Fabrizia Ramondino

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Fabrizia Ramondino

Fabrizia Ramondino (1936 – 2008), scrittrice italiana.

Citazioni di Fabrizia Ramondino[modifica]

  • Chi non è vissuto in una città balia, ma solo in una città madre, difficilmente potrà comprendere come le ordinate costellazioni celesti, a immagine dell’ordine terrestre – spirituale, sociale, politico, – siano indifferenti al napoletano, mentre nella Via Lattea egli ritrova quell'indistinto luminoso brulichio, privo di forme e di nomi, quel caos chiaro e nutriente, specchio celeste della sua città.[1]
  • [Maiorca] Ci sono isole che hanno forma di pesci, di delfino, ad esempio o di torpedine, altre che hanno forma di coralli, altre di sirena. Sono collegate oggi ai continenti da molteplici canali: i cavi dell’elettricità e del telefono, le tubazioni del gas, perfino le condutture dell'acqua. La mia isola, invece, secondo la leggenda – attraverso vene sotterranee profonde che scorrevano sotto il mare –, il Creatore l'aveva unita al continente con legami d'acqua, sicché essa invano tentava di navigare alla deriva. Come a consolarla, sgorgavano per ogni dove nelle sue piane sorgenti che la rendevano fertile e verde, ma l’isola si torceva su un lato, assumendo forma di un drago, quasi volesse liberarsi dalla fluida materia a cui era avvinta, per navigare alla volta dell’oceano attraverso le Colonne di Ercole.[2]
  • Dietro il silenzio, sono in agguato il mormorio e il rumore, cioè la protesta, come dietro il troppo rumore è in agguato il silenzio, cioè la paura e la rimozione. Mentre la riflessione sulla propria condizione umana e sul modo giusto di superarne i limiti sono negati. Ora, oltre questo stordente rumore dei Quartieri, vedo manifestarsi inconsapevole e sordo dolore. Le mamme spingono i carrozzini con i lattanti, destreggiandosi[3]disinvolte, come se fosse naturale, fra motorini e auto, sempre attente a lasciare loro libera la strada, mai pronte a protestare. Ma loro sanno, rassegnandovisi, che cosa respirano i loro bambini. Oppure stendono il loro bucato, come io stessa, chi al livello della strada, chi più sopra, apparentemente indifferenti alla polvere e ai veleni che escono dai tubi di scappamento, di cui sono impregnati. Quando vedo questi lattanti, queste giovani mamme, i canarini appesi accanto alle finestre, le verdure e i frutti, offerti quasi più all'occhio che al nutrimento, penso che tutte queste creature soffrano. Poi, in pochi minuti a piedi arrivi a via Roma, davanti alla Galleria, e un po' più avanti, dinanzi ai giardini del Palazzo Reale, finalmente aperti al pubblico e gratis. E mi chiedo perché sono così poche le donne dei Quartieri che vi conducono i propri bambini. Come se questi giardini fossero a chilometri e chilometri di distanza o come se non osassero invadere una zona tabù, da sempre loro preclusa. Come vedi, nonostante i tanti cambiamenti positivi, da noi come da voi il muro non è ancora caduto.[4]
  • E fuggendo Napoli, per inseguire un Nord mitico, che quasi sempre non oltrepassava Roma, [i giovani intellettuali napoletani] venivano a loro volta inseguiti da Napoli, come da una segreta ossessione. Ché Napoli usa seguire i suoi concittadini dovunque, come un'ombra, se si trasferiscono altrove.... Così Napoli, dove è così difficile vivere e che invoglia tanto a partire, che è così difficile abbandonare e che costringe sempre a tornare, diventa, più di molti altri, il luogo emblematico di una generale condizione umana nel nostro tempo: trovarsi su un inabitabile pianeta, ma sapere che è l'unico dove per ora possiamo star di casa. (da Star di casa, Garzanti, Milano, 1991, pp. 59-60[5])
  • [...] il deserto [...] somiglia a una metropoli più di quanto non si pensi; la poca vegetazione è come un'oasi, il paesaggio è composto di materia inorganica e, nonostante le folle, gli uomini vi possono essere soli e dimenticati da tutti.[6]
  • La porta dell'Oriente verso l'Occidente e dell'Occidente verso l'Oriente, come definì Napoli Braudel, è sempre spalancata, pronta ad accogliere tutti. Ma chi la oltrepassa avverte di entrare in un luogo dove sono radunati i membri di una grande setta segreta alla quale è arduo essere iniziati.[7]
  • [...] ognuno di noi ha un altro se stesso sepolto, che attende, con coperte faville, il suo giorno.[8]

