Dario Buzzolan

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Dario Buzzolan (1966 – vivente), scrittore e critico cinematografico italiano.

Citazioni di Dario Buzzolan[modifica]

  • C'era da aspettarselo: «Da storia nasce storia», il programma di Ottavio Rosati che ogni domenica sera mette in scena uno psicodramma, non poteva non incontrare robuste resistenze. [...] Lo psicodramma – lo dice il nome stesso e, ancor più del nome, il suo svolgersi – è, per sua essenza, rappresentazione. Nessuno ha portato in tv un paziente sul lettino. Lo psicodramma si basa naturalmente sull'apporto e sul riconoscimento di un gruppo che fa da pubblico. In questo ha una struttura perfettamente in linea col mezzo televisivo.[1]
  • Il fuoristrada ora correva e sembrava persino silenzioso. Poteva accadere da un momento all'altro; o non accadere nulla. Un dubbio le balenava di tanto in tanto e subito svaniva: se avrebbe fatto in tempo a sentire il suono dell'esplosione o si sarebbe sgretolata prima. Comunque fosse, non aveva voglia di pensarci.
    Una vita felice; o il buio.
    Un giorno tutto questo: le ossa i pensieri le sensazioni di dolore di piacere di indifferenza e poi la pelle e la carne e i tubi che portano i liquidi da una parte all'altra del corpo e ancora i capelli i peli le speranze i ricordi il cibo masticato e digerito; un giorno tutto questo finirà. Un giorno o forse tra poco tutto questo smetterà di fingere di essere io.[2]
  • Ma che dire, da un punto di vista strettamente televisivo, del programma di Rosati? Certo gli argomenti, e il modo stesso di rappresentarli, possono turbare, spaventare, persino urtare lo spettatore, insomma indurlo a cambiare immediatamente canale. Ma, superato il primo momento di imbarazzo, la trasmissione emana tutto il suo irresistibile fascino. «Da storia nasce storia» rappresenta indubbiamente una grande sfida alla televisione dominante.[3]
  • Non so niente di queste immagini. Carico sempre le bobine a caso, non ho mai cercato di capire quale fosse l'ordine. Ma so che quando vedo apparire quel volto enorme sento come un grande vuoto dentro di me, un vuoto tiepido, un silenzio senza limiti. Quel volto sullo schermo non fa niente, non dice niente. Guarda. Le prime volte mi spaventava, avevo l'impressione che guardasse me. Ora ho capito. Ora so che i suoi occhi mi attraversano, e attraversano il muro alle mie spalle, e si perdono fuori, nello spazio immenso, nella neve che non finisce mai.
    È il momento che amo di più: perché sento che quando uscirò all'aperto e mi guarderò intorno, nella notte, nel gelo, il mio sguardo sarà il suo. Allora penserò che sto per andarmene da questa terra, e che il mio nome, Qaqak, tra poco cesserà di avere senso; e a pensarci non mi mancherà più il respiro, come succedeva una volta.
    Mi siederò nella neve, tranquillo, a farmi avvolgere dal buio. Non c'è niente di più dolce.
    [4]
  • Per quante certezze si abbiano, per quante variabili si sia stati in grado di definire, per quante incognite si siano determinate, le cose seguono sempre la loro inopinabile via.
    Così, nonostante Mina fosse scesa dal treno a Modane e tornata verso Torino come un condannato che vada volontariamente a mettere la testa sul ceppo, pronta a vedersi comparire davanti Emme di lì a poche ore, pronta a soccombere, priva di forze e di resistenza, rassegnata a farsi aprire la carne da un coltello o una pallottola, a farsi frantumare le ossa da una spranga, perché si era convinta che quello fosse il suo destino e che fosse segnato, e lei voleva andare incontro al suo destino per non perdere altro tempo – nonostante ciò nulla era successo nell'immediato.[5]
  • Riaccende la luce. Da dove farebbe muovere il suo memoriale? Dalla festa? Naturalmente: quella notte è la festa, la festa è quella notte. Ma da cosa, in particolare?
