Davide Van De Sfroos

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Davide Van de Sfroos in concerto a Omegna

Davide Van de Sfroos, pseudonimo di Davide Bernasconi (1965 – vivente), cantautore e scrittore italiano.

Citazioni di Davide Van De Sfroos[modifica]

  • Gaber ci ha insegnato anche questo: a non mirare un po' il cerchio un po' la botte: perdi credibilità, accontenti tre persone su dieci, ti spersonalizzi e diventi pure creativamente sterile. Gaber riusciva ad appagare il silenzio della gente che a teatro voleva ascoltare qualcosa di sensato. Diceva quello che gli premeva in modi diversi, senza mai essere sopra le righe, sena essere bacchettone, senza sventolare bandiere, regalandoci l'autoironia - aspetto che rende l'arte più forte.[1]

Citazioni tratte da canzoni[modifica]

Brèva e tivàn[modifica]

Etichetta: Tarantanius, 1999.

  • L'è rüvada la nòcc… negra cumè un cupertón | sigarèta sc'murzàda… | tràda là suta un lampión… (da La nòcc, n. 4)
È arrivata la notte… nera come un copertone | sigaretta spenta… | buttata là sotto un lampione… [2]
  • Tra furtöna e scarógna gh'è una córda che tira | quand el diàul el pica el ciàpa la mira... (da La balàda del Genesio, n. 6)
Tra fortuna e sfortuna c'è una corda che tira | quando il diavolo picchia prende la mira... [2]

E semm partii[modifica]

Etichetta: Tarantanius, 2001.

  • E sèmm partii e sèmm partii, | cumè tocch de védru de un bücér a tòch, | una vita növa quaand finìss el mar | mentre quèla vègia la te pìca i sc'pàl | E sèmm partii... (da ... e semm partii..., n. 5)
E siamo partiti, e siamo partiti, | come pezzi di vetro di un bicchiere a pezzi, | una vita nuova quando finisce il mare | mentre quella vecchia ti picchia le spalle... | E siamo partiti... [2]
  • Televisión, quanti dé, quanti nòcc sö quei pultrón. | Televisión, quanti nòcc quanti dé cun quèl butón. (da Television, n. 10)
Televisione, quanti giorni quante notti su quelle poltrone. | Televisione, quante notti quanti giorni con quel bottone. [2]
  • Ho vedüü tüt el mund e tücc i città | setaa giò in pultróna, saraa dent in cà | Ho vedüü tücc i ròp che han vurüü famm vedé, | ho savüü tücc i ròp che hnn vurüü famm savè, | g'hhoo scià el telecomando e gh'hoo piö de levà sö | ma urmai l'é tròp tardi, urmai en pùdi piö | perché i nàven sö la löna e i purtàven a cà i sàss | e in gir in sö la Tèra segütàven a cupàss. (da Television, n. 10)
Ho visto tutto il mondo e tutte le città | seduto in poltrona, chiuso in casa | Ho visto tutte le cose che hanno voluto farmi vedere, | ho saputo tutte le cose che hanno voluto farmi sapere | ho il telecomando e non devo più alzarmi | ma ormai è troppo tardi, ormai non ne posso più | perché andavano sulla luna e portavano a casa i sassi | e in giro sulla terra continuano ad ammazzarsi. [2]

Akuaduulza[modifica]

Etichetta: Tarantanius, 2005.

