Giovanni Battista Niccolini

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Giovanni Battista Niccolini

Giovanni Battista Niccolini (1782 – 1861), drammaturgo italiano.

Citazioni di Giovan Battista Niccolini[modifica]

  • E mentre manda un gemito, | ché dell'error s'avvede, | s'apre la tomba gelida | sotto lo stanco piede. (da La vecchiezza)
  • Già dello spirto il memore | moto veloce langue, | e lento scorre e gelido | in ogni vena il sangue. (da La vecchiezza)
  • Italia giace | dall'armi, e più da' suoi costumi oppressa; | nulla ritien degli avi e tutto apprese | dai suoi nuovi tiranni. (da Antonio Foscarini, I, 1)
  • Io vorrei che stendesser le nubi | su l'Italia un mestissimo velo: | perché tanto sorriso di cielo | su la terra del vile dolor! (da Giovanni da Procida, atto V, scena IV)
  • Il Franco | ripassi l'Alpi e tornerà fratello. (da Giovanni da Procida, III, 4)
  • La plebe | sempre è stanca dei casi: odia i presenti, | ama i futuri, ed è tiranna, o serva. (Calcante: da Polissena, atto II, scena I, in Opere, 1852, p. 242)
  • Rotta dal vento nell'adriaco lido | sempre è l'onda del mare, e par che pianga. (da Antonio Foscarini, II, 5)

Ludovico Sforza detto il Moro[modifica]

  • Dalla lieta beltà della natura | non vien gioia agli oppressi, e fosco il sole | si fa negli occhi, se il dolor li bagna. (Isabella: p. 12)
  • [Su Gian Galeazzo Sforza] Chè so qual morbo lo minaccia, e come | in un sorriso ei può finir la vita, | e vicino al morir farsi più bello. (Isabella: p. 12)
  • Talora Iddio pietoso i suoi flagelli | solo in mostrar s'appaga, e poi li frange. (p. 14)
  • Già spregiò l'are Alfonso, ed ora ei crede | che venne a lui dal doloroso abisso | l'ombra del padre, e tralle fiamme eterne | al figlio suo gridò: «Ricorda e trema». (Isabella: p. 16)
  • Io che dirti non so: lo crede il core, | la ragion lo combatte, e son gli spettri | tra quelle fole onde il mortale ignaro | mentre sorride, impallidisce. Oppresso | il padre mio dalle paure eterne, | che son tiranne della mente imbelle, | scompagnarsi potria da' suoi rimorsi | come dall'ombra del suo corpo; ei teme | il sole, testimon de' suoi delitti, | e la notte, che reca al suo cospetto | Fernando, e l'ombre dei baroni uccisi. | Gli riconosce tutti, e mentre a nome | nel suo terror gli chiama, aride, immote, | quasi gli sien presenti, in lor converte | orribilmente le pupille, e scosso | quel sogno, o quel delirio, egli s'affaccia | al palagio regal; crede la plebe | concitata a tumulto apparecchiargli | un supplizio crudele, e che gli gridi: | «Muori, tiranno, muori;» e in mezzo ai gridi | delle galliche trombe il suono ascolta. (Isabella: p. 17)
  • È bello | per me quel giorno in cui mi desto e miro | la luce e te, poi del mio figlio il volto | segnato dell'immagine materna. | Fida Isabella, io troppo chiedo: all'egro | che la sua vita sente venir meno, | secolo di dolor sembra un istante | se lo divide dai più cari oggetti. | Lasciargli dee per sempre.... ah! della via | ove corse piangendo, al tuo consorte | poco rimane omai. Brevi saranno | le tue cure amorose: io questi fiori | colgo sull'orlo del sepolcro. (Gian Galeazzo: p. 19)
  • Ah, ch'io non posso | speme alcuna nutrir; «tu mio sarai», | parve dir la sventura allor ch'io nacqui. (Gian Galeazzo: p. 23)
  • [...] e sai che il primo | consiglier dei tiranni è la paura. (p. 33)
  • Italia mia. | Ti bagna il mar, | non l'assicura, e l'alme | più che le terre l'Appennin ti parte, | e dell'Alpi non l'armi e ti difendi, | ma qual da schiusa porta infida ancella | nei brevi amori vi t'affacci, e chiami | nel talamo spregiato altri tiranni. (p. 37)
  • Ahimè! degli avi | fremono l'ombre, e gridano: «vergogna!» | Si fa più grave all'ossa lor la terra | or che calca le tombe un piè nemico. (p. 40)
  • [A Ludovico il Moro] Hai compra | la servitù d'Italia, e quanto costa | saper non puoi; lo sveleranno i molti | secoli di sventura e di vergogna, | che tu sul capo alla tua patria aduni. (Belgioioso: p. 43)
  • Né il brando istesso | può la ruota fermar della fortuna [...]. (Ludovico: p. 44)
  • Ma tu non vedi che orme incerte io segno | sovra terra che trema, e tal mi spinge | una forza a cader, che rupe io sembro | sull'abisso sospesa? (Ludovico: p. 44)
  • Se d'un uom ti chiedo, | parlami dei suoi vizi: è sempre incerta | la virtù dei mortali. (Ludovico: pp. 50-51)
  • Ohimé! che tutto | mesce la sorte con ludibrio insano. (Ludovico: p. 52)
  • Ah! dei perigli | nei perigli ho rimedio! (Ludovico: p. 58)
  • La morte | gl'infelici consacra [...]. (pp. 68-69)
  • O terra infida, | che sai gli abissi ricoprir di fiori! (Carlo VIII: p. 79)
  • Io nella polve avrò dimora e pace. (Gian Galeazzo: p. 88)
  • Io mi dicea sovente: | ci unì prima l'amor, poi la sventura | strinse di più quel nodo [...]. (Gian Galeazzo: p. 88)
  • Un sospetto crudel: misero figlio, | non ti sorrise il padre! un dì piangesti | come questo fanciullo. (Isabella: pp. 101-102)
  • [A Beatrice d'Este] Torni fecondo | questo mostro sul trono, e squarci un figlio | il grembo altero dove fu concetto, | e alla madre crudel doni la morte! (Isabella: p. 128)
  • [Su Ferdinando I] Era colui che alla sua stirpe un breve | regno acquistò con immortal dolore. (Isabella: p. 138)

