Edmondo De Amicis

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Edmondo De Amicis

Edmondo De Amicis (1846 – 1908), scrittore italiano.

Citazioni di Edmondo De Amicis[modifica]

  • Ah quel Teja!
    È quasi sempre uno stupore per i suoi amici il veder tradotti sul Pasquino[1] i concetti ch'egli ha prima espressi nel discorso; essi ritrovano nell'opera sua delicatezza, ardimenti, intuizioni profonde e sottili, che non manifesta punto la sua parola. Perciò parla di rado del disegno che volgea in mente, o l'accenna di volo, e in modo da non darne che un'idea dimezzata. Il suo vero linguaggio è quello ch'egli parla sulla sua pietra litografica. Ogni avvenimento di cui riceva notizia gli si presenta alla mente, e il giudizio che ne darà gli si forma e gli si esprime subito nel cervello a tratti di matita, in contorni di figure umane, e in atteggiamenti di fisionomie.[2]
  • [A proposito di Mario Rapisardi] Al poeta della libertà e della giustizia, al flagellatore degli ipocriti, dei venduti e degli sfruttatori della patria, manda un evviva con ammirazione d'artista, con gratitudine di cittadino e con affetto d'amico.[3]
  • [Alla madre] Amo il nome gentile; amo l'onesta | aura del volto che il mio cor rinfranca; | amo la mano delicata e bianca | che le lacrime mie terge ed arresta; || amo le braccia a cui fido la testa | da tristi fantasie turbata e stanca; | amo la fronte pura, aperta e franca, | dove tutto il pensier si manifesta; || ma più de lo sembianze oneste e care | amo la voce che mi parla il vero | e mi conforta l'anima ad amare: || la voce che ogni dì sulla prim'ora | mi grida in suono d'amoroso impero: | è l'alba, figlio mio! Sorgi e lavora![4]
  • Eccomi preso daccapo a quest'immensa rete dorata, in cui ogni tanto bisogna cascare, volere o non volere. La prima volta ci restai quattro mesi, dibattendomi disperatamente, e benedissi il giorno che ne uscii. Ma vedo che la colpa era tutta mia, ora che ci ritorno ... composto a nobile quiete, perché guai a chi viene a Parigi troppo giovane, senza uno scopo fermo, colla testa in tumulto e colle tasche vuote![5]
  • I nuovi quartieri eleganti, le nuove vaste piazze alberate, i nuovi magnifici passeggi pubblici, veri luoghi di delizie, degni di Parigi e di Londra, non hanno mutato la sua antica fisionomia originalissima che è sempre costituita dalle sue interminabili vie diritte – Maqueda e Vittorio Emanuele – che s'incrociano nel suo centro [...] A giudicare dal movimento di quelle due strade si direbbe che Palermo è una città di due milioni di abitanti. Corrono in ciascuna, da un capo all'altro e dalla mattina alla sera, due torrenti di gente, di carrozze, di carri, di carrette che continuamente serpeggiano per non urtarsi, che in mille punti si intrecciano e si confondono, s'arrestano, s'addensano, ondeggiano. È un formicolio che vi confonde la vista, uno strepitio che vi introna la testa, una varietà di veicoli, di carichi, d'aspetti umani, di gesti e di voci, un contrasto di allegrezza e di furia, di fatica e di spasso, di lusso e di povertà, quale in nessun'altra città del mondo credo si possa vedere.[6]
  • Il destino di molti uomini dipese dall'esserci o non esserci stata una biblioteca nella loro casa paterna.[7]
  • La lingua spagnola, appunto perché molto più affine alla nostra che la francese, è assai più difficile a parlarsi presto, e per così dire a orecchio, senza dir degli spropositi. Si casca nell'italiano senz'accorgersene, si inverte la sintassi ad ogni istante, si ha sempre la propria lingua nell'orecchio e sulle labbra, che ci inciampa, ci confonde, ci tradisce.[8]
  • Ma già di lontano avevamo visto uno dei più straordinari edifizi che possa aver mai immaginato un pittore di paesaggi fantastici: una sorta di gradinata titanica, come una cascata enorme di muraglie a scaglioni, che dalla cima d'un monte alto quasi duemila metri vien giù fin nella valle, presentando il contorno d'uno di quei bizzarri colossi architettonici che vedeva Gustavo Doré coi suoi grandi occhi di mago: l'immagine di un vastissimo chiostro medievale, d'un tempio smisurato di Cheope, d'una immane reggia babilonese; che so io? un ammasso gigantesco e triste di costruzioni, che offre non so che aspetto misto di sacro e di barbarico, come una necropoli guerresca o una rocca mostruosa, innalzata per arrestare un'invasione di popoli, o per contener col terrore milioni di ribelli. Una cosa strana, grande, bella davvero. Era la fortezza di Fenestrelle.[9]
  • Nel cuore delle donne non ci vede chiaro che l'esaminatore disinteressato.[10]
  • Non sempre il tempo la beltà cancella | o la sfioran le lacrime e gli affanni; | mia madre ha sessant'anni, | e più la guardo e più mi sembra bella.[11]
  • [L'esperanto] Sarà di immensa utilità per tutti gli uomini.[12]
  • Se nelle battaglie politiche tu dovrai impugnare la penna e farti giornalista, scrivi sul suo tavolo di studio, incidi sul suo calamaio, dappertutto dove giunga il tuo occhio, tre sole parole: onestà, onestà e onestà. Innalza la massima sublime di illuminare l'opinione pubblica e di dirigerla; pensa al potere micidiale e salutare di quello strumento che innalza e uccide, che corrompe ed educa, che prostituisce e idealizza gli uomini, e che si chiama la penna del giornalista.[13]
  • Una casa senza libreria è una casa senza dignità, — ha qualcosa della locanda, — è come una città senza librai, — un villaggio senza scuole, — una lettera senza ortografia.[14]
  • Una ragazza è sempre un mistero; non c'è che fidarsi al suo viso e all'ispirazione del proprio cuore.[15]

Cuore[modifica]

Incipit[modifica]

OTTOBRE

Il primo giorno di scuola (17, lunedì)

Oggi primo giorno di scuola. Passarono come un sogno quei tre mesi di vacanza in campagna! Mia madre mi condusse questa mattina alla Sezione Baretti a farmi inscrivere per la terza elementare: io pensavo alla campagna e andavo di mala voglia. Tutte le strade brulicavano di ragazzi; le due botteghe di libraio erano affollate di padri e di madri che compravano zaini, cartelle e quaderni, e davanti alla scuola s'accalcava tanta gente che il bidello e la guardia civica duravan fatica a tenere sgombra la porta. Vicino alla porta, mi sentii toccare una spalla: era il mio maestro della seconda, sempre allegro, coi suoi capelli rossi arruffati, che mi disse: – Dunque, Enrico, siamo separati per sempre? –.

