V, p. 680)
  • [Commentando il ciclo degli affreschi dell'Allegoria ed effetti del Buono e del Cattivo Governo nel Palazzo Pubblico di Siena] Prima che l'umanesimo richiamasse in onore le divinità pagane rimaste per tutto il medioevo nell'immaginazione popolare, rideste ai primi tepori della civiltà nuova, Ambrogio Lorenzetti rende loro lo scettro sugli uomini.
    L'Estate ha il tipo pieno, rubicondo, proprio di Ambrogio, il quale qui fu meno scarso del solito nel segnare i tre quarti del volto della figura, e rapido nel tratto, sciolto, freschissimo. L'Autunno pare un'incisione a due tinte per le bianche lumeggiature sulle carni abbronzate, ora a tratti veloci e ora a masse sulle parti prominenti e più esposte alla luce. C'è modernità in quegli schizzi a colpi, saldezza d'arte progredita, libertà di maestro. Ambrogio Lorenzetti è più nuovo che non nelle opere finite in quegli abbozzi decorativi dove si lascia sorprendere senza la dottorale zimarra che sembra indossare di solito. (vol. V, pp. 709-710)
  • [...] più che da Giotto e dai Fiorentini, come si è ritenuto sin qui, Ambrogio attinse da Simone Martini e dal fratello [Pietro], come può vedersi nella Madonna del latte in San Francesco di Siena, dove i contorni del volto di Maria sono crudi, scarsi e manchevoli nello scorcio, le mani hanno dita staccate e aperte, il drappo involgente il Bambino prende curve gotiche. Era naturale che Ambrogio e Pietro, fratelli e talvolta cooperanti, influissero l'uno sull'altro, e che il più giovane [Ambrogio] prendesse qualche abitudine dal fratello maggiore saputo ed esperto. (vol. V, p. 722)
  • Recò nuove forze in Toscana, pure attingendovi nobiltà di forma, Antonio Veneziano, succeduto ad Andrea da Firenze come continuatore delle Storie di Ranieri nel Camposanto di Pisa. Vuolsi scolaro di Taddeo Gaddi, perché le sue forme si attengono ai grandi esemplari di Giotto, ma son più prossime direttamente a queste che non a quelle di Taddeo o di Agnolo Gaddi, più vere, più equilibrate e armoniose, più limpide di colore e più liete. (vol. V, p. 915)

La scultura del Quattrocento[modifica]

  • Jacopo della Quercia rappresenta il ritorno verso le forme degli avi etruschi. Per lui rivive, come per un'intima ingenita forza, lo spirito, il sentimento naturalistico dell'antica arte indigena; riede con lui l'amore al forte rilievo, alla pienezza, alla gagliardia che distinse lo stile etrusco nel suo maggiore sviluppo. (vol. VI, p. 67)
  • Per ottenere il movimento, Nanni [di Banco] cadde nel barocco ricercando scuri e profondità di scuri nelle vesti tormentate. Rappresentò l'Assunzione della Vergine, con gli angioli reggenti a fatica la mandorla, ove Maria volgesi a stento e allunga con isforzo le braccia per porgere il cinto a Tommaso. Questi, invece di sollevar le braccia per ricevere, par che stenda le palme davanti agli occhi, come per difendersi da luce abbagliante. (vol. VI, p. 209)
  • [...] per amor del movimento, Nanni di Banco si provò a risolvere leggi prospettiche, ma in modo che fece dire di lui al Vasari: «fu persona alquanto tardetta». (vol. VI, pp. 210-212)
  • [Commentando due bassorilievi raffiguranti Giovanni Tornabuoni e sua moglie Francesca Pitti] In questi bassorilievi il Verrocchio appare sotto un aspetto nuovo, ribelle alle tradizioni dell'antico, intento a rappresentarci la realtà della vita, la commedia umana. Nella forma lo diremmo un barocco del Quattrocento, se la pesantezza non fosse attenuata dalla ricerca scrupolosa del particolare e della sincerità dell'espressione. (vol. VI, p. 712)
  • [Commentando il busto di Eleonora d'Aragona di Francesco Laurana] E un busto fine, purissimo, con gli occhi tagliati come di una mascheretta, con le sopracciglia appena segnate come da un filo, tutto condotto dolcemente; e se non fossero certi colpi di trapano all’angolo delle labbra e nelle nari, parrebbe fatto col fiato; la tunica lasciata scabra dà l’idea di seta crespa, la cuffietta del capo, d’un velo di seta a righe. Il ritratto è il primo d’una serie di busti muliebri ne’ quali il Laurana raggiunge una finezza anche maggiore. (vol. VI, p. 1034-1035)
  • [...] le donne del Laurana par che esalino l’anima [...]. (vol. VI, p. 1044)
  • Scultore mutevole di maniera, Francesco Laurana dalle forme impetuose dei primi tempi arrivò alle più raffinate, sempre circondando le figure sfarzosamente di ornati nello stile più elegante, mettendole in ambienti trionfali. I seguaci, che molti ebbe in Sicilia e in Francia, scemarono la schiettezza dell’impronta nelle sue opere, ne tolsero determinazione, dignità e purezza; ma, in ogni modo, il Dalmata tiene con onore un posto degnissimo tra i maestri che Venezia madre crebbe a civiltà. (vol. VI, p. 1049-1050)

La pittura del Quattrocento[modifica]

