Indro Montanelli e Roberto Gervaso

Da Wikiquote, aforismi e citazioni in libertà.

Voci principali: Indro Montanelli, Roberto Gervaso.

Storia d'Italia[modifica]

L'Italia dei secoli bui[modifica]

  • [Attila] Il suo orgoglio era pari soltanto alla sua avarizia, ch'era immensa. Il suo potere era basato unicamente sulla paura ch'egli ispirava. Non c'erano intorno a lui né entusiasmi né affetti, ma soltanto il terrore. Se fosse un genio come qualcuno ha detto, non sappiamo, e invano ne chiediamo conferma agli avvenimenti. Anche in campo militare, dove lo si vuol paragonare a Annibale e a Napoleone, a conti fatti bisogna riconoscere che l'unica grande battaglia in cui si trovò impegnato la perse, o per lo meno non la vinse. In compenso, era scaltrissimo, rotto a tutti i raggiri, paziente e crudele. (cap. 9; 1968, p. 109)
  • Tipico [delle persecuzioni di Genserico] fu il caso di Sebastiano, il genero di Bonifacio, ch'era rimasto a Ippona e s'era messo al servizio del Vandalo. Questi aveva per lui un certo debole, ma avendo in precedenza stabilito che solo gli ariani potevano frequentare la Corte, gli chiese di abiurare alla fede cattolica. [...] Genserico si diede per vinto. Ma pochi giorni dopo fece uccidere Sebastiano. (cap. 11; 1968, p. 141)
  • Probabilmente vandalismo diventò sinonimo di crudeltà non tanto per il trattamento cui i Vandali sottoponevano le città conquistate e i popoli vinti, che non era poi in fondo diverso e peggiore di quello che usavano tutti gli altri barbari, quanto per la fanatica e cocciuta persecuzione religiosa di quella specie di Scarpia sanguinario e bigotto, che fu Genserico. (cap. 11; 1968, p. 142)
  • Leone I si fece incontro al Vandalo con la stessa compostezza e maestà con cui pochi anni prima si era fatto incontro a Attila. La sua mediazione non ebbe altrettanto successo, ma anche stavolta riuscì a evitare il peggio. (cap. 11; 1968, pp. 142-143)
  • Odoacre era il figlio di quell'Edecone che con Oreste aveva fatto parte del servizio diplomatico di Attila. Il modo in cui trattò il vecchio amico e collega di suo padre, sulle cui ginocchia forse aveva saltato da bambino, ci dice abbastanza del suo carattere. Egli governò l'Italia per diciassette anni, dal 476 al 493. C'era venuto dopo la dissoluzione dell'orda, e nell'esercito imperiale aveva fatto una rapida carriera, proporzionata ai suoi meriti, ch'erano grandi, e all'inettitudine degli Imperatori, ch'era grandissima. (cap. 12; 1968, p. 152)
  • Il giorno stesso in cui il Patriarca gli conferì le insegne imperiali, Giustiniano s'era sposato. La moglie era una ex baldracca. Si chiamava Teodora ed era figlia di un domatore d'orsi. Procopio dice ch'era bellissima. Ma non è vero. Aveva le gambe piuttosto corte, i fianchi robusti, il seno troppo abbondante, l'incarnato anemico. Ma gli occhi neri e vivaci, i capelli corvini, lo sguardo da civetta la rendevano talmente sexy da risvegliare persino i sensi pigri di Giustiniano. A quanto pare questi era, a quarant'anni, ancora vergine, quando la incontrò sulla mesé, ch'era la via Veneto di Bisanzio. Da quel giorno, anzi da quella notte, essa divenne la sua amante, e lui il suo prigioniero. (cap. 18; 1968, p. 204)

L'Italia dei Comuni[modifica]

