Ugo Foscolo

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Ritratto di Ugo Foscolo (François-Xavier Fabre, 1813)

Niccolò Ugo Foscolo (1778 – 1827), poeta e scrittore italiano.

Citazioni di Ugo Foscolo[modifica]

  • ... Altissimo | Signor del sommo canto.[1]
  • Che Dante non amasse l'Italia, chi vorrà dirlo? Anch'ei fu costretto, come qualunque altro l'ha mai veracemente amata, o mai l'amerà, a flagellarla a sangue, e mostrarle tutta la sua nudità, sì che ne senta vergogna.[2]
  • Federigo II aspirava a riunire l'Italia sotto un solo principe, una sola forma di governo e una sola lingua; e tramandarla a' suoi successori potentissima fra le monarchie d'Europa [...].[3]
  • Gli errori umani, non ostante l'infinito lor numero, e la loro audacia naturale, e la loro ostinazione proveniente dall'ignoranza, cedono tosto o tardi alla voce del vero; bensì dove i governi e le sette sono interessate a sostenerli, anche gli errori degni di riso riescono formidabili e sacri, ogni qualvolta non sia libero il disputare contr'essi.[4]
  • [...] gli schiavi non sono, generalmente parlando, fatti dai tiranni, ma bensì gli schiavi fanno i tiranni.[5]
  • Gli scienziati sono per lo più cosmopoliti, perché le loro dottrine si esprimono per cifre e per segni d'alfabeto universale, e in guisa che sono intesi dagli scienziati di tutto il mondo, e si servono più di aritmetica che di eloquenza.[6]
  • I lazzaroni soltanto non avevano mai sentito parlare di diritti popolari, eccetto contro la santa inquisizione, che neppure Filippo II era riuscito a introdurre in Napoli. Il clima toglie ad essi di provare molti bisogni, e dà i mezzi di soddisfarli con poca fatica. L'ozio li mantiene nella superstizione e nel vizio, inducendoli a gettarsi disperatamente nelle insurrezioni ed a ritrarsene con altrettanta rapidità per amor d'inazione. Essi erano felicissimi sotto un governo assoluto, che dovunque è più incline a punire le pubbliche virtù dei sudditi più eminenti che i delitti dei più umili.[7]
  • Il dolore in chi manca di pane è più rassegnato.[8]
  • Il generale Pepe ha portato qui un gran numero di documenti importanti; e quel che più conta ci ha portato sé stesso, e dalla sua conversazione può aversi la chiave della rivoluzione napoletana.[9]
  • [...] il primo motore di tutte le azioni è la noia, la quale ci fa cercare occupazioni e desiderj nuovi, quando sono soddisfatti quelli che ci rodevano.[10]
  • Il ridicolo poi non è arme contra la tirannia così potente come si suole stimarla, perocché una nazione avvezza a ridersi di tutte le cose è tale che un governo la può insultare colla maggior sicurezza.[11]
  • [...] io temo che l'indagare l'origine delle facoltà umane e dell'arti intellettuali non sia le più volte uno de' mille tentativi più ambiziosi che utili, ne' quali i mortali sperdano l'ore e l'ingegno: e credo fermamente che l'uomo sia creato per tentare di conoscere non le fonti della sua esistenza, non la natura delle sue facoltà, non i principj delle arti; bensì per trovare e seguire il modo migliore a giovarsi delle facoltà, delle arti e della vita, onde ricavarne il maggior piacere possibile per sé stesso, e la maggiore possibile utilità per la comunità de' mortali.[12]
  • L'odio è la catena più grave insieme e più abietta, con la quale l'uomo possa legarsi all'uomo.[13]
  • L'opinione pubblica d'un popolo non si ritrova nelle abitudini, ne' pregiudizi, nelle teorie e nelle speranze d'una casta; anche meno nei sentimenti esaltati di alcuni cittadini, e nei delusi interessi di molti più, ma sì nell'umana natura, perciocché, date le medesime circostanze, si manifesta in tutti gli uomini, e sempre invariabile.[14]
  • Lavoro eterno! — | Paga il Governo.[15]
  • [...] la molta lettura riesce come una gran quantità di semenza stivata in poca terra: una parte vi germoglia e cresce a stento, impacciata dall'altra che rimane senza avere ottenuto i necessari umori per riprodursi.[16]
  • La vendetta è una passione di natura ignea; se le darete luogo ed aria, si svapora e si spegne; se la comprimerete, andrà serpeggiando insidiosa e scoppierà col delitto e col tradimento.[17]
  • Lettori miei, era opinione del reverendo Lorenzo Sterne, parroco in Inghilterra, che un sorriso possa aggiungere un filo alla trama brevissima della vita, ma pare che egli inoltre sapesse che ogni lacrima insegna a' mortali una verità. Poiché assumendo il nome di Yorick, antico buffone tragico, volle con parecchi scritti, e singolarmente in questo libricciuolo, insegnarci a conoscere gli altri in noi stessi, e a sospirare ad un tempo e a sorridere meno orgogliosamente su le debolezze del prossimo. Però io lo aveva, or son più anni, tradotto per me: ed oggi io credo d'essere una volta profittato delle sue lezioni, l'ho ritradotto, quanto meno letteralmente e quanto meno arbitrariamente ho saputo, per voi.
    Ma e voi, lettori, avvertite che l'autore era d'animo libero, e spirito bizzarro, ed argutissimo ingegno, segnatamente contro la vanità dei potenti, l'ipocrisia degli ecclesiastici e la servilità magistrale degli uomini letterati; pendeva anche all'amore e alla voluttà; ma voleva ad ogni parere, ed era forse, uomo dabbene e compassionevole seguace sincero dell'Evangelo, ch'egli interpretava a' fedeli. Quindi ci deride acremente, e insieme sorride con indulgente servilità; e gli occhi suoi scintillano di desiderio, par che si chinino vergognosi; e nel brio della gioia, sospira; e, mentre le sue immaginazioni prorompono tutte ad un tempo discordi e inquietissime, accendendo più che non dicono, ed usurpando frasi, voci ed ortografia, egli sa nondimeno ordinarle con l'apparente semplicità di certo stile apostolico e riposato.[18]
  • Lo stile assoluto e sicuro del libro dei Delitti e delle Pene e l'elegante trattato del Galiani sulle Monete vivranno nobile ed eterno retaggio tra noi.[19]
  • [...] Montaigne [...] stando sempre attentissimo al proprio cuore, ha filosofato imparzialmente sugli altri [...].[20]
  • Non son chi fui.[21]
  • [...] non vi esorterei ad andare randagi e mendichi colle mogli e i figliuoli in paese straniero. Moriamo in seno alla patria nostra; e quando ogni via di salute sarà spenta per la nostra città, bruciamola perché gl'infedeli possano trionfare solo sopra le nostre case ruinate e i nostri mutilati cadaveri.[22]
  • O Italiani, io vi esorto alle storie.[23]
  • [...] per far che i secoli tacciano di quel Trattato[24] che trafficò la mia patria, insospettì le nazioni e scemò dignità al tuo nome.[25]
  • [...] quel poco di felicità che si può sperar sulla terra consiste nel piacere a sé stessi; al che stimo indispensabili due cose: l'una, di seguire fedelmente i proprj principj; l'altra, di potere liberamente esercitare le facoltà del cuore e dell'intelletto.[26]
  • Questi è Monti poeta e cavaliero, | Gran traduttor dei traduttor d'Omero.[27]
  • [In Inghilterra] Qui la povertà è vergogna che nessun merito lava.[28]
  • [riferimento a La ballata dell'esilio di Guido Cavalcanti] Senza dolersi mai della vita che l'abbandona, fa solamente sentire la consunzione di tutte le forze vitali; e non altra sollecitudine se non se che l'anima venga pietosamente raccolta dalla sua donna. Quei tanti ritornelli di parole e di idee ripetute danno qui non so che grazia mista al patetico, che si sente ma non si descrive. Evvi anche lo artificio del chiaroscuro nei versi brevi che scorrono rapidi, dopo di essere stati preceduti dall'armonia lenta e grave degli endecasillabi.[29]
  • Te dunque, o Bonaparte, nomerò con inaudito titolo LIBERATORE DI POPOLI E FONDATORE DI REPUBBLICA. Così tu alto, solo, immortale, dominerai l'eternità, pari agli altri grandi nelle gesta e ne' meriti, ma a niuno comparabile nella intrapresa di fondare nazioni.[30]
  • Una o due ingiurie virilmente sofferte, rimandano il vituperio su chi le fa; ma, ove le siano continue e continuamente dissimulate, il silenzio dell'innocenza è ascritto a coscienza di colpa, e l'alterezza del forte a viltà.[31]
  • Una parte degli uomini opera senza pensare, l'altra pensa senza operare.[32]

Dei sepolcri[modifica]

Incipit[modifica]

All'ombra de' cipressi e dentro l'urne
confortate di pianto è forse il sonno
della morte men duro?