  • Tra i quadri più antichi di Gentile è il polittico dipinto per la chiesa dei minori Osservanti a Valle Romita, ora in molte parti nella Galleria di Brera a Milano. Il pittore si mostra arcaistico più che in altre opere, rappresentando l'Eterno, nell'Incoronazione, come un vegliardo colossale, con alta corona gotica, circondato da cherubini dalle ali cangianti, come biforcate; la Vergine e il Redentore seduti nello spazio sopra raggi e fiamme; [...]. (vol. VII, parte I, p. 190)
  • A Firenze, Gentile, l'apparatore magnifico, riversa fiori nelle gotiche cornici, popola di cavalli, di cani, di scimmie, di uccelli la scena dell'Adorazione dei Magi. Passano i Re sul fondo, di contrada in contrada, scendono le erte montane, varcano i ponti levatoi de' castelli, seguiti da cortigiani col falco in pugno, da cacciatori col guepardo. Il più vecchio si prostra, bacia un piede al divin Bambino che gli pone una manina sulla testa calva; e gli altri due Re offrono riverenti i doni chiusi come in gotici reliquiarî. Vesti di broccato e di damasco, cinture gemmate e con caratteri cufici, come ne' vasi ageminati della Persia, bardature e fornimenti d'oro de' cavalli, risplendono in quella scena strabocchevole di ricchezza, dove il pittore fa la ruota, pavone dalle iridiscenti penne occhiute. (vol. VII, parte I, pp. 196-198)
  • Rispetto al Fabrianese [Gentile da Fabriano] il Pisanello sembra un improvvisatore, il quale da ogni cosa che lo circonda, e più che da sé stesso e dai suoi simili, tragga dalla vita degli animali i motivi dell'arte. Cani d'ogni specie, cavalli e muli, scimmie, animali rari e comuni, uccelli visti a volo per le valli o addestrati alla caccia, formano ogni sua delizia. Vero pittore d'animali, ne spia gli istinti ne traduce rapidamente le forme, le abitudini, i moti, ne rende i peli, le piume, le chiazze del colore della pelle, li figura ne' più variati e fuggevoli aspetti; se non gli riesce di sorprenderli di fronte, li persegue a tergo pian piano con la punta d'argento o la penna. (vol. VII, parte I, p. 250)
  • [Commentando l'affresco San Giorgio e la principessa nella chiesa di Santa Anastasia a Verona] Qui veramente il Pisanello mostrò la gran novità dell'arte sua, il talento di attore: non la scena di sangue e di morte, ma il momento d'ansia, il silenzio drammatico dell'ultimo momento d'attesa, che precede la folgore e lo scoscio della tempesta. (vol. VII, parte I, pp. 258-259)
  • È probabile che, dalla maturità in poi, applicatosi specialmente ad eseguir medaglie, il Pisanello lasciasse frammentarie le ricerche dei moti dell'espressione e della vita umana. Oltre i disegni d'animali, tengono il primo posto quelli de' ritratti che dovevan servirgli a modellar medaglie. (vol. VII, parte I, p. 263)
  • Paolo Uccello [nel Diluvio] fece ignude gran parte delle sue figure, quasi a meglio mostrare il brivido de' corpi e il gelo delle ossa, in mezzo alla furia degli elementi, sotto il fato che incombe terribile. [...]. Non gli basta disegnare la convulsione dei corpi, ma li fa macerare dalle acque, sbattere dai venti, intirizzire dallo spavento; e da per tutto, nelle acque rigonfie, nel cielo tempestoso, nella furia dell'aria, fa rombare la morte. (vol. VII, parte I, p. 338)
  • [...] Donatello non ispirò Andrea [del Castagno] soltanto nell'ornare alla classica la sala del Cenacolo, ma anche nel drappeggiare i personaggi nelle vesti dalle pieghe con forti addentramenti, nodose e contorte. Con lo studio delle forme nuove nell'architettura e nell'ornamentazione, Andrea del Castagno associò quello del rilevo e della prospettiva, facendo che tutte le figure del Cenacolo si veggano dal punto di vista dell'osservatore scorciare dal sotto in su con il pavimento, gli scanni, la mensa e i lacunari del soffitto. E nonostante tutte queste raffinatezze d'arte e di tecnica, serbò la sua fibra campagnuola energica e rude. (vol. VII, parte I, p. 348)
  • La luminosità del colorito elegantissimo e puro, appresa da Masolino e dall'Angelico, ammodernata con lo studio della prospettiva aerea, forma il gran merito di Domenico Veneziano, ch'ebbe ad aiuto e cooperatore Piero della Francesca, il maestro che portò a perfezione quella tecnica, quel dolcissimo impasto di colore e di luce. (vol. VII, parte I, p. 359)
  • La logica, il senso pratico di cui era dotato Filippo Lippi, ne fa presto un ribelle all'iconografia sacra. Quando dipinse per la moglie di Cosimo de' Medici la tavola della Natività, [...], nell'alto del quadro fece sporgere le due mani dell'Eterno. In antico s'era indicato con una mano sporgente dal cielo l'intervento di Dio Padre; ma Egli non è monco, avrà pensato Fra' Filippo, e dipinse le due mani aperte in atto di protezione. (vol. VII, parte I, p. 364)
  • Sin dalle opere prime giunte a noi, il pittore [Filippo Lippi] scuote il gioco iconografico, cerca libertà di forme e d'immagini. Gli insegnamenti del Beato Angelico si perdono nelle sue figure dalle teste schiacciate e quadre, dal naso corto, dalla bocca larga, dalle mani fanciullesche. Molte di esse par che stiano sospettose in ascolto, e solo si elevano alquanto se entro l'arte del Frate[12] penetra un ricordo dell'Angelico. Allora si illuminano le carni, e la grazia veste i corpi atticciati e ne schiara gli aspetti. (vol. VII, parte I, p. 366)
  • [Filippo Lippi] Nel 1450 gli fu tolto il titolo di rettore e commendatario di san Quirico a Legnaia, per non aver pagato un debito e, peggio, per aver fatta una quietanza falsa a fine di provare d'averlo pagato. Ma molto gli fu perdonato perché molto si fece perdonare per le opere sue, [...]. (vol. VII, parte I, p. 374)
  • Conquistata la tecnica, il Pesellino sembra buttarsi a capofitto nel piacere, nel gaudio della vita, nella società più che mai fiorita. Abbellendosi, scaldandosi, rallegrandosi tutto, mirò ad altri maestri, come Paolo Uccello, per imparare a render lo spazio, a rappresentare le delizie del paese, a scorciar corpi per dar vivezza ai moti. (vol. VII, parte 1, pp. 392-393)
  • Gentilezza senza preziosità, tenerezza senza sdolcinatura, un certo languore nell'espressione e nella grazia di corpi talvolta toscanamente dinoccolati; raffinatezza di segno, colori eletti e splendenti, chiaroscuro sempre più intenso e profondo: tale è il fiore dell'arte di Francesco Pesellino. (vol. VII, parte I, p. 402)
  • [Riferendosi ad alcuni quadri conservati nella Pinacoteca di Siena] [...] in tutto il Sassetta porta una amorosa cura, una delicatezza di segno, una colorazione delle carni rosate nella luce, verdognole nell'ombra, una dolcezza di effetti nuovi nella pittura senese quattrocentesca. (vol. VII, parte I, p. 492)
  • Con l'anima di trecentista, il Sassetta lavorò nel tempo nuovo, dando timide espressioni fanciullesche alle figure spoglie d'ogni grandezza e d'ogni forza. La grande ideal sintesi di Giotto non è più nella rappresentazione della leggenda francescana: le animule figurate del Sassetta vorrebbero vivere nel mondo ultrasensibile. (vol. VII, parte I, p. 494)
  • [Commentando l'affresco Disputa di S. Tommaso nella Cappella Carafa della basilica romana di S. Maria sopra Minerva] In Roma Filippino par che senta il freddo prendere le sue composizioni delicate, e si sforza ad accentuare lineamenti, anche a ingrossarli. Tra i disputanti, parecchi hanno labbra tumide, slargate, nari vibranti, orecchie carnose curvate, pesanti vestimenta contorte. Filippino cerca di render la carne, l'aggrotta sulla fronte, l'ammonta sulle sopracciglia, la gonfia nelle guancie dalla linea che parte dalle nari acute, la rigonfia all'estremità delle labbra, l'affloscia e l'imbudella sul collo. Roma imbarocchisce il dòlce, il timido Filippino. (vol. VII, parte I, pp. 654-656)
  • La educazione pittorica di Domenico Ghirlandaio si può ricercare nell'opera che con tutta probabilità è la prima in cui l'artista si esprima compiutamente, cioè nella cappella di Santa Fina a San Gimignano, ove sembra un continuatore perfezionato, raffinato di Benozzo di Lese[13]. (vol. VII, parte I, p. 716)
  • [Commentando la pala eseguita dal Ghirlandaio per l'altare maggiore della chiesa di San Giusto alle Mura, detta degli Ingesuati, ora conservata agli Uffizi] La tavola dimostra sì che il Ghirlandaio è uscito dalla stessa corrente artistica dalla quale uscirono il Botticelli e Filippino Lippi; ma pare che il giovane pittore avesse l'animo aperto al nuovo, e raccogliesse fiori da altri giardini non piantati da Fra' Filippo[14], e specialmente da quelli di Andrea Verrocchio. (vol. VII, parte I, p. 724)
  • Più che con gli scarsi dipinti, il Verrocchio insegnò con l'opera di orafo e di scultore; ma anche con la sua tecnica esperienza di pittore dette impulsi verso la perfezione della pittura toscana, usando i nuovi metodi del colorire ad olio, giungendo nella costruzione del nudo a forte solidità e a sicura penetrazione de' muscoli e delle ossa, arrivando a imprimere nei corpi una forza vitale, più che con l'atletica potenza de' Pollaiuolo[15], con la grandezza morale, l'incisiva sobrietà delle linee, l'orgoglio della massa severa. (vol. VII, parte I, pp. 784-785)
