Il mondo come volontà e rappresentazione

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Copertina dell'edizione tedesca del 1844

Il mondo come volontà e rappresentazione, saggio filosofico di Arthur Schopenhauer del 1819.

Incipit[modifica]

Giorgio Brianese[modifica]

«Il mondo è mia rappresentazione»: questa è una verità che vale per qualsiasi essere vivente e pensante, sebbene solamente l'uomo possa averne una coscienza riflessa e astratta; e se riesce a farlo sul serio, ecco che il modo di pensare della filosofia è entrato in lui. Gli diventa chiaro e certo, allora, che ciò che conosce non sono né il sole né la terra, ma sempre e soltanto un occhio che vede il sole, una mano che tocca la terra; che il mondo che lo circonda esiste unicamente come rappresentazione, ossia sempre e solo in relazione a un altro, a colui che se lo rappresenta, il quale è poi lui stesso.

[Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, a cura di Giorgio Brianese, Einaudi, Torino, 2013. ISBN 978-88-06-21786-0]

Nicola Palanga[modifica]

«Il mondo è una mia rappresentazione»: ecco una verità valida per ogni essere vivente e pensante, benché l'uomo possa soltanto venirne a coscienza astratta e riflessa. E quando l'uomo sia venuto di fatto a tale coscienza, lo spirito filosofico è entrato in lui. Allora, egli sa con chiara certezza di non conoscere né il sole né la terra, ma soltanto un occhio che vede un sole, e una mano che sente il contatto d'una terra; egli sa che il mondo circostante non esiste se non come rappresentazione, cioè sempre e soltanto in relazione con un altro essere, con il percipiente, con lui medesimo.

[Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, a cura di Giuseppe Riconda, traduzione di Nicola Palanga, Mursia, Milano, 1991. ISBN 88-425-0905-1]

Paolo Savj-Lopez e Giuseppe De Lorenzo[modifica]

«Il mondo è mia rappresentazione»: — questa è una verità che vale in rapporto a ciascun essere vivente e conoscente, sebbene l'uomo soltanto sia capace d'accoglierla nella riflessa, astratta coscienza: e s'egli veramente fa questo, con ciò è penetrata in lui la meditazione filosofica. Per lui diventa allora chiaro e ben certo, ch'egli non conosce né il sole né la terra, ma appena un occhio, il quale vede un sole, una mano, la quale sente una terra; che il mondo da cui è circondato non esiste se non come rappresentazione, vale a dire sempre e dappertutto in rapporto ad un altro, a colui che rappresenta, il quale è lui stesso.

[Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, traduzione di Paolo Savj-Lopez e Giuseppe De Lorenzo, Editori Laterza, Roma-Bari, 1991. ISBN 8842020796]

Citazioni[modifica]

