Giovanni Testori

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Giovanni Testori

Giovanni Testori (1923 – 1993), scrittore, drammaturgo, storico dell'arte e critico letterario italiano.

Citazioni di Giovanni Testori[modifica]

  • Abitando in un paese appena fuori Milano, uso servirmi, pei miei quotidiani spostamenti, delle Ferrovie Nord; greve eppur cara dimestichezza che dura dai lontani tempi della scuola e durerà, spero, fino alla conclusione stessa della vita. Chi li abbia frequentati sa che quei treni, grigi e malandati, risultano quasi sempre disagevoli, tanto son colmi di viaggiatori: pendolari del lavoro, dell'impiego, dello studio, e, insomma, nei modi più diversi, della fatica. Solo la notte, all'ultime corse, capita di trovarli vuoti; o quasi.
    Era, quella di ier l'altro, una notte freddissima; terso e come ripulito da un vento di cristallo, il cielo; innumeri, dentro di esso, a portata, ecco, di mano, le tremanti luci delle stelle. Resti di neve, per le strade, là dove il traffico non l'aveva di già ridotta a pantano; e, tuttavia, bianchissima coltre appena, passate le gallerie, il treno avrebbe accostato gli ultimi, derelitti orti della Bovisa...[1]
  • Affondare gli occhi nel nostro male tenendo presente il Dio che abbiamo lasciato o, quantomeno, il dolore d'averlo lasciato, non significa veder meno: significa vedere ancora di più; e significa, inoltre, non poter più usare la parola (quella parola che è appunto ciò che si fa carne) come menzogna; menzogna che è servita e serve per usare la carne; per colpirla, crivellarla e stenderla, assassinata, su una delle strade che avevamo costruito per il nostro bene e per la nostra vita.[2]
  • Anche Tua madre ha gridato. | S'è afferrata alla mangiatoia | quando dal ventre le uscivi. | Sapeva anche lei | che nascendole Cristo | come Dio le morivi?[3]
  • [Su Francis Bacon] A quanti, come chi scrive, lo hanno sempre amato, forse perché in qualche parte o misura si sono sempre sentiti "in passione socii", sia concesso quel silente grido di vittoria che dovrebbe accompagnare il lento traghettarsi da questa buia riva all'altra, cui non è necessario credere perché esista; il traghetto di un grande poeta che il dolore e l'insipienza della nostra vita ha vissuto, partecipato e rappresentato fino all'ultimo respiro; creando così, per tutti, una terribile forma di nuovissimo e atroce splendore.[4]
  • [Su Paolo Vallorz] Ed, ora, questo ciclo; ora, queste stanze. I muri d'un grigio su cui scende e palpebra appena qualche leggerissima azzurrità (dell'aria, intendo; e del cielo che si stende fuori, oltre le invisibili finestre); su quei muri, una porta che s'apre; e di là dalla porta, lei, la gloriosa, la colpevole, la santa. Conoscevamo le donne di Bonnard, dove la triste bellezza aveva rapimenti dolcissimi, quasi ottenuti imbevendo carnali zuccheri in chissà quali liquori; conoscevamo quelle infilzate ai ferri dolenti della tortura (erano gli anni di guerra) di Gruber; e l'altre, a dire il vero tutte giovanissime, di Balthus, levigate nella cera delle loro adolescenti e incolpevoli ambiguità. Conoscevamo le donne crocefisse ai legni della tristezza e come appiattite poi dentro lo spazio-teca d'una continua interrogazione circa il senso del loro destino, di Giacometti; e le poche, proditoriamente dannate (ed odiate) di Bacon... Ma queste di Vallorz! Queste, a me pare, cancellano d'un colpo tutte le altre; e le sorpassano; col loro modo di venir avanti dal buio e di declinare così gli stadi, tutti, della vita! [...] Eretta tra gli stipiti; o ad essa abbandonata; presentandoci con pudore, quasi una moderna annunciazione, la luce baciata dei suoi seni, del suo profilo e dei suoi capelli rossastri; ovvero la superba nudità delle sue spalle e delle sue natiche (degne, per la tattilità e la voglia di toccare ed accarezzare, dei momenti più alti di Courbet e di quelli più concentrati di un Rubens); la donna di Vallorz è il grande canto che, di colpo, la modernità vera e religiosamente laica intona sulla modernità presunta, cioè sconciamente laica e falsa, la quale per anni ha umiliato la vita e, non ci facciamo certo illusioni, proseguirà per anni e anni a umiliarla ancora (è la sua ragione d'esistere e, quindi, il suo scopo). Ma il canto, intanto, s'è levato; e non sarà facile alle sirene distogliercene.[5]