  • Con l'andar degli anni il Signorelli abbrustolisce ognor più le figure, separandosi del tutto dal suo maestro Piero [della Francesca]. Piero, composto nei moti dei personaggi augusti, Luca impetuoso e tragico; Piero, chiaro, luminoso e fresco, Luca rossastro, caldo, abbronzato; quegli, col segno a tratti sottili e geometrici, questi, con segni rapidi e taglienti; il primo, a piani semplici, lievemente distinti, il secondo, a piani larghi con forti contrasti.
    Perciò, se avessimo a dar figura all'immagine suggerita dall'opera dei due grandi, Piero ci apparirebbe come un patriarca nel mattino del secolo; Luca Signorelli, il figlio pastore, nel meriggio infocato, avvolto come Ercole dalla pelle leonina, in corsa, con le carni bruciate dal sole e le chiome ai venti, per i monti e le foreste, pronto alla caccia, tremendo nella lotta. (vol. VII, parte II, p. 336)
  • Andrea Mantegna si era ricusato di far miniature per Isabella d'Este, dicendo di non aver attitudine alle cose minuscole, [...]. (vol. VII, parte II, p. 454)
  • Lo svolgimento classico della rappresentazione della Natività, [...], trova nell'esordire di Giovanni Bellini il più alto coefficiente. Appena della educazione di Jacopo, suo padre, si trova un lontano accenno nelle lunghe proporzioni della Madonna e nelle congiunte mani lunghette. Egli dà delicatezza al volto della Vergine ed esprime mirabilmente il sonno del fanciullo negli occhi stretti, nella boccuccia respirante, nel braccetto destro penzoloni. Il trono, con ornati del Rinascimento, alla donatelliana, dice la tendenza dell'artista, indirizzata ne' suoi primi anni dal padre stesso verso Padova. (vol. VII, parte III, pp. 420-424)
  • Lorenzo Costa fu educato dal Tura a Ferrara, com'è dimostrato dal San Sebastiano della Galleria di Dresda, attribuito al maestro stesso, pur recando una scritta ebraica col nome del pittore. Lo stridore di certi effetti, come della colonna di malachite su cui si appoggia il Santo, la crudezza dei lineamenti, segnati grossamente di nero, la mancanza dell'energia, perenne in Cosmè, il minor tondeggiare delle forme, le pieghe del drappo che cinge i fianchi, insolite nel Tura: tutto mostra un coloritore che si attiene al caposcuola ferrarese, ma sommariamente, senza gagliardia e senza profondità. Si ha l'impressione come di un Tura lustrato, superficiale, tagliente nei contorni, con la materialità di un lavoro scolastico. Perciò convien tener fede alla iscrizione, letta e riletta, col nome di Lorenzo Costa. (vol. VII, parte III, p. 761)
  • Col suo non ricco bagaglio sminuito lungo la via, l'artista [Lorenzo Costa] si recò a Mantova a sostituire il Mantegna come pittore ufficiale di Corte [dei Gonzaga]. Benché rappresentante di una generazione posteriore al venerando maestro, era stato preso da sonnolenza, e i suoi corpi parevano divorati dalla lue da cui egli era infetto. La ricerca della grazia, della spiritualità e della poesia, che ferveva in tutta l'arte italiana, si era espressa da lui con la diminuzione della monumentalità e la pieghevolezza dei corpi; e dentro gli schemi lineari dedotti dalla plastica venne meno la plasticità. (vol. VII, parte III, p. 804)
  • Egli [Francesco Francia] era entrato nel Cinquecento con l'ancona[16] di Pietroburgo, rinnovellato, colmo di plastica forza. E continuò cercando nella purificazione de' suoi tipi, nuovi ideali. Il realismo quattrocentesco cadde con lui, che tramandò per mezzo di Timoteo della Vite[17] il decoro formale a Raffaello. Non estese le ricerche, sempre intento a trarre armonie da' suoi modelli, come prima cesellati gli argenti ne svelava il nitore. Non ebbe slanci di ascetismo, non mistici ardori, ma divozione salda e sincera. E donò alle sue immagini la bontà e l'umiltà de' propri costumi. Molti vollero imitarlo; ma egli poteva esser copiato, non imitato. L'arte sua era come un chiuso vaso d'alabastro, che altri non poteva aprire per mirarvi dentro senza che ne esalassero gl'interni profumi. (vol. VII, parte III, pp. 949-952)
  • Impacciato a render l'ambiente architettonico, assetato d'aria e di luce, Cima fa cadere ogni sipario, dipingendo nell'anno seguente [il 1496] la Madonna fra i Santi Lorenzo e Girolamo. La semplice logica dell'artista trevigiano vuol dar ragione della forma compositiva insolita, ed ecco che egli unisce alla Sacra conversazione un episodio della Fuga in Egitto ridotto a semplice macchietta: Giuseppe, buon vecchio pastore, conduce al pascolo il somarello nei prati del fondo. La concezione del gruppo, sotto il mantegnesco albero d'arancio, è essenzialmente plastica. Acute, lucenti, alla maniera vicentina si staccano le foglie sul chiaro cielo, e altissime si alzano le piante in confronto al colle di Conegliano, che poco s'allontana nella visione del paese. [...] Noncurante di effetti prospettici, Cima non sa ancora architettare lo spazio; e il gruppo divino, con le solide forme statuarie, si rileva sul fondo di alberi e di monti come sopra un commesso di marmi variopinti. (vol. VII, parte IV, p. 512)
  • [Cima da Conegliano] E in ogni tempo, ovunque suoni caro il balbettìo dell'infanzia, sarà amato l'umile montanaro di Conegliano, che ci dette un poema lieto di suoni dolci, tranquilli, di ritmi armoniosi, di cadenze portate dall'aria di primavera. Fuor dal paesello natìo il poeta serbò l'ingenuità del cuore, la timida bontà, l'umiltà dell'aspetto, la pietà sincera. A Venezia i grandi pittori s'accorsero ch'egli portava un'onda sana, fresca, dai monti alla città magnifica; Giambellino[18] volse gli occhi umanissimi come a immagine impicciolita di se medesimo, e gli fece onore valendosi della sua invenzione del Battesimo di Cristo; Tiziano da giovane guardò sorridente verso di lui, mentre era in cerca di tipi ai quali dar poi carni vive; Sebastiano del Piombo esordiente lo copiò come si copiano gli esemplari grati allo spirito nei di delle prime prove. E molti lo seguirono, senza però spargere dalle opere i suoi ricordi di bianchi fiori alpestri, del riso dei monti azzurri, della pace de' campi e de' cuori. (vol. VII, parte IV, p. 551)
  • Da giovane Vittor Carpaccio sentì pure gl'influssi di questo maestro [Lazzaro Bastiani] e ne serbò l'incertezza dell'architettura dei corpi e degli ambienti. Rimase l'educazione prospettica all'ingrosso; ma la fantasia e la mano del Carpaccio, pronte ai voli, nascosero le deficienze dell'educazione. Per molto tempo però, ogni volta che la mano s'allentava, rispuntavano, per forza d'inerzia, le figure bastianesche; ogni qualvolta eran ripresi necessariamente dall'artista i vecchi schemi di composizione, riappariva qualche frammento del primitivo lavoro, che pareva sommerso nel corso degli anni. (vol. VII, parte IV, p. 612)
  • Nel 1496 [Bernardino de Conti] dipinse il ritratto di Francesco, figlio di Giangaleazzo Sforza, ora nella Galleria Vaticana, fantoccio dalle carni imbottite, i capelli di stoppa, il busto deformato dalla mancanza di scorcio, le mani di stucco con le dita gonfie. (vol. VII, parte IV, p. 1042)
  • Nella libera replica della Madonna delle Rocce, del 1522, ora nella Galleria di Brera, Bernardino de' Conti, parafrasando Leonardo, dà alla Madonna un movimento sgangherato, occhi e lineamenti grossi, capelli intrecciati a catena; e dà ai bambini, tratti da un altro modello leonardesco ripetuto da tutta la schiera de' seguaci, corpi gonfi, occhi smorti ed enormi fronti convesse. Il fondo di rocce, apparato fantastico composto da Leonardo con l'osservazione del vero, è qui mutato in un capriccioso torracchione, tutto frastagliato e forato, e i pinnacoli diventano torricelle con certe strane dentellature, come di chiavi; pizzettature di cartone sembrano le stalagmiti immaginate dal maestro sopra il capo delle sacre figure, e strani monticelli a ventaglio allineati sull'acqua diventano le scogliere lontane, uscenti nell'esemplare dalla nebbia luminosa. Copiando Leonardo, Bernardino mostrò di non aver nulla inteso dei principî del maestro. (vol. VII, parte IV, pp. 1042-1043)
  • Nel trittico [di Marco d'Oggiono] già in casa Crespi, le colline del fondo sembran di stoffa; la Vergine e il Battista ripetono stancamente il gesto della Madonna e di Gabriele nella Vergine delle Rocce di Leonardo; le dure ali uncinate degli angeli hanno la pesantezza degli ornati nel seggio di Maria; San Pietro, con la testa contorta per mancanza di scorcio, si perde nel gomitolo di stoffa formato dal manto. Comincia ad apparir la maniera nel convenzionale paese, nel vorticoso girar delle pieghe, nel chiaroscuro artificioso. La testa dell'angelo a destra si rivede nella Madonna dell'Ambrosiana [...], dove il segno svanisce e le ombre si raccolgono in pesanti chiazze sul gonfio corpo del Bambino e sul collo della Vergine, mentre nel volto piatto il chiaroscuro si perde e ogni contorno si slarga, come disfacendosi. (vol. VII, parte IV, p. 1054)