Citazioni[modifica]

  • L'assassino che rispetta sua madre ha ancora qualcosa di onesto e di gentile nel cuore; il piú glorioso degli uomini, che l'addolori e l'offenda, non è che una vile creatura. (il padre di Enrico: Novembre, Mia madre; 2001, p. 39)
  • Chi rispetta la bandiera da piccolo la saprà difender da grande. (Novembre, I soldati)
  • Dare la vita per il proprio paese, come il ragazzo lombardo [protagonista del racconto mensile "La piccola vedetta lombarda"], è una grande virtú [...]. (il padre di Enrico: Novembre, I poveri; 2001, p. 57)
  • Ella [la patria] è una cosí grande e sacra cosa, che se un giorno io vedessi te tornar salvo da una battaglia combattuta per essa, salvo te, che sei la carne e l'anima mia, e sapessi che hai conservato la vita perché ti sei nascosto alla morte, io tuo padre, che t'accolgo con un grido di gioia quando torni dalla scuola, io t'accoglierei con un singhiozzo d'angoscia, e non potrei amarti mai piú, e morirei con quel pugnale nel cuore. (il padre di Enrico: Gennaio, L'amor di patria; 2001, p. 107)
  • Il Direttore guardò fisso Franti, in mezzo al silenzio della classe, e gli disse con un accento da far tremare: – Franti, tu uccidi tua madre! – Tutti si voltarono a guardar Franti. E quell'infame sorrise. (Gennaio, La madre di Franti; 2001, p. 110)
  • Rispetta la strada. L'educazione d'un popolo si giudica innanzi tutto dal contegno ch'egli tien per la strada. Dove troverai la villania per le strade, troverai la villania nelle case. (il padre di Enrico: Febbraio, La strada; 2001, p. 154)
  • Pare che li faccia tutti eguali e tutti amici la scuola. (Marzo, I parenti dei ragazzi; 2001, p. 162)
  • [...] l'uomo che pratica una sola classe sociale, è come lo studioso che non legge altro che un libro. (il padre di Enrico: Aprile, Gli amici operai; 2001, p. 215)
  • Egli [Garibaldi] fu maestro, marinaio, operaio, negoziante, soldato, generale, dittatore. Era grande, semplice e buono. Odiava tutti gli oppressori, amava tutti i popoli, proteggeva tutti i deboli; non aveva altra aspirazione che il bene, rifiutava gli onori, disprezzava la morte, adorava l'Italia. (i genitori di Enrico: Giugno, Garibaldi; 2001, p. 286)
  • La scuola è una madre [...]. (la madre di Enrico: Luglio, (L'ultima pagina di mia madre); 2001, p. 314)
  • Immagina pure che ti siano destinati nella vita molti giorni terribili; il più terribile di tutti sarà il giorno in cui perderai tua madre. [...] Non sperar serenità nella tua vita, se avrai contristato tua madre. [...] O Enrico, bada: questo è il più sacro degli affetti umani, disgraziato chi lo calpesta. L'assassino che rispetta sua madre ha ancora qualcosa di onesto e di gentile nel cuore, il più glorioso degli uomini, che l'addolori e l'offenda, non è che una vile creatura. [...] Io t'amo, figliuol mio, tu sei la speranza più cara della mia vita; ma vorrei piuttosto vederti morto che ingrato a tua madre. (il padre di Enrico: Novembre, Mia madre)
  • E pronuncia sempre con riverenza questo nome – maestro – che dopo quello di padre, è il più nobile, il più dolce nome che possa dare un uomo a un altro uomo. (il padre di Enrico: Dicembre, Gratitudine)

Citazioni su Cuore[modifica]

  • – Ah, De Amicis, Cuore. E chi non l'ha letto?
    – Da ragazzini. Ma il bello è leggerlo da grandi. (Altri tempi - Zibaldone n. 1)
  • Cuore. Diffidate dei libri troppo dolci. Quasi sempre furono scritti per non scriverne altri, che sarebbero stati esattamente il contrario. L'autore di un libro tristemente famoso non poteva, per postumi di gelosia infantile, sopportare l'infanzia. Obbligò al suicidio il suo figlio diletto, e invigliacchì con cuore tre generazioni. (Umberto Saba)
  • Forse i deboli non si fortificano leggendo il Cuore, ma i forti diventano generosi. Non si raggiunge qualche efficacia nel combattere la crudeltà e l'egoismo che sono nella nostra natura, e che appaiono, malgrado la nostra viltà, nei fanciulli e negli adulti, se non eccitando insistentemente le nostre facoltà di emozione sociale, già così scarse, i nostri impulsi di tolleranza e di fratellanza. (Giovanni Cena)

L'ultimo amico[modifica]

Incipit[modifica]

«Vieni. Eccomi allungato sulla poltrona, a comodo tuo. Vieni a schiacciare un sonnellino sulle mie ginocchia, come ogni giorno.»

Citazioni[modifica]