  • Alla malvagità è già affine la sete di vendetta, che il male paga col male, non per riguardo al futuro, il che costituisce il carattere della pena, ma solo per il fatto accaduto, passato; quindi senza vantaggio; non come mezzo, ma come fine, per letiziarsi nel tormento, da noi stessi inflitto l'offensore. Ciò che distingue la vendetta dalla pura malvagità, e in qualche po' la scusa, è un'apparenza di giustizia; in quanto lo stesso atto, che stavolta è vendetta, quando fosse legale, ossia compiuto secondo una regola fissa e notoria, e in seno a una collettività, da cui questa fosse sanzionata, si chiamerebbe pena, cioè diritto. (§65, 1991)
  • [Sul Don Chisciotte] [...] allegorizza la vita di ogni uomo che non voglia solo preoccuparsi del proprio benessere personale come gli altri, ma persegua un fine oggettivo, ideale, che si è impadronito del suo pensiero e della sua volontà; per il che poi certo viene guardato in questo mondo come un essere strano. (III, 50; 2010)
  • Anch'io alla fine sono comunque arrivato e ho la soddisfazione di vedere, al termine della mia carriera, il principio della mia influenza, con la speranza che essa, conforme a un'antica regola, durerà a lungo nella proporzione in cui è cominciata tardi. (Prefazione alla terza edizione; 2010)
  • Altri tempi dovrebbero sorgere invero, prima che la mia filosofia possa giungere a una cattedra: sarebbe davvero bella che questa mia filosofia, dalla quale non si può trarre guadagno, raggiungesse l'aria e la luce, e persino una universale considerazione!
  • Ciascun individuo, ciascun volto umano e ciascuna vita non è che un breve sogno dell'infinito spirituale naturale, della permanente volontà di vivere; non è che una nuova immagine fuggitiva, che la volontà traccia per gioco sul foglio infinito dello spazio e del tempo, lasciandola durare un attimo appena percettibile di fronte all'immensità di quelli, e poi cancellandola, per dar luogo ad altre. (§ 58)
  • Ciò che per la volontà è il calore, è per la conoscenza la luce. La luce è quindi il più grosso diamante nella corona della bellezza, e ha il più deciso influsso sopra la conoscenza di ciascun bell'oggetto: la sua presenza è condizione assoluta; la sua favorevole situazione aumenta anche la bellezza di ciò ch'è bellissimo. (libro III, Il mondo come rappresentazione, § 39; 1991, tomo II, p. 362)
  • Davanti a un'opera d'arte bisogna comportarsi come di fronte a un principe, e mai prendere la parola per primi. Altrimenti, si rischia di sentire soltanto la propria voce.
  • Desiderare l'immortalità è desiderare la perpetuazione in eterno di un grande errore.
  • È davvero incredibile come insignificante e priva di senso, vista dal di fuori, e come opaca e irriflessiva, sentita dal di dentro, trascorra la vita di quasi tutta l'umanità. È un languido aspirare e soffrire, un sognante traballare attraverso le quattro età della vita fino alla morte, con accompagnamento d'una fila di pensieri triviali. (§ 58)
  • È impossibile che una generazione come quella contemporanea, che per vent'anni ha strombazzato un Hegel, questo Calibano intellettuale, come il più grande dei filosofi con tanto strepito da farne echeggiare tutta l'Europa, possa far venir voglia del suo plauso a chi a ciò ha assistito. Essa non ha più ghirlande da largire: il suo plauso è prostituito e il suo biasimo non può significare nulla. Che io dica ciò sul serio, è chiaro dal fatto che, se in qualche modo avessi aspirato al plauso dei miei contemporanei, avrei dovuto cancellare venti passi che contrastano completamente con tutte le opinioni dei medesimi, chc anzi in parte devono essere per loro scandalosi. Ma io mi ascriverei a delitto sacrificare a quel plauso anche solo una sillaba. (Prefazione alla seconda edizione; 2010)
  • Fenomeno è rappresentazione e nulla più; e ogni rappresentazione, ogni oggetto di qualsiasi specie è fenomeno. Cosa in sé è soltanto la volontà che a tal titolo non è affatto fenomeno, anzi ne differisce toto genere... La volontà è la sostanza intima, il nocciolo di ogni cosa particolare e del tutto; è quella che appare nella forza naturale cieca, e quella che si manifesta nella condotta ragionata dell'uomo.
  • Gli uomini somigliano a orologi che vengono caricati e camminano, senza sapere il perché; ed ogni volta che un uomo viene generato e partorito, è l'orologio della vita umana di nuovo caricato, per ripetere ancora una volta, fase per fase, battuta per battuta, con variazioni insignificanti, la stessa musica già infinite volte suonata. (§ 58)
  • I miei scritti portano così chiaro in fronte il marchio dell'onestà e della sincerità, che già per questo contrastano in modo stridente con quelli dei tre celebri sofisti del periodo postkantiano. (2010)
  • I pensieri degli spiriti originali non tollerano la mediazione di una mente comune. Trasportati entro l'angusto alloggio di crani stretti, schiacciati, massicci [...] essi – nati dietro spaziose, alte e ben curvate fronti sotto le quali splendono occhi luminosi – perdono ogni vita e vigore, non si riconoscono più.
  • Il talento coglie un bersaglio che nessun altro riesce a colpire; il genio coglie un bersaglio che nessun altro riesce a vedere.[1][2]