Citazioni[modifica]

  • A egregie cose il forte animo accendono | L'urne de' forti, o Pindemonte.[33]
  • A' generosi | Giusta di gloria dispensiera è morte.[33]
  • Anche la Speme, | ultima Dea, fugge i sepolcri; e involve | Tutte cose l'obblio nella sua notte. (16-18)
  • Celeste è questa | corrispondenza di amorosi sensi, | celeste dote è negli umani. (29)
  • Sol chi non lascia eredità d'affetti | Poca gioia ha dell'urna. (41-42)[33][34]
  • E tu gli ornavi del tuo riso i canti | che il lombardo pungean Sardanapalo | cui solo è dolce il muggito de' buoi, | che dagli antri abdüani e dal Ticino | lo fan d'ozi beato e di vivande.[35] (57)
  • E uscir del teschio, ove fuggìa la Luna, | l'ùpupa, e svolazzar su per le croci | sparse per la funerea campagna, | e l'immonda accusar col luttuoso | singulto i rai di che son pie le stelle | alle obblîate sepolture. (81-86)
  • Ahi! sugli estinti | Non sorge fiore, ove non sia d'umane | Lodi onorato e d'amoroso pianto. (88-90)
  • Gli occhi dell'uom cercan morendo | Il Sole: e tutti l'ultimo sospiro | Mandano i petti alla fuggente luce. (121-123)
  • Già il dotto e il ricco ed il patrizio vulgo, | decoro e mente al bello italo regno, | nelle adulate reggie ha sepoltura | già vivo, e i stemmi unica laude.[36] (142)
  • Quel grande | che temprando lo scettro a' regnatori | gli allòr ne sfronda, ed alle genti svela | di che lagrime grondi e di che sangue[37] (155-157)
  • E tu prima, Firenze, udivi il carme | che allegrò l'ira al Ghibellin fuggiasco, | e tu i cari parenti e l'idïoma | dèsti a quel dolce di Calliope labbro | che Amore in Grecia nudo e nudo in Roma | d'un velo candidissimo adornando, | rendea nel grembo a Venere Celeste. (173-179)
  • E a questi marmi | venne spesso Vittorio ad ispirarsi, | irato a' patrii Numi; errava muto | ove Arno è più deserto, i campi e il cielo | desîoso mirando; e poi che nullo | vivente aspetto gli molcea la cura, | qui posava l'austero; e avea sul volto | il pallor della morte e la speranza. | Con questi grandi abita eterno: e l'ossa | fremono amor di patria. (pp. 188-197)
  • E me che i tempi ed il desio d'onore | fan per diversa gente ir fuggitivo, | me ad evocar gli eroi chiamin le Muse | del mortale pensiero animatrici. Siedon custodi de' sepolcri, e quando | il tempo con sue fredde ale vi spazza | fin le rovine, le Pimplèe fan lieti | di lor canto i deserti, e l'armonia | vince di mille secoli il silenzio. (226-234)
  • E tu onore di pianti, Ettore, avrai, | ove fia santo e lagrimato il sangue | per la patria versato, e finché il Sole | risplenderà su le sciagure umane. (291-295)

Citazioni su Dei sepolcri[modifica]

  • I Sepolcri sono una cosa molto diversa dalle tragedie dell'Alfieri e dai canti del Parini, e a me pare che essi riescano, se mai, a uno scopo opposto da quelle propostosi dal poeta. Mi pare che dalla lettura dei Sepolcri si sia portati piuttosto a un senso indefinito e mesto d'ideale rassegnazione e di compianto, anziché all'esaltazione patriottica e all'entusiasmo della lotta. Eppure l'esaltazione patriottica del carme ha il posto centrale. Ma essa è soverchiata interamente dalle altre tendenze, certo assai più forti, melanconiche e pessimistiche, dell'animo del Foscolo. (Giuseppe Citanna)

Della servitù dell'Italia[modifica]

  • A rifare l'Italia bisogna disfare le sètte. (discorso primo, Considerazioni generali intorno alle parti, alle fazioni, e alle sètte in Italia; p. 186)
  • La guerra del Peloponeso ebbe principio dall'ingiusto eroismo di Pericle e de' suoi concittadini; e crudele progresso dalla stoltezza delle greche Città; e iniquo fine dagli Spartani, i quali se, come dovevano, avessero preservate le armi e le leggi delle greche Repubbliche, anziché abbandonarle a fazioni cittadinesche industriosamente corrotte, non avrebbero avvalorato la politica di Filippo [Filippo II di Macedonia], che poté impunemente poscia contaminare fin anche la religione de' giuramenti; e Sparta piegò con tutta la Grecia sotto a' Macedoni. (discorso primo, Considerazioni generali intorno alle parti, alle fazioni, e alle sètte in Italia; p. 202)
  • Il tempo, che in sé è indefinibile, si misura soltanto dagli avvenimenti, e quello è maggiore corso di tempo che mena seco più numerosi, più forti e più memorabili eventi. (discorso terzo, Opinione de' diplomatici, dei filosofi e dei politici intorno alla questione della indipendenza italiana, § Opinioni de' filosofi; p. 242)

Epistolario[modifica]

Citazioni in ordine temporale.

  • [...] è dovere dell'uomo morale di non vivere nell'avvilimento a carico della società.[38] (a Containi Costabili, 20 novembre 1798)
  • E il biasimo dietro le spalle è pure la buona cosa! si può profittarne senza essere obbligati, e l'amor proprio non è ferito.[39] (a Ferdinando Arrivabene, 1802)
  • [...] chi preferisce l'onore alla vita è padrone di tutti coloro che vogliono avvilirlo.[40] (ad Antonietta Arese, 1803)
  • [...] facilmente si accusa d'indole violenta chi rispinge le ingiurie con coraggio; e chi si mostra generosamente qual è, dà il fianco alle ferite più di colui che si copre col manto dell'ipocrisia.[41] (a Melzi, 14 giugno 1804)
  • Si può bensì anche in mezzo alle ingiustizie sentirsi giusto, forte e libero; e la dignità dell'uomo si vendica più nel sopportare nobilmente, che nel lamentarsi e gridare invano.[42] (a Giambattista Giovio, 29 gennaio 1808)
  • La noja proviene o da debolissima coscienza dell'esistenza nostra, per cui non ci sentiamo capaci di agire, o da coscienza eccessiva, per cui vediamo di non poter agire quanto vorremmo.[43] (a Giambattista Giovio, 29 settembre 1808)
  • La vita, pur troppo, non è che agitazione; agitazione alterna e perpetua, simile al pendolo d'un oriuolo: arrestato il pendolo, le ruote non si muovono più; spente le passioni, e le loro illusioni, non vi è più corda; le ore dell'uomo non progrediscono più, e l'assoluta tranquillità di ogni ente mortale comincia col silenzio, con l'oscurità, e si compie con l'eterna dissoluzione.[43] (a Giambattista Giovio, 29 settembre 1808)
  • L'arte non consiste nel rappresentare cose nuove, bensì nel rappresentare con novità.[44] (al sig. Bartholdy, 29 settembre 1808)
  • La miseria è da fuggirsi, non la povertà: ed io vedo miseri ed indigenti, e perseguitati da' creditori, ed esulcerati da' bisogni quotidiani molti uomini tenuti ricchi, ma tranquilli ad un tempo; e onorati molti altri che hanno la saviezza e l'arte di spendere quel poco che possono senza intaccare l'altrui, quantunque il mondo li creda poveri, e li compianga talvolta, e spesso li fugga, perché non sono né protetti né protettori.[45] (a Giambattista Giovio, 12 marzo 1809)
  • Per me stimo il danaro da più di tutte quelle cose che il danaro può dare, e da meno delle cose che il danaro non può dare, e che pure sono ottime a questa misera vita degli uomini.[45] (a Giambattista Giovio, 12 marzo 1809)
  • [...] le sciocche e laide abitudini sono le corruzioni della nostra natura.[46] (a Giambattista Giovio, 1 maggio 1809)
  • [...] una battaglia, per quanto sia prospera, dissangua anche il vincitore.[47] (a Giambattista Giovio, 8 maggio 1809)
  • [...] le passioni passano, ma le sciagure restano perpetue nella nostra vita; e se non possiamo evitarle, non dobbiamo almeno esacerbarle co' nostri rimorsi, e renderle irremediabili.[48] (alla signora F. Giovio, 19 agosto 1809)
  • [...] gli uomini sono pronti a ripigliarsi la stima che concedono, quando non la vedano alimentata da molte e perpetue prove di fatti.[49] (a Giambattista Giovio, 8 novembre 1811)
  • [...] quando per giovar debolmente ad altri si corre rischio di nuocere gravemente a se stessi, l'intricarsene è pazzia da bastone [...].[50] (alla famiglia, 5 agosto 1812)
  • [Le] particelle [...] in ogni idioma sono le vere e sole giunture delle idee principali del discorso: danno inoltre i toni i mezzitoni come nella musica; ed ajutano lo scrittore a quel chiaroscuro che tanto è più grato, quanto le minime tinte che lo distinguono spiccano meno.[51] (a Giovanni Paolo Schulthesius, 27 agosto 1812)
  • [...] io credo fermamente che la grammatica s'abbia ad insegnare a chi sa praticamente la lingua. S'impara a combinare infinitamente prima su lo scacchiere, e poi sul libro; datemi il libro prima dello scacchiere, ed io diverrò dottore e ignorante ad un tempo: la teoria insomma deve nella lingua, come forse in tutte le discipline, succedere alla pratica, perché non s'hanno mai nozioni generali e quindi regole sicure, senza risalirvi per le particolari.[52] (a Giovanni Paolo Schulthesius, 27 agosto 1812)
  • Sappi che la malignità, la cattiveria, e l'ignoranza sono bestie ferocissime perché sono codarde; e perché sono codarde s'avventano sopra il debole, e tremano dinanzi a chi si difende.[53] (a Sigismondo Trechi, 1 ottobre 1812)
  • [...] l'umana prudenza prevede, ma non provvede.[54] (alla contessa d'Albany, 4 settembre 1813)
  • [La] malinconia, [...] dopo la noja, è la più vile infermità de' mortali; perché è infermità inoperosa, ingrata alla natura, freddissima nei desiderj, fantastica in tutto fuorché ad illudersi delle promesse della speranza.[55] (a Sigismondo Trechi, settembre 1813)
  • [...] la maggiore e più stolta incoerenza si è quella di voler fare a modo del mondo, temendo più le sue opinioni, che i giudizj della nostra propria coscienza.[56] (alla contessa d'Albany, 23 maggio 1814)
  • La Provvidenza non abbandona mai chi non abbandona se stesso.[57] (alla madre, 15 giugno 1814)
  • [...] non v'è animale più invidioso del letterato [...].[58] (alla contessa d'Albany, 1 novembre 1814)
  • La natura ha creato il genere umano in perpetuo stato di guerra: mancano le armi, si corre alle ingiurie; manca il coraggio di ingiuriare francamente ed a viso aperto, e' si piglia la maschera dell'amicizia. Noi, per farci onore nel mondo e per tranquillare la nostra propria coscienza, ci fidiamo più sopra i vizj degli altri, che su le nostre proprie virtù.[59] (alla contessa d'Albany, 13 novembre 1814)
  • [...] le accuse che si danno privatamente, e con l'orpello della compassione, sono le più credute, e fanno piaga insanabile [...].[59] (alla contessa d'Albany, 13 novembre 1814)
  • [...] è meglio esser uomo senza danari, che l'aver danari senz'essere uomo.[60] (ad Alvise Curzola Giacinto, 15 novembre 1814)
  • [...] in tutte le cose v'è il male e il bene; basta saperli distinguere: rassegnarsi al male, e giovarsi del bene.[61] (alla famiglia, 28 ottobre 1815)
  • [...] non può essere mai che l'uomo giusto e compassionevole sia davvero infelice, e in tutti i guai la sua propria coscienza gli serve di consolazione e di usbergo.[62] (alla famiglia, 30 dicembre 1815)
  • [...] il disprezzare non è da tutti.[63] (alla Donna gentile, 28 gennaio 1816)
  • [...] la troppa età è data dal cielo in pena del desiderio di troppo vivere.[64] (a Lady Dacre, 8 agosto 1823)
  • Il dissimulare nella vita umana riesce inevitabile spesso; e la necessità lo giustifica, perché chiunque non sa tacere o trovar espediente di nascondere il proprio secreto agli indagatori indiscreti si espone alla curiosità e alla malignità dei tristi, che non sono né inattivi, né in poco numero. Ma il simulare è altra cosa, perché la simulazione, è l'arte perfida di mostrare quello che è falso, affine di scoprire quello che è vero e impadronirsi dell'altrui secreto. Sì fatta arte nessuna necessità la giustifica [...].[65] (a Giovanni Berra, 8 agosto 1826)
  • [...] la lingua italiana non è stata mai parlata: [...] è lingua scritta, e non altro; e perciò letteraria, e non popolare; – e [...] se mai verrà giorno che le condizioni d'Italia la facciano lingua scritta insieme e parlata, e letteraria e popolare ad un tempo, allora le liti e i pedanti andranno al diavolo e dentro ai vortici del fiume Lete in anima e in corpo, e i letterati non somiglieranno più a' mandarini, e i dialetti non predomineranno nelle città capitali d'ogni provincia: la Nazione non sarà moltitudine di Chinesi, ma Popolo atto ad intender ciò che si scrive, e giudice di lingua e di stile [...].[66] (a Gino Capponi, 26 settembre 1826)