L'architettura del Quattrocento[modifica]

  • L'esordio di Filippo Brunellesco nell'arte fu esordio di orafo e di scultore, non d'architetto. Due opere, oltre le mezze figurette di profeti emergenti dal quadrifoglio nel dossale d'argento di Pistoia, rimangono a porre in luce le sue qualità di scultore: il Crocefisso in legno di Santa Maria Novella in Firenze, e il Sacrificio d'Abramo nel Museo del Bargello. In esse, come nelle gloriose architetture brunelleschiane, la forma tende a definirsi in profili affilati e vibranti, si crea da principi lineari piuttosto che plastici. (vol. VIII, parte I, p. 90)
  • Ma gloria di Filippo Brunellesco è la sua opera d'architetto, che inizia il Rinascimento fiorentino, sostituendo alla visione pittorica, attuata negli edifici del Trecento, da complessa disposizione di elementi architettonici e dai conseguenti giochi d'ombra e di luce, la regolarità dello squadro, un più largo uso della linea orizzontale e dell'arco a tutto tondo: la semplificazione che caratterizza, anche per la scultura e la pittura, lo stil nuovo. [...]; Filippo Brunellesco, alle soglie del Quattrocento, compie la riforma dell'architettura, parallela a quella di Masaccio nella pittura: il passaggio dai ricami del gotico alle pure eleganze costruttive del primo Rinascimento. L'arte classica lo ispira, e ancor più gli esempi dell'arte romanica fiorentina, miracolosa fioritura di forme antiche tradotte con toscana snellezza. (vol. VIII, parte I, p. 92)
  • Che scatti elastici nelle volute a corna d’ariete dei capitelli di Michelozzo in palazzo Riccardi, che rotear di spire nei fantastici rosoni, che snellezza nelle foglie d’acanto! (vol. VIII, parte I, p. 120)
  • Dal 1425 al 1436 Michelozzo servì di freno, con il suo equilibrio, con la sua posatezza, a Donato, ardente, impetuoso. (vol. VIII, parte I, p. 238)
  • Dove Cosimo de’ Medici e i suoi passavano, Michelozzo architettava trionfi, stendeva i più suntuosi baldacchini, profondeva ricchezze, sonava oricalchi per la gloria del patrono delle arti, del Magnifico, dell’Augusto Signore di Fiorenza. (vol. VIII, parte I, p. 278)
  • Il capolavoro di Baldassarre Peruzzi, la Farnesina, vario di effetti per il movimento della pianta, la moltiplicità dei gradi nell'antica base, la fuga dei viali d'arcate nel criptoportico, mantiene ancora le impronte del tardo Quattrocento senese, con la sottigliezza forbita e compassata propria alle opere primitive del Peruzzi, nelle lunghe lesene della fronte, nelle sottili finestre rettangolari, punteggiate in alto dalle finestruole appese come tabelle alle cornici del fregio. (vol. VIII, parte I, pp. 917-919)
  • Le tracce dell'antica educazione senese quasi dispaiono in una tarda opera romana dell'architetto [Peruzzi], il palazzo Massimo delle Colonne, rifugiandosi in qualche sagoma di finestra, in qualche trama d'ornato: l'amore del grandioso, della cinquecentesca opulenza, allontana dalle sue origini l'arte di Baldassarre Peruzzi, che, nei primordi, pur riflettendo gli schemi di Francesco di Giorgio, ci appare vestita di una armoniosa e fredda compostezza, lontana dallo spirito vivace del celebrato ingegnere-architetto di Siena. (vol. VIII, parte I, p. 919)
  • Francesco del Cossa, altro grande pittore ferrarese, trovò nell'arte muraria professata dall'avo Giovanni e dal padre suo Cristoforo, un ostacolo ai capricci del Tura, quantunque, nel San Girolamo sotto un arcone, statua girante sul cerchio del piedistallo, ora nella galleria dell'Ateneo ferrarese, anch'egli si sia dato a scherzare, facendo uscir fuori il pulvino dai capitelli, come da una guaina, tanto che esso appaia prolungamento dei pilastri. Ad ogni modo, in tutte le architetture dipinte, Francesco del Cossa, pure compiacendosi di varietà di marmi, si mostra più massiccio e più squadrato del Tura. (vol. VIII, parte II, p. 393)
  • L'abside del Duomo ferrarese ci offre un mirabile esempio dell'arte di Biagio Rossetti, che conduce i mattoni a filo tagliente, nitido, puro, nella costruzione regolare ed esatta, nella lineatura matematica dei filari sui fondi, nella disposizione unita ed uguale. Le lesene son tirate con una squadra affilata metallica, gli archi girati con un compasso fermo incisivo; e il cornicione nei due piani dell'abside, benché di terracotta a stampa, è composto con rigore, quasi, potrebbe dirsi, col timore che possa trovarsi un intervallo più o meno grande, la differenza di un attimo, un peso ineguale nella corona di dentelli, di mensoline, di ovuli, di perle. (vol. VIII, parte II, p. 398)
  • Chi guardi i pilastrini sottili [del Palazzo dei Diamanti di Ferrara], l'un nell'altro incastrati lungo gli stipiti della porta, vede il Rossetti quattrocentista, ancor esile, lunghetto e sobrio, mentre l'arcone, che serra quei pilastri, è cinquecentesco. L'architetto dunque sentì il bisogno di slargare la porta, di darle un contorno degno della imponenza che assumeva il palazzo tempestato di diamanti. Nelle finestre, nelle cornici divisorie dei piani, nella trabeazione, è ancora il Rossetti, ma come stretto fra tagliapietra vaghi di fregi fastosi, che gli strappan le redini, e si sfogano ad assiepare d'ornamenti ogni cosa. (vol. VIII, parte II, p. 404 e 423)

La pittura del Cinquecento[modifica]