  • Il conflitto interno della volontà oggettivandosi in tutte queste idee si manifesta nella implacabile guerra di sterminio che si fanno a vicenda gli individui di quelle specie... Il teatro e l'oggetto di questa lotta è la materia, di cui gli avversari cercano di strapparsi a viva forza il possesso; è il tempo e lo spazio, la cui riunione nella forma di causalità costituisce propriamente la materia.
  • Il diritto che ha l'uomo di disporre della vita e delle forze degli animali ha il suo proprio fondamento sul fatto che a mano a mano che la coscienza si accresce in chiarezza, si accresce in proporzione anche il dolore [...] In base a tutto ciò si determina in pari tempo il grado in cui l'uomo può senza ingiustizia usufruire delle forze animali; questo limite viene troppo spesso infranto, specialmente riguardo alle bestie da soma e ai cani da caccia; quindi, a reprimer tale abuso, si sono istituite apposite società protettrici degli animali. A parer mio, il diritto dell'uomo non è neppure tale da autorizzare le vivisezioni in genere; tanto meno, se si tratti di animali superiori. (dall'edizione a cura di Giuseppe Riconda, Mursia, Milano 2000, p. 415)
  • Il dolore è in effetti il processo di purificazione che solo permette, nella maggior parte dei casi, di santificare l'uomo, di distoglierlo cioè dalla volontà di vita. Perciò nei libri di edificazione cristiana viene così spesso nominata la virtù salvatrice della croce e del dolore, e molto propriamente la croce, strumento di sofferenza e non di azione, è il simbolo della religione cristiana.
  • Il mondo è solo una mia rappresentazione.
  • Il nucleo e lo spirito più profondo del cristianesimo è identico a quello del bramanesimo e del buddismo: tutti insegnano la grave colpa della razza umana causata dalla sua semplice esistenza.
  • Il protestantesimo, eliminando l'ascesi e il suo punto centrale, cioè i meriti del celibato, ha di fatto rinunciato al nucleo più profondo del cristianesimo, e deve quindi venire considerato uno scarto di questo. Può essere una buona religione per pastori protestanti amanti della comodità, sposati e illuminati: ma non è cristianesimo.
  • Il riso nasce ogni volta da nient'altro che dall'incongruenza improvvisamente scorta fra un concetto e gli oggetti reali che per mezzo di esso erano stati pensati in una qualunque relazione, ed esso stesso è appunto solo l'espressione di questa incongruenza. Essa si produce spesso per il fatto che due o più oggetti reali vengono pensati per mezzo di un solo concetto e l'identità di quest'ultimo viene trasferita a quelli; ma poi una totale diversità di essi nel resto rende evidente che il concetto conveniva loro solo in un aspetto unilaterale. Altrettanto spesso è tuttavia un unico oggetto reale, quello la cui incongruenza con il concetto, sotto il quale esso era stato da una parte a ragione sussunto, diventa improvvisamente avvertibile. Quanto più giusta poi è da una parte la sussunzione di tali realtà sotto il concetto, e quanto più grande e stridente è d'altra parte la loro inadeguatezza rispetto ad esso, tanto più forte è l'effetto del ridicolo che scaturisce da questo contrasto. Ogni ridere nasce dunque a motivo di una sussunzione paradossale e pertanto inaspettata; è indifferente che si esprima a parole o a fatti. È questa in breve la vera spiegazione del ridicolo.
  • Il suicidio, lungi dall'essere negazione della volontà [...] è un atto di forte affermazione della volontà stessa [...] ne deriva che la distruzione di un fenomeno isolato è azione in tutto vana e stolta.
  • In verità, non esiste godimento se non nell'uso e sentimento delle proprie forze, e il maggior dolore è la riconosciuta mancanza di forze, là dove se n'avrebbe bisogno.[3]
  • [...] l'antichissima sapienza indiana dice: «È Maya, il velo ingannatore, che avvolge gli occhi dei mortali e fa loro vedere un mondo del quale non può dirsi né che esista, né che non esista; perché ella rassomiglia al sogno, rassomiglia al riflesso del sole sulla sabbia, che il pellegrino da lontano scambia per acqua; o anche rassomiglia alla corda gettata a terra, che egli prende per un serpente» (Questi paragoni si trovano ripetuti in luoghi innumerevoli dei Veda e dei Purana).
  • L'etica stoica, presa nel suo insieme, è in effetti un pregevolissimo e rispettabilissimo tentativo di utilizzare il grande privilegio dell'uomo, la ragione, per uno scopo importante e salutare, cioè per elevare l'uomo al di sopra delle sofferenze e dei dolori, a cui ogni vita è commessa [...] e per renderlo appunto con il sommo grado partecipe della dignità che gli spetta, come essere razionale, in contrasto con l'animale, e della quale comunque si può parlare in questo senso, ma non in un altro. [...] Ma per quanto raggiungibile sia in certo grado quello scopo, con l'impiego della ragione e con un'etica meramente razionale [...]; moltissimo tuttavia manca perché si possa addivenire in tale modo a qualcosa di perfetto e perché la ragione rettamente usata possa realmente sottrarci a tutto il peso e a tutte le sofferenze della vita e condurci alla beatitudine. [...] [N]eanche nella sua stessa rappresentazione il suo ideale, vale a dire il sapiente stoico, poté mai acquistare vita o intima verità poetica; egli rimane un rigido manichino di legno, di cui non si sa cosa fare, che non sa egli stesso che cosa farsi della sua saggezza, e di cui la perfetta calma, contentezza e beatitudine contraddicono addirittura la natura dell'umanità e non ci fanno pervenire a nessuna rappresentazione intuitiva di essa. (I, 16; 2010)