  • Gh'è una dóna setada giò sö 'sta cazzo de 'na veranda | l'è vestida ancamò de spusa, la gh'ha in man ancamò el fusiil | il suo anello è quel grilletto che ha infilato una volta sola | un tempural de un segund e mèzz e un böcc in un bel vesc'tii... (da Madame Falena, n. 1)
C'è una donna seduta su sta cazzo di una veranda | è vestita ancora da sposa e ha in mano ancora il fucile | il suo anello è quel grilletto che ha infilato una volta sola | un temporale di un secondo e mezzo e un buco in un bel vestito. [2]
  • Ma se'l demòni el gh'ha 'na butèglia questa dóna l'è 'l so pedriö (da Il Paradiso dello Scorpione, n. 2)
Ma se il demonio ha una bottiglia questa donna è il suo imbuto. [2]
  • E l'han vedüü spustà la nèbia, sarà una stèla in d'una gabia, | l'hann impicaa e s'è rut el ram el g'ha la pèl culù del föm | e in quarant'ann de manicòmi l'è diventaa mila persón | l'è méa guarii, l'ha méa capii... ma l'ha imparaa a sunà el viulén | E in quarant'ann de manicòmi l'è staa un poo tücc e un poo nissön | ma adèss l'è scià cun sö el cilindro e lü la sa che l'è 'l barón. (da El Baron, n. 13)
E l'hanno visto spostare la nebbia, chiudere la stella in una gabbia | l'hanno impiccato e si è rotto il ramo, e ha la pelle color del fumo | e in quarant'anni di manicomio è diventato mille persone | non è guarito, non ha capito... ma ha imparato a suonare il violino | e in quarant'anni di manicomio è stato un po' tutti e un po' nessuno | ma adesso arriva con il cilindro e lui lo sa che è il barone... [2]
  • E disum tücc che sérum angeli e che però i gh'han dirutaa | e gh'emm i al tücc stramüsciaa e ripiegaa suta el paltò... (da Il prigioniero e la Tramontana, n. 15)
E diciamo tutti che eravamo angeli che però ci hanno dirottato | e abbiamo le ali stropicciate e ripiegate sotto il cappotto. [2]

Il mio nome è Herbert Fanucci[modifica]

Incipit[modifica]

Se vi dicessi che il mio nome è Herbert Fanucci, quasi tutte le persone che mi conoscono affermerebbero che non è vero, e che non hanno mai sentito questo nome. E non avrebbero torto.
Eppure se, nel buio, una voce mi chiamasse all'improvviso utilizzando questo nome, io mi volterei di soprassalto.
A un certo punto della mia vita, ho voluto impossessarmi di un nome che non esisteva, e ora questo nome vuole impossessarsi di me.

Citazioni[modifica]

  • Quando riesco a ricordare una cosa che ho fatto o che mi è capitata, sono in grado di dire anche la bevanda che ho ingollato in quella determinata circostanza. Ho sempre bevuto con una certa attenzione, con una sorta di preoccupazione spesso dettata dal momento che stavo vivendo. Non sono mai stato intrigato dalle sigarette, e neppure dalle canne; la caffeina mi disturba e, di conseguenza, non ho mai usato nemmeno coca o altri eccitanti.
    Le bottiglie, però, possiedono un fascino diverso, e quello che contengono può diventare un alleato o un nemico o un delinquente, una fonte di calore conviviale o un drago che sputa fiamme, che ti invita a un gioco alchemico di riti e di umori, di dosi e di scelte, un gioco avvincente come quelli che si celebrano su una scacchiera. Io non gioco a scacchi, ma talvolta bevo, come moltissimi individui in questo paese e in ogni parte del mondo. (cap. 4)
  • – Il mio nome....
    – Sì?
    – Il mio nome è... Herbert Fanucci.
    – Quanti sanno di questo nome?
    – Nessuno.
    – Come mai l'hai scelto?
    – Un insieme di coincidenze.
    – Okay, lo valuteremo in ogni dettaglio, e ti diremo se puoi tenerlo.
    (cap. 5)
  • Gettare via un oggetto è un gesto iniziatico, che cela una necessità insopprimibile: quella di poter scaricare gli stress, i dubbi, le menate e i peccati che sono entrati nel secchio come rospi clandestini durante il nostro cammino. Bestemmiare per la pensione mentre riduci in pezzi delle cassette della frutta, sfogarsi per i problemi con il figlio metre scarichi il camioncino zeppo di lamiere, commentare un matrimonio in crisi mentre tiri una pedata a una poltrona... ecco, questa è la danza della discarica. (cap. 16)
  • L'estate sta finendo. Tra non molto pioverà. Non sappiamo chi siamo. Non sappiamo cosa succederà. Ma un simile bacio se ne frega di questi particolari. (cap. 17)
  • Percepisco uno strano formicolio in mezzo agli occhi, e avverto la presenza di quella che ho imparato a chiamare "la Buona Lacrima". La Buona Lacrima sente e vede e, quando lo meriti, si concede. Ti scorre sulla guancia, allorché ricordi di essere parte di un cuore più grande. (cap. 21)
  • Se tutte le volte che ho guardato il cielo, il cielo ha guardato me, io sono un uomo benedetto. (cap. 21)

