Gerolamo Rovetta

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Gerolamo Rovetta

Gerolamo Rovetta (1851 – 1910), scrittore e drammaturgo italiano.

La baraonda[modifica]

Incipit[modifica]

Nora piombò nella saletta come un fulmine.
- Ho fame! Ho fame! – Poi gridò, chiamando e voltandosi verso l'uscio della cucina:
- Gioconda! Presto! La colazione!
- La Gioconda, – rispose Evelina, senza alzare il capo né la voce, – la Gioconda l'ho mandata adesso alla posta. Torna subito. – E continuò a scrivere, curva, tutta addosso alla tavola, colla faccia sulle cartelle.

Citazioni[modifica]

  • Per la sua coscienza di pubblicista la destra o la sinistra non erano, non potevano essere altro che le due mani del medesimo corpo: la patria... S'intende, la patria dell'ordine. (p. 10)
  • È destino comune degli uomini di genio, Aristide, l'Alighieri, Galileo, Fulton, Fara-Bon, che le loro grandi idealità, le loro grandi scoperte, debbano imporsi e trionfare soltanto dopo la loro morte! (p. 38)
  • Quando in una casa manca il necessario, comincia a mancare anche il timor di Dio! (p. 49)
  • Amo i giovani, perché non ho più fede che nei giovani. (p. 77)
  • All'affarismo che monta, al realismo che dilaga, unico baluardo i giovani che hanno il disinteresse dell'idea ed il culto dell'ideale. (p. 77)
  • È la parola, fecondatrice del pensiero, nel dibattito delle grandi idee. (p. 77)
  • Come stanno le nostre Alpi? – L'eco italico risponde vindice alla nordica bestemmia, col verso magnanimo o magnifico del mio povero Prati? – Salutamele. E al Caffaro e a Bezzecca, alle Sante Termopili della terza Roma, l'evviva, l'Excelsior del vecchio colonnello garibaldino! (p. 77)

Mater dolorosa[modifica]

Incipit[modifica]

Mentre il conte e la contessa Della Valle partivano per Parigi, o almeno così si doveva credere a Borghignano, una delle città più importanti del Veneto, il duca e la duchessa d'Eleda avevano sciolte le vele alla volta di Palermo.
A trentacinque anni, la duchessa Maria d'Eleda quantunque apparisse, in quei giorni, un po' indisposta, era ancora una donna bellissima. Bionda e bianca, aveva le flessuosità eleganti di una fanciulla, mentre tutto l'insieme le dava quell'aria che si dice aristocratica. Nulla riusciva a meravigliarla, ben poco a commuoverla e anche il tempo sembrava fosse passato dinanzi a lei senza che ella si fosse degnata di accorgersene. In quella freddezza statuaria però c'era qualcosa, da cui Lavater avrebbe tratto conclusioni molto diverse dalle solite che sopra di lei formavano gli osservatori superficiali.

Citazioni[modifica]