  • [Su Gianfranco Ferroni] Ferroni più incisore che pittore? Non questa è la scelta. La scelta è, se mai, sulla definizione del suo mondo poetico o di come possa venir pronunciato con esattezza. E lì, non esistono dubbi; la risposta pende tutta dalla parte del biancore che chiama se stesso dal nero; della luce che chiama se stessa dall'ombra; o viceversa; insomma, dalla parte della neve abbacinata e abbacinante e dei bui velluti, densi e fruscianti come licheni, che si formano, piano piano, sull'intero sunto e, insieme, sull'intera consunzione dell'umana storia; ma, soprattutto, sulla possibilità che tale storia venga vanificata dalla domanda che, a un determinato punto del processo, insorge circa la sua realtà e, insieme, circa la sua ragione d'essere veramente esistita e di veramente esistere.[6]
  • Il modo in cui la musica di Bach[7]sotto o dentro le mani di Michelangeli, nell'unico, inscindibile impasto che si crea tra le sue mani e i tasti del pianoforte, andava depositandosi nello spazio era appunto un cerchio di perfezione. Non la perfezione di ciò che è obbedienza tecnica e meccanica, ma di ciò che è ripercorrimento e reinvenzione dell’impronta suprema e del supremo disegno fattisi musica, suono: quell'impronta che, appunto, genera perché il generato ritorni dentro il proprio grembo.[8]
  • In fondo, trovare il Cristo fasciato dai panni della nascita significa trovare dentro di noi il bambino che il Padre ha creato; significa, insomma, trovare dentro di noi la possibilità della nostra vera innocenza.[9]
  • [Su Varlin] Negata, dunque, e rifiutata ogni bellezza, ogni sua memoria, ogni suo segno? È questione d'intenderci; poiché una bellezza deformemente solenne e deformemente sublime sibilante nella sua voragine e nella sua perdizione d'un nero più nero dei fori stessi da cui nasciamo e da cui defechiamo, è presentissima e, anzi, intona e incarna lo stesso dissistemato sistema dell'ultimo Varlin; ed è da delibarsi come una risata che si faccia «complainte» sulla cisterna, tre sull'orinatoio, sul vespasiano e sulla latrina dell'universo mondo; e degli universi cieli. Ma, oltre a tutto questo, fate ben attenzione; in quelle voragine, in quei precipizi, in quegli iati, esistono occhi che v'attendono al varco: celesti, azzurri o neri, essi, possono fulminarvi lì, per sempre, con la forza e l'ipermalia medianica di gioielli fabbricati da un vero e proprio terrorista psichico; in essi s'è infatti coagulato tutto ciò che, per anni e anni, era stato il rutilante splendore della materia e delle trombe pittoriche varliniane; esistono bocche che possono aprirsi, mordervi, addentarvi, baciarvi; facce che possono ipnotizzarvi e obbligarvi a seguirle in eterno [...].[10]
  • Nell'ora tarda, nell'ora, qui, della dorata sera, vieni, Madre nostra amata, vieni, cascina consacrata! [...] Noi ti chiamiamo. Di Te sete, fame, bisogno abbiamo. Vieni, porta disserrata, speranza disarmata, cima altissima innevata! Tu sai, parlare Ti dobbiamo; su di noi, povere formiche, intorno a questa sedia che T'attende, non spirito, ma carne, Ti dobbiamo interrogare.[11]
  • [...] l'atto più rivoluzionario che l'uomo possa oggi compiere è anche l'atto più antico: l'accettazione delle sua origine sacra, divina.[12]
  • [A proposito dei radical chic] L'esempio più sporco e osceno di chi finge di perdere il proprio ruolo sociale per mantenerlo.[13]