Discorso sulla tragedia greca[modifica]

Incipit[modifica]

L'Agamennone e la Beatrice Cenci, tragedie, la prima delle quali io tradussi da Eschilo, e la seconda imitai dallo Shelley, offrono sulla scena due misfatti atrocissimi: la morte d'un marito operata dalla mano d'una perfida e feroce consorte, e quella d'un padre che compri assassini uccidono per ordine d'una moglie e d'una figlia, risoluta, se questi non le ubbidiscono, a commettere ella stessa l'orribil delitto. Il primo di questi drammi è scritto dal più antico dei tragici greci, il secondo da uno dei più recenti poeti d'Inghilterra, del quale mal dir si potrebbe se la sua patria si glorii, o si vergogni. Lo Shelley ebbe per certo un ingegno possente ; e della greca tragedia, in particolar modo dei Cori, studiosissimo, fu preso di così grande amore per Eschilo, ch' egli tentò alla sua pazza maniera un Prometeo liberato, o a dir meglio, un empio miscuglio di splendide immagini e di astrazioni metafisiche, figurando l'uomo sciolto da ogni credenza religiosa, mercé della vittoria di Demogorgone su Giove, cioè del Panteismo il quale trionfa della Fede.

Citazioni[modifica]

  • L'orribile dottrina dello Spinosa che occulta giace pur troppo dentro le opere di alcuni metafisici, i quali per ipocrisia, non per giusto zelo, si levano a riprendere la filosofia del secolo passato, assai men della loro pericolosa, pose meritamente in. odio lo Shelley ai suoi concittadini. Quantunque nella Beatrice Cenci [di Percy Bysshe Shelley] non veggasi per la natura dell'argomento traccia alcuna di così mostruoso errore, i critici scozzesi diedero di questa tragedia un giudizio molto severo, cominciando dall'osservare ch'era difficile il tenerne discorso senza lasciarsi vincere dall'ammirazione, o dal disgusto. Notarono che questo subbietto, schifoso di sua natura, era pur schifosissimamente trattato, e i personaggi del dramma non istavano ravvolti in una tenebrosa atmosfera di tragica necessità, ma bensì di passioni vilmente crudeli, e fuor di natura; e come il carattere di Beatrice, benché nobilmente ideato, non era posto cogli altri in un contrasto splendido, e tale che l'anima affaticata da tanti orrori vi si potesse riposare. (p. XI)
  • Perché l'imitazione del male supera sempre l'esempio, come, per il contrario, quella del bene è sempre inferiore[1], figli ancor più turpi di questa dottrina sono i Misteri di Parigi, i quali non si arrossi di qualificare per libro morale, benché l'autore di esso, Eugenio Sue, fosse dai Francesi chiamato a gran ragione il Cristoforo Colombo dei bordelli. L'eroine del suo romanzo sono Rigolette e Fleur de Marie, leggiadrissime sartine di sedici anni e senza genitori, le quali coll'esercizio dell'arte loro reggono sottilmente la vita, e non hanno in fondo della loro borsa altro capitale che dugento franchi. La prima vive in una soffitta lietamente, né dimentica di Dio, ch'ella prega ogni giorno. La seconda, a cui rincresce la fatica, frequenta i passeggi e le taverne, dissipa il suo meschino peculio, e si risolve a far mercimonio del suo corpo pei suggerimenti d'una infame creatura. Ella si lascia persuadere così presto, che non può chiamarsi sedotta: non amore, non sensualità, ma solamente la promessa che prezzo di vergogna avrà ozio e un poco di pane, la conducono nell'orrido e crudelissimo lupanare dove si ruba, si assassina, si avvelena, e non paghi di vivere di delitto, si scherza pur col delitto. (p. XV-XVI)
  • Vero è che fu scritto non esservi mostro il quale dall'arte esser non possa nobilitato, ma però a condizione che un autore dai freni di essa regger si lasci: allora l'ubbidirci è per lui una necessità gentile: il bello solo e il sublime possiamo avventurarci di cercare al di là dell'arte, ed in così nobile tentativo è gloria lo smarrirsi, e anche il cadere. (p. XVI)
  • Ai narcotici, per usar le parole della medicina, successero gli stimolanti: andiamo col romanzo e coi drammi abituando il popolo a tutti gli orrori... (p. XVII)
  • Sia il modello della tragedia l'Edipo di Sofocle. (p. XX)

[Giovanni Battista Niccolini, Discorso sulla tragedia greca, in Opere]

Ricordi della vita e delle opera di G.B. Niccolini[modifica]

Citazioni[modifica]