  • La grande pittura murale [il Cenacolo] fu dipinta ad olio; e il Bandello, come abbiamo udito, racconta d'aver veduto Leonardo dar talvolta poche pennellate e andar via, ciò non si sarebbe potuto fare con la pittura a fresco. L'esecuzione a olio fu appunto la prima causa della rovina. Verso la metà del Cinquecento il lavoro era già deperitissimo, e il Vasari, nel 1566, non vi scorgeva più che una «macchia abbagliata». (vol. IX, parte I, p. 29)
  • Raccontasi che, mentre gli Arrabbiati[19] assediavano il convento di San Marco, Baccio della Porta, insieme coi partigiani del Savonarola, si chiudesse nel convento per difendere la vita del venerato maestro, e deponesse tremante le armi, quando il Savonarola, per cessare la carneficina, si dette nelle mani dei nemici. Spettatore di tanta tragedia, volse nell'animo l'idea di farsi frate in quel convento stesso di San Marco, che aveva veduto devastato campo di battaglia, incendiato dall'odio popolare, mentre il Savonarola, davanti all'Ostia Santa, pregava coi monaci nel coro. (vol. IX, parte I, p. 225)
  • [Commentando il Ritratto di una giovane donna negli Uffizi] [...] tra le opere più significative del talento pittorico di Andrea. [...] Le belle mani che escono dalla manica arricciata, come da una capricciosa corolla di fiore, così bianche e morbide da rivelarci in Andrea del Sarto il solo pittore capace, in Firenze, di gareggiar coi Veneti, signori del pennello. (vol. IX, parte I, p. 538)
  • Nella vôlta della Cappella Sistina, sopra le membrature sottili e nitide del Quattrocento, sopra le nicchie marmoree dei Pontefici e le candelabre fiorite dei finti pilastri, e le meravigliose vele, Michelangelo costruisce l'ossatura di pietra, immane e poderosa, che circoscrive le scene bibliche e aduna i profeti e gli ignudi, i putti-cariatidi e i demoni, gli Avi che nei triangoli della volta e nelle lunette sopra i finestroni impersonano, enigmatici e grandi, la vita d'Israele. Organismo animato, l'architettura, massiccia e serrata, a profondi incavi di base piana, e ad aggetti erompenti, esprime, come l'architettura della Cappella Medicea a Firenze e della cupola di San Pietro a Roma, con la vicenda ripetuta di sporgenze e rientranze, l'energia scultoria, il dinamismo plastico proprio alle forme di Michelangelo, e si stringe in inscindibile tutto con le statuarie figure. Massa e rilievo, sono, col movimento, elementi primi dell'arte di Michelangelo: ecco perché, mentre i quattrocentisti incavano nicchie dietro le immagini dei Pontefici e Raffaello curva le pareti del coro nella Messa di Bolsena, e pone la Madonna del Louvre sotto un'ideale cupola di nubi, Michelangelo stende piane le pareti marmoree dei seggi che ospitano i Profeti, le ampie cornici, da cui si staccano, sui dadi di pietra, i nudi efebi, dalla base piana trae risalto la gigante massa delle immagini. (vol. IX, parte I, pp. 733-736)
  • [Cappella Sistina] Nessun esempio il Quattrocento aveva dato d’organismo architettonico a decorazione di volte, animato di così atletica energia. (vol. IX, parte I, p. 740)
  • Agli occhi del giovane pittore [Correggio], avvezzi alle sottigliezze, alle ondulazioni di linee miti, divote, [...] dovette presentarsi come un nuovo mondo Mantova, impero dello statuario Mantegna. La forma solenne e massiccia di Andrea piombava romanamente sull'altare della Madonna della Vittoria, foggiava un classico scenario coi celebri Trionfi di Cesare, si disponeva in ritmo grandioso sulle pareti della Camera degli sposi, ove i Gonzaga avevan voluto ricordare le feste familiari con una imponenza sorpassante l'avvenimento casalingo. (vol. IX, parte II, p. 618)
  • [...] il Parmigianino, oscillante tra le forme di Raffaello e del Correggio, ci si presenta come un grande virtuoso, un principe della moda, un esteta che giunge per sottili ragionamenti all'arte, piuttosto che un pittore nato, un pittore d'istinto quale fu il suo conterraneo Correggio. (vol. IX, parte II, p. 691)
  • [...] Giampietrino richiama, nello sfumato delle carni ceree e nei fondi velati di nebbia, la dolce monotonia delle tonalità borgognonesche, arrotando e inarcando le forme sugli esempi di Leonardo [...]. (vol. IX, parte II, p. 743)
  • Le prime opere di Gaudenzio, non rovinate come i frammenti d'affresco nella cappella della Flagellazione a Varallo, ora distrutta, sono le tavolette della Vita di Cristo nella Pinacoteca torinese. Esse rivelano l'origine schiettamente lombarda del pittore e la sua tendenza a una stilizzazione lineare facile ed elegante, a effetti luministici ottenuti mediante vitree filettature, a lente e languide cadenze. (vol. IX, parte II, pp. 812-813)
  • Il colore del Romanino si stempera e dilaga nelle forme allargate delle figure; mentre la pasta del colore s'intenerisce, le forme aggrandiscono, e si svuotan di forza. Anche nell'Assunta della chiesa di Sant'Alessandro in Colonna, a Bergamo, ove ancora non sono gonfie le immagini, appare il tormento del pittore intento a cumular nugoli sopra nugoli, monti sopra monti, a torcer drappi, ad acuire gli atteggiamenti degli Apostoli sorpresi. Tranne uno che guarda in alto alla celeste bambola[20], essi gesticolano, e discorrono, scossi come da terremoto. Tutta la preparazione del Maestro, solenne nella vermiglia pala d'altare a Padova, si dissolve, si va disperdendo. (vol. IX, parte III, pp. 815-818)
  • Si sfoga poi [il Romanino] negli affreschi del Duomo di Cremona, cercando di renderci la Passione di Cristo. Nel rappresentarlo davanti a Caifa, pensa ai costumi variopinti dei lanzi coi cappelloni piumati, coi saioni a scacchi, più che alla divina tragedia. Ricorre anche al Dürer per comporre la scena, senza intenderne l'alto pensamento; e fa una rappresentazione greve, pesante, in un colore rosso, torrido. (vol. IX, parte III, pp. 819-821)
  • Ciò che non otteneva con la linea, il Dosso tentava di ottenere mediante i colori, perfino la violenza del moto passato dalle figure alle cose. E, nonostante il cartone di Raffaello, anche più tardi, il Ferrarese, dipingendo in parte il San Michele, «ex voto» di Alfonso I d'Este, [...], per il recupero della città dalle mani del Papa, non riescì se non negli effetti coloristici, nei lampeggiamenti della corazza, nei contrasti di luce ed ombra, a ottenere agitazione di elementi, e, meravigliando, abbacinando, energia. (vol. IX, parte III, p. 954)
  • Una natura così sanguigna, come quella di Dosso Dossi, difficilmente poteva ritrarre un personaggio, segnarne i caratteri, senza forzarli, eccitarli, e, potrebbe dirsi, senza farli sudare accostandoli alle sue vampe. (vol. IX, parte III, p. 971)
  • Il gruppo dei quadretti con Sacre Famiglie ci ha rappresentato un pittore che viene da Dosso Dossi senza intenderlo, ma standogli appresso, logorando, nella sua pochezza, nella sua incapacità, la materia dossesca. Egli non può essere se non Battista di Dosso, vissuto fra gli strumenti dell'arte del fratello, tra gli elementi pittorici ch'egli immiserisce e scompone. Di Raffaello non lascia traccia; ed è a credersi che egli sia stato a Roma più per baciare i piedi alla statua di S. Pietro, che non per dipingere con Giulio Romano e il Penni, Perin del Vaga e Pellegrino da Modena. Avrà avuta una commissione del suo Duca, per dare una seccatura di più a Raffaello; ma certo egli non vide neppure la soglia del tempio pittorico dell'Urbinate. (vol. IX, parte III, pp. 991-997)
  • Coi suoi passaggi dalle altisonanti battute iniziali ai fiochi arpeggi lontani, la luce è per Lorenzo Lotto, creatore della Natività di Venezia, quel che è la linea per Sandro Botticelli nel Presepe londinese. Gli angeli del pittore mediceo, festuche in balìa dell'aria sopra la capanna di Betlemme, sono esili come questi che si perdono nelle tenebre, verso il cielo, ove la forma è solo un barlume, un sospiro nel silenzio notturno. Così, da uno stormir d'ali angeliche nella notte trasse il suo canto di Natale Lorenzo Lotto, pittore visionario. (vol. IX, parte IV, p. 82)
  • Mentre dall'arte di Tiziano scaturisce la doviziosa pittura di Jacopo Palma e il luminismo scenografico e costruttivo del Tintoretto, Lorenzo Lotto, con i suoi toni fusi, velati, e le quiete atmosfere grige degli ultimi tempi, con la sua grazia intima e raccolta, esula da Venezia per fondare una grande stirpe pittorica in provincia: a Brescia e a Bergamo, e sancire il connubio tra Venezia e Lombardia. (vol. IX, parte IV, pp. 111-112)
  • Il Fiorentino [Andrea del Sarto], con le sue minori risorse cromatiche, il Veneto [Lorenzo Lotto] con l'appoggio di tutta una tradizione di colore che l'aiuta a toccare più alte mète, giungono per diverse vie alla visione di forma traverso il velo atmosferico, a un accenno di pittura di macchia e d'impressione. Con scatti, che talora sembrano inspiegabili, Lorenzo Lotto, veneziano fuor della cerchia di Venezia, sensibile a ogni esterno influsso nella sua vita quasi di esule, provinciale di genio, passa da un eccessivo formalismo dovuto all'influenza raffaellesco-romana, all'estremo sforzo impressionistico del Cinquecento. Minuto quattrocentista quando era già morto Giorgione, egli raggiunse in molte sue opere tarde una libertà, una rapidità di visione, sbalorditive nel mondo stesso dominato dal Vecelio. (vol. IX, parte IV, p. 113)
  • Il Garofalo fu inferiore alla sua fama. Impicciolì i modelli artistici ch'ebbe intorno a sé; e così nel ricordare, decorando il Seminario ferrarese, l'occhio di cielo aperto alla mantegnesca nel soffitto d'una sala di palazzo Costabili, restrinse, ridusse, sminuì scomparti, figure, ornati. Ben presto si fece la sua convenzione, [...]; e quella convenzione mantenne quasi senza scomporsi, anche quando si trovò accanto il focoso Dosso Dossi. Rimase sempre uguale a se stesso; e le sue forme facili, antiquate, superficiali, vennero imitate e ripetute da un gran numero di piccoli seguaci. (vol. IX, parte IV, p. 312)
