Giuseppe Galasso

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Giuseppe Galasso negli anni Ottanta

Giuseppe Galasso (1929 – 2018), storico, giornalista, politico e professore universitario italiano.

Citazioni di Giuseppe Galasso[modifica]

  • Croce resta sempre e non solo una gloria napoletana di rara qualità e di alte dimensioni [...] Egli vive come vivono i classici, che sembrano lontani e sono, in realtà, costantemente accanto a noi.[1]
  • L'ultimo grido della moda universitaria sembra sia la rinuncia alle lingue nazionali. Tutto in inglese. Così, si dice, si attirano gli studenti stranieri e gli studenti locali fanno un percorso, da subito; internazionale. Sarà, ma qualcosa mi preoccupa. Adeguarsi a una lingua imperiale è un atto saggio e funzionale a molti scopi pratici. Ma così la tutela delle culture europee perde di senso, e il plurilinguismo non è una risposta. Le lingue sono l'essenza di tradizioni e culture: via le lingue, addio.[2]
  • [...] nell'analisi di Geremicca lo sforzo di riflessione porta ad individuare una serie di forze, di posizioni, tendenze, problemi di schieramento che danno un'immagine assai viva e stimolante della dialettica politico-sociale del mondo napoletano. Privilegiato ne appare soprattutto il rapporto fra gruppi dirigenti, intellettuali, elementi tecnici, centri di potere e di pressione, livelli istituzionali, da un lato, e le grandi masse, i grandi nuclei aggregativi riconoscibili a livello della coscienza e della realtà sociale, dall'altro lato.[3]
  • [Su Francesco Saverio Nitti] Nitti fu un grande pensatore di cui molte cose sulla democrazia e sull'economia restano di attualità in una visione grande, ma realistica dell'Italia. Guardiamo soprattutto all'oggi per valorizzare un pensiero che pare oggi molto utile al contesto italiano.[4]
  • [Su Masaniello] Pochi altri momenti e figure storiche del Mezzogiorno d'Italia ebbero altrettanta risonanza europea e lasciarono una scia altrettanto consistente di memoria e di mito.[5]
  • [...] Quello della Juventus è stato il primo grande mito fuori del campo politico, sociale, ecc. che il Nord abbia offerto, oltre che a sé stesso, anche al Mezzogiorno: un tipo di mito attinente ai giusti e al costume di una moderna società di massa, per cui il Mezzogiorno era solito guardare fino allora alle cronache e al cinema americano.[6]
  • [La credenza nella jettatura nell'analisi di de Martino] Una superstizione come la jettatura, presente in ogni ceto fino a quelli dei maggiori intellettuali, gli sembrava una spia preziosa dei limiti storici incontrati dalla cultura e dal razionalismo moderni in un ambito di civiltà complessivamente sottosviluppato. A loro volta questi limiti storici erano da lui giudicati come l'ovvia risultanza della mancata maturazione di un'economia e di una borghesia moderna in cui il sottosviluppo meridionale si concretava. La perigliosità della tesi stava sia nella corriva facilità con cui in un tratto sociale estremamente ambiguo, come quello della reale o affettata credenza nella jettatura, veniva ravvisato un elemento della storia morale e culturale; sia nell'ingenuo determinismo con cui venivano legati economia, società psicologia e cultura. Facilità e determinismo furono rapidamente corretti nella prospettiva metodologica e critica de La terra del rimorso. Successivamente, negli studi raccolti poi nel volume Furore Simbolo Valore e nelle ricerche avviate per «l'analisi delle apocalissi culturali» e, a loro volta, raccolte nel postumo La fine del mondo, De Martino avrebbe mostrato che forme imprevedibili di dissociazione della personalità e di miseria psicologica nascono anche nelle società alle soglie dell'era post-industriale. [...] Avrebbe, cioè, assorbito totalmente in termini di «cultura» e di analisi culturale i dati del condizionamento socio-economico.[7]

Intervista sulla storia di Napoli[modifica]