  • Il nostro è secolo di transizione e, quel che è peggio, di transazione. Addio coscienza.[fonte 1] (I, p. 382)
  • A G. C. Sismodo de' Sismondi | solenne storico ed economista | per le opere sue benemerito | più che scriver si possa | dell'Italia della Francia | e del genere umano.[2] (I, p. 382)
  • Nel nostro secolo i preti vogliono esser filosofi, e i filosofi esser preti: malafede da tutte le parti, confusione d'idee e di termini, ruine della religione e della filosofia. (I, p. 383)
  • Nel secolo scorso i preti fecero i filosofi, e i filosofi ora hanno rifatto i preti. Povero genere umano!» (I, p. 383)
  • La teologia è una figlia della filosofia che cerca di uccidere la madre. (I, p. 383)
  • Il vecchio vive nel passato, il giovane nell'avvenire, e veruno nel presente, perché mentre si parla non è: quindi siamo tutti adoratori di cadaveri o di fantasmi. (I, p. 383)
  • Il C... è un eco arrogante e infedele che crede di parlare. (I, p. 383)
  • Il popolo non brama che voi discendiate sino a lui: egli vuole salire sino a voi. Le vostre opere popolari, non lette da quelli per cui le destinate, non rivelano che la vostra superbia, e non si leggono che dagli sciocchi pari vostri: il popolo non vuole la vostra limosina, o aristocratacci con maschera di plebeo. Di quel Tasso che voi chiamate poeta da gabinetto il popolo canta Erminia ec. (I, p. 383)
  • Iddio discende in tutti qualche volta, ma non abita che in pochi o nessuno. (I, p. 383)
  • L'arte ritrova quello che la natura guastata ha perduto. (I, p. 384)
  • Credere che il passato possa ritornare è una necessità della mente umana, la quale, non istando mai nel presente e ignorando l'avvenire, ne cerca uno che somigli al passato. (I, p. 384)
  • Il malvagio pensa sempre a sé, il buono qualche volta agli altri: il più buono è l'innamorato. (I, p. 384)
  • La parola è la luce dell'umanità, e la luce è la parola della natura: Nel ciel manda la luce, e la parola | Sul labbro dei mortali. (I, p. 384)
  • I principi s'adulavano con una dedica; i popoli si adulano e si corrompono con tutti i libri. Il peccato del nostro secolo è la vanità, e questa fra tutte le schiave è la più vile. — Non siamo mai né buoni né cattivi quanto le nostre opinioni. (I, p. 384)
  • Le assemblee popolari hanno di rado torto in principio, e ragione in fine. (I, p. 384)
  • Il sorriso delle persone veramente infelici reca grandissimo dolore: pare che sorridano per gli altri. (I, p. 384)
  • [...] Pel dolor soltanto | non ci facesti, o Dio! Sarebbe indarno | ogni nostra speranza. L'incompatibile che esiste fra noi e il nostro mondo terrestre rimane un enimma se dobbiamo rivivere, ma sarebbe una bestemmia nel caso che noi dovessimo perire. (I, p. 385)
  • Avviene nel cangiar dei costumi come nel moto della terra, la quale si muove senza che niuno se ne accorga. (I, p. 385)
  • Quando la spada si identifica collo Stato, e questo è nel re, si fa dell'uomo un Dio, e di Dio un tiranno. (I, p. 385)
  • Uno si smarrisce pensando troppo, come pensando poco. (I, p. 385)
  • Pensare a Dio è amarlo: quindi i filosofi hanno amato e amano Dio più d'ogni altro. (I, p. 385)
  • Le cose umane non sono mai semplici, ma complicate, e si complicano ogni giorno per l'uomo e per le nazioni. Sono come un sasso che precipiti dalla sommità di un monte, che rotolando si riveste di tutto quello che trova nella sua via. (I, p. 385)
