Cesare Marchi

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Cesare Marchi (1922 – 1992), scrittore, giornalista e personaggio televisivo italiano.

Citazioni di Cesare Marchi[modifica]

  • La pubblicità è vecchia come il mondo. Infatti, come tutti sanno, cominciò il serpente a decantare a Eva le virtù della sua frutta. (da Quando l'Italia ci fa arrabbiare, Rizzoli)
  • Se scriviamo Juventus, intendiamo la squadra di calcio sorta nel 1897 a Torino, città incubatrice delle più grandi novità del costume italiano, dall'automobile al cinema al pallone. Promotori, alcuni studenti del ginnasio D'Azeglio, classe terza e quarta. La società nacque su una panchina di corso Re Umberto (le panchine sono sempre cariche di destino, nelle vicende del calcio), luogo di riunione di questi ragazzi della buona borghesia torinese che, affascinati dell'esotico gioco appena importato dall'Inghilterra, racimolarono le sessanta lire, cifra vertiginosa, necessarie per acquistare un pallone. Poi discussero sul nome da dare al club. I classicheggianti proposero un nome che fosse anche un blasone culturale, Juventus [...]. Per dare maggiore specificità alla ragione sociale, Sport Club fu mutato in Football Club Juventus, e da quasi novant'anni questo latino ogni domenica riempie i cuori e le bocche di milioni di tifosi, e ne manda in bestia altrettanti, segno, direbbe l'autore del Cinque Maggio «d'inestinguibil odio / e d'indomato amor». (da Siamo tutti latinisti, p. 134)

Impariamo l'italiano[modifica]

  • [...] ogni parola, essendo lo specchio d'una cosa, riflette una storia dell'uomo, una conquista del suo pensiero. (parte I, Le buone regole, cap. I, Un libro democratico, p. 9)
  • [Sul dizionario] Assieme all'elenco telefonico, è il più democratico dei libri. Nessun culto della personalità. Tutte le parole, poetiche e tecnologiche, umili e dotte, arcaiche e ultramoderne vi figurano in rigoroso ordine alfabetico, accettando come in autobus il posto assegnato dal caso, in pittoresca promiscuità, alluce e allucinante, damigella e damigiana, eremita ed eresia, gulag e gulash, genio e genitali, letame e letizia, coscia e coscienza, eccellenza ed Ecce Homo, anguria e angustia, bar e bara, coma e comare, bovarismo e bovaro, milite ignoto e militesente. (parte I, Le buone regole, cap. I, Un libro democratico, pp. 9-10)
  • Se uno scrivesse regno monarchico, acqua idraulica, ghiaccio gelato, fuoco igneo, passerebbe per matto. Chi dice repubblica democratica popolare, no. (parte I, Le buone regole, cap. I, Un libro democratico, p. 10)
  • Se possiedi le parole, possiedi le cose. (parte I, Le buone regole, cap. I, Un libro democratico, p. 10)
  • [Sul dizionario] Esso non è soltanto un interprete che fa luce dove c'è buio, un banchiere che cambia i pezzi di grosso taglio con moneta spicciola: è anche, e soprattutto, uno stimolatore di idee, un suggeritore di pensieri, un pronubo di associazioni mentali tramite la nomenclatura, i sinonimi, i modi di dire che accompagnano ogni voce. (parte I, Le buone regole, cap. II, Il tema di Pierino, p. 15)

In punta di lingua[modifica]