Le Grazie[modifica]

Incipit[modifica]

Alle Grazie immortali
le tre di Citerea figlie gemelle
è sacro il tempio, e son d'Amor sorelle;
nate il dì che a' mortali
beltà ingegno virtù concesse Giove,
onde perpetue sempre e sempre nuove
le tre doti celesti
e più lodate e più modeste ognora
le Dee serbino al mondo. Entra ed adora.

Inno primo, Venere[modifica]

  • Cantando, o Grazie, degli eterei pregi | di che il cielo v'adorna, e della gioia | che vereconde voi date alla terra, | belle vergini! a voi chieggo l'arcana | armonïosa melodia pittrice | della vostra beltà; sì che all'Italia | afflitta di regali ire straniere | voli improvviso a rallegrarla il carme. (vv. 1-8)
  • Sdegno il verso che suona e che non crea. (v. 25)

Inno secondo, Vesta[modifica]

  • Tre vaghissime donne a cui le trecce | infiora di felici itale rose | giovinezza, e per cui splende più bello | sul lor sembiante il giorno, all'ara vostra | sacerdotesse, o care Grazie, io guido. (vv. 1-5)
  • Ma se danza, | vedila! tutta l'armonia del suono scorre dal suo bel corpo, e dal sorriso | della sua bocca; e un moto, un atto, un vezzo | manda agli sguardi venustà improvvisa. (vv. 590-594)

Inno terzo, Pallade[modifica]

  • Pari al numero lor volino gl'inni | alle vergini sante, armonïosi | del peregrino suono uno e diverso | di tre favelle. Intento odi, Canova; | ch'io mi veggio d'intorno errar l'incenso, | qual si spandea sull'are a' versi arcani | d'Anfïone: presente ecco il nitrito | de' corsieri dircèi; benché Ippocrene | li dissetasse, e li pascea dell'aure | Eolo, e prenunzia un'aquila volava, | e de' suoi freni li adornava il Sole, | pur que' vaganti Pindaro contenne | presso il Cefiso, ed adorò le Grazie. (vv. 1-13)
  • Tornino i grandi | Occhi fatali al lor natio sorriso. (vv. 276-277)

Citazioni su Le Grazie[modifica]

  • La poesia si lavora e si libra su se stessa. L'intensità espressiva tocca i vertici. Per un processo di purificazione piena, l'autobiografia si fa oggetto. La tendenza è nuova, e sormonta di tanto il proprio tempo da rimanere un po' incerta nel Foscolo stesso. La lirica pura, quale i moderni più avvertono e alla quale più tendono con concentrati richiami, dopo le estreme esperienze romantiche fino al surrealismo, questa lirica supremamente oggettiva, è colta dal Foscolo prima d'ogni altro, è raggiunta con acutezza profetica: e ciò che nella cosiddetta poesia della decadenza era sincero moto poetico e non mistura o filtro è già attuato nelle Grazie in forma classica; ed è pur vero che di questa acerba bellezza, partendo dalle Grazie, si troveranno i primi moti anche nella precedente poesia foscoliana: per questa parte non v'è poesia di domani, neppure quella del Leopardi, che la raggiunga. E anzi, soltanto oggi, stimolati dalle esperienze analogiste, possiamo intendere il miglior segreto di quella poesia, e riconoscere nel Foscolo la più scaltra coscienza lirica dell'ottocento italiano. (Francesco Flora)

Le odi[modifica]

Incipit[modifica]

A Gio. Batista Niccolini
fiorentino


A te, giovinetto di belle speranze io dedico questi versi: non perché ti siano di esempio, chè né io professo poesia, né li stampo cercando onore, ma per rifiutare così tutti gli altri da me per vanità giovanile già divolgati. Ti saranno bensì monumento della nostra amicizia, e sprone ad onta delle tue disavventure, alle lettere veggendo che tu sei caro [p. 18]a chi le coltivò, forse con debole ingegno, ma con generoso animo. E la sola amicizia può vendicare gli oltraggi della fortuna, e guidare senza adulazioni gl'ingegni sorgenti alla gloria.

Milano, 2 aprile 1803
ugo foscolo.

Citazioni[modifica]

  • E in te beltà rivive, | l'aurea beltate ond'ebbero | ristoro unico a' mali | le nate a vaneggiar menti mortali. (All'amica risanata, vv. 9-12)
  • Fiorir sul caro viso | veggo la rosa; tornano | i grandi occhi al sorriso | insidïando. (All'amica risanata, vv. 13-16)
  • Itale genti, se Virtù suo scudo / su voi non stende, Libertà vi nuoce. (A Bonaparte liberatore, vv. 223-224)

Notizia intorno a Didimo Chierico[modifica]

Incipit[modifica]

Un nostro concittadino mi raccomandò, mentr'io militava fuori d'Italia, tre suoi manoscritti affinché se agli uomini dotti parevano meritevoli della stampa, io rimpatriando li pubblicassi. Esso andava pellegrinando per trovare un'università, dove, diceva egli, s'imparasse a comporre libri utili per chi non è dotto, ed innocenti per chi non è per anche corrotto; da che tutte le scuole d'Italia gli parevano piene o di matematici, i quali standosi muti s'intendevano fra di loro; o di grammatici che ad alte grida insegnavano il bel parlare e non si lasciavano intendere ad anima nata; o di poeti che impazzavano a stordire chi non li udiva, e a dire il benvenuto a ogni nuovo padrone de' popoli, senza fare né piangere, né ridere il mondo; e però come fatui noiosi, furono più giustamente d'ogni altro esiliati da Socrate, il quale, secondo Didimo, era dotato di spirito profetico, specialmente per le cose che accadono all'età nostra.