  • La semplicità nelle lingue sarà difficile ad ottenere, perché in noi tutti non è più semplice né la mente né il cuore. (I, p. 385 sg.)
  • Le rivoluzioni sono una viva luce nella notte procellosa in cui la storia si compisce. Elleno dimostrano lo stato vero d'un popolo in politica e in morale, sono un giudizio del passato, una lezione per l'avvenire; il più grande studio che l'umanità possa fare per conoscer se stessa. (I, p. 386)
  • Nel mattin della vita, le gioie che devon placare la nostra sete ardente brillano per noi nelle nubi dell'avvenire, e quando noi lo tocchiamo, convinti d'essere stati ingannati gli voltiamo le spalle, e gli occhi rivolano al bel giardino della giovinezza ove s'apre la felicità, e noi cerchiamo dietro a noi, in mancanza della speranza, le memorie della speranza. Cosi le gioie rassomigliano all'arcobaleno, che nell'aurora apparisce all'occidente, e verso sera a levante. (I, p. 386)
  • Domandando l'impossibile si ottiene il meglio.[fonte 2] (I, p. 386)
  • Tutto ciò che nel bene medesimo vi ha d'eccessivo si paga, perché le leggi eterne vogliono che nel mondo morale, non altrimenti che nel fisico, vi'sia uno sviluppo regolare e lento. (I, p. 386)
  • L'evidenza è il carattere del vero, e la nostra ragione sola può esser capace di riceverlo, e giudica l'evidenza: la ragione è il giudice supremo del vero, e del falso; e non è la ragione individuale, ma la ragione universale, impersonale, assoluta. (I, p. 386 sg.)
  • Appartiene alla barbarie il mostrare per la conservazione dell'individualità nazionale una forza di resistenza inerte: allora i popoli rimangono come posti gli uni accanto agli altri, ma non si mescolano. (I, p. 387)
  • Il bello nell'arte, nel pensiero, nell'azione, non deriva da un'armonia perfetta; l'umana natura noi comporta; ma nasce dalla guerra fra il bene e il male, nella quale il vero qualche volta vinto finisce col trionfare. (I, p. 387)
  • Le idee che governano la Francia, l'Italia e l'Europa, sono quelle della rivoluzione francese, che la Francia non ha create, ma proclamate e difese colla sua spada, e scritte nei suoi codici. Ogni progresso secolare è un trionfo della ragione naturale. (I, p. 387)
  • La forza della monarchia è nella ragione pubblica, la quale riconosce la necessità d'un potere permanente ed inviolabile per mantenere l'ordine e la libertà. (I, p. 387)
  • La dottrina dell'identità delle idee a traverso del tempo e dello spazio è vera, ed è il fondamento della filosofia contemporanea in Francia come in Germania. Ma a qual condizione ella può applicarsi in una maniera legittima ed efficace? A condizione di non riconoscere che il genio dell'umanità come causa creatrice delle religioni. Per la filosofia gli sviluppi soli costituiscono, e si conosce l'identità dei pensieri e degli affetti umani sotto la varietà del costume e della forma. Così egli avrà pel Cristianesimo una venerazione di riflesso, perché vi ritroverà in una possente misura una saviezza conosciuta. Ma è pericoloso ad un credente il fondare, spiegare e difendere la religione colla dottrina dell' identità, e conciliando tutte le opinioni, si cancella l'individualità del Cristianesimo, e si crede molto meno alla necessità della rivelazione. Che cosa diviene in questo sistema la divina origine della parola di Cristo? ll Cristianesimo non è che una specie di ricapitolazione, un eclettismo venuto a tempo. (I, p. 387 sg.)