  • L'eufemismo è una figura retorica che serve per addolcire un concetto troppo crudo o sgradevole. È una sorta di vaselina del pensiero, per cui lo storpio diventa portatore di handicap, il facchino portabagagli, l'assenteista demotivato, il vecchio anziano, la prostituta lucciola. (p. 46)
  • Le poche volte che scriviamo una lettera – oggi è più comodo telefonare, il telefono non richiede una brutta copia – una fonte di perplessità è l'uso della maiuscola. Quando è obbligatoria?. La maiuscola (dal latino maiusculus, che è il diminutivo di maius, più grande, quindi un po' più grande) si mette all'inizio del discorso. Dopo il punto fermo. Nel discorso diretto: «Dove vai?» «Parto per Milano». Coi nomi propri di persona: Luigi, Stefania, la famiglia Brambilla. (p. 70)
  • I programmi trimestrali della Rai, compilati su grandi fogli recanti le date di ogni singola trasmissione, le ore e i minuti della durata, le caratteristiche tecniche ecc. si chiamano palinsesti. Perché questo vocabolo preso in prestito dalla paleografia? Forse perché sono fogli di complicata e confusa scrittura, come quegli antichi manoscritti di pergamena sui quali il testo precedente era stato raschiato, oppure scolorito, e sostituito con altro testo, disposto talvolta in senso trasversale. Così facevano i romani, così si faceva nel Medioevo, dato l'alto costo delle pergamene. la parola, di derivazione greca, è composta da pálin, di nuovo, e dal tema del verbo psáo, raschio. (p. 87)
  • Il Panzini la definisce «Volgare parola: il suono di Barbariccia, trombettiere (Inferno, XXI, 139) ma fatto con la bocca. Il superlativo plebeo dei fischi. Voce di origine napoletana». Questa imitazione del crepitus ventris ottenuta facendo vibrare rapidamente le labbra esprime, in forma sguaiata, il massimo del dileggio e della provocazione. Pare che derivi dal latino vernaculus, che è l'aggettivo di verna, lo schiavo nato in casa. e quindi qualcosa volgare, plebea, scurrile. Ma a Napoli dove è chiamato pernacchio è una istituzione. Da sempre quella gente ama esprimersi per gesti e suoni: con la canzone l'amore, con la pernacchia il disprezzo. E la pernacchia non è che una Piedigrotta capovolta, il Sole mio della trivialità. (p. 97)
  • Quello delle ripetizioni, delle tautologie (dal greco tá autá léghein, dire le stesse cose) è un campo minato, in cui cadiamo spesso, senza accorgerci. Progetti per il futuro: e quando mai si fanno progetti per il passato? Guglielmo Marconi fu il primo che inventò il telegrafo senza fili: se fosse stato il secondo non sarebbe stato un inventore, bensì un copiatore. (p. 111)
  • Utente è una nuova qualifica che si aggiunge alle moltissime che formano la poliedrica carta d'identità del cittadino moderno. Il quale, quando paga le tasse, è un contribuente, alle urne è un elettore, al reggimento una recluta, in aereo un passeggero, per la Pro Loco un vacanziere, per il Rotary un socio, per il quotidiano un abbonato, per il supermercato un consumatore, per l'avvocato un cliente, per il medico un paziente. Oltre a tutto questo, è sempre un utente di qualcosa: dell'azienda acqua-gas, dell'Enel, della Sip, della rete autostradale e di quelle televisive. Si dice utente perché usa un certo servizio, dal latino utor, adopero da cui si dipartono parecchi rami, e quello più generoso è utile: cosa che serve per il raggiungimento di uno scopo. (p. 119)
  • È la solita parola di origine greca e vuol dire «che allontana». Allontana gli influssi maligni. Apotropaici sono gli amuleti, i talismani che portiamo contro il malocchio: corni di corallo, piccoli ferri di cavallo, zampette di coniglio. Gesto apotropaico è toccar ferro (però deve essere allo stato naturale, non verniciato) quando si parla d'una malattia, d'una disgrazia. Se un gatto nero ci attraversa la strada, è conveniente tornare indietro. (p. 129)
  • La camorra inizialmente si chiamava Società dell'umiltà, per la sottomissione cieca che gli affiliati dovevano agli ordini dei capi. Dalla corruzione di umiltà sarebbe derivata la parola omertà, regola fondamentale della malavita meridionale che obbliga a non svelare mai il nome di chi ha commesso un delitto, a non denunciare mai il colpevole alla giustizia ufficiale, affinché l'offeso si faccia giustizia da solo. Suggestiva, a questo punto, anche l'ipotizzata derivazione dallo spagnolo hombredad, virilità, l'essere uomo, da hombre. (pp. 163-164)
  • Nettamente spregiativa e offensiva, in questa famiglia di servi, è la qualifica del tirapiedi. Diceva Tacito che il silenzio è l'onore degli schiavi. Nella reggia di Versailles, Luigi XV, in un momento di euforia, diede una sculacciata a un valletto, il quale rispose: «Perbacco, maestà, andate a scherzare coi vostri pari». Da questo mirabile orgoglio il tirapiedi non è mai sfiorato. Non sa nemmeno che cosa sia. Il tirapiedi è colui che non solo asseconda con entusiasmo, per trarre un vantaggio, tutte le azioni del principale, ma collabora con lui anche in iniziative che ripugnano ai principi di onestà o di umanità. Infatti il tirapiedi, ai tempi in cui vigeva la condanna a morte, era colui che aiutava il boia nel suo lavoro. In che modo? Tirando i piedi dell'impiccato, per accelerarne la fine. (pp. 184-185)