    Potrebbe cominciare dalla musica. Quella musica presente, piena, che non concedeva tregua e che certe volte ti dava l'impressione che nel mondo non ci fosse altro che musica. Quella musica che quando la ascoltavi non potevi nemmeno dire di essere in un'altra dimensione, perché la dimensione era una sola ed era la musica, e tu eri come quelle canzoni, eri intriso del sapore di quelle canzoni, respiravi l'aria che saturava quelle canzoni, vedevi le cose che quelle canzoni raccontavano, parlavi con le loro parole e ti muovevi al loro ritmo dappertutto, con la cassa e con il rullante, con il basso che ti batteva nel petto e con i lunghi lamenti o grida di battaglia delle Fender Stratocaster o delle Gibson Les Paul, dappertutto ti muovevi con loro che non erano oggetti né suoni emessi da oggetti, ma esseri viventi, e tu ti muovevi con loro in ogni luogo, per strada, in bus, in motorino, in classe e pure quando stavi fermo immobile durante un'interrogazione, eri quella musica e questo ti distingueva dagli altri, nettamente e per sempre.[6]
  • «Si è messo a gridare che la mia scelta e quella di suo fratello, io partigiano lui repubblichino, si equivalevano. Tutti e due combattevamo per degli ideali. A quel punto ho gridato anch'io. Gli ho detto: puoi girarla come vuoi, tanto la ragione resta ragione e il torto resta torto... e la storia non la raccontano i vincitori, come dici tu... ma semplicemente chi ha buona memoria...» Si stringe nelle spalle. «Non volevo convincerlo. Solo fargli capire che, all'epoca, mi erano bastati pochi secondi per decidere. Mi sembrava la scelta naturale... l'unica vera... perché una scelta può essere soltanto libera... e cos'aveva di libero chi scattava sull'attenti davanti ai nazisti...? chi li aiutava a sterminare gli ebrei...? Volevo spiegargli che mai più nella vita ho saputo quello che dovevo fare con tanta certezza. Mai più. È stato una specie di momento magico.»[7]
  • Si ha l'impressione che "La notte dei morti viventi" sia a lungo rimasto vittima di un equivoco: l'idea che il film fosse non soltanto un film di genere, un horror, ma in particolare una sorta di capostipite dello splatter. Il che gli ha fruttato l'esilio nel territorio dei "film per appassionati". E invece "La notte dei morti viventi" è molto più simile a "Gli uccelli" di Alfred Hitchcock che a "Non aprite quella porta" di Tobe Hooper. La forza che ha turbato più d'una generazione di spettatori non è quella che scaturisce dall'esposizione di uno squartamento, dallo spettacolo "osceno" della carne martoriata. È più sottile, più profonda. La notte dei morti viventi è, prima che un film di genere che usa la morte per spaventare, uno dei più radicali film sulla morte che siano mai stati realizzati. Per questo, come il suo oggetto, continua – e continuerà a lungo – a affascinarci e sfuggirci, a attrarci e respingerci.[8]
  • [Su Assassinio sull'Orient Express] Uno tra i migliori adattamenti cinematografici di un romanzo di Agatha Christie. Il film, girato da Lumet nello stesso anno di «Serpico» e di «Amando Molly», e subito prima di «Quel pomeriggio di un giorno da cani», sfodera un cast che è troppo poco definire d'eccezione. Tutti sono perfettamente in parte, e la vicenda, già di per sé geniale, viene portata sullo schermo da un Lumet particolarmente ironico e raffinato.[9]

Note[modifica]

  1. Da Viaggio nella psiche per fare show?, La Stampa, 9 novembre 1991, p. 25.
  2. Da Non dimenticarti di respirare, Mursia, Milano, 2000, p. 222.
  3. Da Psicodramma, La sofferenza illumina la tv, La Stampa, 5 novembre 1991, p. 27.
  4. Da Tutto brucia, Garzanti, Milano, 2003, pp. 465-466.
  5. Da Malapianta, Baldini&Castoldi, Milano, 2016, p. 151.
  6. Da Se trovo il coraggio, Fandango Libri, Roma, 2013, pp. 44-45.
  7. Da I nostri occhi sporchi di terra, Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2009.
  8. Da George A.Romero. La notte dei morti viventi, Lindau, Torino, 1998.
  9. Da Assassinio sull'Orient Express, La Stampa, 14 dicembre 1991, p. 23.

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