  • L'uomo e la sua società stanno morendo per eccesso di realtà; ma d'una realtà privata del suo senso e del suo nome; privata, cioè, di Dio. Dunque, d'una realtà irreale.[14]
  • Mitoraj s'è sempre mosso per consegnare al nostro tempo le truppe di resistenza e d'assalto di ciò che il nostro tempo soprattutto desidera pur mostrando di non saperlo poi raggiungere: cioè, il valore morale, etico, religioso, se non addirittura teologico, della bellezza. È stato proprio continuando a battere su questo bisogno, e a battere con la paziente e pervicace costanza con cui gli antichi fabbri percuotevano il ferro, che Mitoraj ha, per dir così, scoperto più da vicino di che dolore, di che "lagrime e sangue" tale bellezza non può non "grondare".[15]
  • Quando ho detto che sono nato nel 1923, a Novate, cioè a dire alla periferia di Milano, dove da allora ho sempre vissuto e dove spero di poter vivere sino alla fine, ho detto tutto.[16]
  • Se c'è una pittura silente, anzi, nella sua mutezza, addirittura agghiacciante (ed abbagliante), questa è proprio quella di Grünewald. L'urlo, se esiste (e sicuramente esiste), viene di continuo ricacciato nella gola; anzi, nel buio più riposto del ventre; nei sotterranei dove s'annida la gloria dell'esistere e, insieme, la sua sconcezza, dove si verificano le sue nozze, i suoi pasti, ma anche i suoi coiti osceni e i suoi atti da stalla e da latrina.[17]
  • Se T'ho amato | è stata forse | anche questa | una proterva lussuria?[18]
  • [Su Gianfranco Ferroni] Siamo soli, ecco la constatazione terribile e primaria, soli, per sempre; e, chissà, soli da sempre. Trafitti dalla luce di ciò che fu; quella luce che diventa, sembra dirci Ferroni, tutto ciò che siamo stati e saremo. Così anche quando non esisteremo più come corpi, questi interni, questi studi, questi muri (o altri, forse differenziati, ma pur sempre eguali) vivranno ancora; e di noi, unico baluginio, cadrà, su di loro la luce in cui saremo andati, poco a poco, a finire; o a bruciare, come farfalle da lei troppo attratte, e disperate.[19]
  • [Su Pier Paolo Pasolini] Sull'atroce morte di Pasolini s'è scritto tutto; ma sulle ragioni per cui egli non ha potuto non andarle incontro, penso quasi nulla. Cosa lo spingeva, la sera o la notte, a volere e a cercare quegli incontri? La risposta è complessa, ma può agglomerarsi, credo, in un solo nodo e in un solo nome: la coscienza e l'angoscia dell'essere diviso, dell'essere soltanto una parte di un'unità che, dal momento del concepimento, non è più esistita; insomma, la coscienza e l'angoscia dell'essere nati e della solitudine che fatalmente ne deriva. La solitudine, questa cagna orrenda e famelica che ci portiamo addosso da quando diventiamo cellula individua e vivente e che pare privilegiare coloro che, con un aggettivo turpe e razzista, si ha l'abitudine di chiamare "diversi". Allora, quando il lavoro è finito (e, magari, sembra averci ammazzati per non lasciarci più spazio altro che per il sonno e magari neppure per quello); quando ci si alza dai tavoli delle cene perché gli amici non bastano più; quando non basta più nemmeno la figura della madre (con cui, magari, s'è ingaggiata, scientemente o incoscientemente, una silenziosa lotta o intrico d'odio e d'amore) e si resta lì, soli, prigionieri senza scampo, dentro la notte che è negra come il grembo da cui veniamo e come il nulla verso cui andiamo, comincia a crescere dentro di noi un bisogno infinito e disperante di trovare un appoggio, un riscontro; di trovare un "qualcuno"; quel "qualcuno" che ci illuda, fosse pure per un solo momento, di poter distruggere e annientare quella solitudine; di poter ricomporre quell'unità lacerata e perduta.[20]
  • T'ho amato con pietà | con furia T'ho adorato. | T'ho violato, sconciato, | bestemmiato. || Tutto puoi dire di me | tranne che T'ho evitato. (da Nel tuo sangue)