Non siamo più povera gente[modifica]

Incipit[modifica]

Chi siamo noi italiani? Per risolvere questo dubbio, che i sociopsicologi chiamano crisi d'identità, leggo ansiosamente i giornali e in un quotidiano scopro che, secondo i giapponesi, siamo degli stupidi.
Un rotocalco mi informa che, dopo la Danimarca, l'Italia è il Paese dove si vive meglio. Il «Figaro Magazine», interpellati seimila europei e mille americani d'ambo i sessi, ci attribuisce il primato mondiale della seduzione: il trentacinque per cento delle preferenze, contro il ventotto per i francesi e il sedici per gli spagnoli. Tutto questo però non ci aiuta a capire chi siamo.

Citazioni[modifica]

  • Chi per tanto tempo si è adattato a vivere male, non sospettando l'esistenza del meglio, appena lo intravvede lo vuole subito. Poi non si accontenta del meglio, vuole l'ottimo. (prefazione, p. 8)
  • L'umorismo non distribuisce certezze, la sua casa è il dubbio. (prefazione, p. 9)
  • L'incontentabilità umana può restare assopita per un tempo più o meno lungo, ma una volta risvegliata è difficile frenarla. Ed è bene che sia così, perché l'incontentabilità è la molla che fa avanzare il mondo. Se l'uomo si fosse sempre accontentato, sarebbe ancora fermo alle caverne e alle palafitte. (prefazione)
  • L'italiano è per il divorzio, l'aborto, la pillola, la fecondazione artificiale, ma spende un milione per il vestito della figlia che va alla prima comunione. (p. 14)
  • [L'italiano] Legge i giornali di sinistra, ma non vota a sinistra. Se vota a sinistra, è contrario alla selezione meritocratica, ma per il suo tempo libero sceglie i ristoranti con due stelle, i concerti con i più famosi direttori d'orchestra. (p. 14)
  • [L'italiano] Ama le battute di spirito, ma a carico degli altri. Sale sempre sul carro del vincitore, ma è prontissimo a scendere in corsa, se si accorge di avere sbagliato carro. (p. 14)
  • I giapponesi dicono che siamo una nazione di stupidi, il «Figaro Magazine» che siamo dei casanova. Non hanno capito niente. Noi siamo la nazione del ma. (p. 14)
  • Rimpiango le velenose ironie, l'ustionante epigramma alla Flaiano, alla Longanesi, definito «il componimento che con il minor numero di parole procura il maggior numero di nemici». (p. 215)

Quando eravamo povera gente[modifica]

  • Chi rimpiange la vecchia civiltà contadina, non l'ha mai conosciuta da vicino.
  • È destino che ogni generazione calunni se stessa, rimpianga le precedenti, per poi essere rivalutata dalle successive.
  • I proverbi dialettali non sono «trasferibili», vanno gustati sul posto. Come il lambrusco.
  • La botte è l'unico carcere che renda migliore chi vi sta dentro.