Incipit de Le parole sognate dai pesci[modifica]

Il Meccanico che ripara i Ricordi[modifica]

Appena scese dalla corriera, spese giusto il tempo di guardare se poteva attraversare la strada statale, poi si diresse giù per la mulattiera che portava al lago e alla Pensione Magnolia. Muoveva adagio i passi e faceva dondolare la valigia come uno che torna a camminare su quei sassi che non avevano mai smesso di essere suoi, anche se era stato via così tanto tempo.

La valigia[modifica]

Avevano tagliato il platano al centro della vecchia balera con il pavimento di cemento rosso. Avevano segato anche il tiglio che faceva da ombrello alla panchina vicino alla riva, dove in tanti si erano seduti a dire qualsiasi tipo di cosa, guardando verso il Ponte del Diavolo. Quelle due piante non c'erano più, ma lui vide nettamente i loro fantasmi, con le vene sparate in cielo e le braccia scomposte a dirigere il vento di altri giorni. Per lui, oramai era normale guardare e pensare, senza considerare gli strati del tempo. Lo aveva imparato dai pesci.

La Magatiroide[modifica]

Ti avrebbe fatto esplodere i suoi occhi sulla faccia, se solo avesse voluto. Aveva un giardino incantato, una collana con la croce di Santa Sarah e una bocca come quella dei jolly sulle carte. Era stata a Marsiglia a leggere mani di marinai, a promettere bugie agli uomini-topo della malavita, quelli con i coltelli senza direzione e i tatuaggi dei loro amori e dei loro sbagli.

Il Soldato degli Autunni[modifica]

C'era una volta il Soldato degli Autunni, che aveva dormito in una villa col cancello grande, e dentro una guerra senza porte, e in un cappotto color novembre senza più i gradi.
Una mattina, lo videro lavare i fazzoletti nella fontana davanti alla Pensione Magnolia e sorridere con una candela di ghiaccio che gli pendeva dall'orecchio.

Il Violinista di Nebbia[modifica]

Sul lago, alcune volte c'è la foschia. Altre, invece, giunge una strana bruma che ruba le montagne e fa scendere il materasso del cielo fino a schiacciare l'acqua. Sono questi i giorni in cui puoi vedere schierati i guerrieri di cotone e osservare il volo delle poiane senza ombra. Sulle rive non devi far rumore, perché dormono le sirene-mummia, spruzzate da una pioggia giovane e inesperta, nata da un dio che si è messo a ridere con la bocca piena.

La Luna e il ferro da stiro[modifica]

E Nora stirava, con gli occhi lontani, le gambe un po' gonfie e un fazzoletto profumato di lavanda che non abbandonava mai attorno al collo. Si trattava di un fazzoletto di seta colorata, sul quale erano disegnate delle farfalle. Nora aveva sempre stirato fin da quando era bambina, e sapeva muovere il ferro come un samurai sa far sibilare la spada, controllando gli umori, rispettando i confini, ingannando le pieghe.

Gek[modifica]

Quando si ritrovava ad aprire quella piccola scatola ricoperta di velluto rosso, riusciva ogni volta a mantenere l'espressione di chi finge di ignorarne il contenuto. Poi accarezzava la sua armonica a bocca, lustrandola col fazzoletto. Era davvero strano vedere un uomo così grosso suonare uno strumento così piccolo. Ma appena si metteva a soffiare dentro quell'oggetto, era in grado di risvegliare motivi venuti da altre acque, da altri asfalti, da altre vite.