  • [Federico Barbarossa] Aveva sposato in prime nozze Adelaide di Vonburg ma poi, col consenso del Papa, l'aveva ripudiata perché sterile e s'era unito con Beatrice di Borgogna, che gli aveva portato in dote la ricchissima valle del Rodano, fino alle Fiandre. Beatrice era una donna gracile e minuta. Aveva i capelli castani e gli occhi chiari. Conosceva i classici e aveva letto i padri della Chiesa. Era docile, casta e pia, e diede a Federico, che le fu sempre fedele, numerosa prole. (cap. 16; 1974, p. 226)
  • Nuovo Papa fu eletto un vecchio cardinale lucchese che prese il nome di Lucio III. La nomina non piacque ai romani perché Lucio, a corto come il suo predecessore di quattrini, dovette limitare le elemosine. Dopo poco tempo infatti fu obbligato ad abbandonare l'Urbe e a cercar rifugio nell'Italia del Nord. (cap. 16; 1974, p. 246)
  • Col Barbarossa calò nella tomba anche una parte dell'Impero: quella che s'estendeva dalle Alpi alla Magra, l'Italia cioè dei Comuni che Federico non era mai riuscito completamente a domare. Per i tedeschi era stato un grande Imperatore, per gli italiani uno spietato tiranno. Fu inferiore al suo modello, Carlomagno, ma dall'epoca dei Pipinidi i tempi erano parecchio cambiati. S'erano formati gli Stati nazionali, la città aveva soppiantato la campagna, e la borghesia aveva spezzato le catene del feudalesimo. Era con queste forze nuove che Federico aveva dovuto fare i conti. E non erano, come abbiamo visto, conti facili. Se alla fine non gli tornarono, fu perché l'Impero che egli incarnava era anacronistico. Aveva lottato contro il suo tempo. Ed era stato sconfitto. (cap. 16; 1974, pp. 249-250)
  • [Riccardo I d'Inghilterra] chiese di vedere un eremita calabrese, di nome Gioacchino, che viveva in una caverna sui monti della Sila e godeva fama di profeta. Raccontavano che durante un pellegrinaggio a Gerusalemme Gioacchino aveva visto Cristo che gli aveva consegnato il libro dell'Apocalisse perché vi leggesse il futuro. Riccardo lo interrogò sull'esito della Crociata. Gioacchino disse che Gerusalemme sarebbe stata riconquistata dopo sette anni di dominazione musulmana. Poiché Saladino l'aveva strappata ai Cristiani da appena tre, Riccardo ribatté che allora era inutile andare in Terrasanta. Ma l'eremita rispose che facendo l'oroscopo non aveva tenuto conto dei miracoli, e che i sette anni dovevano perciò essere ridotti a tre o quattro al massimo. (cap. 17; 2004, pp. 187-188)
  • [Folco di Neuilly] Era un uomo tarchiato, analfabeta e di modi grossolani. Vestito di stracci, con una bisaccia a tracolla e un crocifisso di legno sul petto, viveva a bordo di un macilento ronzino e si nutriva esclusivamente di erbe e di pane secco. Predicava nelle piazze, agli angoli delle strade e, nella foga di far proseliti, persino nei bordelli. I suoi seguaci dicevano che per bocca sua parlava lo Spirito Santo, ma i suoi sermoni erano sgrammaticati e sconclusionati, e il tono minaccioso e apocalittico. [...] fu l'infaticabile agit-prop di Innocenzo nelle campagne e alle Corti di Francia. Bussò alla porta di centinaia di castelli, rastrellò oboli e promesse, e in cambio dispensò, a nome del Pontefice, benedizioni e indulgenze. (cap. 18; 1974, pp. 261-262)
  • Nel 1229, come abbiamo visto, Federico II riconquistò Gerusalemme ma quando tornò in Italia la Città Santa ripiombò nelle mani degli Infedeli. La notizia fu accolta in Europa con grande costernazione.
    Quando l'apprese, il cristianissimo Re di Francia Luigi IX s'ammalò gravemente di dissenteria. Era un uomo pio, casto e generoso e godeva fama di santo. I medici l'avevano già dato per spacciato quando il suo confessore gli pose sul capo la corona di spine di Gesù. Luigi lo ricompensò con una bella Crociata. Invano la moglie e la madre cercarono di dissuaderlo anche perché non si era ancora completamente ristabilito e il clima caldo dell'Oriente avrebbe potuto minare la sua debole fibra. Ma il Re era ben deciso a riconquistare la Terrasanta e a convertire al Cristianesimo i Maomettani, con le buone o con le cattive. Viveva in uno stato di continua esaltazione mistica, e quando pensava al Sepolcro di Gesù in mano agli infedeli scoppiava in lacrime e mandava gemiti accorati. Passava intere giornate in chiesa a pregare e a cantare i salmi, si sottoponeva a penitenze, digiunava, indossava il cilicio e dormiva sulla paglia. (cap. 22; 1974, pp. 334-335)
  • [Pietro Valdo] Era un uomo casto, semplice e devoto e completamente analfabeta, ma conosceva bene le Sacre Scritture. Predicava che solo tornando alle fonti evangeliche la Chiesa poteva salvarsi e ritrovare la sua missione. Invitò i preti a spogliarsi di tutte le loro ricchezze e a distribuirle ai più bisognosi. Egli stesso ne diede l'esempio sbarazzandosi di quelle proprie. (cap. 24; 2004, p. 268)
  • In Valdo c'era la stoffa di un San Francesco, di cui fu un precursore. I Poverelli di Assisi somiglieranno molto a quelli[1] di Lione. Solo per caso Valdo non diventò un San Francesco, come solo per caso San Francesco non diventò un Valdo. Gli scopi che i due riformatori si proponevano erano identici. E identici furono alcuni dei mezzi impiegati per raggiungerli. (cap. 24; 2004, p. 269)