Quando siamo a tavola[modifica]

Incipit[modifica]

Innanzitutto deve avere l'osso, il manico. Senza il manico, la costoletta (per carità, non chiamatela cotoletta) è un fiore senza stelo, una bandiera senz'asta, una spada senz'impugnatura, un elmo senza pennacchio. Ruvida, quasi scontrosa nel suo malinconico aspetto di foglia morta, essa nasconde sotto la corteccia d'oro brunito una polpa rosea e mansueta come il cuore d'una maddalena pentita.
Per mangiare il tacchino dobbiamo essere in due, io e il tacchino, ridacchiava quel ghiottone di Gioacchino Rossini. Per gustare la costoletta è consigliabile la compagnia dell'autore, il cuoco Alfredo Valli, milanese naturalmente, che siede al tavolo dell'ospite e gli racconta, con scienza, il viaggio di questo pezzo di carne, dalle opache stalle brianzole, alle candide tovaglie del ristorante Gran San Bernardo, in via G. A. Borgese.
– Per prima cosa, occorre la materia prima, cioè il vitello – esordisce lapalissianamente Alfredo, che debuttò al Biffi Scala, ai tempi del duello Maria CallasRenata Tebaldi, cui seguiva, dopo teatro, il duello Callas – costoletta da mezzo chilo, – un vitello sui novanta giorni di vita, che non abbia mai toccato mangime sintetico. Soltanto il latte di mamma mucca.

Citazioni[modifica]

  • L'ira, furor brevis come la chiamò Orazio, fomenta risse allo stadio, tumulti di disoccupati davanti alla prefettura e parolacce in parlamento. (prefazione, p. 9)
  • La superbia scava abissi di odio tra i sottomessi e i soprastanti, continuamente pungolati, quest'ultimi, dall'insana smania di eccellere. (prefazione, p. 9)
  • L'avarizia accumula ricchezze che usa per il tornaconto personale, non nell'interesse collettivo. (prefazione, p. 9)
  • L'invidia soffre per la buona fortuna del prossimo, e non potendo godere, per insufficienza propria, dei propri successi, gode malignamente degli insuccessi altrui. (prefazione, p. 9)
  • L'accidia è pigrizia, negligenza nel fare il bene, nel compiere i propri doveri verso se stessi e verso la collettività. (prefazione, p. 9)
  • Assieme alla lussuria, la gola è il vizio più confessabile. Nessuno si vanterà pubblicamente di essere invidioso, avaro, tracotante, iracondo, negligente. Ma nessuno si vergognerà di dire che va matto per le profiteroles (e per Francesca Dellera). (prefazione, p. 9)
  • La gola, è stato scritto, ha un'altra peculiarità: è il solo vizio che aumenta con l'età, mentre tutti gli altri tendono a diminuire. (prefazione, p. 9)
  • I peccati esigono calorie, la gola gliele fornisce. Perciò i santi eremiti si ritiravano nel deserto a digiunare, cibandosi di erbe e di locuste. Negando al corpo le calorie nell'aldiquà, sottraevano l'anima alle fiamme nell'aldilà. (prefazione, p. 10)
  • Nel Veneto si dice: il baccalà l'è come la dona, più la se bastona più la diventa bona. (p. 11)
  • Gli antichi romani pranzavano al suono della cetra, noi abbiamo Bruno Vespa e Paolo Frajese. (p. 16)
  • In un momento di malumore Ugo Foscolo battezzò Milano «paneròpoli», città della panna. Giovanni Rajberti la chiamò «capitale delle polpette» che non sembra un giudizio lusinghiero. Nei Promessi sposi, il Manzoni fa mangiare a Renzo, Tonio e Gervaso, andati all'osteria poco prima del «matrimonio a sorpresa», un gran piatto di polpette. E quando la madre, Giulia Beccaria, gli domandò il perché di tale scelta, don Lisander rispose: «Cara mamma, mi avete fatto mangiare fin da bambino tante di quelle polpette, che ho ritenuto giusto farle assaggiare anche ai personaggi del mio romanzo». (p. 17)
  • Dopo il film Riso amaro ho lungamente sognato Silvana Mangano, quelle calze nere di mondina infilate su due gambe senza fine; adesso Silvana non c'è più, io cammino sul viale del tramonto, il riso no. Perciò continuo a cantare le lodi di quest'umile cereale che per la nostra felicità muore tre volte: nell'acqua, nella salsa, nel vino. Ho sempre ammirato l'equità di Madre Natura che, amministrando la legge dei contrari, fa nascere dal turpe fango degli stagni una creatura così pulita e gustosa. (pp. 20-21)
  • L'unità d'Italia, sognata dai padri del risorgimento, oggi si chiama pastasciutta; per essa non si è versato sangue, ma molta pummarola. (p. 24)