Citazioni[modifica]

  • [...] la vera sapienza consiste nel giovarsi di quelle poche verità che sono certissime a' sensi; perché o sono dedotte da una serie lunga di fatti, o sono sì pronte che non hanno bisogno di dimostrazioni scientifiche. (IX)
  • [...] a chi non ha patria non istà bene l'essere sacerdote, né padre. (XII)

Sonetti[modifica]

  • Forse perché della fatal quïete | tu sei l'immago a me sì cara vieni | o Sera! (Alla sera, vv. 1-3)
  • E mentre io guardo la tua pace, dorme | quello spirto guerrier ch'entro mi rugge. (Alla sera, vv. 13-14)
  • Amor fra l'ombre inferne | seguirammi immortale, onnipotente. (Meritamente, vv. 13-14)
  • Né più mai toccherò le sacre sponde | ove il mio corpo fanciulletto giacque, | Zacinto mia, che te specchi nell'onde | del greco mar da cui vergine nacque | Venere [...]. (A Zacinto, vv. 1-5)
  • [...] Colui che l'acque | cantò fatali [...]. (A Zacinto, vv. 8-9)
  • [...] bello di fama e di sventura | baciò la sua petrosa Itaca Ulisse. (A Zacinto, vv. 10-11)
  • Tu non altro che il canto avrai del figlio, | o materna mia terra, a noi prescrisse | il fato illacrimata sepoltura. (A Zacinto, vv. 12-14)
  • Un dì, s'io non andrò sempre fuggendo | di gente in gente, me vedrai seduto | su la tua pietra, o fratel mio, gemendo | il fior de' tuoi gentili anni caduto. (In morte del fratello Giovanni, vv. 1-4)
  • Breve è la vita, e lunga è l'arte. (Che stai?, v. 12)

Ultime lettere di Jacopo Ortis[modifica]

Incipit[modifica]

Da' colli Euganei, 11 ottobre 1797.
Il sacrificio della patria nostra è consumato: tutto è perduto; e la vita, seppure ne verrà concessa, non ci resterà che per piangere le nostre sciagure, e la nostra infamia. Il mio nome è nella lista di proscrizione, lo so; ma vuoi tu ch'io per salvarmi da chi m'opprime mi commetta a chi mi ha tradito? Consola mia madre: vinto dalle sue lagrime le ho ubbidito, e ho lasciato Venezia per evitare le prime persecuzioni, e le più feroci. Or dovrò io abbandonare anche questa mia solitudine antica, dove, senza perdere dagli occhi il mio sciagurato paese, posso ancora sperare qualche giorno di pace? Tu mi fai raccapricciare, Lorenzo: quanti sono dunque gli sventurati? E noi, pur troppo, noi stessi Italiani ci laviamo le mani nel sangue degl'Italiani. Per me segua che può. Poiché ho disperato e della mia patria e di me, aspetto tranquillamente la prigione e la morte. Il mio cadavere almeno non cadrà fra braccia straniere; il mio nome sarà sommessamente compianto da' pochi uomini buoni, compagni delle nostre miserie; e le mie ossa poseranno su la terra de' miei padri.[67]

Citazioni[modifica]

  • Che è mai l'uomo? Il coraggio fu sempre dominatore dell'universo perché tutto è debolezza e paura.
  • Gli amori della moltitudine sono brevi ed infausti; giudica, più che dall'intento, dalla fortuna; chiama virtù il delitto utile, e scelleraggine l'onestà che le pare dannosa; e per avere i suoi plausi conviene o atterrirla, o ingrassarla, e ingannarla sempre. (4 dicembre; Parini a Ortis)
  • Il coraggio non deve dare diritto per opprimere il debole.
  • La fama degli eroi spetta un quarto alla loro audacia; due quarti alla sorte, e l'altro quarto, ai loro delitti. Pur se ti reputi bastevolmente fortunato e crudele per aspirare a questa gloria, pensi tu che i tempi te ne porgano i mezzi? (4 dicembre; Parini a Ortis)
  • La Natura siede qui solitaria e minacciosa, e caccia da questo suo regno tutti i viventi. (20 febbraio)
  • Noi chiamiamo pomposamente virtù tutte quelle azioni che giovano alla sicurezza di chi comanda e alla paura di chi serve.
  • Sciagurati coloro che, per non essere scellerati, hanno bisogno della religione.
  • Se gli uomini si conducessero sempre al fianco la morte, non servirebbero sì vilmente.
  • La Ragione? – è come il vento; ammorza le faci, ed anima gl'incendj. (Milano, 6 Febbraio 1799)
  • Ma gli onori e la tranquillità del mio secolo guasto meritano forse di essere acquistati col sacrificio dell'anima? Forse più che l'amore della virtù, il timore della bassezza m'ha rattenuto alle volte da quelle colpe, che sono rispettate ne' potenti, tollerate ne' più ma che, per non lasciare senza vittime il simulacro della giustizia, sono punite nei miseri. (Padova)
  • [Ultime parole] Ma io moro incontaminato, e padrone di me stesso, e pieno di te, e certo del tuo pianto! Perdonami, Teresa, se mai – ah consolati, e vivi per la felicità de' nostri miseri genitori; la tua morte farebbe maledire le mie ceneri. Che se taluno ardisse incolparti del mio infelice destino, confondilo con questo mio giuramento solenne ch'io pronunzio gittandomi nella notte della morte: Teresa è innocente. – Ora tu accogli l'anima mia. (Venerdì, ore 1)

Parte prima[modifica]

  • Credo che il desiderio di sapere e ridire la storia de' tempi andati sia figlio del nostro amor proprio che vorrebbe illudersi e prolungare la vita unendoci agli uomini ed alle cose che non sono più, e facendole, sto per dire, di nostra proprietà. Ama la immaginazione di spaziare fra i secoli e di possedere un altro universo. (23 ottobre; 2004, pp. 14-15)
  • Io non odio persona al mondo, ma vi sono cert'uomini ch'io ho bisogno di vedere soltanto da lontano. (1º novembre; 1801, p. 25)
  • Cos'è l'uomo se tu lo abbandoni alla sola ragione fredda, calcolatrice? scellerato, e scellerato bassamente. (1º novembre; 2004, p. 19)
  • Non sono felice! mi disse Teresa; e con questa parola mi strappò il cuore. (20 novembre; 2004, p. 24)
  • Facciamo tesoro di sentimenti cari e soavi i quali ci ridestino per tutti gli anni, che ancora forse tristi e perseguitati ci avanzano, la memoria che non siamo sempre vissuti nel dolore. (20 novembre; 2004, p. 28)
  • Pare a te, mio Lorenzo, che se l'avversità ci riducesse a domandare del pane, vi sarebbe taluno memore delle sue promesse? o nessuno, o qualche astuto soltanto, che co' suoi beneficj vorrebbe comperare il nostro avvilimento. Amici da bonaccia, nelle burrasche ti annegano. Per costoro tutto è calcolo in fondo. Onde se v'ha taluno nelle cui viscere fremano le generose passioni, o le deve strozzare, o rifuggirsi come le aquile e le fiere magnanime ne' monti inaccessibili e nelle foreste lungi dalla invidia e dalla vendetta degli uomini. Le sublimi anime passeggiano sopra le teste della moltitudine che oltraggiata dalla loro grandezza tenta d'incatenarle o di deriderle, e chiama pazzie le azioni ch'essa immersa nel fango non può, non che ammirare, conoscere. – Io non parlo di me; ma quand'io ripenso agli ostacoli che frappone la società al genio ed al cuore dell'uomo, e come ne' governi licenziosi o tirannici tutto è briga, interesse e calunnia – io m'inginocchio a ringraziar la Natura che dotandomi di questa indole nemica di ogni servitù, mi ha fatto vincere la fortuna e mi ha insegnato a innalzarmi sopra la mia educazione. So che la prima, sola, vera scienza è questa dell'uomo la quale non si può studiare nella solitudine, e ne' libri: e so che ognuno dee prevalersi della propria fortuna, o dell'altrui per camminare con qualche sostegno su i precipizj della vita. (Padova; 2004, p. 39)
  • Sai tu perché fra la turba de' dotti gli uomini sommi son così rari? Quello istinto ispirato dall'alto che costituisce il genio non vive se non se nella indipendenza e nella solitudine, quando i tempi vietandogli d'operare, non gli lasciano che lo scrivere. Nella società si legge molto, non si medita, e si copia; parlando sempre, si svapora quella bile generosa che fa sentire, pensare, e scrivere fortemente: per balbettar molte lingue, si balbetta anche la propria, ridicoli a un tempo agli stranieri e a noi stessi: dipendenti dagl'interessi, dai pregiudizj, e dai vizj degli uomini fra' quali si vive, e guidati da una catena di doveri e di bisogni, si commette alla moltitudine la nostra gloria, e la nostra felicità: si palpa la ricchezza e la possanza, e si paventa perfino di essere grandi perché la fama aizza i persecutori, e l'altezza di animo fa sospettare i governi; e i principi vogliono gli uomini tali da riescire né eroi, né incliti scellerati mai. (Padova, 23 dicembre; 2004, pp. 42-43)
  • Io non lo so; ma, per me, temo che la Natura abbia costituito la nostra specie quasi minimo anello passivo dell'incomprensibile suo sistema, dotandone di cotanto amor proprio, perché il sommo timore e la somma speranza creandoci nella immaginazione una infinita serie di mali e di beni, ci tenessero pur sempre affannati di questa esistenza breve, dubbia, infelice. E mentre noi serviamo ciecamente al suo fine, essa ride del nostro orgoglio che ci fa reputare l'universo creato solo per noi, e noi soli degni e capaci di dar leggi al creato. (19 gennajo; 2004, p. 45)
  • [...] il non conoscere gli uomini è pur cosa pericolosa; ma il conoscerli, quando non s'ha cuore di volerli ingannare, è pur cosa funesta! (17 marzo; 1912, p. 288)
  • La volontà forte e la nullità di potere in chi sente una passione politica lo fanno sciaguratissimo dentro di sè: e se non tace, lo fanno parere ridicolo al mondo; si fa la figura di paladino da romanzo e d'innamorato impotente della propria città. (17 marzo; 2004, p. 53)
  • La gloria, il sapere, la gioventù, le ricchezze, la patria, tutti fantasmi che hanno fino ad or recitato nella mia commedia, non fanno più per me. Calerò il sipario; e lascierò che gli altri mortali s'affannino per accrescere i piaceri e menomare i dolori d'una vita che ad ogni minuto s'accorcia, e che pure que' meschini se la vorrebbero persuadere immortale. (17 marzo; 2004, p. 54)
  • [...] sente assai poco la propria passione, o lieta o trista che sia, chi sa troppo minutamente descriverla. (3 aprile; 2004, pp. 54-55)
  • Per questo l'uomo dabbene in mezzo a' malvagi rovina sempre; e noi siam soliti ad associarci al più forte, a calpestare chi giace, e a giudicar dall'evento. (17 aprile; 2004, p. 59)
  • [A Teresa e Odoardo, in un dialogo riportato] Coloro che non furono mai sventurati, non sono degni della loro felicità. Orgogliosi! guardano la miseria per insultarla: pretendono che tutto debba offerirsi in tributo alla ricchezza e al piacere. Ma l'infelice che serba la sua dignità è spettacolo di coraggio a' buoni, e di rimbrotto a' malvagi. (17 aprile; 2004, p. 60)
  • Io non ho l'anima negra; e tu il sai, mio Lorenzo; nella mia prima gioventù avrei sparso fiori su le teste di tutti i viventi: chi mi ha fatto così rigido e ombroso verso la più parte degli uomini se non la loro ipocrita crudeltà? Perdonerei tutti i torti che mi hanno fatto. Ma quando mi passa dinanzi la venerabile povertà che mentre s'affatica mostra le sue vene succhiate dalla onnipotente opulenza; e quando io vedo tanti uomini infermi, imprigionati, affamati, e tutti supplichevoli sotto il terribile flagello di certe leggi – ah no, io non mi posso riconciliare. Io grido allora vendetta con quella turba di tapini co' quali divido il pane e le lagrime: e ardisco ridomandare in lor nome la porzione che hanno ereditato dalla Natura, madre benefica ed imparziale – la Natura? ma se ne ha fatti quali pur siamo, non è forse matrigna?
    Sì, Teresa, io vivrò teco; ma io non vivrò se non quanto potrò vivere teco. Tu sei uno di que' pochi angioli sparsi qua e là su la faccia della terra per accreditare la virtù, ed infondere negli animi perseguitati ed afflitti l'amore dell'umanità. Ma s'io ti perdessi, quale scampo si aprirebbe a questo giovine infastidito di tutto il resto del mondo? (17 aprile; 2004, p. 61)
  • [Ai morti] Abbiate pace, o nude reliquie: la materia è tornata alla materia; nulla scema, nulla cresce, nulla si perde quaggiù; tutto si trasforma e si riproduce – umana sorte! men infelice degli altri chi men la teme. (13 maggio; 2004, pp. 74-75)
  • Ci fabbrichiamo la realtà a nostro modo; i nostri desideri si vanno moltiplicando con le nostre idee; sudiamo per quello che vestito diversamente ci annoja; e le nostre passioni non sono alla stretta del conto che gli effetti delle nostre illusioni. (25 maggio; 2004, p. 83)