L'Italia dei secoli d'oro[modifica]

  • Cola [di Rienzo] sulle prime non amministrò male. Riordinò il fisco e fece funzionare la giustizia. Anche il principe Pietro Colonna dovette subire un processo e fu gettato in prigione. Ma questi successi ubriacarono il tribuno che cominciò a parlare di sé come del «Redentore del Sacro Impero Romano per volontà di Cristo». Il giorno di ferragosto si fece cingere in Santa Maria Maggiore di sei corone, alzò una palla d'argento come simbolo di potere mondiale, vietò a qualunque esercito straniero di porre piede sul suolo italiano, convocò tutti i sovrani della terra per eleggervi un imperatore, che naturalmente sarebbe stato lui, e cominciò a comportarsi come se lo fosse di già. (cap. 9, pp. 98-99)
  • Filippo Brunelleschi fu per il Quattrocento ciò che Michelangelo fu per il secolo successivo: l'inventore di uno stile architettonico nuovo che ripudiò i tradizionali canoni gotici, conservandone tuttavia alcuni moduli e assimilandoli in una concezione moderna e vitale nello spazio. (cap. 21, p. 236)
  • [Donatello] Fu il più grande plastico del Quattrocento. Aprì nuovi orizzonti alla scultura, specialmente a quella del ritratto, riscoprì il nudo che l'arte medievale, d'ispirazione religiosa e d'intonazione edificante, aveva ripudiato, e fu il capostipite di quell'indirizzo realistico che in pittura ebbe nel Masaccio il suo più compiuto interprete. (cap. 21, p. 239)
  • Nel «Tributo a Cesare»[2] sono stupendamente compendiate le qualità pittoriche del Masaccio: la nobiltà del disegno, la maestosità delle figure, l'unità della composizione, la misura prospettica e l'intensità psicologica. Il Vasari definì moderno lo stile di questo artista geniale e solitario, che spianò la via a tutta la pittura toscana successiva. (cap. 21, p. 239)
  • A ventisei anni [Filippo Lippi] lasciò il convento, ma conservò la tonaca, che tuttavia non bastò a salvarlo dalle tentazioni. Era un gagliardo peccatore sempre pronto ad abbandonare colori e pennello per correr dietro a una sottana. Un giorno Cosimo de' Medici gli commissionò un dipinto, ma vedendo che l'artista, distratto dalle donne, non si decideva a porvi mano, lo chiuse a chiave nello studio. La notte successiva il Lippi, in preda a un accesso erotico, fuggì calandosi con le lenzuola dalla finestra per riparare in un bordello. (cap. 21, p. 241)
  • [...] fu in nome dell'uno e dell'altro [del Papato e dell'Impero], cioè giocando l'uno contro l'altro, che gli Estensi fin dai primi del Duecento diventarono Signori di Ferrara, e poi la governarono col titolo di Marchesi. (cap. 22, p. 244)
  • Come tutti i Signori del loro tempo, [gli Estensi] non erano afflitti da molti scrupoli e non si sentivano vincolati dalle leggi ch'essi stessi promulgavano. Il ricorso alla coppa avvelenata o al pugnale del sicario per sopprimere gli oppositori interni o liberarsi da fastidiosi vicini annettendosene le terre, rientrava nelle abitudini della famiglia. Ma non diventò mai un vizio o un passatempo. Gli Estensi uccidevano con moderazione, e quasi sempre per ragion di Stato, anche se poi questa non era che la ragione estense. (cap. 22, p. 244)
  • Leonello, [...], fu una rara combinazione d'intelligenza speculativa e di pratica saggezza, cioè la perfetta incarnazione dell'uomo del Rinascimento. Come statista e diplomatico non ebbe di mira che la pace, e riuscì ad assicurarla non soltanto al suo Marchesato [di Ferrara]. Nell'endemica lotta che imperversava in Italia fra le varie Signorie, egli svolse con grande discrezione una funzione di arbitro, un po' come più tardi avrebbe fatto Lorenzo de' Medici. Ma al prestigio che gliene derivò, contribuirono anche l'ammirazione che per lui avevano gli uomini di cultura, cioè gli «umanisti», dei quali era considerato l'alto patrono. (cap. 22, p. 246)
  • [Leonello d'Este] A governare gli bastarono le leggi, senza bisogno di ricorso né alla coppa [di veleno] né al pugnale. Sicché quando nel '50[3] morì, che aveva appena quarant'anni, tutta l'Italia lo pianse come il più illuminato Signore di quel periodo. (cap. 22, p. 246)
  • Fra i grandi protagonisti della storia, Colombo non è dei più coloriti e avvincenti. Le sue delusioni non furono solo il frutto dell'ingratitudine altrui, ma anche della sua grettezza, aridità e avidità. Ma la sua impresa resta tuttavia fra le più grandi e decisive di tutti i tempi. Il 1492, con cui molti autori fanno finire il Medio Evo e cominciare quello moderno, è davvero una data fondamentale. Essa segna lo spostamento del baricentro mondiale dal Mediterraneo all'Atlantico. (cap. 27, p. 300)