Siamo tutti latinisti[modifica]

Incipit[modifica]

L'altra notte ho fatto un sogno. Invitato da un cineclub a una rassegna di film storici, Quo vadis, Fabiola, Anno Domini, Marco Tullio Cicerone si rallegrava con i presenti per i lusinghieri segni di sopravvivenza che continua a dare, dopo duemila anni, il suo latino, presunta lingua morta. Estromesso dalla scuola e dalla Chiesa, esso si è preso una spavalda vendetta penetrando nel linguaggio della burocrazia, della politica, dei tribunali, dello spettacolo, dello sport, grazie alla sua straordinaria capacità di condensare il massimo di pensiero nel minimo di parole, «pregio non indifferente» osservò Cicerone «in un'epoca come la vostra, affetta da stitichezza concettuale e da diarrea verbale» (disse proprio così). Poi, salito sul tram, il famoso avvocato romano lesse il cartello «Obliterare il biglietto» e commentò con lieta sorpresa: «Obliterare è latino puro, un verbo che, a differenza del tram, già si usava ai tempi miei, sia pure con la doppia t, obblitteràre, cancellare».

Citazioni[modifica]

  • Nella satira terza del libro primo Orazio deride quei cantanti che, pregati dagli amici di esibirsi, se ne stanno ostinatamente zitti; se invece nessuno desidera sentirli, si scatenano e non c'è modo di farli tacere. Uno di questi era il sardo Tigellio, che avrebbe detto di no anche all'imperatore, ma quando gli veniva la voglia si metteva a gorgheggiare
    ab ovo usque ad mala
    dall'uovo fino alle mele, cioè dall'antipasto alla frutta. (p. 13)
  • Il primogenito del re di Francia, in attesa di salire al trono, portava il titolo di Delfino (Dauphin), essendo il Delfinato (Dauphiné) il feudo assegnato, a partire dal XIV secolo, al principe ereditario della casa regnante. Delfino era quindi l'equivalente del Krönprinz germanico e dello zarevič russo. Ad usum Delphini, a uso del Delfino, era l'etichetta riservata ai libri prevalentemente purgati, in modo che potessero andare nelle giovanissime mani del principe. I tagli dei passi più scabrosi erano fatti da gente di Chiesa, tuttavia qualche volta capitava che i severi censori fossero distratti. [...] Oggi definiamo ad usum Delphini testi, dichiarazioni, discorsi politici rimaneggiati mediante tagli e aggiunte, in modo che servano a una determinata parte politica. (p. 18)
  • Secondo Erasmo, la frase esatta, attribuita da Svetonio a Cesare è Alea iacta èsto, il dado sia tratto. Milioni di casalinghe la ripetono ogni giorno, preparando il brodo artificiale, e restando anonime. Il fiume Rubicone segnava, presso Rimini, il confine tra la Gallia Cisalpina, provincia affidata alla giurisdizione di Cesare, e l'Italia. Schierato dalla parte del rivale Pompeo, il senato aveva bruscamente intimato al generale di deporre il comando e di rientrare a Roma come privato cittadino. Cesare si rese conto della gravità del momento. Varcare in armi quel fiume voleva dire la guerra civile, rinunciare all'azione equivaleva alla sua morte politica. Mentre meditava sulla decisione da prendere, gli apparve un prodigio. Un uomo bellissimo, di grande statura, sonava il flauto e, incantati dalla musica, accorrevano da ogni parte pastori, soldati e trombettieri; allora l'uomo misterioso afferrò una tromba, corse verso il fiume e lo varcò impavido, intonando il segnale di battaglia. Suggestionato da questa visione, Cesare esclamò: «Andiamo dove ci chiamano i prodigi degli dèi e l'iniquità degli uomini. Sia tratto il dado». (pp. 20-21)