  • [...] tu [il proprio cane] sei divenuto per me un oggetto di curiosità e di osservazione continua, uno svago, un pensiero d'ogni momento, che mi conduce, per mille vie diverse, ad altri infiniti pensieri e immaginazioni remotissime da te, le quali riempiono tutti i vani in cui per il passato mi soleva entrare la noia, e stringono ogni giorno più forte i cento legami sottilissimi, ma saldissimi, della nostra amicizia. (pp. 22-23)
  • Io dimentico quello che gli ho tolto [al proprio cane] quando penso d'avergli fatto un benefizio dandogli ciò che gli ho dato. [...] Io ti debbo bene l'alimento poiché ti impedisco d'andartelo a cercare per il mondo, come fanno i tuoi fratelli senza padrone. Ti debbo bene delle cure e delle carezze poiché t'ho chiuso in una prigione, e t'ho imposto un orario, una disciplina, un collare, una museruola, e mille soggezioni e riguardi che riducono la tua vita come quella d'un collegiale vigilato e regolato in tutti i suoi atti e in tutti i suoi passi, e fino nei suoi pensieri. Ti debbo bene la visita dal medico e il bagno caldo e l'insaponatura settimanale, poiché ti condanno a respirare il fumo della sigaretta e ti tolgo le corse sfrenate all'aria pura, con le quali non patiresti mai né languori di stomaco, né raffreddori, né indigestioni. (pp. 38-40)
  • E quando si rizza [il proprio cane] e sta su come un fantoccio, postergando la sua dignità di quadrupede, senza avvedersi delle risa che suscita, per arrivare a un pezzo di chicca che gli si tiene alto sopra il capo, non dà l'idea inversa del candidato politico, che prostituisce la sua dignità di bipede, buttandosi a quattro gambe davanti al grande elettore che gli mostra il voto? (pp. 49-50)
  • Se sapessi quanto m'affatico il pensiero per misurare la distanza che corre fra di noi, e scoprire la tua risposta natura, e quella dei legami che ci congiungono e delle barriere che ci separano! (pp. 54-55)

Ricordi del 1870-71[modifica]

  • [Su Firenze] Man mano che passavo per quelle vie, mi si affollavano alla memoria versi, scene di romanzo, episodi storici, ariette d'opera. E alzando gli occhi ai palazzi, alle torri, ai campanili, agli archi grandiosi, mi cominciava a parere strano che, in luogo d'ispirare quell'ammirazione subitanea e profonda, mista quasi ad un senso di terrore, che sogliono ispirare i monumenti giganteschi, costringessero invece, quando si voleva esprimere con parole l'effetto delle loro bellezze, a servirsi degli aggettivi stessi che s'usano per designare un bel fanciullo, un bel fiore, un bel ninnolo, come: – Gentile, carino. Guardando quelle torri, quei palazzi, sorprendevo spesso in me medesimo uno stranissimo desiderio, come di fare scorrere la mano su quei contorni, di palpare quei rilievi; e con questo desiderio, una specie di sollecitudine gelosa per quelle moli enormi di pietra, come se temessi che la menoma forza le potesse offendere e sciupare; e con questa sollecitudine, un bisogno vivo e continuo di correrle e di ricorrerle con quello sguardo d'amante che avvolge, e striscia, e lambe, e si stanca sulle forme care.(da Un addio a Firenze, p. 5)
  • [Il Traforo ferroviario del Frejus] Si sentono in quel cupo strepito precipitoso del treno mille rumori che parlano all'anima: i colpi fìtti, fulminei, rabbiosi della perforatrice che divora la roccia, il sibilo confuso delle cento ruote, lo scoppio tonante delle mine, la tempesta delle scheggie sulle pareti, sulle macchine, sugli assiti, il comando dei soprastanti, le grida, le risa degli operai, il suono vario e continuo dell'opera, l'eco di tutta quella vita sotterranea che si agitò per tanti anni nei vergini recessi del monte senza sorriso di sole, senz'alito d'aria salubre, senza altro spettacolo che sé stessa e la rupe, solitaria, misteriosa, solenne! E quante vittime nella lotta! E come le loro immagini si presentano alla mente nell'atto di dire: – Io pure lavorai e soffersi! Ricordate me pure! – Sono operai macilenti e pallidi che hanno speso gli anni più belli della vita nel laborioso cammino attraverso delle Alpi; sono vecchi che hanno perduto la luce degli occhi; sono giovani a cui le macchine e le mine hanno portato via le braccia e spezzata la testa! E in mezzo a questa folla d' invalidi, di mutilati e di morti che par che risollevino il capo per domandarvi la loro parte di affetto e di gloria, si alza la figura bella e venerabile del Sommeiller, a cui splende ancora negli occhi la gioia dell'ultimo colpo lanciato dalla perforatrice nel vuoto, al grido di: – Viva la Francia e viva l'Italia! – (da L'inaugurazione della Galleria delle Alpi, pp. 199-200)
  • [Nel Traforo ferroviario del Frejus] E il treno va e va, e cresce nell'animo nostro, a misura che si procede, la commozione, e la fantasia lavora, lavora. Ora ci pare che non s'abbia più a uscire di là sotto; ci pare d'esserci sprofondati nelle viscere della terra e di precipitare verso una mèta arcana; ora pare che il treno, a un tratto, ritorni furiosamente addietro, come impaurito dall'ignoto verso cui si slanciava; ora si trema di giungere troppo presto all'uscita, e si vorrebbe che quel momento indugiasse ancora, per prolungare il sentimento di meraviglia fantastica che ci agita il cuore e la mente; ora ci piglia come una smania di aria, di luce, un desiderio impaziente dell'azzurro del cielo e del verde della campagna; ora si rimane come attoniti e smemorati, e ci vien fatto quasi di domandare a noi stessi: – Ove siamo? – Siamo già in Francia? – Siamo ancora in Italia? – Un tale guarda l'orologio ed esclama: – Siamo in Francia! – I cuori danno un balzo, gli occhi si cercano, le mani si stringono. – Siamo in Francia! – si ripete. È un senso di gioia inesprimibile; pare che in quel momento le due nazioni si siano strette e baciate, ed abbiano gridato insieme: – Abbiamo vinto ! – Ma che! Già la luce del gas impallidisce! Si sente un soffio d'aria vivida e pura! Le pareti biancheggiano! Il vapore getta un lungo grido di trionfo ! Ecco i monti! Il Sole! La Francia!
    È un momento sublime. (da L'inaugurazione della Galleria delle Alpi, p. 200)
  • [La perforatrice] A un cenno, dato dal capo degli operai, vien data l'aria, le ruote si muovono, l'aria sibila, e la sbarra perforante s'immerge da centottanta a duecento volte in un minuto nella viva pietra, con un impeto prodigioso. Ad ogni colpo, l'aria si stende, e dopo aver dato la sua forza viva si rispande all'intorno con un soffio vigoroso. L'apparecchio produce uno strepito assordante; e questo strepito, e la rapidità del moto, e la rabbia, direi quasi, dei colpi, tutto il complesso, insomma, dello strumento e dell'azione ha qualche cosa di terribile; dà una scossa ai nervi ed al sangue, come se in qualche modo si partecipasse noi pure a quell'immane sforzo; il vigore, l'impeto della macchina diventa per un istante nostro; una parte di noi pare che si muova, si divincoli e frema in mezzo ai robusti ordigni del meraviglioso apparato. Gli operai spiano nel volto dei circostanti l'espressione della meraviglia, e guardano la macchina con occhio altero, e vi si appoggiano su con un atto di famigliarità rispettosa, come sopra una bella e superba fiera domata; e forse, in quel momento, molti degli uomini illustri che li contemplano, si senton piccini accanto a loro. (da L'inaugurazione della galleria delle Alpi. Lettere, p. 203)
  • Le due grandi imprese, il traforo delle Alpi e l'unificazione d'Italia, insieme iniziate e per lo spazio di dieci anni condotte insieme, si sono compiute a pochi giorni di distanza. L'esercito italiano entrava in Roma il 20 settembre del 1870, e il 25 dicembre dell'anno stesso scoppiava l'ultima mina nella galleria del colle di Fréjus! Quasi nel tempo istesso, l'Italia porgeva una mano alla sua antica madre e l'altra alla sua antica alleata; da un lato ella gridava: – Libertà! – dall'altro: – Pace! – E sarà veramente un tacito patto di pace fra i due popoli questa grandiosa vittoria comune, che oggi s'è celebrata; essi non si scambieranno per la nuova via che parole di fratellanza e utili commerci e disegni di nuove opere gloriose; non si comunicheranno che ciò che innalza, ingrandisce e purifica! (da L'inaugurazione della galleria delle Alpi. Lettere, p. 205)
  • Io confesso il mio debole, volerei alla porta della scuola di spagnuolo, starei coll'orecchio allo spiraglio, vorrei afferrare qualcuna almeno di quelle parole larghe, maestose e sonore, in cui pare che l'anima di chi parla si espanda e si riposi, con una sorta di compiacenza altera; qualcuna di quelle altre gentili e carezzevoli, che ci ricordano tanto le nostre, che ci toccano dentro subito come le nostre, che rispondono quasi a un suono che avevamo già nella mente prima d'intenderle, che ci paiono veramente parole della nostra cara lingua dimenticate, voci nostre ripetute da un'eco che ce le alteri, saluti di gente amica che per lunga dimora in paesi stranieri abbia frammisto ad altri gli accenti di un linguaggio che c'era comune... [...]. (da Il Circolo filologico di Torino. Lettera, p. 222)