  • La debolezza dei Governi è fatale quanto la loro forza, e il loro spavento quanto il loro furore. (I, p. 388)
  • La sottigliezza degli scolastici del medio evo nasce dalla loro dipendenza, quella dei filosofi greci dalla loro libertà. (I, p. 388)
  • Non amiamo tanto la bellezza per sopportare che l'azione fermandoci dia spazio a contemplarla ed abituarvi la mente. La scena moderna precipitandosi senza riposo verso il suo scopo, cangia incessantemente di luogo, d'interesse, di situazione, come la società stessa. Non vi ha cosa che la sospenda: un'ardente sollecitudine la spinge alla catastrofe. (I, p. 388)
  • Il poeta che, secondo l'esempio degli antichi, vorrebbe qua e là con un soffio lirico temperarla, durerebbe fatica a combattere con questa inquietudine del mondo il quale cerca la pace nel cangiamento. — Lungamente ingannato dalla falsa imitazione che si è attaccata a questi modelli, io non sapevo che accusargli di freddezza, soprattutto se io gli paragonava all'ardente sete di emozioni dalla quale il mondo è posseduto. (I, p. 388 sg.)
  • Shakespeare mi faceva dimenticar Sofocle: ma quando io quelle opere considerava più da vicino, io m'accorsi che cosa alcuna non ha mai superata l'originalità, la vita, la grazia di quest'arte sovrana, e che più che l'immaginazioni sono impazienti, anelanti, più ad esse converrebbe il riposarsi ad intervalli nella meditazione di questa bellezza, che deve la sua superiorità su tutte le altre alla sua medesima severità. (I, p. 389)
  • Nelle azioni d'un uomo il suo carattere influisce più che la sua intelligenza. (I, p. 389)
  • L'inerzia chiamasi rassegnazione, e poiché non si sente più l'amor di patria, si parla di umanità. (I, p. 389)
  • L'equilibrio ha consacrato la nostra ruina, legittimato la conquista dei forti, l'oppressione dei vinti. (I, p. 389)
  • Soffogar la ragione nel sentimento è affogar la causa nell'effetto. (I, p. 389)
  • La filosofia è un bisogno necessario e un diritto sacro del pensiero. La sua causa è la gran causa della libertà del mondo, richiamata al suo principio stesso la libertà dello spirito. La sua forza è quella della ragione che si appoggia su due mila anni di progressi e di conquiste. È sciocchezza il ripetere tutte le scempiataggini scagliate dalla ragione contro la ragione. Chi ha insegnato agli uomini senza alcun soccorso soprannaturale che hanno un'anima libera, capace di fare il male ma pur il bene? Chi loro ha detto, nell'oppressione universale, che la forza non è tutto, che vi son dei diritti invisibili che il forte deve rispettare nel debole? (I, p. 390)
  • Senza libertà l'uomo non ha bisogno di ragione, e senza ragione che sarebb'egli della sua libertà? laddove dal principio dell'autorità il campo della libertà si ristringe.
  • A Francesco Torti, a Bevagna.
    Chiarissimo signore. — Ho letto con piacere e meraviglia il suo ottimo libro che ha per titolo Dante rivendicato. Godo che in tanta viltà letteraria si trovi un ardito amico del vero e che per amor di esso non tema nimicizie famose. È gran tempo che in Italia non si è stampata opera con franchezza così generosa, e piena di quell'evidenza di raziocinio che ho ammirato nella sua. (II, p. 7)