L'Italia della Controriforma[modifica]

  • [Alessandro VI] Fin dall'inizio i romani presero a benvolerlo, perdonandogli la smodata cupidigia, lo stuolo di amanti di cui si circondava e lo sviscerato amore per i figli, soprattutto per Lucrezia, la cui figura egli fece immortalare dal pennello del Pinturicchio: un volto pallido e angelico, gli occhi a mandorla, il naso sottile e appuntito, la bocca piccola, il collo lungo e levigato, le mani diafane e affusolate, i capelli biondi e lunghissimi (così lunghi e pesanti che le procuravano violente emicranie). Il pittore umbro, che fu per un certo periodo agli stipendi del Papa, era noto per la sua cortigianeria. Dubitiamo perciò che questo ritratto sia fedele all'originale anche perché da documenti scritti risulta che i contemporanei non si trovavano affatto d'accordo sull'avvenenza di Lucrezia. Se comunque essa non fu la stupenda creatura dipinta dal Pinturicchio, ebbe molte altre doti che la resero una delle donne più affascinanti del Rinascimento, e una delle più discusse. (cap. 4; 1975, pp. 54-55)
  • Dopo aver dato alla luce il settimo figlio, calò nella tomba Lucrezia. Da quando era diventata la moglie del Duca di Ferrara, nessun pettegolezzo l'aveva più sfiorata. A Corte la chiamavano Pulcherrima virgo, bellissima vergine, i poeti componevano versi in suo onore, i musicisti canzoni, i diplomatici la colmavano di lodi. Lucrezia ricambiava questi atti di devozione e di omaggio sovvenzionando le arti, circondandosi di umanisti, letterati e filosofi, leggendo i classici e imparando le lingue. Negli ultimi anni aveva subito una profonda crisi religiosa, s'era fatta terziaria francescana, si comunicava ogni mattina e passava lunghe ore del giorno in preghiera. Se per un certo periodo era vissuta da peccatrice, certamente morì da santa. (cap. 4; 1975, pp. 68-69)
  • [Giulio II] Quel Papa-soldato, collerico e autoritario, usava con gli artisti gli stessi modi rudi e prepotenti con cui, sul campo di battaglia, trattava la truppa. (cap. 33; 1975, pp. 403-404)
  • Ochino [...] a Canterbury [...] fu tranquillo e poté attendere ai suoi scritti – forse i più importanti del pensiero protestante italiano –, cui Milton attinse l'ispirazione del suo Paradiso perduto.
    Quando però sul trono d'Inghilterra salì la cattolica Maria Tudor, Bernardino dovette riprendere la sua peripatetica vita di apolide. Gli dettero un posto di pastore a Zurigo, ma lo perse perché anche come protestante egli seguitava a protestare e non riusciva ad andar d'accordo con nessuno: era un deviazionista nato, un trotzkista avanti lettera. (cap. 34; 1975, p. 419)
  • [Emanuele Filiberto di Savoia] Era un uomo chiuso, taciturno, enigmatico. Aveva un debole per le donne, era di gusti semplici, odiava il lusso e ogni forma d'ostentazione al punto di vietare ai sudditi l'uso di abiti troppo sfarzosi. (cap. 42; 2004, p. 371)
  • [Emanuele Filiberto di Savoia] Era un cattolico fervente, arginò con un editto il moto calvinista dilagante nelle valli piemontesi, dichiarò guerra agli eretici e ne spedì molti sul rogo. Nel giugno 1561, per intercessione della moglie Margherita, concesse però libertà di culto ai valdesi. Avvolse il Piemonte in un sudario d'austerità, ma ne fece uno degli Stati italiani, più ordinati, efficienti e prosperi. (cap. 42; 2004, p. 371)