Incipit di alcune opere[modifica]

Althénopis[modifica]

La nonna

Era sempre vestita di nero, ma quando passava per la piazza di Santa Maria del Mare, come fiamme d'inferno i colori le guizzavano intorno, dei gialli, dei viola, perfino talora dei rossi e dei verdi; non portava bracciali, eppure bagliori dorati sembravano splenderle intorno ai polsi. Camminava eretta, rapida, con i grandi capelli rialzati oscillanti: impeto e altezza; sotto la gonna nera si profilava elegante la gamba fino alla coscia; la veste era scollata sul petto magro, arrossato, un largo nastro di velluto nero le fermava le arterie agitate del collo.

La colombaia[modifica]

I vecchi del quartiere la ricordano giovane e bella, raccontano che era di buona famiglia e che, dopo aver visto la Madonna, cominciò quella vita. Faccio un po' di conti: sembrava sulla settantina, doveva quindi essere arrivata nel quartiere durante la guerra, o un po' prima o un po' dopo. Non so bene che intendessero i vecchi con quella frase: aveva visto la Madonna, è un modo di dire comune però, che sta a indicare una radicale conversione della propria vita; ella comunque non ne aveva mai parlato e, se fosse stata interrogata, avrebbe scacciato l'interrogante in malo modo, come persona molesta e importuna.

Taccuino tedesco[modifica]

Fu così che venni a sapere in modo definitivo come nascono i bambini. Avevo diciassette anni e preparavo gli esami di maturità con un'amica del Viale Elena. Il Viale Elena era stato costruito in un periodo umbertino e era ombreggiato da due file di pini, regolari come i palazzi signorili, che facevano frangente da un lato al vento del mare, dall'altro ai poveri della Torretta. Ciascuna di noi due ragazze aveva i propri modelli di donna o fantasmi interiori. Per me, che appartenevo a una famiglia colta, ma decaduta economicamente, e che per varie vicissitudini ero outsider, tanto a scuola che nella borghesia napoletana, il fantasma amato era Anna Maria Ortese, che pochi anni prima aveva frequentato quel Viale. Per la mia amica, che apparteneva a una famiglia più incolta, ma in rapida ascesa sociale, il fantasma era G. L., donna bellissima, elegante e libera. Attorno a ambedue i fantasmi femminili aleggiava il peccato: quello di comunismo attorno a Anna Maria Ortese, quello di sesso attorno a G. L.

Note[modifica]

  1. Da Taccuino tedesco, la Tartaruga, 1987. Citato in Claudia Provenzano, Avventure di carta. Scrittori italiani dal 1979 al 1993, Alpha & Beta, Merano (BZ), 1994, p. 230.
  2. Da Guerra d'infanzia e di Spagna, Einaudi, Torino, 2001. Citato in Rossella Di Rosa, Itinerari nomadici ed ecologici nella narrativa di Anna Maria Ortese, Elsa Morante e Fabrizia Ramondino, New Brunswick, New Jersey, ottobre 2016, p. 156.
  3. Nella fonte: "sestreggiandosi", refuso.
  4. Da Napoli – Berlino,una corrispondenza di Andreas F. Müller e Fabrizia Ramondino, in Lo Straniero, n. III, anno 2, primavera 1998. Citato in annamariaortese.wordpress.com, 17 maggio 2009.
  5. Citato in Maria Ornella Marotti, Ethnic Matriarchy: Fabrizia Ramondino's Neapolitan Word, in Italian Women Writers from the Renaissance to The Present, Revising the Canon, Edited with an Introduction by Maria Ornella Marotti, The Pennsylvania State University Press, University Park, Pennsylvania, 1996, p. 184
  6. Da La colombaia, pp. 234-237.
  7. Dalla prefazione a Fabrizia Ramondino e Andreas F. Muller, Dadapolis, Einaudi, Torino, citato in La penna nel Vesuvio; in la Repubblica.it, Archivio, del 02 dicembre 1989.
  8. Da Althénopis, Einaudi, Torino, 1981, p. 261.

Bibliografia[modifica]

  • Fabrizia Ramondino, Althénopis, Einaudi, Torino, 1981.
  • Fabrizia Ramondino, La colombaia, in La veste di crespo, Cento anni di racconti da "Il Mattino", a cura di Michele Prisco e Ginella Zamparelli, illustrazioni di Vincenzo Stinga, EDI.Me., Napoli, stampa 1992.
  • Fabrizia Ramondino, Taccuino tedesco, I Prismi, Edizioni de Il Mattino, 1996.

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