  • L'imitazione delle qualità e caratteristiche altrui è molto più vergognosa del portare abiti altrui, perché è il giudizio della propria nullità espresso da se stessi. (2010)
  • L'individuo conoscente, come tale, e la singola cosa da lui conosciuta sono sempre in qualche luogo, in un dato tempo; sono anelli nella catena delle cause e degli effetti. Il puro soggetto della conoscenza ed il suo correlato – l'idea – sono usciti fuori da tutte quelle forme del principio di ragione: il tempo, il luogo, l'individuo che conosce e l'individuo che viene conosciuto non hanno per essi alcun significato. Non appena un individuo conoscente si eleva nel modo indicato a puro soggetto del conoscere, ed appunto con ciò l'oggetto conosciuto innalza ad idea, si presenta integro e puro il mondo come rappresentazione, e accade la compiuta oggettivazione della volontà, perché soltanto l'idea è sua adeguata oggettità. Questa chiude oggetto e soggetto parimenti in sé, essendo entrambi la sua unica forma: ma in lei oggetto e soggetto mantengono appieno l'equilibrio: e come l'oggetto anche qui non altro è se non la rappresentazione del soggetto, così anche il soggetto perdendosi tutto nell'oggetto intuito – è diventato quest'oggetto medesimo, in quanto l'intera conscienza non è che la più limpida immagine di esso. Questa conscienza appunto – in quanto tutte le idee, ossia i gradi dell'oggettità della volontà, vengono per suo mezzo percorse ordinatamente col pensiero – costituisce l'intero mondo quale rappresentazione. Le singole cose d'ogni tempo e luogo non sono altro che le idee moltiplicate dal principio di ragione (forma della conoscenza degli individui in quanto tali) e perciò turbate nella lor pura oggettità. Come nel mentre appare l'idea non sono più in lei distinguibili soggetto ed oggetto, perché sol quando l'uno e l'altro reciprocamente si compiono e si penetrano appieno balza fuori l'idea, l'adeguata oggettità della volontà, il vero mondo quale rappresentazione; così sono anche in tale atto indistinguibili, come cose in sé, l'individuo conoscente ed il conosciuto. Perciocché se facciamo astrazione da quel vero e proprio mondo quale rappresentazione nulla rimane, se non il mondo come volontà. La volontà è l'in-sé dell'idea, la quale oggettiva quella compiutamente; la volontà è anche l'in-sé del singolo oggetto e dell'individuo che lo conosce: i quali oggettivano quella incompiutamente. In quanto volontà, fuor della rappresentazione e di tutte le sue forme, essa è una e identica nell'oggetto contemplato e nell'individuo, che innalzandosi a codesta contemplazione diventa conscio di sé come puro soggetto; oggetto e individuo non sono perciò distinti in sé, poi che in sé essi sono la volontà, che quivi conosce se stessa. (libro III, Il mondo come rappresentazione, § 34; 1991, tomo II, pp. 323-325)
  • L'unica origine dell'arte è la conoscenza delle idee; e il suo unico fine è la comunione di tale conoscenza.[4]
  • La causalità non può di per sé essere rappresentata in modo intuitivo: simile rappresentazione non è possibile che per una relazione causale determinata. D'altra parte, invece, ogni fenomeno dell'idea, poiché assume, come tale, la forma del principio di ragione, o del principium individuationis, deve manifestarsi nella materia e come qualità della materia.
  • La mia opinione invero è (e perciò trova qui posto la mia spiegazione) che ogni errore è una conclusione dall'effetto alla causa, conclusione che ha valore. Quando si sa che l'effetto può avere quella causa e nessun'altra; ma non in altri casi. Chi sbaglia, o attribuisce all'effetto una causa, che quello non può punto avere; nel che dimostra vera mancanza di intelletto, ossia incapacità di conoscer direttamente il nesso tra causa ed effetto: oppure, come accade più spesso, dato l'effetto determina bensì una causa possibile, ma alla maggior premessa del sillogismo, con cui va dall'effetto alla causa, aggiunge che codesto effetto costantemente proviene dalla causa attribuitagli. (§ 15; tomo I, pp. 153-154)
  • La mia filosofia non è per nulla adatta a che si possa vivere di lei. Essa è priva dei requisiti primi, essenziali per una ben retribuita cattedra di filosofia.
  • La musica, intesa come espressione del mondo, è una lingua universale al massimo grado, e la sua universalità sta all'universalità dei concetti più o meno come i concetti stanno alle singole cose.[4]
  • La qualità del sapere è più importante della sua quantità. Questa conferisce ai libri solo spessore, quella profondità e insieme stile, perché è una grandezza intensiva, mentre l'altra è una grandezza meramente estensiva. La qualità consiste nella chiarezza e completezza dei concetti, oltre che nella purezza ed esattezza delle conoscenze intuitive che ne stanno alla base; perciò tutto il sapere ne viene penetrato in tutte le sue parti ed è corrispondentemente pregevole o meschino. Con piccola quantità ma buona qualità di esso si fa di più che non con grandissima quantità e cattiva qualità.[5]