Parte seconda[modifica]

  • Spogliati dagli uni, scherniti dagli altri, traditi sempre da tutti, abbandonati da' nostri medesimi concittadini, i quali anziché compiangersi e soccorrersi nella comune calamità, guardano come barbari tutti quegl'Italiani che non sono della loro provincia, e dalle cui membra non suonano le stesse catene – dimmi, Lorenzo, quale asilo ci resta? (Firenze, 25 settembre; 2004, p. 117)
  • [A Lorenzo] Siati questa l'unica risposta a' tuoi consiglj. In tutti i paesi ho veduto gli uomini sempre di tre sorta: i pochi che comandano; l'universalità che serve; e i molti che brigano. Noi non possiam comandare, né forse siam tanto scaltri; noi non siam ciechi, né vogliamo ubbidire; noi non ci degniamo di brigare. E il meglio è vivere come que' cani senza padrone a' quali non toccano né tozzi né percosse. (Milano, 4 dicembre; 2004, p. 120)
  • Gonfj del presente, spensierati dell'avvenire, poveri di fama, di coraggio e d'ingegno, si armano di adulatori e di satelliti, da' quali, quantunque spesso traditi e derisi, non sanno più svilupparsi: perpetua ruota di servitù, di licenza e di tirannia. Per essere padroni e ladri del popolo conviene prima lasciarsi opprimere, depredare, e conviene leccare la spada grondante del tuo sangue. Così potrei forse procacciarmi una carica, qualche migliajo di scudi ogni anno di più, rimorsi, ed infamia. Odilo un'altra volta: Non reciterò mai la parte del piccolo briccone. (Milano, 4 dicembre; 2004, p. 121)
  • Addio, mi disse [Parini], o giovine sfortunato. Tu porterai da per tutto e sempre con te le tue generose passioni alle quali non potrai soddisfare giammai. Tu sarai sempre infelice. Io non posso consolarti co' miei consiglj, perché neppure giovano alle sventure mie derivanti dal medesimo fonte. Il freddo dell'età ha intorpidite le mie membra; ma il cuore – veglia ancora. Il solo conforto ch'io possa darti è la mia pietà: e tu la porti tutta con te. (Ore 3; 2004, p. 130)
  • Tu sei disperatamente infelice; tu vivi fra le agonie della morte, e non hai la sua tranquillità: ma tu dèi tollerarle per gli altri. – Così la Filosofia domanda agli uomini un eroismo da cui la Natura rifugge. Chi odia la propria vita può egli amare il minimo bene che è incerto di recare alla Società e sacrificare a questa lusinga molti anni di pianto? e come potrà sperare per gli altri colui che non ha desiderj, né speranze per sè; e che abbandonato da tutto, abbandona se stesso? – Non sei misero tu solo. – Pur troppo! ma questa consolazione non è anzi argomento dell'invidia secreta che ogni uomo cova dell'altrui prosperità? La miseria degli altri non iscema la mia. Chi è tanto generoso da addossarsi le mie infermità? e chi anco volendo, il potrebbe? avrebbe forse più coraggio da comportarle; ma cos'è il coraggio voto di forza? Non è vile quell'uomo che è travolto dal corso irresistibile di una fiumana; bensì chi ha forze da salvarsi e non le adopra. Ora dov'è il sapiente che possa costituirsi giudice delle nostre intime forze? chi può dare norma agli effetti delle passioni nelle varie tempre degli uomini e delle incalcolabili circostanze onde decidere: Questi è un vile, perché soggiace; quegli che sopporta, è un eroe? mentre l'amore della vita è così imperioso che più battaglia avrà fatto il primo per non cedere, che il secondo per sopportare.
    Ma i debiti i quali tu hai verso la Società? – Debiti? forse perché mi ha tratto dal libero grembo della Natura, quand'io non aveva né la ragione, né l'arbitrio di acconsentirvi, né la forza di opporvimi, e mi educo fra' suoi bisogni e fra' suoi pregiudizj? [...] Ho io contratto questi debiti spontaneamente? e la mia vita dovrà pagare, come uno schiavo, i mali che la Società mi procaccia, solo perché gli intitola beneficj? e sieno beneficj: ne godo e li ricompenso fino che vivo; e se nel sepolcro non le sono io di vantaggio, qual bene ritraggo io da lei nel sepolcro? O amico mio! ciascun individuo è nemico nato della Società, perché la Società è necessaria nemica degli individui. Poni che tutti i mortali avessero interesse di abbandonare la vita, credi tu che la sosterrebbero per me solo? e s'io commetto un'azione dannosa a' più, io sono punito; mentre non mi verrà fatto mai di vendicarmi delle loro azioni, quantunque ridondino in sommo mio danno. Possono ben essi pretendere ch'io sia figliuolo della grande famiglia; ma io rinunziando e a' beni e a' doveri comuni posso dire: Io sono un mondo in me stesso: e intendo d'emanciparmi perché mi manca la felicità che mi avete promesso. Che s'io dividendomi non trovo la mia porzione di libertà; se gli uomini me l'hanno invasa perché sono più forti; se mi puniscono perché la ridomando – non gli sciolgo io dalle loro bugiarde promesse e dalle mie impotenti querele cercando scampo sotterra? Ah! que' filosofi che hanno evangelizzato le umane virtù, la probità naturale, la reciproca benevolenza – sono inavvedutamente apostoli degli astuti, ed adescano quelle poche anime ingenue e bollenti le quali amando schiettamente gli uomini per l'ardore di essere riamate, saranno sempre vittime tardi pentite della loro leale credulità. –
    Eppur quante volte tutti questi argomenti della ragione hanno trovata chiusa la porta del mio cuore, perch'io tuttavia mi sperava di consecrare i miei tormenti all'altrui felicità! Ma! – per il nome d'Iddio, ascolta e rispondimi. A che vivo? di che pro ti son io, io fuggitivo fra queste cavernose montagne? di che onore a me stesso, alla mia patria, a' miei cari? V'ha egli diversità da queste solitudini alla tomba? La mia morte sarebbe per me la meta de' guai, e per voi tutti la fine delle vostre ansietà sul mio stato. Invece di tante ambasce continue, io vi darei un solo dolore – tremendo, ma ultimo: e sareste certi della eterna mia pace. I mali non ricomprano la vita. (Ventimiglia, 19 e 20 febbraro; 2004, pp. 137-139)
  • [Da un frammento del 5 marzo] Che se nella vita è il dolore, in che più sperare? nel nulla; o in un'altra vita diversa sempre da questa. – Ho dunque deliberato; non odio disperatamente me stesso; non odio i viventi. Cerco da molto tempo la pace; e la ragione mi addita sempre la tomba. Quante volte sommerso nella meditazione delle mie sventure io cominciava a disperare di me! L'idea della morte dileguava la mia tristezza, ed io sorrideva per la speranza di non vivere più. – Sono tranquillo, tranquillo imperturbabilmente. Le illusioni sono svanite; i desiderj son morti: le speranze e i timori mi hanno lasciato libero l'intelletto. Non più mille fantasmi ora giocondi ora tristi confondono e traviano la mia immaginazione: non più vani argomenti adulano la mia ragione; tutto è calma. – Pentimenti sul passato, noja del presente, e timor del futuro; ecco la vita. La sola morte, a cui è commesso il sacro cangiamento delle cose, promette pace. (Ore 11 della sera; 2004, p. 147)
  • [Da un frammento] Che arroganza! credermi necessario! – gli anni miei sono nello incircoscritto spazio del tempo un attimo impercettibile. (Mezzanotte; 2004, p. 155)
  • [Da un passo di Pascal liberamente tradotto] Io non so né perché venni al mondo; né come; né cosa sia il mondo, né cosa io stesso mi sia. E s'io corro ad investigarlo, mi ritorno confuso d'una ignoranza sempre più spaventosa. Non so cosa sia il mio corpo, i miei sensi, l'anima mia; e questa stessa parte di me che pensa ciò ch'io scrivo, e che medita sopra di tutto e sopra se stessa, non può conoscersi mai. Invano io tento di misurare con la mente questi immensi spazj dell'universo che mi circondano. Mi trovo come attaccato a un piccolo angolo di uno spazio incomprensibile, senza sapere perché sono collocato piuttosto qui che altrove; o perché questo breve tempo della mia esistenza sia assegnato piuttosto a questo momento dell'eternità che a tutti quelli che precedevano, e che seguiranno. Io non vedo da tutte le parti altro che infinità le quali mi assorbono come un atomo. (20 marzo, a sera; 2004, p. 160)