  • Sono i due corni d'un dilemma: o... o... L'uno esclude l'altro. Dare a una persona l'aut aut vuol dire obbligarla a una scelta fra due possibilità. «Il padre pose al figlio l'aut aut: o studi, o ti mando a lavorare.» Nei telegrammi si scrive aut in sostituzione di o, per evitare che questa vocale, isolata, subisca errori di trasmissione. (p. 28)
  • Domenico Biancolelli era un Arlecchino bolognese (XVII secolo) bravissimo nell'improvvisare, secondo gli schemi della commedia dell'arte, frottole e monologhi, prendendo lo spunto da qualunque cosa gli capitasse in mano. Una sera preso un fiasco improvvisò una chiacchierata che, caso strano, non fece ridere il pubblico. Irritato per la magra figura, il Biancolelli disse al fiasco «È colpa tua se non mi applaudono» e lo buttò via. Da allora, quando un attore fallisce la scena, si dice «Ha fatto il fiasco dell'Arlecchino» e più semplicemente «Ha fatto fiasco». (p. 45)
  • L'espressione ha trovato fortuna in Francia, dove si dice tuttora faire fiasco. Ma non minore fortuna ebbe il Biancolelli che, fiasco a parte, fu chiamato a Parigi dal cardinal Mazzarino. Pregato dal Biancolelli, il letterato Jean de Santeul dettò un motto latino da scrivere sul busto di Arlecchino che ornava il proscenio della Comédie Italienne: Castigat ridendo mores, ridendo correggo i costumi. (p. 45)
  • Quando la polizia trova il cadavere di un assassinato, il primo ragionamento che fa, anche senza aver studiato latino, è quello che fa Seneca, nella tragedia Medèa: Cui prodest scèlus is fècit, il delitto l'ha commesso colui al quale reca vantaggio. Se per esempio la vittima ha lasciato una grossa polizza di assicurazione, si comincia a indagare fra gli eredi. Oltre che in materia penale, il cui cui prodest è una bussola preziosa per orientarci nella vita politica e chiarirne i misteri. Di certe leggi e provvedimenti varati in nome degli immortali princìpi, basta chiederci cui prodest? a chi giova? e scopriremo quali interessi di parte o di corporazione si celano sotto il manto delle supreme idealità. (pp. 52-53)
  • La locuzione completa è de cuius hereditàte àgitur, della cui eredità si tratta. Il de cuius, in altre parole è il testatore. Estratta dalla cassaforte una busta, generalmente gialla, il notaio legge ai condolenti, reduci dalla mesta cerimonia, ancora odorosi di candele, le ultime volontà del morto. (p. 57)
  • Affrèttati lentamente. Sembra, e formalmente è, una contraddizione in termini, non essendo pensabile che fretta e lentezza vadano d'accordo. Si tratta d'una figura retorica, detta ossimoro, che unisce due termini antitetici per conferire provocante vivezza al pensiero (come ghiaccio bollente, convergenze parallele). Nella sostanza, il paradosso contiene una verità, e cioè che chi desidera arrivare alla meta prefissa deve evitare ogni precipitosa improvvisazione. (p. 86)
  • Nell'anno 312 Costantino, durante la campagna contro Massenzio, ordinò che sugli scudi dei suoi soldati fosse inciso il monogramma di Cristo. Perché? Lo scrittore Eusebio dice che egli avrebbe avuto, mentre si trovava in Gallia, la visione d'una croce con la scritta In hoc signo vinces, con questo segno vincerai. Invece Lattanzio parla d'un sogno fatto da Costantino proprio alla vigilia dello scontro con Massenzio, a Ponte Milvio. A Ponte Milvio, com'è noto, vinse Costantino, che inaugurò una politica in favore dei cristiani, fino allora perseguitati dal paganesimo di Stato. Il cristianesimo fu riconosciuto ufficialmente in tutto l'impero e ai cristiani furono restituiti i beni confiscati. (pp. 122-123)