  • Nel corso dei secoli, e specialmente con il consolidarsi dell'appartenenza al dominio romano, la città aveva acquistato pure una fisionomia di centro culturale magari un po' provinciale, ma tranquillo, dignitoso, informato: qualcosa come una piccola città universitaria dell'Inghilterra vittoriana. Nello stesso tempo, però, qualcosa anche come le città turistiche della Riviera ligure in cui dall'Inghilterra vittoriana si veniva a villeggiare o a svernare, in quanto fra Capri, Baia, Napoli a altri centri campani si andò sviluppando, fra il I secolo avanti Cristo e il I secolo dopo Cristo, la zona di soggiorno invernale, riposo, villeggiatura, svago più elegante dell'alta società romana. Fu in questa Napoli che Virgilio trascorse molti anni e scrisse le Georgiche, trasmettendone pure l'immagine serena, benché dolcemente malinconica nella sua malia. Negli ultimi anni dell'Impero romano in Occidente la città sembra presentare una fisionomia più composita, e anche – se così posso dire – meno composta. Sembra come se la dolcezza malinconica, virgiliana, si fosse stemperata nell'edonismo lascivo e vitalisticamente agitato, tumultuoso della città ideata da Petronio come scena del Satyricon. (pp. 25-26)
  • Il ducato era una monarchia, un principato, che riproduceva in piccolo il modulo del governo imperiale bizantino, derivato da quello del tardo Impero romano; e la società napoletana dei tempi ducali era anche essa una prosecuzione, con la prevalenza della classe militare imposta dalle necessità di uno stato cronico di guerra, della società romana dello stesso periodo tardoimperiale, fondata sul privilegio e sulla prevalenza della maggiore proprietà fondiaria. Il ducato era perciò piuttosto un frammento ammirevolmente difeso e sopravvissuto del mondo antico che il preannuncio, come i Comuni dell'Alta Italia, di una più moderna realtà politica, civile, economico-sociale. (p. 30)
  • Forse, il dato più da sottolineare per cogliere la dimensione effettiva del potere nella Napoli ducale è la costante subordinazione dell'arcivescovo ai duchi: l'opposto di quella spiccata presenza vescovile nella storia politica dell'epoca precomunale, che ebbe così grande parte nel preparare la vocazione e le forze dell'autonomia cittadina e nella formazione del mondo comunale; e il parallelo, invece, della tradizione tardoimperiale e romano-bizantina di assorbimento del potere ecclesiastico nell'azione dello Stato. (pp. 31-32)
  • [...] Napoli fu la base operativa della flotta cristiana che nel 1571 riportò sui turchi la decisiva vittoria di Lepanto, con la quale si pose un alt definitivo alla minaccia ottomana sui paesi cristiani del Mediterraneo. Per quanto non lo si ricordi, ancora più importante fu, tuttavia, la funzione strategica di Napoli nei confronti del teatro politico e militare italiano ed Europeo. Napoli, col Regno, fu infatti la retrovia, la seconda linea dell'azione spagnola nella Valle Padana, dove Milano apparteneva egualmente, dal 1535, alla Corona madrilena. Retrovia di Milano, fortezza e cittadella, per così dire, di Milano, fu perciò per due secoli Napoli. (p. 45)
  • Carlo fu uno dei monarchi più benemeriti della storia di Napoli per lo slancio e per la volontà di rinnovamento che seppe imprimere al governo del paese specialmente nei primi anni del suo regno. Come ha ricordato uno storico recente e autorevole della sua opera di re di Napoli, Raffaele Ajello, Tanucci definiva quegli anni come il «tempo eroico» della dinastia. Poi lo slancio si affievolì, si ebbe una fase di indugio in cui prevalsero forze più conservatrici. Ma il seme gettato col debutto del nuovo e giovane sovrano nel 1734 non andò perduto nei rimanenti venticinque anni: del resto egli fu un grande re riformatore anche in Spagna. (p. 111)
  • [A Napoli] si insediò una vera e propria colonia di pittori tedeschi. Le loro esperienze concorsero allo sboccio, nel secolo seguente, di quella «scuola di Posillipo», nella quale si sarebbe espressa, in una serena luminosità, la percezione più congeniale e partecipe del paesaggio napoletano nell'epoca del suo maggiore e più armonico equilibrio fra storia e natura. Il Vesuvio acquistò allora la sua suggestione simbolica su scala europea; e altrettanto cominciò ad accadere a Posillipo, ai Campi Flegrei, alla costiera sorrentina, alle isole del golfo. (p. 122)
  • Era solo nelle grandi ricchezze naturali del luogo – la luce, il sole, l'azzurro incomparabile del cielo e del mare, la linea insieme aspra e dolce del paesaggio tirrenico, la non comune mitezza del clima – che le insufficienze enormi dell'abitato cittadino si scioglievano e davano luogo a un paesaggio urbano della vitalità e del colore di Napoli, per cui si poteva anche dimenticare, come spesso avveniva, che quella vitalità e quel colore erano il corrispettivo di una struttura sociale tragicamente caratterizzata dalla presenza dell'enorme massa sottoproletaria. [...] Per cogliere appieno quella che doveva essere allora[8]la bellezza della città, quale ce l'ha trasmessa anche la pittura del tempo, bisogna riferirsi in generale all'equilibrio complessivo dell'insieme dell'abitato col territorio e col paesaggio. Allora lo spettacolo è di una seduzione sottile e inebriante. Le cose sembrano respirare nello stesso tempo un'atmosfera vitalissima, carica di profondi e pesanti effluvi, e una vaga aura di morte. Io capisco molto bene Sciascia, quando dice qualcosa del genere per la sua Sicilia, e La Capria, quando parla del «ferito a morte», ferito da questa dolorosa dialettica tra una natura stupenda e una società senza sufficienti equilibri e cariche interne. (pp. 125-126)