Explicit[modifica]

Appena io giunsi da Padova ove m'era convenuto indugiare più ch'io non voleva, fui sopraffatto dalla calca de' contadini che s'affollavano muti sotto i portici del cortile; ed altri mi guardavano attoniti, e taluno mi pregava che non salissi. Balzai tremando nella stanza, e mi s'appresentò il padre di Teresa gettato disperatamente sopra il cadavere; e Michele ginocchione con la faccia per terra. Non so come ebbi tanta forza d'avvicinarmi e di porgli una mano sul cuore presso la ferita; era morto, freddo. Mi mancava il pianto e la voce; ed io stava guardando stupidamente quel sangue: finché venne il parroco e subito dopo il chirurgo, i quali con alcuni famigliari ci strapparono a forza dal fiero spettacolo. Teresa visse in tutti que' giorni fra il lutto de' suoi in un mortale silenzio. – La notte mi strascicai dietro al cadavere che da tre lavoratori fu sotterrato sul monte de' pini.

Citazioni su Ultime lettere di Jacopo Ortis[modifica]

  • Iacopo Ortis, libro ambiguo e, direi quasi, anfibio, idealista e pessimista insieme. Si tratta d'un Alfieri sentimentalizzato e immelanconito, e perciò quel libro del Foscolo è un libro falso, un libro di stanchezza e di transizione, un libro frammentario in cui i sentimenti d'amore, gloria e disperazione, tutti e tre superficiali e sovente artificiali, sono indarno ricuciti insieme dalla eloquenza dello stile. (Giuseppe Citanna)

Incipit di alcune opere[modifica]

Ajace[modifica]

SCENA PRIMA
AGAMENNONE, ARALDI

Agamennone
Ite: a Priamo intimate, che alla tregua
Un dí rimane, e che al cader del sole
Sciolto son io dal giuramento.

Dell'origine e dell'ufficio della letteratura. Orazione[modifica]

Solenne principio agli studi sogliono essere le laudi degli studi; ma furono soggetto sì frequente all'eloquenza de' professori e al profitto degl'ingegni, che il ritesserle in quest'aula parrebbe consiglio ardito ed inopportuno. Né io, che per istituto devo oggi inaugurare tutti gli studi agli uomini dotti che li professano e ai giovani che gl'intraprendono, saprei dipartirmi dalle arti che chiamansi letterarie, le sole che la natura mi comandò di coltivare con lungo e generoso amore, ma dalle quali la fortuna e la giovenile imprudenza mi distoglieano di tanto, ch'io mi confesso più devoto che avventurato loro cultore.

Edippo[modifica]

Antigone
Eccoci Edippo – Appena or sorge l'alba,
E già siam presso alla città – Sinch'alto
Rifulga il sol, lena ripiglia – Molto
Oltre l'usato in questa oscura notte
Senza arretrarci mai le vie calcammo
Anzi di trarci in questo loco – Antichi
Marmi qui stan – Siedi.
Edippo
Deh dove, o figlia,
Dove siam noi?

Frammenti di un romanzo autobiografico[modifica]

Il mio cavallo andava di passo per la via dell'Apennino, e il mio cane mi seguitava.
"Addio, addio beato paese ove la fortuna mi avea fatto obbliare per alcun poco le miserie dei mortali!" Il mio cavallo intanto si fermava perch'io potessi rivolgermi, e salutar da lontano i colli di Bologna, e la mia solitudine, e te, o Luigi, che forse parlavi secretamente di me.
Il nominarmi era delitto. –
E te e te... deliziosa fanciulla che allora, chi sa? non ti accorgevi nemmeno più ch'io ti mancassi.

Lezioni di eloquenza[modifica]

Nel viaggio della vita (qualunque siensi gli studi, ed i casi a cui la natura e la fortuna ci abbiano destinati) stimo meno pericoloso partito l'appigliarci ad una strada dopo di averla esaminata prudentemente per quanto può l'occhio e la previdenza dell'uomo. Non che questo sia ottimo partito e sicuro, ma è l'unico ad ogni modo che ci preservi dalle perplessità, le quali accrescono gli affanni, e i timori della nostra mente, e ritardano l'impresa della nostra età fuggitiva, oltre di che vi è certo sentimento di dignità ed intima compiacenza nel mirare constantemente alla meta prefissa, senza lasciarsi disanimare dagli eventi, e dagli uomini, che d'altronde sogliono rispettare que' generosi, i quali sanno e vogliono rispettare se stessi.

[Ugo Foscolo, Lezioni di eloquenza, in Scelte opere di Ugo Foscolo, 2 voll., Poligrafica Fiesolana, Firenze, 1835.]

Ricciarda[modifica]

Guido Fuggi! – Il mio duol col tuo periglio accresci.
Corrado Che dirò al signor mio, che lagrimando
Jer m'imponea di non tornarmi al campo
Senza di te? Sotto Salerno ei stesso
M'accompagnava; ei mi fu solo ajuto.
Al mio salir furtivo. Intorno al vallo
Chiuso nell'elmo, e fra nemici e l'ombre
Dubbioso errando, or ch'io ti parlo, aspetta
Il figliuol suo – Me misero! m'avanza
Poco omai della notte.

Saggi sopra il Petrarca[modifica]

Benché il Petrarca siasi studiato di ricoprire d'un bel velo la figura di Amore, che greci e romani poeti ebbero vaghezza di rappresentar nudo; questo velo è sì trasparente, che lascia tuttavia scernere le stesse forme. La distinzione ideale tra i due Amori derivò primamente dalle differenti cerimonie con cui gli antichi prestavano culto alla Venere Celeste, che presedeva a' casti amori delle zittelle e delle maritate, ed alla Venere Terrestre, riconosciuta divinità tutelare delle galanterie delle donne più in voga a que' tempi.

Sulla lingua italiana[modifica]

Nel dare principio alla serie de' discorsi intorno alla storia letteraria ed a' poeti d'Italia, giudico cosa necessaria, quantunque forse non dilettevole, di premettere l'opinione mia su l'origine della poesia fra gli uomini.
Tutti i ragionamenti su la poesia in generale, e quindi tutti i giudizj intorno alle qualità ed ai gradi di merito di ogni poeta di tutte le età, e gl'infiniti canoni e teorie degli antichi retori e de' moderni metafisici si sono sempre fondate su l'osservazione, «che l'uomo è animale essenzialmente imitatore, e l'origine della poesia manifestamente ed unicamente ritrovasi nella naturale tendenza che l'uomo ha di riprodurre ogni cosa per mezzo d'imitazioni.» Da questa osservazione, che realmente trovasi in Aristotile, sgorgò la conseguenza che gli fu attribuita, e commentata in mille volumi, «che la poesia non è che imitazione della natura, e che i poeti eccellenti sono soltanto quelli da' quali la natura è fedelmente imitata.»