  • La speranza ci fa vedere quello che desideriamo, e la paura quello che ci preoccupa, come probabile e vicino, e ambedue ingrandiscono il loro oggetto. Platone (secondo Eliano, V. H., 13, 28) ha in modo molto bello chiamato la speranza il sogno del desto. La sua essenza sta in ciò, che la volontà costringe il suo servo, l'intelletto, quando esso non è in grado di procurare quel che si desidera, a dipingerglielo almeno davanti agli occhi, ad assumersi in genere la parte del consolatore, ad acquietare il suo padrone con delle favole, come la balia il bambino, e ad aggiustare queste ultime in modo che acquistino verosimiglianza. (2010)
  • La sua vita oscilla quindi come un pendolo, di qua e di là, tra il dolore e la noia, che sono in realtà i suoi veri elementi costitutivi. (§ 57; tomo II, p. 244)
  • La vera filosofia deve in ogni caso essere idealista: anzi deve esserlo, se vuole semplicemente essere onesta. Perché niente è piú certo, che nessuno può mai uscire da se stesso, per identificarsi immediatamente con le cose distinte da lui: bensí tutto ciò che egli conosce con sicurezza, cioè immediatamente, si trova dentro la sua coscienza. [...] Il realismo, che trova credito presso l'intelletto incolto, perché si dà l'aria di essere aderente ai fatti, prende addirittura come punto di partenza un'ipotesi arbitraria ed è perciò un edificio di vento campato in aria, perché sorvola o rinnega il primissimo fatto: che, cioè, tutto ciò che noi conosciamo si trova nella coscienza. (II, 1) [6]
  • La vita d'ogni singolo, se la si guarda nel suo complesso, rilevandone solo i tratti significanti, è sempre invero una tragedia; ma, esaminata nei particolari, ha il carattere della commedia. Imperocché l'agitazione e il tormento della giornata, l'incessante ironia dell'attimo, il volere e il temere della settimana, gli accidenti sgradevoli d'ogni ora, per virtù del caso ognora intento a brutti tiri, sono vere scene da commedia. Ma i desideri sempre inappagati, il vano aspirare, le speranze calpestate senza pietà dal destino, i funesti errori di tutta la vita, con accrescimento di dolore e con morte alla fine, costituiscono ognora una tragedia. Così, quasi il destino avesse voluto aggiungere lo scherno al travaglio della nostra esistenza, deve la vita nostra contenere tutti i mali della tragedia, mentre noi riusciamo neppure a conservar la gravità di personaggi tragici, e siamo invece inevitabilmente, nei molti casi particolari della vita, goffi tipi da commedia. (§ 58)
  • La vita e i sogni sono fogli di uno stesso libro: leggerli in ordine è vivere, sfogliarli a caso è sognare.
  • Le cause non determinano il carattere della persona, ma soltanto il manifestarsi di questo carattere, cioè le azioni.[3]
  • Le teste scadenti sono la regola, le buone l'eccezione, le eminenti rarissime, il genio un portentum.[7]
  • Mentre per l'uomo comune il proprio patrimonio conoscitivo è la lanterna che illumina la strada, per l'uomo geniale è il sole che rivela il mondo.
  • Nella pittura storica e nella scultura, l’eccitante consiste in figure nude, che per l’atteggiamento, la mezza nudità e tutto il modo della rappresentazione mirano a destare libidine nello spettatore; dal che viene subito distrutta la contemplazione puramente estetica: ossia si opera in opposizione allo scopo dell’arte. (III, 40. 1993)
  • Nella tragedia vediamo le creature più nobili rinunziare, dopo lunghi combattimenti e lunghe sofferenze, ai fini perseguiti con accanimento, sacrificare per sempre le gioie della vita, oppure sbarazzarsi liberamente con gioia del peso dell'esistenza medesima... bisogna tenere bene a mente, se si vuol comprendere l'insieme delle considerazioni presentate in quest'opera, che quest'opera suprema del supremo genio poetico ha il fine di mostrare il lato terribile della vita, i dolori senza nome, le angosce dell'umanità, il trionfo dei malvagi, il poter schernitore del caso, la disfatta irreparabile del giusto e dell'innocente; nel che si ha un indice significativo della natura del mondo e dell'esistenza.
  • Nel Nuovo Testamento si parla del mondo come di qualcosa di estraneo, che non si ama, dominato dal diavolo. Questo coincide con lo spirito ascetico della negazione del proprio Sé e del superamento del mondo, che insieme all'illimitato amore per il prossimo, addirittura per il nemico, è la caratteristica che il cristianesimo ha in comune con il bramanesimo e il buddismo, e ne dimostra l'affinità.