  • Nobile, ricco, tutt'altro che imbecille, coll'aureola dell'uomo pubblico, Prospero Anatalio aveva avuto tutti i requisiti per essere fortunato in galanteria; invece colle donne egli non era stato mai un Cristoforo Colombo... solo qualche volta un Amerigo Vespucci. E ciò non per altro che per un difetto di pronuncia; difetto che non gli era abituale, ma egli che si faceva pur troppo sensibilissimo quando si trovava vicino a una donna che gli piaceva. (p. 8)
  • In una terra di ciechi, un miope fa certo fortuna; ed il partito clericale, forte, disciplinato, minaccioso fuori della Camera, nell'aula parlamentare era impotente, né avrebbe trovato nel proprio seno chi per l'influenza del nome e delle ricchezze potesse rappresentarlo meglio di lui. Il duca dunque fu riconosciuto e accettato come capo della fazione, e così, o bene o male, se non una celebrità divenne una notorietà della Camera. (p. 11)
  • Giorgio della Valle era un sognatore; ma bisogna ricordare che a vent'anni il Manzoni, il Giusti, il Settembrini avevano avuto quell'istesso ideale, avevano fatto quell'istesso sogno; invece la gioventù scettica e squattrinata che dorme... e non sogna, senza essere più svegliata per questo, gridava al conte repubblicano la croce addosso, gli arrabbiati chiamandolo un mestatore ambizioso, e i tolleranti un matto pericoloso. (p. 13-14)
  • La bellezza della duchessa d'Eleda aveva raggiunto allora quasi la perfezione, e quel poco che le mancava per esser perfetta, ne accresceva la grazia. Era una bellezza che parlava ai sensi e al cuore; grande, bionda, pallida, l'eterno femminino di Goethe aveva in lei la sua espressione più viva, e la formalità giovanile, i suoi fascini più attraenti. Il poeta Aleardo, allora di moda, la paragonava a una Madonna pensata dal Beato Angelico, e dipinta dal Rubens. (p. 19-20)
  • Quando non c'è un amante di mezzo che faccia da diaframma, i raggi lucenti della moglie cadono diritto a illuminare il marito [...]. (p. 20)
  • Sèdan s'era già resa; a Porta Pia era stata aperta la breccia; era caduto l'impero Napoleonico; era finito il potere temporale... e in tutto questo gran rumore di avvenimenti il duca d'Eleda aveva perduto la testa e l'equilibrio. (p. 63)
  • La preghiera, la preghiera più accetta è il tuo dolore. Piangi, figliuola mia, le lacrime sono la preghiera del cuore. (p. 129)
  • Il giudizio è come lo spirito; colle donne chi ne ha lo perde, e chi non ne ha lo acquista... chi non ne ha! (p. 133)
  • L'antipatia è una sensazione, più che un sentimento, e si modifica a seconda dei casi. (p. 154)
  • Come ci riesce bene il diavolo quando ci vuol mettere la coda! (p. 203)

Incipit di alcune opere[modifica]

Baby e i tiranni minimi[modifica]

Quelle venti o trenta persone, che rappresentavano il sancta sanctorum del bel mondo veronese, e al club si appartavano per conversare in un circolo altrettanto intimo quanto ristretto, e che si riunivano al lunedì dalla marchesa d'Arcole, al mercoledì dalla generalessa Brocca di Broglio, e al venerdì da madama Kraupen, erano state scosse nella loro inerte monotonia da una notizia importante: il conte Andrea di Santasillia ritornava a Verona.

I Barbarò[modifica]

Era la mattina dell'ultimo di gennaio del 1842, o del 1843, salvo il vero, e Milano, come quasi sempre le succede in quel torno, era tutta avvolta nella nebbia; una nebbia bigiognola, bassa, fitta fitta, proprio (si diceva così anche allora) da tagliar col coltello.
Tuttavia, nemmeno col freddo né col tempaccio, Pompeo Barbetta, che per colazione s'era ben bene impinzato di panna e di burro, non avea voluto rinunziare alla sua passeggiata per fare il chilo, e mentre l'orologio della torre dei Mercanti batteva le dieci e mezzo, egli, lemme lemme, sbucava, tutto inferraiolato e col naso sepolto nel bavero, da una delle tante stradette che facevano capo in Piazza del Duomo.

Il tenente dei Lancieri[modifica]

La ditta portava il nome del padre «Giovanni Monghisoni», ma chi comandava, la vera padrona del negozio, era sempre stata l'unica figlia del Monghisoni: la signora Maddalena, maritata Trebeschi.
Colla sagacia, col fiuto degli affari, uniti a una gran passione per i quattrini, e di più col vento sempre in poppa, la signora Maddalena aveva mandato avanti la nave a gonfie vele, aveva raddoppiata e triplicata la sostanza paterna. Ma quanta attività, quanta tenacia, quanto lavoro ci aveva messo, e quanto sforzo di polmoni! La voce della signora Maddalena squillava, in ogni ora e in ogni stanza, come una campana; giovane, sana, esuberante, il gridare era il suo unico sfogo.

L'idolo[modifica]

A Milano: nella «gran sala» del Circolo Artistico-letterario.
Un salone qualunque, abbastanza armonico, ornato di bandiere nazionali e di fantasia.
Giordano Mari, illustre pensatore e storico elegante: parla molto e scrive, poco, per cui la sua fama è in continuo aumento. Bell'uomo: barba bionda, corta; capelli bruni, lucenti, ondulati; ciuffo alla moderna. Età, forse, quarantacinque anni, che all'occhio superficiale, e dopo le cure e la cura della toeletta possono anche sembrare, forse, trentacinque. Diritto in piedi, sul palco elevato, accanto al tavolino, colla solita bottiglia e il solito bicchier d'acqua dal fondo arrugginito, parla da tre quarti d'ora sui Precursori della Rivoluzione.