  • Nella capitale [...] era rimasta come elemento capace di una grande azione di massa, soltanto l'enorme massa sottoproletaria: una massa che poteva determinare situazioni di sovvertimento e di sconvolgimento della vita cittadina, ma non una presenza significativa come quella dei contadini legati alle sorti del regime feudale e alle vicende della terra[9]. Del resto, proprio il 1799 doveva dimostrare che ora, a differenza della Francia, le sorti del paese non si decidevano più nella capitale e che, come accadrà fino alla caduta del Regno nel 1860, sarebbero state le province a determinare gli equilibri di forza decisivi. (p. 132)
  • La vittoria francese, a cui essi [i rivoluzionari napoletani] dovevano la vita della Repubblica, limitava, però, d'altro canto, la loro azione. E la Francia del 1799, pur agitando ancora le parole di rivoluzione e di libertà, operava ormai da tempo con la logica brutale di una grande potenza in espansione. Perciò anche a Napoli il rapporto con lo Stato-guida della rivoluzione e della causa rivoluzionaria si traduceva in un rapporto di subordinazione dei rivoluzionari periferici. Anche a Napoli i francesi pensavano come a un'area di sfruttamento e di rapina di risorse e di mezzi e come moneta strategica e moneta diplomatica, come merce di scambio sul piano strategico e sul piano diplomatico nel gioco internazionale di cui la Francia era protagonista. La prima preoccupazione dei rivoluzionari doveva, quindi, essere quella di soddisfare le richieste, soprattutto finanziarie, dei rappresentanti di Parigi. (pp. 132-133)
  • [Sulla Rivoluzione napoletana del 1799] La qualità culturale, morale e anche politica di questa prima classe liberale e democratica napoletana era altissima; rappresenta addirittura un culmine nella storia della città e del paese. Ma proprio il loro impegno e il loro sacrificio dovevano dimostrare che la guida, la leadership intellettuale non poteva surrogare quella sociale ed economica e che molte cose mancavano, da questo punto di vista, a Napoli per essere la Parigi, in tutti i sensi, del Mezzogiorno. La storia di Napoli come capitale pagava qui il suo primo e decisivo pedaggio. I privilegi di capitale, la dimensione metropolitana non corroborata da un'adeguata spinta interna, la coltivazione del parassitismo, l'emarginazione di grandi masse in una dura condizione proletaria si rivelavano come una strozzatura attraverso la quale anche una rottura rivoluzionaria poteva difficilmente passare. (p. 134)
  • I sovrani e il governo borbonico non si resero conto di quanto fosse organico, profondo e importante questo rapporto costante di Napoli con l'Europa e di come il loro urto con le forze progressiste del Mezzogiorno non fosse affatto una questione locale. È questa miopia ad approfondire, addirittura, e a rendere più drastica la rottura del 1799 e a ispirare quella condotta per cui la causa borbonica finirà col caratterizzarsi come una causa assolutamente conservatrice e reazionaria. (p. 151)
  • Il napoletanismo deteriore e il mito della napoletanità hanno un po' stravolto, anzi hanno stravolto parecchio, il significato di questo momento aureo[10], l'ultimo grande momento – finora! – della Napoli artistica e letteraria. Ne è venuta fuori la smania del bozzetto napoletano, del colore locale; la coltivazione dell'«umanità» napoletana, che sarebbe un'umanità più umana di ogni altra; lo spleen di una tavolozza di sentimenti lacrimevolmente patetici; il mito di una vitalità primigenia irreprimibile: insomma, un misto di scugnizzo, di anima bella, di piccolo mondo antico e di provincialismo estetico che a me pare un falso storico, una dannosa evasione dalla realtà e un autentico contributo alla diffamazione napoletana de se stessi. (196)
  • [La Mostra d'Oltremare] non esprimeva solo il coronamento dell'intervento a Fuorigrotta, ma una più generale visione della città, la visione che in ultimo se ne fece il fascismo: una Napoli volta verso il Mediterraneo e l'Africa, grande porto coloniale e militare, sostegno industriale e retrovia commerciale della potenza italiana oltremare e, perfino, base culturale dell'Italia africana, come si diceva allora, tramite l'Istituto Orientale e altre istituzioni universitarie ed extrauniversitarie. [...] Era, però, anche una visione pateticamente provinciale e ritardataria nel 1938-39. (pp. 227-228)
  • Nel periodo fascista, in un'Italia e in un mondo mutati, col primo avvio della società consumistica, con l'incipiente trionfo della meccanizzazione di massa e dei mezzi di comunicazione di massa, la continuità voleva dire ristagno, degradazione, salto di qualità all'ingiù. E, infatti, è in questo periodo che, dopo le grandi fiammate del '700 e della belle époque, Napoli tende ancora più a provincializzarsi, si trova sempre più spinta ai margini delle correnti principali della vita sociale e intellettuale. (p. 236)
  • Tutta «speciale» la politica per Napoli da un secolo a questa parte: regi commissari, commissari speciali, leggi speciali. L'eccezionale come norma, e come alibi della classe politica, soprattutto di quella impegnata a livello nazionale, nei riguardi dei problemi cittadini. Ed espressione anche dell'incapacità o difficoltà manifestate nel portare avanti uno sforzo o un disegno più ordinario, ma anche più costante e costruttivo. (p. 246)
  • Il sottoproletariato napoletano non è, del resto, un cane che si faccia portare a passeggio meccanicamente. All'irrazionalità della sua formazione storica corrisponde puntualmente l'imprevedibilità del suo comportamento socio-politico. (p. 252)
  • L'importante è che di Napoli non si faccia un feticcio, né come caso disperato, né come fatto di napoletanità. La napoletanità è tutta nella storia. Il caso disperato è un comodo luogo comune di evasione della responsabilità. Direi che mai come nel caso di Napoli va bene riconoscere alla questione molte radici, molte tendenze di sviluppo, molte possibilità di orientamento, molta disponibilità di forze attuali, molte potenzialità. E che, quindi, le risposte e le scelte semplicistiche, a una dimensione, sono proprio le meno responsabili, le meno coraggiose. (p. 285)