Sull'oceano[modifica]

Incipit[modifica]

Quando arrivai, verso sera, l'imbarco degli emigranti era già cominciato da un'ora, e il Galileo[16], congiunto alla calata da un piccolo ponte mobile, continuava a insaccar miseria: una processione interminabile di gente che usciva a gruppi dall'edifizio dirimpetto, dove un delegato della Questura esaminava i passaporti. La maggior parte, avendo passato una o due notti all'aria aperta, accucciati come cani per le strade di Genova, erano stanchi e pieni di sonno. Operai, contadini, donne con bambini alla mammella, ragazzetti che avevano ancora attaccata al petto la piastrina di latta dell'asilo infantile passavano, portando quasi tutti una seggiola pieghevole sotto il braccio, sacche e valigie d'ogni forma alla mano o sul capo, bracciate di materasse e di coperte, e il biglietto col numero della cuccetta stretto fra le labbra.

Citazioni[modifica]

  • Pochi uomini stavan rivolti verso il mare; i più passavan a rassegna le passeggiere. I giovani, seduti sopra i parapetti, con una gamba spenzoloni di fuori e i cappelli arrovesciati sulla nuca, pigliavan degli atteggiamenti di baldanza marinaresca, parlando forte e modulando il riso in maniera da attirar l'attenzione, e quasi tutti guardavano verso la boccaporta del dormitorio femminile, dove s'erano raccolte, come sopra un palco molte giovani ben pettinate, con nastrini nei capelli, con vestiti chiari, con fazzoletti vistosi, annodati con garbo: la parte intraprendente, pareva, del bel sesso di terza. Fra queste spiccava una bella donnetta, – una contadina di Capracotta, – con un visetto regolare e dolce di madonna (lavata male), a cui diceva mirabilmente un fazzoletto da collo, che portava incrociato sul petto, tutto purpureo di rose e di garofani, che parean veri e fiammeggiavano agli occhi. (pp. 36-37)
  • Un monferrino con un muso di cinghiale, era diventato addirittura canuto spettacolo per la contadina di Capracotta, il cui visetto tondo di madonna mal lavata, colorito dal riflesso del suo fazzoletto a rose vermiglie, faceva girar la cùccuma anche a vari altri, non ostante la presenza dun lungo marito barbuto. (p. 204)

Ultime pagine. Nuovi ritratti letterari ed artistici[modifica]