Ninnoli[modifica]

Se Domenico Ghegola non fu un eroe, la colpa certo non è stata sua, ma del coraggio che sempre gli venne meno in tutte le circostanze della vita.
Vi è, non è vero? un certo coraggio sui generis, così detto della paura, il quale, alle volte, spinge anche i timidi a compiere prodigi di valore.... Ebbene, lo credereste?... Domenico Ghegola non ebbe mai neppure il coraggio della paura.

Citazioni su Gerolamo Rovetta[modifica]

  • Il Rovetta è, soprattutto, un uomo di mondo, che ha tanta esperienza della vita, quanto, almeno, ne occorre per diffidarne o non prenderla troppo sul serio. Non è un feroce pessimista, anche se La realtà[1] finisce così tragicamente: l'evidente sproporzione fra causa ed effetto che è in essa, prova la non grande sincerità di una conclusione, più voluta per ragioni d'effetto teatrale, che sentita dall'autore. È uno scettico arguto, malizioso ed amaro, semplicemente: e però non predica, non moraleggia, non pensa, nemmeno lontanamente, che un opera qualsiasi di letteratura, o d'altro, possa mai riuscire efficace a correggere ed emendare i cattivi costumi, i difetti dell'umanità. (Luigi Tonelli)
  • Pochi giorni prima che egli ci lasciasse si era sparsa la falsa notizia della sua morte. Alcuni giornali pubblicarono articoli listati a lutto che parlavano di lui e dell'arte sua con accorato rimpianto. Gerolamo Rovetta rise di questa sinistra e bizzarra avventura, ma non troppo. «Meno male, disse tra divertito e seccato, che so quello che diranno di me quando morirò davvero!». (Renato Simoni)

Mario Borsa[modifica]

  • Discorreva, in quel suo veronese un po' tagliente, della sua arte come di un mestiere, quasi ostentatamente. A sentir lui doveva fare, per sbarcare il lunario, tanti romanzi e tante commedie all'anno. Non scriveva per amore dell'arte. Aveva bisogno di successo. Per questo era abile nel fiutare il vento. Mi ricordo che il vento soffiando allora molto da sinistra, egli, ancorché di principi conservatori, scrisse Marco Spada, una commedia nella quale i milanesi credettero, non a torto, di ravvisare alcune notabilità del mondo politico e giornalistico d'allora, come Dario Papa, Anna Kuliscioff ed altri.
  • Era sua abitudine annotare in un taccuino ciò che lo colpiva di più nelle persone: tratti curiosi, motti debolezze, talché i personaggi dei suoi drammi come dei suoi romanzi parevano copiati dal vero.
  • Il Rovetta era un lavoratore metodico, compassato nella sua arte come nella sua persona. Faceva vita piuttosto ritirata ma quando si conversava con lui si avvertiva subito l'osservatore attento, malizioso e qualche volta anche un po' acido.

Note[modifica]

  1. Dramma in tre atti di Rovetta.

Bibliografia[modifica]

  • Gerolamo Ravetta, Baby e i tiranni minimi, Baldini e Castoldi, 1913.
  • Gerolamo Ravetta, I Barbarò o le lagrime del prossimo, Milano, Treves, 1890.
  • Gerolamo Ravetta, Il tenente dei Lancieri, Casa editrice Madella, Sesto S. Giovanni, 1916.
  • Gerolamo Ravetta, L'idolo, Milano, Casa Edit. Galli di Baldini, Castoldi e C., 1898.
  • Gerolamo Rovetta, La baraonda, Casa Editrice Baldini, Castoldi & C. Milano 1907.
  • Gerolamo Ravetta, La baraonda, Milano, Fratelli Treves, 1894.
  • Gerolamo Rovetta, Mater dolorosa, Casa Editrice Baldini e Castoldi, Milano 1921.
  • Gerolamo Ravetta, Ninnoli, Roma, A. Sommaruga, 1884.

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