Incipit di Arnaldo da Brescia[modifica]

GIORDANO PIERLEONE, LEONE FRANGIPANI, POPOLO ROMANO.

Giordano
Destatevi... sorgete... il nostro sangue
Si traffica nel tempio; e son raccolti,
Tenebrosa congrega, i cardinali
A vestir del gran manto un altro lupo
Che pastore si chiami. Un dì sceglieste,
O Romani, il pontefice[3]: gli antichi
Dritti il fero Innocenzo appien vi tolse,
E compì l'opra d'Ildebrando audace.

Note[modifica]

  1. Cfr. Francesco Guicciardini, Storia d'Italia: «L'imitazione del male supera sempre l'esempio, come per il contrario l'imitazione del bene è sempre inferiore.»
  2. Questa epigrafe venne scritta da Giovanni Battista Niccolini su una medaglia coniata per Jean Charles Léonard Simonde de Sismondi.
  3. Sotto Niccolò II il monaco Ildebrando, che poi fu pontefice col nome di Gregorio VII, cangiò il modo di eleggere i papi. Prima di quel tempo tutti i Romani, clero, nobiltà e popolo, prendevano parte a questa elezione. Si stabilì che d'ora innanzi i soli cardinali-vescovi, ai quali si unirebbero quelli dell'ordine dei preti, dopo aver preparata l'elezione del papa, finirebbero col domandarne il consenso agli altri ecclesiastici, e ancora al popolo. I cardinali-vescovi erano soli quelli del territorio Romano; comprovinciales episcopi. I cardinali-preti erano i parrochi delle ventotto principali chiese di Roma. Questi ventotto preti e questi vescovi eran, molto prima di Niccolò II, qualificati col nome di cardinali; ma fu questa la prima volta ch'essi furono investiti dell'autorità di nominare il papa: al clero e al popolo non rimase che il diritto dell'esclusione. Tale è l'origine del Collegio Elettorale dei cardinali. Innocenzo II poi, come riferisce il Vittorelli, il popolo e il clero privò d'ogni diritto: Romanos a quibus injuriis affectus fuerat compescendos censuit: tune primum populus a pontificiis comitiis rejectus: paulatim ad solos S. R. Ecclesiae cardinales, primoribus cleri proetermissis, nec cardinalitia dignitate decoratis, pontificis maximi electio evocata est. (Storia Diplomatica dei Senatori di Roma, Tom. I, pag. 54.) Nulladimeno, solamente nell'elezione di Lucio III, secondo che ne fanno testimonianza il Labbeo e il Fleury, si cominciò a mettere in pratica il decreto del terzo Concilio Lateranense, che domandava i due terzi dei voti; e cominciarono i cardinali a ristringere a se soli il diritto di eleggere al papa, ad esclusione del popolo e del rimanente clero. LABBEO, Conc. T. X. An. 1179. — FLEURY, Stor. Eccl. Lib. LXXIII.

Fonti[modifica]

  1. Citato in Giuseppe Fumagalli, Chi l'ha detto?, Hoepli, 1921, p. 534-535
  2. Citato in Harbottle, p. 330

Bibliografia[modifica]

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