  • [Ubaldino Peruzzi] Non aveva un ingegno di vasta organatura; ma nell'officina della sua mente, piena di minuti strumenti ben temprati e precisi, faceva bene e alla lesta un lavorìo vario e utile, correggeva e compiva il lavoro altrui con grande finezza, a ogni idea trovava qualche cosa da aggiungere che la chiariva o qualche semplificazione da suggerire, che la rendeva più facile a tradursi in atto. Non vedeva forse molto lontano; ma vedeva da vicino in tutte le cose molti particolari, e relazioni di questi fra di loro, che a menti più larghe sfuggivano; e leggeva molto addentro particolarmente negli uomini, che dai suoi piccoli occhi scintillanti si sentivano frugare fino in fondo all'anima. (Emilia e Ubaldino Peruzzi e il loro salotto (1865-1870), pp. 15-16)
  • [Ubaldino Peruzzi] Non possedeva una vera cultura, oltre a quella sua speciale d'ingegnere, e a quella amministrativa e politica acquistata con l'esperienza degli affari e con l'esercizio degli alti uffici pubblici in cui aveva speso gran parte della vita; ma a questa deficienza suppliva mirabilmente nella conversazione ordinaria con l'agilità del discorso e con l'arguzia facile e fine, e spesso pungente, di vecchio fiorentino; della quale si vedevan luccicare le punte sulla sua bocca fiorentinissima anche prima che ne uscisse la parola. (Emilia e Ubaldino Peruzzi e il loro salotto (1865-1870), p. 16)
  • [Ubaldino Peruzzi] In letteratura il suo sentimento dominante era l'odio della rettorica: non credo che ci sia mai stato al mondo uomo più difficile a prendere all'amo delle belle frasi. (Emilia e Ubaldino Peruzzi e il loro salotto (1865-1870), p. 16)
  • Di due sole delle signore che vidi in quel salotto [di Emilia e Ubaldino Peruzzi] m'è rimasta l'immagine viva: della vedova di Massimo D'Azeglio, ancora molto bella coi capelli bianchi [...] e della poetessa Giannina Milli, coi suoi capelli neri lisciati sulla fronte, coi suoi occhi neri mobilissimi, con quella pallidezza monacale e quei rossori improvvisi di giovinetta, per cui mostrava molti anni meno che non n'avesse. ((Emilia e Ubaldino Peruzzi e il loro salotto (1865-1870), p. 67)
  • [Giannina Milli] Ricordo d'averla intesa dire gli affanni e i terrori che l'agitavano ogni volta che entrava in scena a improvvisare, e come nell'atto dell'improvvisazione fosse in uno stato quasi di rapimento e di delirio, nel quale non aveva più coscienza né di difficoltà né di pericoli, vedeva e non sentiva più nulla, e si sarebbe ridestata come da un sonno profondo se qualcuno l'avesse scossa per un braccio. ((Emilia e Ubaldino Peruzzi e il loro salotto (1865-1870), pp. 67-68)
  • [Giannina Milli] A udirla parlare, pareva di vederla ringiovanire: aveva una grande semplicità, certe uscite ingenue, dei gesti scattanti di bambina: non un'ombra d'orgoglio o di vanteria. Ma paesana del suo paese, come dicevano, fin all'ultima goccia di sangue: guai a toccarle un napoletano. Del rimanente, discorreva di ogni cosa, anche delle più lontane da ogni attinenza con l'arte sua anche di umili faccende domestiche, con la sensatezza d'una buona donna borghese che non avesse avuto mai un grillo poetico per la testa. ((Emilia e Ubaldino Peruzzi e il loro salotto (1865-1870), p. 68)
  • [Francesco Tamagno] Lo intesi la prima volta nel «Trovatore», nel Teatro Colón di Buenos Aires, dove cantava ogni inverno da vari anni ed era, come si dice in linguaggio teatrale, l'idolo del pubblico. Curioso, non e vero? per un cittadino torinese, il sentir per la prima volta in America un artista celebre che è nato, ha esordito e cantato cento volte a Torino. Fu per lui una serata trionfale e per me deliziosa. Non avevo inteso mai una voce di tenore così potente e così limpida, così armoniosa e così facile, né avuto mai dal canto una commozione così forte di piacere e di maraviglia. (Il tenore Tamagno, p. 195)
  • [Francesco Tamagno] Non ci fu mai cantante celebre più prodigo di lui della propria voce. Certi amici suoi, quando egli li prega di giuocare a tarocchi, che son la sua passione, gli sogliono rispondere: – Se vuoi che giochiamo, canta; – ed egli canta perché giochino. Altri lo fanno cantare con insidie fanciullesche, di cui non s'avvede: domandandogli un motivo notissimo, che fingono di non ricordare, o come sia riuscito a superare certe difficoltà dell'arte sua che egli non può spiegare se non col canto. (Il tenore Tamagno, p. 204)
  • La condizione di moglie del Verdi, somigliante per certi rispetti a quella del marito non regnante d'una regina, non era facile. Ma la signora Giuseppina [Strepponi] v'era così ben disposta per l'indole e per le facoltà acquisite che credo non abbia mai fatto in quell'accompagnamento difficile neppure la più leggiera stonatura. La sua giusta alterezza non scese mai fino alla vanità, non si alzò mai fino all'orgoglio, e solo un osservatore senz'acume avrebbe potuto chiamare idolatria la riverenza visibilissima con cui si manifestava il suo grande amore per il marito. (Giuseppina Verdi-Strepponi, pp. 225-226)
  • [Giuseppina Strepponi] Sul suo viso, anche verso i settant'anni, erano rimaste quasi immutate le linee della prima bellezza; e il biondo ancora persistente nei suoi bei capelli brizzolati e il color rosato della carnagione le davano, a prima vista, un'apparenza giovanile; benché gli occhi chiari avessero un'espressione naturalmente severa, che contrastava alla giocondità del suo spirito. Nulla era rimasto in lei, e forse non era mai stato, di ciò che fa credere ad alcuni che si riconosca un'artista di teatro, anche molti anni dopo ch'essa ha lasciato le scene; e non ricordava mai, se non costretta, il suo passato artistico, come se appetto alla sua nuova gloria le paresse un troppo povero vanto l'antica. (Giuseppina Verdi-Strepponi, p. 227)
  • [Michele Gordigiani] [...] nei suoi ritratti ognuno si trova abbellito, pur riconoscendo fedele l'immagine. «Il più bel fior ne coglie»: quello che per la farina dice il motto della Crusca si può riferire all'arte sua per la sembianza umana. Per questo si dice che donne brutte non n'ha mai dipinte, e questa è una delle ragioni per cui fu il pittore prediletto delle signore; questa, oltre che la eleganza squisita del disegno, la freschezza e la gaiezza incomparabile del colorito, e non so che serenità e allegrezza d'aurora che è nella sua pittura, come luce riflessa dell'amabile e immutabile giovinezza del suo spirito. (Michele Gordigiani, p. 269)
  • [Michele Gordigiani] Pittore di donne, forse, meglio che d'uomini, e pittore impareggiabile di famiglie – mamme, signorine, ragazzi, bambini – stupendamente raggruppati e atteggiati; di cui vi rimane negli occhi il sorriso e lo splendore, come di famiglie ideali, privilegiate d'ogni bene, dove sia fra le anime la stessa dolce e lieta armonia che ha posto l'artista fra le linee e i colori delle loro immagini belle. (Michele Gordigiani, p. 269)

Viaggio in Sicilia[modifica]

  • O divina Sicilia! Quanti Italiani, che hanno corso il mondo per diletto, morirono o moriranno senza averti veduta![17]
  • Quale delle città decadute, o scomparse, del mondo antico ha conservato, dopo Atene e Roma, una così vasta fama come Siracusa? C'è un uomo in Europa o in America, tra i meno colti delle classi non affatto ignoranti, il quale nel naufragio delle memorie scolastiche non ritrovi quel nome, e legati con quello altri ricordi confusi d'uomini grandi, di grandi fatti, d'opere meravigliose dell'ingegno umano? Non credo che ci sia al mondo altra grande città decaduta che abbia dinnanzi a sé una così meravigliosa immagine del suo grande passato. (p. 40)
  • Tramontava il sole: l'orizzonte era d'oro, le acque dei ponti d'oro, tutto quanto s'alzava sopra la terra e sorgeva dal mare disegnava le sue forme nell'oro. D'ev'essere stato un tramonto simile quello che fece dire al Carducci: Bello come un tramonto di Siracusa. (p. 44)
  • Siracusa vista da questa terrazza sembra galleggiare, come se dormisse, sognando i sui duemila e settecento anni di storia.