Incipit di Il ponte della Ghisolfa[modifica]

"Gli ho mandato un biglietto e se non è diventato un vigliacco deve venire" l'aveva pensato così forte che gli sembrò d'averlo detto.
Allora alzò il polsino della camicia e guardò l'orologio: la lancetta aveva passato le dieci.
Era affondato nella sedia; i piedi chiusi nelle fibbie incrociate dei sandali gli uscivan da sotto il tavolo; la camicia aperta sul davanti fin all'inizio del ventre aveva due macchie di sudore che s'allargavano da una parte all'altra.

Note[modifica]

  1. Da Il Giorno, 30 luglio 1999, p. 69.
  2. Da Corriere della Sera, 20 marzo 1978.
  3. Da Nel tuo sangue, Rizzoli, 1973.
  4. Da Disperata umanità dell'ultimo maledetto, Corriere della Sera, 29 aprile 1992, p. 7.
  5. Da Nudi alla porta, Citato in catalogo della mostra, Galleria Mario Tazzoli, Milano, Galleria La Parisina, Torino, 1975.
  6. Da Ferroni, Incisioni 1957-1991, Scritti di Giovanni Testori e Marco Goldin, Gallerie Oreste Bellinzona e Arialdo Ceribelli, Lecco, 1991, pp. 6-7.
  7. La Ciaccona di Bach-Busoni. Cfr. Bruno Giurato, Benedetti Michelangeli, i sette brani con cui supera i più grandi pianisti del mondo, linkiesta.it, 5 maggio 2018.
  8. Da un articolo per il Corriere della Sera del 3 febbraio 1979, citato in Bruno Giurato, Benedetti Michelangeli, i sette brani con cui supera i più grandi pianisti del mondo, linkiesta.it, 5 maggio 2018.
  9. Da La maestà della vita, Rizzoli, 1982.
  10. Da L'ironia, la cenere, il niente, in Willy Varlin, catalogo della mostra alla Rotonda di via Besana di Milano, Milano 1976, Silvana editoriale, riportato in rodoni.ch.
  11. Da Interrogatorio a Maria, Rizzoli, 1979.
  12. Citato in Augusto Del Noce, Perché l'"imprimatur" del teologo inquieto, Il Tempo, 20 maggio 1979.
  13. Citato in Roberto Gervaso, Ve li racconto io, Mondadori, Milano, 2006, p. 417. ISBN 88-04-54931-9
  14. Da Corriere della Sera, 20 marzo 1978.
  15. Da Appunti sulle ultime opere di Mitoraj, in Igor Mitoraj, fotografie di Liberto Perugi, testi di Donald Kuspit e Giovanni Testori, traduzioni di Massimo Parizzi e Carol Rathman, Fabbri Editori, 1991.
  16. Da Opere, a cura di Fulvio Panzeri, Bompiani, 2003.
  17. Da Grünewald, la bestemmia e il trionfo; in L'opera completa di Grünewald, apparati critici e filologici di Piero Bianconi, Rizzoli, Milano, 1972, p. 7.
  18. Da Ossa mea, Mondadori, 1974.
  19. Citato in Gianfranco Ferroni opere su carta 1963-1991, a cura di Marco Goldin, Galleria Bellinzona, Lecco, 1991, pp. 59-60.
  20. Da A rischio della vita, L'Espresso, 9 novembre 1975.

Bibliografia[modifica]

Altri progetti[modifica]