  • Nessun essere, eccetto l'uomo, si stupisce della propria esistenza; per tutti gli animali essa è una cosa che si intuisce per se stessa, nessuno vi fa caso. Nella pacatezza dello sguardo degli animali parla ancora la saggezza della natura; perché in essi la volontà e l'intelletto non si sono ancora distaccati abbastanza l'uno dall'altro per potersi, al loro reincontrarsi, stupirsi l'uno dell'altra. Così qui l'intero fenomeno aderisce ancora strettamente al tronco della natura, dal quale è germogliato, ed è partecipe dell'inconsapevole onniscienza della grande Madre. Solo dopo che l'intima essenza della natura (la volontà di vivere nella sua oggettivazione) s'è elevata attraverso i due regni degli esseri incoscienti e poi, dopo essere passata, vigorosa ed esultante, attraverso la serie lunga e vasta degli animali, è giunta infine, con la comparsa della ragione, cioè nell'uomo, per la prima volta alla riflessione: allora essa si stupisce delle sue proprie opere e si chiede che cosa essa sia. La sua meraviglia, però, è tanto più seria, in quanto essa si trova qui per la prima volta coscientemente di fronte alla morte, e, accanto alla caducità di ogni esistenza, le si rivela anche, con maggiore o minore consapevolezza, la vanità di ogni aspirazione. Con questa riflessione e con questo stupore nasce allora, unicamente nell'uomo, il bisogno di una metafisica: egli è dunque un animal metaphysicum.[8]
  • Nessuna verità è più certa, più assoluta, più lampante di questa: tutto ciò che esiste non è altro che l'oggetto in rapporto al soggetto.
  • Noi ci illudiamo continuamente che l'oggetto voluto possa porre fine alla nostra volontà. Invece, l'oggetto voluto assume, appena conseguito, un'altra forma e sotto di essa si ripresenta. Esso è il vero demonio che sempre sotto nuove forme ci stuzzica.[9]
  • Non ai contemporanei, non ai connazionali: all'umanità consegno la mia opera ormai compiuta, nella sicurezza che non sarà per essa senza valore, quand'anche ciò dovesse, come il destino del bene in ogni forma comporta, essere riconosciuto soltanto tardi. (Prefazione alla seconda edizione; 2010)
  • Poiché i contrari si illuminano a vicenda, può qui trovar posto l'osservazione, che il vero e proprio contrario del sublime è alcunché a tutta prima non riconoscibile per tale: l'eccitante. Chiamo così ciò che eccita la volontà, con l'immediato prometterle esaudimento, appagamento. Se l'impressione del sublime è nata dal fatto che un oggetto avverso alla volontà può divenire oggetto di pura contemplazione, e questa viene continuata sol mediante un perenne distogliersi dalla volontà ed elevarsi sopra l'interesse di lei, la qual cosa appunto costituisce il sublime in tal disposizione; l'eccitante viceversa fa discendere lo spettatore dalla contemplazione pura, richiesta per ogni percezione del bello, eccitando forzatamente la sua volontà, per mezzo di oggetti che direttamente l'attraggono: sì che lo spettatore non è più puro soggetto del conoscere, bensì bisognoso, dipendente soggetto del volere. (III, 40. 1993)
  • Presso di me, come presso Spinoza, il mondo esiste per interna forza e da se stesso.[10]
  • Quei signori [i professori di filosofia] vogliono vivere, e precisamente vivere della filosofia: da questa traggono sostentamento con moglie e prole, e tutto – nonostante il «povera e nuda vai filosofia» del Petrarca – tutto essi hanno arrischiato su di lei.
  • Se percepiamo più facilmente l'idea nell'opera d'arte che nella contemplazione diretta della natura e della realtà, ciò si deve al fatto che l'artista, il quale non si fissa che nell'idea e non volge più l'occhio alla realtà, riproduce anche nell'opera d'arte l'idea pura, distaccata dalla realtà e libera da tutte le contingenze che potrebbero turbarla.
  • Se, sollevati dalla potenza dello spirito, abbandoniamo la maniera usuale di considerar le cose e cessiamo di ricercare secondo gli aspetti del principio di ragione le reciproche relazioni loro, di cui è ultimo termine sempre la relazione con la nostra volontà; se quindi non più si considera il dove, il quando, la causa e la finalità delle cose, ma unicamente ciò che elle sono; se non lasciamo che il pensare astratto, i concetti della ragione s'impadroniscano della conscienza, bensì viceversa tutta la forza dello spirito nostro diamo all'intuizione, in questa ci sprofondiamo, e la conscienza intera lasciamo riempire dalla tranquilla contemplazione dell'oggetto naturale che ci sta innanzi, sia esso un paesaggio, un albero, una roccia, un edifizio o quel che si voglia; allor che – secondo un'espressiva locuzione tedesca – ci si perde appieno in quell'oggetto, ossia si dimentica il proprio individuo, la propria volontà, e si rimane nient'altro che soggetto puro, chiaro specchio dell'oggetto, come se l'oggetto solo esistesse, senza che alcuno fosse là a percepirlo, né più è possibile separare colui che intuisce dall'intuizione stessa, poiché sono diventati tutt'uno, essendo l'intera conscienza riempita e presa da una sola immagine d'intuizione; se adunque in siffatto modo l'oggetto s'è disciolto da ogni relazione con altri oggetti fuor di se stesso, e il soggetto s'è disciolto da ogni relazione con la volontà – allora quel che viene così conosciuto non è più la singola cosa come tale, ma è l'idea, l'eterna forma, la diretta oggettità della volontà in quel grado. E perciò appunto non è più individuo quegli che è assorto in tale intuizione, imperocché proprio l'individualità vi s'è perduta. Egli è invece puro soggetto della conoscenza, fuori della volontà, del dolore, del tempo. (libro III, Il mondo come rappresentazione, § 34; 1991, tomo II, pp. 321-322)