Incipit di alcune opere[modifica]

Alle porte d'Italia[modifica]

Al Signor Carlo Toggia, a Torino.
Pinerolo, 22 luglio 1675.

Ti ringrazio della bella lettera, la quale, dopo tanti mesi di silenzio, m'è stata cagione di vivissimo piacere. Ti porgerà questa mia il signor Pietro Osasco, procuratore di S. A. R. il duca di Savoia; il solo pinerolese al quale io possa confidare una lettera pericolosa con la speranza che i vostri riveriti padroni non gli ficchino le mani nelle tasche.

Amore e ginnastica[modifica]

Al canto di via dei Mercanti il segretario fece una profonda scappellata all'ingegner Ginoni, che gli rispose col suo solito: – Buon giorno, segretario amato!- poi infilò via San Francesco d'Assisi per rientrare in casa. Mancavano venti minuti alle nove: era quasi certo d'incontrar per le scale chi desiderava.
A dieci passi dal portone intoppò sul marciapiedi il baffuto maestro di ginnastica Fassi, che leggeva delle prove di stampa: questi si soffermò, e mostrandogli i fogli, disse che stava scorrendo le bozze d'un articolo sulla sbarra fissa della maestra Pedani, scritto per il «Nuovo Agone», giornale di ginnastica, del quale egli era uno dei principali redattori.

Costantinopoli[modifica]

L'emozione che provai entrando in Costantinopoli mi fece quasi dimenticare tutto quello che vidi in dieci giorni di navigazione dallo stretto di Messina all'imboccatura del Bosforo. Il mar Jonio azzurro e immobile come un lago, i monti lontani della Morea tinti di rosa dai primi raggi del sole, l'Arcipelago dorato dal tramonto, le rovine d'Atene, il golfo di Salonico, Lemno, Tenedo, i Dardanelli, e molti personaggi e casi che mi divertirono durante il viaggio, si sbiadirono per modo nella mente, dopo visto il Corno d'oro, che se ora li volessi descrivere, dovrei lavorare più d'immaginazione che di memoria. Perché la prima pagina del mio libro m'esca viva e calda dall'anima, debbo cominciare dall'ultima notte del viaggio, in mezzo al mare di Marmara, nel punto che il capitano del bastimento s'avvicinò a me e al mio amico Yunk, e mettendoci le mani sulle spalle, disse col suo schietto accento palermitano: – Signori! Domattina all'alba vedremo i primi minareti di Stambul.

Fra scuola e casa[modifica]

Povero martire! Ogni volta che entrai nella sua bottega, ci risi molto; ma ne uscii pieno d'ammirazione e di pietà.
Aveva la libreria, o meglio la sua stanza di tortura, a un angolo di via Giusti, accanto alla Scuola municipale Norberto Rosa, poco lontano da un altro libraio delle scuole elementari, il quale gli disputava la piccola clientela con un'avidità scellerata.
Era una bottega tipica di libraio da ragazzi, ossia una miscela strana di cose disparate, minute, graziose, inutili, necessarie e ridicole, appunto come il cervello degli avventori.

Il soldato Poggio[modifica]

Stamane ultimo giorno di carnevale, giorno sempre triste per me che amo la quiete ed il silenzio, ricevetti un biglietto da un amico carissimo, il buon Capitano d'Artiglieria Ugo Allason, che mi procurò un gran piacere.
«Dopo mezzogiorno», mi diceva, «sarò a casa tua col Soldato Poggio che si trova a Torino per due o tre giorni».
Parecchie volte avevo parlato in famiglia di questa visita che il mio buon amico mi aveva promessa da molto tempo; ma ormai non ci pensavo più.

L'idioma gentile[modifica]

Tu ami la lingua del tuo paese, non è vero? L'amiamo tutti. È inseparabilmente congiunto l'amore della nostra lingua col sentimento d'ammirazione e di gratitudine che ci lega ai nostri padri per il tesoro immenso di sapienza e di bellezza ch'essi diedero per mezzo di lei alla famiglia umana, e che è la gloria dell'Italia, l'onore del nostro nome nel mondo. L'amiamo perché l'hanno formata, lavorata, arricchita, trasmessa a noi come un'eredità sacra milioni e milioni d'esseri del nostro sangue, dei quali, per secoli, ella espresse il pensiero, e le sue sorti furon le sorti d'Italia, la sua vita la nostra storia, il suo regno la nostra grandezza. L'amiamo perché la parola sua ci scaturisce d'in fondo all'anima insieme con ogni nostro sentimento, si confonde con le nostre idee fin dalle loro sorgenti più intime, e non è soltanto forma, suono, colore, ma sostanza del nostro pensiero.

La carrozza di tutti[modifica]

Era il primo di gennaio del 1896. Salii la mattina sul tranvai per il corso Vinzaglio, in via Roma. Per tutto il tragitto di là a via Garibaldi, fu un continuo salire e scendere di signori e di signore, che pareva si fossero dati convegno sul carrozzone, poiché dentro e sulle piattaforme, all'entrare e all'uscire, era uno scambio di saluti, d'inchini, di levate di tube e di auguri, come in una sala di ricevimento.
[citato in Fruttero & Lucentini, Íncipit, Mondadori, 1993]

La maestrina degli operai[modifica]

Una delle più belle scuole suburbane di Torino, che son tutte nuove e di bell'aspetto, è quella del piccolo sobborgo di Sant'Antonio, posto un miglio fuor di porta e abitato in gran parte da contadini e da operai di due grandi fabbriche di ferramenti e di acido solforico, che lo riempion di rumore e lo copron di fumo. Il sobborgo è formato da una sola strada diritta, fiancheggiata di piccole case e d'orticelli, dalla quale si spicca un largo viale, che corre nella campagna aperta: in fondo a questo v'è la chiesa, solitaria, e dall'un dei lati, sul confine d'un campo, la scuola. L'edifizio, piccolo e grazioso, ha cinque stanzoni al pian terreno, per le cinque classi elementari, e due camerette per il cantoniere e sua moglie che servon da bidelli, e al pian di sopra, i quartierini per le quattro maestre e un maestro, che hanno ciascuno due camerette e una cucina.