Citazioni su Ugo Foscolo[modifica]

  • A lui che abbiamo veduto pensare che la giustizia sia la sanzione della forza, la coscienza insegnava che la giustizia è nulla senza l'equità. A lui che pensava che la virtù è una forma di larvato egoismo, la coscienza imponeva di guardare alla virtù con altro occhio che di scettico: contraddizione magnanima, nella quale cadde anche il Leopardi. (Eugenio Donadoni)
  • Ben era quel Parini che richiesto di gridare Viva la Repubblica e muoiono i tiranni rispose: – Viva la Repubblica e morte a nessuno! Ben era quel Foscolo che diede l'ultima pennellata al suo ritratto dicendo: – Morte sol mi darà pace e riposo. (Ippolito Nievo)
  • Foscolo non era certo un bell'uomo. Di mezzana statura, col naso schiacciato, con chioma scapigliata, più rossa che bionda; ma due occhi fulminanti tradivano il di lui ingegno. Egli aveva al suo servizio tre sorelle che non erano certo le tre grazie, e un segretario. Scriveva molto, e posta giù una frase, la dava da copiare al segretario; questi gliela portava copiata; egli la correggeva e la dava da copiare di nuovo. Questa giuoco veniva più volte ripetuto; tanta era la sua incontentabilità, il suo ideale di perfezione. (Giovanni Arrivabene)
  • Giovanni Pascoli rimarrà per gli Italiani il grande lirico delle intime tombe familiari, come Ugo Foscolo è il grande cantore delle tombe che la Nazione conserva ai suoi figli immortali.
    Per questi nostri due sommi vati si completa la Italiana Lirica dei Sepolcri! (Guglielmina Ronconi)
  • Il Carme foscoliano preludeva, con la nudità scultorea del suo pensiero, liberato da ogni lenocinio musicale, all'arte densa e filosofica del nostro secolo. (Enrico Annibale Butti)
  • Il Foscolo non aveva attitudini alla tragedia, perché di temperamento troppo soggettivo e, aggiungo, sentimentale, mancandogli anche quella potenza, che direi condensatrice, tutta propria dell'Alfieri, che riusciva talvolta a imporre sulla scena almeno un colosso fra schematiche larve. (Giuseppe Citanna)
  • Il sentimento dell'amore si esaurisce pel Foscolo nella contemplazione esteriore della donna amata, quasi costantemente idealizzata fino alla Dea mitologica, e che, solo in quella contemplazione, è la possibilità creativa del poeta. Forse, andando più oltre, si potrebbe osservare che questo atteggiamento costante del Foscolo di fronte alle donne del suo cuore, rivela appunto la poca profondità e sincerità dei suoi sentimenti d'amore. È certo, ad ogni modo, che di questi ultimi, egli non è riuscito a parlarci immediatamente e soggettivamente; quando ha voluto farlo, i suoi tentativi sono naufragati nelle spire delle frasi e dei bei versi sonori ed eloquenti, ma privi di quella intima e pensosa e indefinibile poesia che muove dalle liriche dei grandi poeti d'amore, anche da un semplice frammento di Ibico e di Saffo. (Giuseppe Citanna)
  • Il signor Foscolo ha scritto un buon carme, ma non mi negherai che sia il più faticoso della letteratura italiana. Mi sembra, quando leggo un suo endecasillabo, di dar la scalata a una montagna. (Leo Ferrero)
  • Il sorriso ironico di Didimo [traduzione foscoliana del Viaggio sentimentale di Laurence Sterne] giunge a proporre in una diversa prospettiva le antiche passioni del 'liber'uomo'. (Camillo Boito)
  • Nel Foscolo è visibilissima quell'aria di irrequieto dolore, quel desiderio di pace e di oblio, che fu sì comune agli uomini e agli scrittori della generazione romantica, e che trovò forse la sua espressione artistica più intiera nel Renato di Chateaubriand. Questo lettore di Plutarco, questo che più volte si professa stoico, quando si scopre senza posa a sé e agli amici è un ammalato dei mali profondi delle età di transizione: non molto dissimile in ciò dal Petrarca, di cui perciò comprese così bene gli spiriti. (Eugenio Donadoni)
  • Nuovo, nel magistero del verso sciolto, Ugo Foscolo è pure nuovo nel sonetto, che innalza a un grado dopo di lui non superato. Del sonetto egli fa quasi un intimo dramma. (Raffaello Barbiera)
  • Questi è il rosso di pel, Foscolo detto | sì falso che falsò fino sé stesso | quando in Ugo cambiò ser Nicoletto. | Guarda la borsa se ti vien appresso.[68] (Vincenzo Monti)
  • Santarosa! quale contrasto fra questi due uomini [entrambi esuli in Inghilterra]! L'uno [Ugo Foscolo], tutto immaginazione, oserei quasi dire tutto violenza; l'altro, uomo religioso, idolatra della sua famiglia, dalla quale non sapeva tollerare la separazione. [...].
    Entrambi questi due nomini perirono prematuramente con danno dell'Italia. L'uno abbandonato solo in un villaggio d'Inghilterra, l'altro combattendo in Grecia contro i Turchi. Ma le ceneri del Foscolo furono tardamente sì, ma trionfalmente portate in Italia, e giacciono nell'onorata sepoltura di Santa Croce in Firenze. La salma di Santarosa, insepolta con quella di oscuri combattenti, divenne preda dei lupi e degli avvoltoi. (Giovanni Arrivabene)
  • Ugo Foscolo, italiano per eccellenza, e d'ingegno singolare, balestrato dall'invidia dei contemporanei, addolorato dal vedere irreparabilmente caduto il regno italico, deludendo schernevolmente il bicipite augello, esulò, rifugiandosi nella costituzionale Inghilterra: colà il bisogno gli acuì potentemente l'ingegno, e scrisse con magistero sui nostri classici quasi in addolcimento delle proprie politiche amarezze. (Giansante Varrini)
  • Ugo Foscolo (piccolo segno forse?...) è il poeta dell'Eroe [Garibaldi]. Poeta dai sensi magnanimi, che diede di "liberal carme l'esempio" e insegnò come sia "santo e lagrimato il sangue per la Patria versato"; il poeta che primo aprì le vie dell'esilio ai profughi nostri; il poeta della bellezza femminile, il poeta che primo, nella letteratura italiana, insegnò il culto della madre. I Sepolcri non è solo il più sublime esempio di lirica pindarica fra noi, e la più eccelsa lirica della nostra letteratura; è anche la diana dell' Italia nuova. Diana che squilla fra le tombe: diana di risurrezione. (Raffaello Barbiera)

Note[modifica]