  • [...] se si conducesse il più ostinato ottimista attraverso gli ospedali, i lazzaretti, le camere di martirio chirurgiche, attraverso le prigioni, le stanze di tortura, i recinti degli schiavi, pei campi di battaglia e i tribunali, aprendogli poi tutti i sinistri covi della miseria, ove ci si appiatta per nascondersi agli sguardi della fredda curiosità, e da ultimo facendogli ficcar l'occhio nella torre della fame di Ugolino, certamente finirebbe anch'egli con l'intendere di qual sorte sia questo meilleur des mondes possibles. Donde ha preso Dante la materia del suo Inferno, se non da questo mondo reale? E nondimeno n'è venuto un inferno bell'e buono. Quando invece gli toccò di descrivere il cielo e le sue gioie, si trovò davanti ad una difficoltà insuperabile: appunto perché il nostro mondo non offre materiale per un'impresa siffatta. (§ 59; 1991, tomo II, p. 266)
  • Sempre più chiaramente obbiettivandosi di grado in grado, la volontà agisce tuttavia ancor del tutto incosciente, come oscura forza impulsiva. (§ 27)
  • Si consideri per esempio il Corano: questo cattivo libro è stato sufficiente a fondare una religione mondiale, a soddisfare per milleduecento anni il bisogno metafisico di innumerevoli milioni di uomini, a divenire la base della loro morale e di un notevole sprezzo della morte, come anche a infiammarli per guerre cruente ed estesissime conquiste. Noi troviamo in esso la forma di teismo più triste e meschina. Molto può andar perduto con le traduzioni, ma io non vi ho saputo scoprire assolutamente nessun pensiero di valore. Una cosa del genere dimostra che la capacità metafisica non va di pari passo col bisogno metafisico. (Supplementi, libro I, cap. 17, § 178; 2010, p. 1092)
  • [...] solo nel mondo quale rappresentazione, la cui forma è sempre almeno di soggetto e oggetto, veniamo a scinderci in conosciuto e conoscente individuo. Non appena il conoscere – il mondo quale rappresentazione – è tolto via, non rimane altro se non pura volontà, cieco impulso. Il suo farsi oggettità, il divenir rappresentazione, stabilisce d'un tratto sia soggetto che oggetto. L'essere invece codesta oggettità pura, compiuta, adeguata oggettità della volontà, pone l'oggetto come idea, libero dalle forme del principio di ragione, e il soggetto come puro soggetto della conoscenza, sciolto dall'individualità e dal servizio della volontà. Ora chi al modo sopra detto si è tanto addentro sprofondato e smarrito nella contemplazione della natura, da non esistere più se non come puro soggetto conoscente, viene con ciò senz'altro a sentire che, in quanto tale, egli è la condizione, egli è che contiene il mondo e ogni esistenza oggettiva; poi che questa non si presenta più d'ora innanzi se non come dipendente dall'esistenza sua. Egli trae adunque dentro a sé la natura, sì da sentirla solo come un accidente dell'esser suo. [...] Ma come potrebbe, chi sente così, se stesso credere del tutto mortale, in contrasto con l'immortale natura? Piuttosto lo afferrerà la coscienza di ciò che l'Upanishad del Veda esprime; «Hae omnes creaturae in totum ego sum, et praeter me aliud ens non est» (Oupnek'hat, I, 122) (libro III, Il mondo come rappresentazione, § 34; 1991, tomo II, pp. 325-326)
  • Templi e chiese, pagode e moschee testimoniano con sfarzo e grandezza, in tutti i paesi, in tutti i tempi, il bisogno metafisico dell'uomo, che, forte e inestirpabile, segue da presso quello fisico. (2010)
  • Tutta la conoscenza, originariamente e secondo la sua essenza, è al servizio della volontà. Il punto di partenza della conoscenza non è altro se non volontà oggettiva.[4]
  • Un eterno divenire, una corsa senza fine, ecco la caratteristica con cui si manifesta l'essenza della volontà. Di tal natura sono infine gli sforzi e i desideri umani, che ci fanno brillare innanzi la loro realizzazione come fosse il fine ultimo della volontà; ma non appena soddisfatti, cambiano fisionomia; dimenticati, o relegati tra le anticaglie, vengono sempre, lo si confessi o no, messi da parte come illusioni svanite.
  • Veramente ogni bambino è in certo qual modo un genio, e ogni genio in certo qual modo un bambino. (2010)
  • Una disposizione interiore, una prevalenza del conoscere sul volere possono produrre questa condizione [la contemplazione estetica] in qualsiasi circostanza. Ce lo mostrano quegli straordinari pittori fiamminghi che hanno rivolto questa pura intuizione oggettiva agli oggetti più insignificanti e ci hanno lasciato un durevole monumento della loro oggettività e della serenità del loro spirito nelle loro nature morte: chi le osserva sul piano estetico non può contemplarle senza emozionarsi, dato che gli fanno presente lo stato d'animo quieto, sereno, libero dalla volontà, dell'artista; quello stato d'animo che gli è stato necessario per contemplare cose tanto insignificanti in modo così oggettivo, per considerarle con così grande attenzione e per riprodurre questa intuizione con tanta cura; e mentre il quadro ci invita a essere partecipi di questa condizione, la sua emozione viene spesso ulteriormente accresciuta dal contrasto con lo stato d'animo inquieto, turbato dalla violenza del volere, nel quale ci troviamo. (§ 38; 2013, p. 262)