  • La bizzarria del maestro senese [Domenico Beccafumi] divien stravaganza nella pala di San Paolo [...]. Preso dall'ossessione della grandiosità e dello scorcio, egli issa sopra una ristretta base a gradi il macchinoso e vuoto San Paolo, che regge con la destra floscia uno spadone d'eroe da burla e si puntella al piede massiccio, enorme; inturgida la flaccida forma di San Paolo caduto, con la mano sul petto in gesto melodrammatico, mentre attorno a lui altri attori di melodramma, camuffati da panciuti guerrieri romani, guardano e commentano; fa apparire in alto il gruppo della Vergine col Bambino e due Santi come in un'ancona[16] infagottata dal baldacchino bartolomesco[21] tra gonfi angioletti; e per accrescer lo spettacolo esaspera i contrasti di macchie d'ombra tenebrose e di luci squillanti. (vol. IX, parte V, p. 436)
  • Nella Siena del Cinquecento, Domenico Beccafumi è certo la personalità più spiccata, e anche la più mutevole, la più capricciosa: talora dipinge come un forte impressionista moderno, talora elabora lucenti oleografie; infonde, per magica virtù di contrasti luministici, le impronte di una maestà sovrumana a qualche testa affiorante dall'ombra, o cade in svenevoli languori; precorre l'eleganza lambiccata e preziosa del Settecento, e foggia marionette di legno per i suoi teatrini di storia romana. (vol. IX, parte V, p. 492)
  • [Esaminando l'Adorazione dei Magi di Andrea Sabatini nella chiesa dei Gerolamini di Napoli] [...], composta con elementare semplicità: Madonna e Bambino sopra un banco di pietra, davanti a una nicchia, San Giuseppe in piedi, con le mani incrociate sul bastone e sulle mani poggiata la testa, i re Magi e un paggio dei re. Qualche eco umbro raffaellesca risuona nelle figure giovanili, ma forse traverso Cesare da Sesto; e la Vergine e Gesù con i tondi lineamenti ristampano in forme pedestri i moduli di Leonardo, da cui deriva anche il moto istantaneo del bimbo. L'insieme è fiacco, stentato, meschino: le dinoccolate figure dei giovani, mascherette di grazia, la Vergine, sciatta e sonnolenta, contrastano col grottesco San Giuseppe, che nello sforzo d'irrigidirsi e far da pilastro tende una gamba, e guata bieco dall'alto in posa da tiranno da marionette. (vol. IX, parte V, pp. 711-712)
  • L'opera maggiore di Taddeo [Zuccari], coadiuvato dal fratello Federigo[22], dal Tempesta, e da altri, ma direttore della decorazione, di cui, secondo il contratto, doveva fornire tutti i disegni, è l'ornamento pittorico del Palazzo Farnese di Caprarola: ineguale di valore, secondo l'importanza delle varie stanze e la maggiore o minore fretta dell'esecuzione. Come nella Villa di Papa Giulio, l'arte della grottesca ha qui uno dei migliori esempi dell'età postraffaellesca, sebbene spesso lo studio superficiale di ricchezza, la sovrabbondanza dei motivi, l'abuso degli stucchi, distruggano l'eleganza antica; e invano si cerchi lo stile preciso e sottile di un Giovanni da Udine in queste stampe già logore. Così, nella volta della cappella, ove Taddeo introduce il delizioso motivo dei putti-cifra, sguscianti con grazia correggesca, capelli al vento, da mensole e cartelle, la grossolana ghirlanda di frutta intorno al tondo centrale menoma la nobiltà della grottesca rinata nel Cinquecento romano. (vol. IX, parte V, pp. 855-856)
  • Negli affreschi della Vita di San Paolo in San Marcello al Corso, e specialmente nella Punizione di Elima, Taddeo s'ispira agli esempi del tardo Raffaello, studiandosi di disporre con maestà statuaria le figure entro lo spazio architettonico. I movimenti sgangherati, la mimica stereotipata e teatrale, i ripetuti motivi di rozzo stampo manieristico, quale il giovane che abbraccia la colonna, ci danno quasi la parodia delle composizioni raffaellesche per arazzi, sommergendo nell'enfasi più stucchevole la maestà degli esemplari. (vol. IX, parte V, p. 865)
  • La vernice dell'erudizione, che aderisce così interamente alla figura di Federico Zuccari e ne fa un rappresentante più del fratello tipico della moda pittorica propria al tardo Cinquecento, si screpola, si spezza, in Taddeo, appena libero dai suggerimenti dei dotti distributori di temi per i palazzi romani; e allora prende il sopravvento, come in questa opera [la Battaglia di Tunisi, nella Sala Regia del Vaticano], lo spirito popolaresco, vivace e spesso volgare, che lo distingue da Federico. Rappresentante di un periodo di decadenza, di cui rispecchia tutti i difetti, tutte le debolezze e le pretese, egli ha, come i più dei manieristi, qualche momento felice, che mostra sotto le ceneri dell'arte una scintilla viva: così alcuni quadri mitologici di Valle Giulia, cosi l'Aurora nelle sale della Villa Farnese a Caprarola. (vol. IX, parte V, p. 870)
  • La prima opera che ci presenti definita e distinta da quella del fratello [Taddeo] la personalità di Federico Zuccari, è l'Epifania della cappella Grimani in S. Francesco delle Vigne a Venezia, firmata e datata 1564, dal marchigiano ventiduenne. [...]. Nello scenario veneto, in cui persino riappaiono, in angolo a destra, i lastroni marmorei cari a Jacopo Bassano, i personaggi si dispongono lungo le due linee a V frequenti nell'arte veronesiana; ma nel disporle Federico Zuccari mostra di non aver la minima idea del valore cromatico delle costruzioni sfaccettate di Paolo [Veronese], e delle conseguenti rifrazioni di colore: egli rimane il manierista romano che mira a un'eleganza di pose compassata e frigida. La sensibilità del giovane, non ancora qui soffocata dalle aride formule, si riflette nella grazia decorativa che viene al quadro da una distribuzione di figure sparsa e leggiera, culminante nel nodo serico della Vergine e degli angeli. Il bimbo, minuscolo gingillo, dà l'ultimo tocco a questo singolare esempio manieristico di eleganza languente e preziosa. Anche il colore, nelle sue note basse e fioche, ci presenta in questo esordio di Federico Zuccari un'opera studiata, fredda, ma gentile, aliena da pretensioni spirituali e formali, e come timida in quel tentativo incerto e commovente di conciliare il mondo d'arte da cui è uscita e il nuovo raggiante in Venezia. (vol. IX, parte V, pp. 871-872)
  • Il pittore ufficiale [Agnolo Bronzino, al servizio di Cosimo I de' Medici] mise in opera tutto il suo talento, tutte le finezze delle sue figurate costruzioni, tutti i fregi, i ricami, i merletti, i tessuti più belli a gloria della corte medicea. Uscito di corte, non parve più così lustro e superbo; lasciò scorgere le sue convenzioni nei quadri chiesastici freddi e grevi. L'artificio s'impadronì dei corpi e della natura circostante, vi sparse l'acqua colata dalla ghiacciaia del Concilio di Trento e della Controriforma. (vol. IX, parte VI, pp. 69-70)
  • Nefasto all'arte fu, in generale il Vasari. Egli falsa il carattere sottile e perspicace del manierismo fiorentino. Il suo atteggiamento cerebralistico non è quello di un Pontormo che si tormenta in ricerche di colore e di linea, in ardui problemi di estetica, ma è quello di un letterato che ama i temi dottrinari, di un michelangiolista che vorrebbe, senza sentirle, interpretare le passioni eroiche, e proprio meglio riesce quando, inconsciamente, rinuncia a tutto per veder nella composizione un puro gioco decorativo. Esempio le divertenti battaglie di Palazzo Vecchio. (vol. IX, parte VI, p. 372)
  • L'eterno compromesso di colore e di forma che affligge il manierismo rende insopportabili la maggior parte delle opere di Giorgio Vasari. E solo quando l'interesse decorativo prende il sopravvento egli giunge all'arte con arditi effetti di scenografo e di caricaturista nato. (vol. IX, parte VI, p. 372)
  • [...] da Parma, per via d'incisioni e di disegni, le eleganze del Parmigianino e le fluide sottigliezze delle sue forme forbite cominciavano a diffondersi e ad attrarre più che il tenero modellato delle correggesche. Era più facile sentire la calligrafia del Parmigianino che non l'ariosità del Correggio; e nell'Emilia prima, in Lombardia, nella Liguria, nel Veneto, per tutt'Italia poi, il raffinato maestro parmense dettò leggi alla moda pittorica. Parve che niuno potesse sottrarsi all'incanto di quel serpeggiar di linee, di quell'ondeggiare di corpi smilzi e snelli; [...]. (vol. IX, parte VI, pp. 584-586)
  • [...] nell'Oratorio del Gonfalone a Roma, teatro della pittura manieristica, Lelio Orsi rappresentando l'Arresto di Cristo, par dia uno strappo a tutte le convenzioni con i suoi effetti fantasmagorici, trasportandoci in uno scenario magico, pauroso, con un paese notturno, con nubi tetre squarciate dal chiaro di luna. (vol. IX, parte VI, p. 643)
  • La copia dell'opera del maestro [la Pietà di Bernardino Campi[23], eseguita dall'allieva Sofonisba Anguissola] è scrupolosa, fedele, ma par che Sofonisba risenta più di Bernardino l'influsso parmigianesco nelle mani affilate della Vergine, nel colore argentino, nella delicatezza del volto a punta, dei lineamenti piccini. Le ombre sono men crude; non tagliano con barbara durezza il profilo del Cristo come nel Campi; la salma s'irrigidisce, piallata come in un tronco, senza più l'impronta vitale che la flessibilità dei muscoli manteneva al prototipo. Ombre leonardesche s'agitano sul volto dell'Addolorata di Bernardino, mentre quello dipinto dalla scolara si porge alla carezza di un lume tenue e diffuso. Tutto divien più blando, più fioco. (vol. IX, parte VI, pp. 924-926)
  • L'arte di Giuseppe Porta, che si acclimatò all'ambiente veneto più di quella di ogni altro artefice toscano, si muove tra inevitabili incertezze, perdendo talora ogni impronta personale in un fiacco ibridismo, spesso cadendo nella freddezza dell'esercizio accademico, per raggiungere solo di rado – ad esempio nei tondi della biblioteca Marciana e nella pala dei Frari –, e anche qui non interamente, la coerenza stilistica, necessaria alla creazione di una perfetta opera d'arte. (vol. IX, parte VII, p. 426)
  • Artista dotato, egli [Giuseppe Porta] dà una sua interpretazione blanda e un po' esteriore alle tendenze pittoriche dei Veneti: un senso di misura lo trattiene dal gareggiar con l'audace cromatismo di Paolo [Veronese] o con le magie luministiche del Tintoretto, e lo conduce ad attenuarne gli effetti, ad ammorbidirli. Rimane accanto ai maestri veneti come un raffinato e un virtuoso che ne ami l'arte trascinatrice, non certo come un creatore, e la sua toscana eleganza fa sbocciare talora dalla monotona biondezza de' suoi quadri qualche fioritura improvvisa di rorido e accarezzato colore. (vol. IX, parte VII, p. 426)