  • Sui promontori rocciosi di Abila (Ceuta) e Calpe (Gibilterra), che formano lo stretto fra Europa e Africa, Ercole avrebbe scritto, secondo la leggenda, le parole Non plus ultra segnando, con quelle che furono poi chiamate le Colonne d'Ercole, i confini del mondo. Nessun navigatore doveva oltrepassarli. La locuzione si usa enfaticamente, specialmente dai rappresentanti di commercio, per indicare un prodotto che ha raggiunto il massimo della perfezione: oltre non si può andare. (p. 166)
  • Una formula latina, usata in Inghilterra nel XV secolo, stabiliva il numero dei giudici dei quali (latino quorum, genitivo plurale maschile del pronome relativo qui) era necessaria la presenza per la validità del procedimento. Il quorum poi passò nel linguaggio elettorale, a indicare il numero dei voti necessario perchè un candidato sia eletto consigliere comunale, provinciale, regionale, deputato, senatore. Chi non raggiunge il quorum, viene bocciato. E se non è corazzato contro i colpi della sfortuna, udita la brutta notizia, può anche morire di creaquorum. (pp. 203-204)
  • Còllum tùum sìcut tùrris ebùrnea, il tuo collo è come una torre d'avorio, dice alla bella Sulamita il Cantico dei cantici, attribuito a Salomone (VII, 5). S'ispirò a questo versetto Modigliani per i suoi famosi colli? Torre d'avorio è anche un attributo della Madonna nelle litanie lauretane. Nell'uso corrente indica il volontario e talora sdegnoso isolamento in cui si rinchiudono esponenti della scienza, dell'arte, della cultura, evitando i contatti con la realtà esterna, per meglio dedicarsi allo studio e alla creazione. (p. 242)
  • Gli impegni scritti sono sempre vincolanti, quelli verbali sono più elastici; si può sempre obiettare, all'altro che ti contesta: «Hai capito male», oppure, massima concessione, «Non ci siamo spiegati bene». Verba volant scrìpta mànent, le parole volano, gli scritti restano, equivale al proverbio «carta canta e villan dorme». Ma questi trascorre notti inquiete se i documenti scritti sono a suo danno. Nel racconto di Maupassant Hautot padre e figlio, Hautot padre, morente in seguito a un incidente di caccia, manda a chiamare il figlio per fargli le ultime raccomandazioni. Che cosa gli dice, prima di esalare l'ultimo respiro? «Figlio, di carta bollata bisogna non adoperarne mai. Non ricorrere mai, tu, alla carta bollata. Se sono ricco, è perché in vita mia ne ho sempre fatto a meno.» (p. 254)

Bibliografia[modifica]

  • Cesare Marchi, Impariamo l'italiano, Rizzoli, Milano, 1990. ISBN 88-17-11513-4
  • Cesare Marchi, In punta di lingua, prefazione di Giulio Nascimbeni, Rizzoli, Milano, 1992. ISBN 88-17-84208-7
  • Cesare Marchi, Non siamo più povera gente, RCS Libri, Milano, 1989.
  • Cesare Marchi, Quando eravamo povera gente, Rizzoli, Milano, 19887.
  • Cesare Marchi, Quando siamo a tavola, RCS Libri, Milano, 1990.
  • Cesare Marchi, Siamo tutti latinisti, Rizzoli, 1986. ISBN 88-17-53505-2

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