La quistione sociale[modifica]

Mi domanderete per prima cosa: Voi, per quistione sociale, che cosa intendete?
È questa una delle molte domande alle quali non si può meglio rispondere che con un'altra domanda.
Ed ecco la mia risposta interrogativa.
Questo fatto della vita misera e del malcontento giustificato del maggior numero degli uomini, fatto comune a paesi poveri e ricchi, di tutti i gradi di civiltà, è effetto di una legge di natura o delle leggi umane? Questa forza, che accumula a un polo della società la ricchezza e la cultura, e all'altro il pauperismo e l'ignoranza, che restringe quasi a una classe sola gli effetti benefici della civiltà e della scienza, che preclude quasi affatto alle moltitudini l'educazione e la vita dello spirito, che fa sussistere gli uni in faccia agli altri tanti tesori superflui e tanti bisogni insoddisfatti, tanti ozi felici e tante disperate fatiche, è un destino dell'umanità o deriva da viziose istituzioni sociali?

La vita militare[modifica]

Era una bella giornata d'agosto; non una nuvola, non un soffio di vento; l'aria immobile e infocata. La strada per cui il reggimento camminava era larga diritta e lunga che non se ne vedeva la fine, e coperta d'una polvere finissima che si sollevava a nuvoli, penetrando negli occhi, nella bocca, sotto i panni, e imbiancando barbe e capelli.

Marocco[modifica]

Lo stretto di Gibilterra è forse di tutti gli stretti quello che separa più nettamente due paesi più diversi, e questa diversità appare anche maggiore andando a Tangeri da Gibilterra. Qui ferve ancora la vita affrettata, rumorosa e splendida delle città europee; e un viaggiatore di qualunque parte d'Europa sente l'aria della sua patria nella comunanza d'una infinità d'aspetti e di consuetudini. A tre ore di là, il nome del nostro continente suona quasi come un nome favoloso; cristiano significa nemico, la nostra civiltà è ignorata o temuta o derisa; tutto, dai primi fondamenti della vita sociale fino ai più insignificanti particolari della vita privata, è cambiato; e scomparso fin anche ogni indizio della vicinanza d'Europa.

Olanda[modifica]

Chi guarda per la prima volta una grande carta dell'Olanda, si meraviglia che un paese così fatto possa esistere. A primo aspetto, non si saprebbe dire se ci sia più terra o più acqua, se l'Olanda appartenga più al continente che al mare. Al vedere quelle coste rotte e compresse, quei golfi profondi, quei grandi fiumi che, perduto l'aspetto di fiumi, par che portino al mare nuovi mari; e quel mare che, quasi cangiandosi in fiume, penetra nelle terre e le rompe in arcipelaghi; i laghi, le vaste paludi, i canali che s'incrociano in ogni parte, pare che un paese così screpolato debba da un momento all'altro disgregarsi e sparire.

Pagine sparse[modifica]

Non posso pensare a Firenze, senza ricordarmi della mia buona padrona di casa di via dei ***, la quale m'insegnò in sei mesi più lingua italiana di quanta io n'abbia imparata in dieci anni da tutti i miei professori di letteratura, nati, come diceva l'Alfieri, là dove Italia boreal diventa.

Primo Maggio[modifica]

Alle sette in punto il signor cavaliere Bianchini saltò giù dal letto e, affacciandosi alla finestra, ebbe due dispiaceri: vide che il cielo era tutto azzurro e che il muratore Peroni non era andato al lavoro. Questi se ne stava seduto, con la giacchetta sulle spalle, sullo scalino del suo uscio a vetri, in fondo al lungo terrazzino della casa bassa che formava un cortile triangolare con le due grandi ali dell'isolato. Diamine! Se festeggiava il 1° Maggio il Peroni, un operaio vecchio e tranquillo, c'era da credere che lo festeggiassero tutti gli operai di Torino.
Questo pensiero spiacevole fece dimenticare al signor Bianchini di esaminarsi il viso e la lingua allo specchietto per la barba, come faceva ogni mattina, compiacendosi della floridezza ammirabile, benché un po' pingue, dei suoi sessant'anni.

Ricordi di Londra[modifica]

Pioveva, il mare era agitato, il bastimento ballava come una barchetta; a una mezz'ora appena da Dieppe provai, per la prima volta in vita mia, i sintomi del mal di mare. C'erano a bordo molte signore, la maggior parte inglesi, che sgranocchiavano allegramente cacio e prosciutto, senza neppur mostrare d'accorgersi di quel tremendo ballottìo che sconvolgeva le viscere a me e ad altri, qualcuno dei quali s'era già lasciato sfuggire dalla bocca più che dei lamenti. Ebbene, è proprio vero che il mal di mare rende l'uomo superiore a tutte le vanità umane. Se una mezz'ora prima m'avessero detto: – Guarda; qui c'è tanto denaro da stare a Londra un mese invece di quindici giorni, come ci starai tu; e poi da fare un giro in Scozia, e poi una scappata in Irlanda; questo denaro è tuo, se tu pigli davanti a questo signore un atteggiamento che ti renda ridicolo; – confesso la mia vanità, l'avrei rifiutato.

Ricordi di Parigi[modifica]

Eccomi preso daccapo a quest'immensa rete dorata, in cui ogni tanto bisogna cascare, volere o non volere. La prima volta ci restai quattro mesi, dibattendomi disperatamente, e benedissi il giorno che ne uscii. Ma vedo che la colpa era tutta mia, ora che ci ritorno

.... composto a nobile quiete,

perché guai a chi viene a Parigi troppo giovane, senza uno scopo fermo, colla testa in tumulto e colle tasche vuote! Ora vedo Parigi serenamente, e la vedo a traverso all'anima d'un caro amico, che mi fa risentire più vive e più fresche tutte le impressioni della prima volta.
Ed ecco quelle del primo giorno, come le può rendere una mente stanca e una penna presa ad imprestito dall'albergatore.