Note[modifica]

  1. Da una mail inviata a Gigi Di Fiore. Citato in Gigi Di Fiore, Galasso, il pensiero di Croce e il "neoborbonismo", ilmattino.it, 13 febbraio 2018.
  2. Da L'inglese per troppi, Corriere della Sera, 27 novembre 2007, p. 47.
  3. Dalla prefazione a Andrea Geremicca, Dentro la città, Guida Editori, Napoli 1977.
  4. Citato in Fondazione Nitti: Giuseppe Galasso presidente Comitato scientifico, Repubblica.it, 12 dicembre 2010.
  5. Dalla prefazione a Aurelio Musi, La rivolta di Masaniello nella scena politica barocca, Guida Editori, Napoli, 1989.
  6. Da Perché la Juve è così popolare al Sud?, La Stampa, 8 febbraio 1969.
  7. Da L'altra Europa: per un'antropologia storica del Mezzogiorno d'Italia, Guida, Napoli, 2009, p. 432. ISBN 978-88-6042-631-4
  8. Nel 1700.
  9. I contadini erano interessati alla soppressione degli abusi e delle usurpazioni baronali, non del regime feudale cui erano legati da un sistema di usi e consuetudini che assicuravano loro vantaggi marginali, ma indispensabili alla loro precaria sussistenza. Cfr. più dettagliatamente Intervista sulla storia di Napoli, pp. 130-131.
  10. Il riferimento è all'alto livello e alla grande influenza che Napoli conseguì nella cultura e nell'arte durante il cinquantennio liberale.

Bibliografia[modifica]

  • Giuseppe Galasso, Intervista sulla storia di Napoli, a cura di Percy Allum, Laterza, Roma-Bari, 1978.

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