La scultura del Cinquecento[modifica]

  • L'intensità di vita delle figure nel primitivo Presepe [della chiesa di Santa Maria del Parto a Mergellina] si ritrova in un capolavoro del Nolano: il Crocefisso ligneo nella chiesa di Santa Maria la Nuova, opera più tarda, prossima alla pala d'altare di Monteoliveto, e cioè al gruppo di sculture ove Giovanni da Nola inclina ai modi toscani del Santacroce[24]. Anche qui i tratti del volto son marcati da realistica crudezza: la bocca febbrile e amara, l'occhio sbarrato d'angoscia nell'ombra dell'orbita, le sopracciglia tese sino allo spasimo, tutto partecipa all'espressione d'atroce agonia, persino il nodo del drappo che si torce a gotica fiamma. Ma in questo capolavoro Giovanni da Nola ha raggiunto un grado di raffinatezza toscana mai altrove raggiunto, e una bruciante sensibilità nel render lo strappo dei tendini tesi di braccia e dita, lo scricchiolìo delle costole nel corpo di nervosa eleganza brunelleschiana. (vol. X, parte I, p. 722)
  • Non ritrovano la delicata spontaneità della Madonna della Neve [in] altre sculture del Nolano appartenenti a questo periodo, né l'Ecce Homo di legno in Santa Maria la Nova, male imbrattato di colore, manifestazione di sentimentalismo pietistico da prematuro Seicento, né il San Giovanni in marmo della chiesa di San Domenico Maggiore, d'impronta sansovinesca, tra le più ammanierate sculture del Nolano, nonostante la vivacità dei contrasti d'ombra e luce. Il Crocefisso ligneo, di cui già parlammo, in Santa Maria la Nuova, è invece l'espressione maggiore dell'arte di Giovanni da Nola in questo periodo. (vol. X, parte I, p. 734)
  • Com'è noto, Michelangelo si valse di aiuti, specialmente di Raffaello da Montelupo, ad apprestare le statue che fiancheggiano il Mosè e sovrastano alla sua mole. [...] Raffaello da Montelupo, pur traducendo disegni del Buonarroti, tornisce le forme e le addolcisce alla maniera raffaellesca. (vol. X, parte II, pp. 55-58)
  • Il classicismo, invadente nell'arte del Montorsoli, le toglie, col suo peso accademico, la naturale vivezza, il senso di forma in movimento istillato da Michelangelo. (vol. X, parte II, p. 111)
  • Uomo di chiesa, frate servita, il Montorsoli dona poco dell'arte sua alla chiesa, e tutto il suo spirito, tutta la sua commozione, profonde nelle figure che interpretano le sue fantasie. Vi è una terracotta a Berlino, nel museo Federico, raffigurante una donna disperata, forse studio per una delle sue fonti, dove par di sentire il fremito del nudo angosciato, che nell'urlo si raccoglie e s'accascia. E la terracotta non uguaglia la Scilla della fontana del Nettuno a Messina in libertà di movimento pittorico, benché alla creta il Montorsoli dia pastosità di colore, tendendo ad arco le forme turgide, gonfie di linfa. Così il maestro rivela le sue tendenze, come già le aveva rivelate primamente nel satiro suonatore del monumento Sannazzaro, e nel Marsia legato tragicamente all'albero, figure che rompono gli effetti accademici del mausoleo per portarsi tra i boschi e le selve. Dall'Accademia, dalla tradizione del Sanzio, dalla maestà di Michelangelo, sembra che il Frate, buttata la tonaca alle ortiche, si fugga incontro a forme barocche, scrollando da sé il gelo dell'accademia, il meccanismo raffaellesco, il peso dello sforzo michelangiolistico. (vol. X, parte II, pp. 150-153)
  • [Raffaello da Montelupo è] [...] autore del San Damiano, nella Cappella Medicea, la sola statua michelangiolesca uscita dalle sue mani. I lineamenti contratti del volto, i capelli agitati fiammanti, le vesti tormentate, le mani, ove fan rete le vene turgide, dalle falangi rettangolari schiacciate, lascian sentire come il prototipo dello scultore sia stato il Buonarroti, che imperava nella Cappella Medicea. [...].
    Il mite, il raffaellesco Raffaello da Montelupo sente nella cappella Medicea la passione di Michelangelo, che in seguito gli sfugge per sempre. (vol. X, parte II, p. 154)

L'architettura del Cinquecento[modifica]