Spagna[modifica]

Era una mattina piovosa di febbraio, e mancava un'ora al levar del sole. Mia madre m'accompagnò fin sul pianerottolo, ripetendomi in fretta tutti i consigli che mi soleva dare da un mese; poi mi gettò le braccia al collo, diede in uno scoppio di pianto, e disparve. Io rimasi un momento là col cuore stretto, guardando la porta quasi sul punto di gridare:—Apri! Non parto più! Resto con te!—poi mi cacciai giù per le scale, come un ladro inseguito. Quando fui nella strada, mi parve che tra me e casa mia si fossero già stese le onde del mare, e alzate le cime dei Pirenei; ma benché da tanto tempo aspettassi quel giorno con impazienza febbrile, non ero punto allegro.

Speranze e glorie. Le tre capitali: Torino-Firenze-Roma[modifica]

Torino[modifica]

Un Torinese che volesse far da guida ad un Italiano d'un'altra provincia venuto qui per la prima volta, per metterlo in una disposizione d'animo favorevole alla città sconosciuta dovrebbe, prima di lasciarlo entrare in Torino, condurlo diritto a Superga. V'hanno spettacoli che sono per la vista degli occhi ciò che sono per la vista della mente quelle grandi intuizioni istantanee del genio, che abbracciano secoli di storia e regioni d'idee.

Firenze[modifica]

Un Piemontese, che deve andare a Roma tra poco, sentì il bisogno, qualche giorno fa, di mandar un saluto alla città di Firenze, e pensò di mandarglielo dalla cima della collina di Fiesole.
Una di queste sere, poco prima del tramonto, prese la via di porta a Pinti, solo soletto, come un pellegrino, e tirò innanzi a capo basso, almanaccando. La strada era deserta.

Roma[modifica]

Roma, 21 settembre 1870.

Le cose che ho da dire sono tante e tali che mi sarà impossibile di scriverle con ordine e chiaramente. È già gran cosa aver la voglia di scrivere, mentre per le vie di Roma risuonano ancora le grida del primo entusiasmo e della prima gioia. Tutto quello che ho veduto ieri mi sembra ancora un sogno; sono ancora stanco della commozione; non sono ancora ben certo di essere veramente qui, di aver visto quello che vidi, di aver sentito quello che sentii.

Citazioni su Edmondo De Amicis[modifica]

  • Datemi un punto d'appoggio e vi solleverò Edmondo de Amicis. (Marcello Marchesi)
  • De Amicis non ebbe una doppia vita, vita di scrittore e vita di uomo; fu scrittore solamente; e tutto in lui, gli occhi che vedevano, il cuore colmo di tenerezza, erano divenuti a poco a poco alleati e tributari dell'arte sua. Vivere per lui voleva dire preparare materiale per lo scrittore. (Renato Simoni)
  • Il De Amicis braccò per anni la parola che dice il «rumore del pan fresco» e ne promosse pubblico dibattito sulle colonne del Giornale d'Italia. Il Moretti assicura che lo trovasse da vecchio a Firenze; altri opinano che morisse con quel desiderio in corpo. Mi fa male pensare che si guastò per quel motivo una quantità di desinari, quando l'Imaginifico [Gabriele D'Annunzio], come nulla fosse, da un cricchiare, tirato su, per analogia, col cric dantesco, sfornava nelle Laudi un suo bel pane «caldo gonfio cricchiante». (Leo Pestelli)
  • Fiumi d'inchiostro si son versati da un capo all'altro d'Italia in tutti gli uffici dei giornali sulla memoria di Edmondo De Amicis. Era lo scrittore più letto e più noto, era l'autore più facile. Nulla è così naturale dunque della dismisura di articoli, di apologie, di rimpianti, di apoteosi a suo riguardo. Forse l'Italia non è stata mai una cosa unitaria quanto in questo caso. La morte del De Amicis pare sia il fatto onde esce il documento indubbio che una italianità esiste, e intendo dire la italianità del sentimento. (Paolo Orano)
  • «Io ero nato per fare il maestro di scuola a segno che quando vedo una stanza, quattro banchi e un tavolino, mi sento rimescolare!»
    Questa passione palpita in tutto il Romanzo d'un maestro, ne costituisce l'essenza pur attraverso la pittura dei più svariati tipi d'insegnanti, d'ispettori, di assessori, di scolari che ci sfilano davanti, secondo la maniera e il gusto dello scrittore: una moltitudine come nel volume Gli amici che egli rievoca «frugando in ogni angolo del nostro cuore». (Olga Visentini)
  • Si dirà di lui che non ascese alle vette. Può darsi. Ma, se discese, fu per toccare il fondo dei cuori. Fu il maestro del riso tra le lacrime, il più soave che ci sia, quello che si propaga entro le anime, quello che al pari di certe pioggie d'aprile, lascia dietro di sé solo purezza, freschezza ed aroma. Amare era la sua necessità; e, dovunque visse, amò. (Renato Simoni)

Note[modifica]

  1. Il Pasquino, settimanale satirico fondato a Torino nel 1856.
  2. Citato in Luigi Rasi, La caricatura e i comici italiani, R. Bemporad e Figlio, Firenze, 1907, Parte seconda, p. 84
  3. Citato in Mario Rapisardi, Giustizia.
  4. A mia madre, in Poesie, Fratelli Treves, Milano, 1882.
  5. Da Ricordi di Parigi.
  6. Citato in Salvatore Ferlita, L'isola dei miti, la Repubblica, 27 settembre 2009.
  7. Da Pagine sparse.
  8. Citato in Carlo Boselli, La Grammatica Spagnola del XX Secolo, Mondadori, Milano, 1949, p. 518.
  9. Da Alle porte d'Italia, p. 77.
  10. Da Amore e ginnastica.
  11. Da A mia madre.
  12. Citato nella rivista L'Esperanto, 1917.
  13. Citato da Alfredo Amatucci nella seduta pomeridiana del 20 luglio 1956 della Camera dei Deputati.
  14. Da Pagine sparse
  15. Da Amore e ginnastica.
  16. Non è il Galileo della Società di Navigazione generale.
  17. Da Ricordi d'un viaggio in Sicilia, Niccolò Giannotta, 1908, p. 105.

Bibliografia[modifica]

Filmografia[modifica]

Altri progetti[modifica]

Opere[modifica]