Citazioni su Il mondo come volontà e rappresentazione[modifica]

  • Se fra i cani vi fosse uno Schopenhauer, che avesse un analogo modo di pensare, potrebbe scrivere i libri interessanti! Schopenhauer ha scritto un libro, Il mondo come volontà e rappresentazione, perché era un uomo, il suo cervello olfattivo era stato trasformato in organo della ragione. Il cane scriverebbe un interessante libro: Il mondo come volontà e profumo. Vi si potrebbero trovare molte cose che l'uomo non può sapere, perché l'uomo si fa delle rappresentazioni, mentre il cane fiuta. Io credo anzi che, se il cane fosse uno Schopenhauer, il libro che esso scriverebbe sarebbe molto più interessante del libro scritto da Schopenhauer stesso, Il mondo come volontà e rappresentazione! (Rudolf Steiner)

Note[modifica]

  1. Secondo volume, Terzo libro, Capitolo 31 (Del genio)
  2. Citato anche in: La misura dell'uomo, Marco Malvaldi, Giunti Editore, collana Scrittori Giunti, 2018. ISBN 9788809864481
  3. a b Citato nel Dizionario delle citazioni, a cura di Italo Sordi, BUR, 1992. ISBN 881714603X
  4. a b c Citato in Vincenzo Cicero, Introduzione a «La nascita dell'estetica moderna da Kant a Schopenhauer», Colonna Edizioni, Milano 2002; traduzione di Vincenzo Cicero.
  5. Da Il mondo come volontà e rappresentazione, traduzione di Sossio Giametta, Bompiani, 2010, p. 1279. ISBN 978-88-452-5710-0
  6. Citato in Grande Antologia Filosofica, Milano, Marzorati, 1971, vol. XIX, pp. 602-603.
  7. Da Il mondo come volontà e rappresentazione, traduzione di Sossio Giametta, Bompiani, 2010, p. 1287.
  8. Citato in Umberto Antonio Padovani, Andrea Mario Moschetti, Grande antologia filosofica, Marzorati, Milano, 1971.
  9. I, 52 in Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1971, vol. XIX, p. 143.
  10. Citato in Emilia Giancotti, Baruch Spinoza 1632-1677, Editori riuniti, Roma, 1985.

Bibliografia[modifica]

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