La Ragazza del Negozio di Liquori[modifica]

Gli agoni sono pesci sottili ed eleganti e amano raccontarsi di quando tutte le acque del mondo erano un'acqua sola. Una volta pescati, sono messi a essiccare al sole, come se fossero dei calzini stesi ad asciugare. Poi vengono disposti in un recipiente di latta e pressati, finché il tempo li trasforma in missoltini. Piatti, secchi, scuri e salati.

Zorro e la lavagna[modifica]

Non era certo la prima volta che finiva dietro la lavagna. Ogni tanto capitava, e non soltanto a lui. Ma stare lì dietro con il vestito da Zorro era un disastro, una tortura che solo il malsano e variopinto artiglio del carnevale è capace di architettare. Zorro dietro la lavagna, senza neanche un gesso per fare la Z. Zorro con le orecchie rosse e le lacrime sotto la maschera. I baffi erano finti, disegnati con il turacciolo bruciato, ma la sberla ricevuta era vera: gli aveva rotto anche il cappello.

La storia di Ginevra[modifica]

Ginevra era bellissima, anche perché non ne aveva la minima idea, e questo le donava un bagliore unico. Sapeva guardare l'altra sponda e far rimbalzare i sassi piatti sul lago come se fosse nata lì, davanti ai pali bianchi e neri dei pontili e ai gabbiani che non hanno mai voglia di fare niente. Aveva la carnagione scura, una pettinatura da temporale, e gli occhi mandavano gli stessi riflessi assurdi del Pesce Sole.

Il Legionario nel Sottotetto[modifica]

Guardando quel lucernario da fiaba fuori moda, sapendo che lui era dietro i vetri, avresti giurato di sentirlo sospirare mentre si accendeva una Stop senza filtro. Un uomo dolce e amaro. Un palombaro coraggioso dentro il bicchiere del vino rosso. Avrebbe raggiunto il fondo anche questa volta, e poi avrebbe detto la sua.

Verso le 10 e 30 circa[modifica]

Verso le 10 e 30 circa, qualcuno lo aveva visto entrare in un bar di Bolvedro dopo aver preso a calci la propria moto, insultandola pesantemente. La moto era ridotta a uno scheletro, e non si capiva nemmeno di che marca fosse: tossiva dallo scarico e stava morendo. Intorno alla testa, lui portava un fazzoletto decorato con stelle alpine; i suoi capelli erano raccolti in una treccia abbastanza lunga. Camminava con passi da astronauta dentro stivaloni tipo motocross che gli arrivavano fin quasi al ginocchio.

La cassetta degli attrezzi, o il ritorno[modifica]

Il volto di una persona che sta ricordando è quello di una margherita che spende volentieri i suoi petali senza voler niente in cambio, è quello di chi maledice il tempo per aver sciacquato i suoi pennelli senza chiedere il permesso. È quello di un bambino che ti chiede come si fa a capire da che punto inizia il domani.

Citazioni su Davide Van De Sfroos[modifica]

  • Lui ha scritto delle cose meravigliose, anche se ho dovuto leggere spesso le traduzioni perché il dialetto di Lenno è per me a volte incomprensibile. Se per eredità intendi che usa il dialetto, allora va bene. Ma quello è un aspetto formale. (Nanni Svampa)

Note[modifica]

  1. Gaber non è un maggiolino; in Gaber, Giorgio, il Signor G. Raccontato da intellettuali, amici, artisti, a cura di Andrea Pedrinelli, Kowalski, Milano, 2008, p. 126. ISBN 978-88-7496-754-4
  2. a b c d e f g h i traduzione a cura di www.cauboi.it Official Fans Club

Bibliografia[modifica]

  • Davide Van De Sfroos, Il mio nome è Herbert Fanucci, Bompiani, 2005, ISBN 8845234231
  • Davide Van De Sfroos, Le parole sognate dai pesci, Bompiani, 2003. ISBN 8845255239

Altri progetti[modifica]

Opere[modifica]