  1. Da A Dante, citato in Giuseppe Fumagalli, Chi l'ha detto?, Hoepli, Milano, 1921, p. 412.
  2. Da Discorso sul testo del poema di Dante. Erroneamente attribuita a Carlo Cattaneo (si veda Giuseppe Prezzolini nel Codice della vita italiana), che cita Foscolo in un brano degli Scritti filosofici, letterari e vari.
  3. Da Discorso secondo, in Sulla lingua italiana. Discorsi sei.
  4. Da Sul giornalismo, in Opere edite e postume, vol. XI, Felice Le Monnier, Firenze, 1862, pp. 399-400.
  5. Da Stato politico delle isole jonie, in Opere edite e postume, vol. XI, Felice Le Monnier, Firenze, 1862, p. 96.
  6. Da Stato politico delle isole jonie, in Opere edite e postume, vol. XI, Felice Le Monnier, Firenze, 1862, p. 109.
  7. Da La rivoluzione di Napoli negli anni 1798, 1799.
  8. Da Il gazzettino del bel mondo.
  9. Da una lettera a John Murray (1778–1843), ottobre 1821, citato in Elena Croce, La patria napoletana, Mondadori.
  10. Da De' tempi di Lucrezio, in Opere edite e postume, vol. XI, Felice Le Monnier, Firenze, 1862, p. 392.
  11. Da Sui poemi narrativi e romanzeschi italiani, in Opere edite e postume, vol. X, Felice Le Monnier, Firenze, 1859, p. 143.
  12. Da Sulla lingua italiana, in Opere edite e postume, vol. IV, Prose letterarie, Le Monnier, Firenze, 1850, p. 114.
  13. Da Il gazzettino del bel mondo.
  14. Da Dei viaggi classici, in Opere edite e postume, vol. XI, Felice Le Monnier, Firenze, 1862, p. 81.
  15. Epigramma per Luigi Lamberti, citato in Giuseppe Fumagalli, Chi l'ha detto?, Hoepli, 1921, p. 195.
  16. Da Il corallo, in Opere edite e postume, vol. X, Felice Le Monnier, Firenze, 1859, p. 397.
  17. Da Atti dell'accademia de' pitagorici, in Opere edite e postume, vol. II, Prose letterarie, vol. II, Felice Le Monnier, Firenze, 1850, p. 340.
  18. Dalla prefazione di Didimo Chierico a Laurence Sterne, Viaggio sentimentale.
  19. Dell'origine e dell'ufficio della letteratura, citato in Giuseppe Maffei, Storia della Letteratura Italiana, Vol. III, p. 50.
  20. Da Notizia bibliografica intorno alle Ultime lettere di Iacopo Ortis, cap. V, in Prose, vol. I, a cura di Vittorio Cian, Laterza, Bari, 1912, p. 124.
  21. Da "Di se stesso", Sonetti, citato in Fruttero & Lucentini, Íncipit, Mondadori, 1993.
  22. Da Narrazione dei casi e della cessione di Parga, in Opere edite e postume di Ugo Foscolo, Prose politiche, Felice Le Monnnier, Firenze, 1850, p. 378.
  23. Da Dell'origine e dell'ufficio della letteratura, citato in Giuseppe Fumagalli, Chi l'ha detto?, Hoepli, 1921, p. 558.
  24. Il Trattato di Campoformio.
  25. Dalla prefazione di A Bonaparte liberatore; in Opere complete di Ugo Foscolo, 1860, Volume 2, p. 50
  26. Da De' giuramenti in Opere edite e postume, vol. V, Prose politiche, Le Monnier, Firenze, 1850, p. 99.
  27. Da Epigramma IX. Contro Vincenzo Monti, in Tragedie e poesie minori, a cura di Guido Bezzola, F. Le Monnier, Firenze, 1961, p. 446). Per una redazione leggermente diversa dell'epigramma si veda Vincenzo Monti, lettera All'abate Urbano Lampredi, Milano, 27 marzo 1827, in Opere inedite e rare, vol. 5, Lampato, Milano, 1834, p. 275: Questi è Vincenzo Monti Cavaliero | Gran traduttor dei traduttor' d'Omero. Il distico sarcastico allude al fatto che Vincenzo Monti tradusse in italiano l'Iliade avvalendosi di una traduzione latina o di altra italiana in prosa.
  28. Da Lettere d'amore.
  29. Citato in Luigi Russo, La dolce stagione.
  30. Da Orazione a Bonaparte per il congresso di Lione, 1802. Citato in Luciano Canfora, Esportare la libertà, capitolo II, p. 25.
  31. Da Al signore consigliere di stato direttore della polizia generale del cantone di Zurigo, in Opere edite e postume, vol. V, Prose politiche, Le Monnier, Firenze, 1850, p. 265.
  32. Da Sull'origine e i limiti della giustizia.
  33. a b c Alcuni esempi di formule di passaggio da un argomento all'altro, citati in Mario Fubini, Ugo Foscolo, La Nuova Italia, Firenze, 19633 (1928), pp. 184-6, secondo il quale «preparando o concludendo ampi periodi poetici, non ne contengono la nota più intensa e sembrano piuttosto epigrafi nobilmente decorative che grande poesia».
  34. Citato in Elio e le Storie Tese, Urna.
  35. Parlando a Talia dei versi che ispirava a Giuseppe Parini, critico verso i nobili nullafacenti.
  36. Criticando la sottomissione della classe dirigente italiana a Napoleone.
  37. Riferendosi a Niccolò Machiavelli.
  38. Da Ugo Foscolo, Epistolario, raccolto da F.S. Orlandini e da E. Mayer, vol. I, § 10, in Id., Opere edite e postume, vol. VI, Felice Le Monnier, Firenze, 1852, p. 11.
  39. Da Ugo Foscolo, Epistolario, raccolto da F.S. Orlandini e da E. Mayer, vol. I, § 28, in Id., Opere edite e postume, vol. VI, Felice Le Monnier, Firenze, 1852, p. 26.
  40. Gli amori di Ugo Foscolo nelle sue lettere, ricerche e studi di Giuseppe Chiarini, parte seconda, Lettere, Zanichelli, Bologna, 1892, p. 82.
  41. Da Ugo Foscolo, Epistolario, raccolto da F.S. Orlandini e da E. Mayer, vol. I, § 42, in Id., Opere edite e postume, vol. VI, Felice Le Monnier, Firenze, 1852, p. 39.
  42. Da Ugo Foscolo, Epistolario, raccolto da F.S. Orlandini e da E. Mayer, vol. I, § 96, in Id., Opere edite e postume, vol. VI, Felice Le Monnier, Firenze, 1852, p. 109.
  43. a b Da Ugo Foscolo, Epistolario, raccolto da F.S. Orlandini e da E. Mayer, vol. I, § 127, in Id., Opere edite e postume, vol. VI, Felice Le Monnier, Firenze, 1852, p. 144.
  44. Da Ugo Foscolo, Epistolario, raccolto da F.S. Orlandini e da E. Mayer, vol. I, § 129, in Id., Opere edite e postume, vol. VI, Felice Le Monnier, Firenze, 1852, p. 156.
  45. a b Da Ugo Foscolo, Epistolario, raccolto da F.S. Orlandini e da E. Mayer, vol. I, § 179, in Id., Opere edite e postume, vol. VI, Felice Le Monnier, Firenze, 1852, p. 227.
  46. Da Ugo Foscolo, Epistolario, raccolto da F.S. Orlandini e da E. Mayer, vol. I, § 192, in Id., Opere edite e postume, vol. VI, Felice Le Monnier, Firenze, 1852, p. 255.
  47. Da Ugo Foscolo, Epistolario, raccolto da F.S. Orlandini e da E. Mayer, vol. I, § 195, in Id., Opere edite e postume, vol. VI, Felice Le Monnier, Firenze, 1852, p. 270.
  48. Da Ugo Foscolo, Epistolario, raccolto da F.S. Orlandini e da E. Mayer, vol. I, § 222, in Id., Opere edite e postume, vol. VI, Felice Le Monnier, Firenze, 1852, p. 311.
  49. Da Ugo Foscolo, Epistolario, raccolto da F.S. Orlandini e da E. Mayer, vol. I, § 283, in Id., Opere edite e postume, vol. VI, Felice Le Monnier, Firenze, 1852, p. 399.
  50. Da Ugo Foscolo, Lettere inedite, a cura di G.S. Perosino, § 34, Vaccarino, Torino, 1873, p. 43.
  51. Da Ugo Foscolo, Epistolario, raccolto da F.S. Orlandini e da E. Mayer, vol. I, § 304, in Id., Opere edite e postume, vol. VI, Felice Le Monnier, Firenze, 1852, p. 425.
  52. Da Ugo Foscolo, Epistolario, raccolto da F.S. Orlandini e da E. Mayer, vol. I, § 304, in Id., Opere edite e postume, vol. VI, Felice Le Monnier, Firenze, 1852, p. 427.
  53. Da Ugo Foscolo, Lettere a Sigismondo Trechi, lettera quinta, Lacroix, Parigi, 1875, pp. 27-28.
  54. Da Ugo Foscolo, Epistolario, raccolto da F.S. Orlandini e da E. Mayer, vol. I, § 352, in Id., Opere edite e postume, vol. VI, Felice Le Monnier, Firenze, 1852, p. 503.
  55. Da Ugo Foscolo, Lettere a Sigismondo Trechi, lettera ottava, Lacroix, Parigi, 1875, p. 44.
  56. Da Ugo Foscolo, Epistolario, raccolto da F.S. Orlandini e da E. Mayer, vol. II, § 395, in Id., Opere edite e postume, vol. VII, Felice Le Monnier, Firenze, 1853, p. 17.
  57. Da Ugo Foscolo, Lettere inedite, a cura di G.S. Perosino, § 59, Vaccarino, Torino, 1873, p. 77.
  58. Da Ugo Foscolo, Epistolario, raccolto da F.S. Orlandini e da E. Mayer, vol. II, § 422, in Id., Opere edite e postume, vol. VII, Felice Le Monnier, Firenze, 1853, p. 79.
  59. a b Da Ugo Foscolo, Epistolario, raccolto da F.S. Orlandini e da E. Mayer, vol. II, § 425, in Id., Opere edite e postume, vol. VII, Felice Le Monnier, Firenze, 1853, p. 82.
  60. Da Ugo Foscolo, Epistolario, raccolto da F.S. Orlandini e da E. Mayer, vol. II, § 426, in Id., Opere edite e postume, vol. VII, Felice Le Monnier, Firenze, 1853, p. 88.
  61. Da Ugo Foscolo, Lettere inedite, a cura di G.S. Perosino, § 96, Vaccarino, Torino, 1873, p. 122.
  62. Da Ugo Foscolo, Lettere inedite, a cura di G.S. Perosino, § 104, Vaccarino, Torino, 1873, p. 136.
  63. Da Ugo Foscolo, Epistolario, raccolto da F.S. Orlandini e da E. Mayer, vol. II, § 454, in Id., Opere edite e postume, vol. VII, Felice Le Monnier, Firenze, 1853, p. 157.
  64. Da Ugo Foscolo, Epistolario, raccolto da F.S. Orlandini e da E. Mayer, vol. III, § 608, in Id., Opere edite e postume, vol. VIII, Felice Le Monnier, Firenze, 1854, p. 112.
  65. Da Ugo Foscolo, Lettere inedite, a cura di G.S. Perosino, § 186, Vaccarino, Torino, 1873, p. 338.
  66. Da Ugo Foscolo, Epistolario, raccolto da F.S. Orlandini e da E. Mayer, vol. III, § 656, in Id., Opere edite e postume, vol. VIII, Felice Le Monnier, Firenze, 1854, p. 237.
  67. In realtà le "Lettere" iniziano con una breve nota di Lorenzo Alderani, l'immaginario raccoglitore postumo delle lettere di Jacopo: "Pubblicando queste lettere, io tento di erigere un monumento alla virtù sconosciuta; e di consecrare alla memoria del solo amico mio quelle lagrime, che ora mi si vieta di spargere su la sua sepoltura. E tu, o Lettore, se uno non sei di coloro che esigono dagli altri quell'eroismo di cui non sono eglino stessi capaci, darai, spero, la tua compassione al giovine infelice dal quale potrai forse trarre esempio e conforto".
  68. Questa quartina fu scritta dal Monti in risposta al distico dedicatogli dal Foscolo. L'ultimo verso è un riferimento alla passione del Foscolo per il gioco, nel quale egli perdeva regolarmente forti somme.

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