  • Si assegna [...] al Mormanno la più bella facciata di palazzo napoletano, quella del palazzo di Capua, ora Marigliano, in S. Biagio dei Librai. La facciata subì alterazioni diverse, ma, nell'insieme, come dice giustamente il Pane, «manifesta la impeccabilità di una pura equazione geometrica, come quella che è dato riscontrare nelle opere migliori del Rinascimento». Purtroppo i restauri hanno lasciato solo intravvedere qualche traccia del Mormando in quello stesso palazzo e nell'altro dei duchi di Vietri, poi Corigliano. (vol. XI, parte I, pp. 954-956)
  • In Santa Maria della Stella alle Paparelle, edificata, per voto e con danaro proprio, dal Mormando, si può vedere qualche reminiscenza bramantesca nella facciata con pilastri corinzi, scanalati sino a due terzi d'altezza, [...]. (vol. XI, parte I, p. 956)
  • Michelangelo porta nell'architettura l'ideale di massa in movimento, come espressione di energia eroica. Dove è statica della coordinazione bramantesca, succede movimento; la coordinazione si trasforma in una più stretta unità, in subordinazione all'unità. Gli elementi si fanno più grossi o restan più grezzi, per presentarsi come massa, anziché come linea. (vol. XI, parte II, p. 1)
  • La cupola, che Michelangelo elevò nel cielo di Roma sulla chiesa madre della Cristianità, nel cuore della città papale, come gigantesca tiara, tiene delle progettate cupole albertiane la voce sonora, della cupola di Santa Maria del Fiore l'ascensione trionfale; ma questi effetti nascono, non dai rapporti numerici dell'Alberti, non dalla leggiera trama del Brunellesco, bensì da vigorosi contrasti di masse e di chiaroscuro, da vicenda di slanci e di freni, dalla lotta, che è in ogni forma creata dalle appassionate mani di Michelangelo. (vol. XI, parte II, p. 118)
  • Espressione magnifica di Roma monumentale, la grandiosa cupola [di san Pietro] ha le membra possenti, le violente energie delle statue michelangiolesche. La sua mole, che di lontano trova riposo nella maestà delle ampie curve ascendenti, è il sogno della fantasia di Michelangelo verso la grandezza divenuto realtà. (vol. XI, parte II, pp. 118-121)
  • Non l'interrotto monumento di Giulio II o la mutilata montagna marmorea di San Pietro in Vincoli, ma questa cupola [della basilica di San Pietro], massima espressione di una forma prediletta e tipica dell'architettura nostra, legame fra l'Italia e l'Oriente, traduce la sete di grandezza dello scultore [Michelangelo], che aveva divisato di trasformare una montagna in gigante, di martellarne il corpo nelle rocce, ergerne il capo nella regione delle nubi. (vol. XI, parte II, p. 122)
  • Flaminio Ponzio aiutò e continuò l’opera di Martino Longhi in palazzo Borghese, e noi crediamo di riconoscere il suo intervento, anziché nella facciata verso via Fontanella di Borghese, che ci sembra propria del Longhi per la sua divisione a specchi, nell’altra, più vasta e magnifica, verso piazza Borghese, libera da lesene divisorie e arricchita da un grande scudo a foggia di cartella barocca, che s’aggrappa al timpano dell’edicola sovrastante il balcone e a quello della porta-finestra, animando col suo capriccio tutta la facciata e distruggendo l’impressione di vacuità, d’inconsistenza, che l’edicola desta nel prospetto verso via di Fontanella Borghese. Anche la bellissima lenta scalinata a gradi poligonali, che si stende a conchiglia rovescia davanti alla porta, e il cancello, tutto proprio di Flaminio Ponzio nella grazia esile e fiorita dei suoi motivi ornamentali, concorrono all’accentramento dell’effetto decorativo nell’asse mediano della facciata. (vol. XI, parte II, pp. 876-878)
  • Certo [Palazzo Corner della Ca' Granda] è colossale, più di quanto si sia mai veduto sulla mobile superficie delle acque del Canal Grande, trionfante nella sua classicità, nella massiccia potenza delle colonne abbinate, ioniche al primo piano, corinzie al secondo, reggenti le arcate cariche di trofei. Quelle arcatelle son leggiere per la elefantina potenza delle colonne, e i due piani sembrano, a causa di esse, un pondo troppo forte per il basamento rustico del palazzo. (vol. XI, parte III, p. 124)
  • [...] auspice il doge Andrea Gritti, Jacopo Sansovino aveva disegnata la costruzione [della chiesa veneziana di San Francesco della Vigna] sin dal 1534. Ma il disegno sofferse riduzioni e mutamenti per le filosofiche elucubrazioni del Padre Francesco Georgi, che, con le teoriche di Platone alla mano, con la cabala medioevale del tre «numero primo et divino» e con i suoi multipli, aveva l'audacia di riformare il progetto in corso d'effettuazione. E peggio, la sicurezza del frate dell'Ordine confuse il Sansovino, Tiziano, Fortunato Spira viterbese, il Serlio, che ne firmarono la relazione rinnovatrice dell'edificio chiesastico, a norma di rapporti e di dimensioni ad esso applicate, per ottenere «un'armonia consonantissima». (vol. XI, parte III, pp. 125-126)
  • [...] San Francesco della Vigna mostra nell'interno le chiare proporzioni di Jacopo [Sansovino], non la sua vivezza cromatica, forse per l'adesione ai principî del frate censore [Francesco Zorzi]. Vi è un gran predominio di vuoti nella povertà francescana della chiesa; le lesene di pietra grigia, come tutte le cornici, sono piatte; ma un senso di pace, di equilibrio, nasce dall'armoniosa larghezza d'archi delle cappelle. Ancora l'eco toscana del Brunellesco s'avverte nella serie di sovrapposte lesene, tradotta in ampiezza cinquecentesca e in tranquilla maestà di linea nel giro fra cappella e cappella finché nella crociera le volte par s'innalzino a volo. (vol. XI, parte III, pp. 126-127)

Incipit di alcune opere[modifica]

La Madonna[modifica]

Tredici secoli prima che Raffaello rappresentasse la Madonna della Seggiola come una bella nutrice tutta amore per il pargolo che gira attorno gli occhi di falco, un pittore cristiano nelle catacombe di Priscilla rappresentava in simil modo una matrona con la creaturina ignuda che le si aggrappa al seno e volgesi ratta, guardando coi grandi occhi dietro a sé, quasi per mettersi a difesa del nutrimento; e la madre ripiega soave il capo, e circonda il nato suo con le braccia protettrici.

Luca Signorelli, interprete di Dante[modifica]

L'arte di Luca Signorelli, più di ogni altra nel Quattrocento, evoca lo spirito dantesco, per la energia delle sue forme sfaccettate, il pathos che scaturisce dalle composizioni grandiose, dalle repentine luci, dai movimenti di schianto arrestati.

Piero della Francesca[modifica]

Oggi la critica storica ha compreso la definizione che Fra' Luca Pacioli dette di Piero: «monarca della Pittura a' suoi dì», segnalando il grande influsso del pittore di Borgo su tutta l'arte italiana dell'Emilia e del Veneto, della Toscana meridionale, come dell'Umbria, delle Marche e delle Romagne, dalla corte degli Estensi alla bottega di Giambellino, dalla turrita Cortona alla reggia di Federico da Montefeltro, dal tempio malatestiano alla cittadella forlivese degli Sforza e al santuario di Loreto. E dai quei luoghi si estese la riforma pierfrancescana su Roma e Viterbo, su Napoli e Messina, dal palazzo vaticano alla cappella Mazzatosta, dagli anonimi affreschi di Monteoliveto in Napoli alla pittura rinnovatrice di Antonello. Ma il grande maestro ha lasciato indelebili profonde tracce dell'arte sua, non ricordi di vita.

Note[modifica]

  1. Da Disegno storico dell'arte italiana, 1924; citato in Francesca Marini, 2003, pag. 186
  2. Da un'intervista rilasciata ad Anton Giulio Bragaglia; citato in Ando Gilardi, Creatività e informazione fotografica, in Storia dell'arte italiana, Einaudi, Torino, 1982, vol. 9, tomo II, p. 567.
  3. Vincenzo Civerchio (1470 circa – 1544), pittore italiano.
  4. Castel Sant'Angelo, detto anche Mausoleo di Adriano.
  5. Grafia alternativa per Nicola Pisano, richiamante le sue origini.
  6. Karl Frey.
  7. Andrea Pisano, nato a Pontedera nel 1290 circa.
  8. Toscanismo per Duecento.
  9. Duccio di Buoninsegna.
  10. Ambrogio Lorenzetti.
  11. Thode, Franz von Assisi, Berlin, 1904, pag. 294. [(N.d.A., p. 680)]
  12. Filippo Lippi fu frate carmelitano fino al 1461, quando papa Pio II lo dispensò dai voti.
  13. Benozzo di Lese di Sandro (1420 circa – 1497), più noto con il nome di Benozzo Gozzoli.
  14. Filippo Lippi.
  15. Antonio e Piero del Pollaiolo.
  16. a b Pala d'altare.
  17. Timoteo Viti (1469 – 1523), pittore italiano.
  18. Giovanni Bellini, noto anche con il nome di Giambellino.
  19. Fazione di fiorentini nemici di Girolamo Savonarola e dei piagnoni suoi seguaci.
  20. Verso Maria, rappresentata nella parte superiore del dipinto l'Assunzione della Vergine.
  21. Nello stile di Fra Bartolomeo, detto anche Baccio della Porta (1473-1517), pittore e frate domenicano.
  22. In altre parti di questo stesso testo, il fratello di Taddeo Zuccari, è citato come Federico.
  23. Bernardino Campi (1520 – 1591), pittore italiano.
  24. Girolamo Santacroce (1502 – 1537), scultore, architetto e medaglista.

Bibliografia[modifica]

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