  • La vicenda di Ochino dimostra che questi nicodemi sapevano anche sfidare rischi mortali per aiutarsi tra loro. E fra di essi ci fu anche un Carnesecchi che, ambiguo durante il processo, salì poi sul patibolo "tutto attillato con la camicia bianca, con un par di guanti nuovi e una pezzòla bianca in mano", come scrisse un cronista fiorentino. (cap. 34; 1975, pp. 420-421)
  • Non c'è dubbio che la Controriforma restituì alla Chiesa un'austerità morale, uno slancio, un mordente, un ardore di crociata, ch'essa aveva perso dai tempi eroici dell'alto Medio Evo, e che le consentirono di riguadagnare molte delle posizioni strappatele dai protestanti. Ma è anche vero che, più che spirituale, la rivincita fu temporale, grazie alla forza che le prestò il suo braccio secolare, cioè Filippo II. (cap. 40; 2004, p. 343)
  • [Giordano Bruno] Se è vero che aveva preso i voti per sottrarsi alle tentazioni della carne, a un certo punto dovette riconoscersi vinto e buttare la tonaca alle ortiche. Aveva ventotto anni e non poteva dirsi un bel ragazzo; la vita di convento l'aveva debilitato. Ma il suo sguardo e le sue parole sprigionavano una carica di passione che conquistava. La sua oratoria, magniloquente e torrentizia, lardellata di citazioni, gladiatoria e scomposta, travolgeva più che convincere, ma anche gli ascoltatori più provveduti ne restavano sopraffatti. (cap. 45; 1975, p. 554)
  • Nel 1582, la pubblicazione del Candelaio, una commedia ambientata nella Napoli famelica e corrotta del tardo Cinquecento, gli alienò le simpatie della Corte, della Chiesa e del mondo accademico. Il lavoro era infatti una satira feroce contro il clero, gli eruditi e i pedanti, in cui molti professori della Sorbona credettero di riconoscersi, e forse non avevano torto perché Bruno ebbe per tutta la vita l'uzzolo della provocazione e del litigio. (cap. 45; 1975, pp. 555-556)
  • [...] scrisse in un italiano goffo, ampolloso, lambiccato, pieno di ripetizioni e d'astruserie le sue opere filosofiche più famose. Non vi mancano squarci d'autentica poesia, ma nel complesso la loro lettura è impervia, noiosa e svogliante. Anche sull'originalità del contenuto vanno fatte delle riserve. Bruno prende a prestito da filosofi antichi e contemporanei, impasta idee vecchie e nuove senza troppo curarsi della loro compatibilità. (cap. 45; 1975, pp. 556-557)
  • Fra le molte virtù, il filosofo non aveva certo quella della modestia. Si sentiva investito di una missione soprannaturale, voleva cambiare il mondo e riformare gli uomini. Gli studi d'occultismo e di magia l'avevano fuorviato. Era superstizioso, credeva nel potere degli astri, [...] attribuiva ai numeri e agli oggetti proprietà esorcistiche e taumaturgiche e si riteneva egli stesso un mago. Fu certamente un precursore di molte cose, ma anche di Cagliostro. (cap. 45; 1975, pp. 557-558)
  • Sapeva che l'Inquisizione gli dava la caccia, ma fidava nella protezione di Mocenigo, sebbene questi fosse un fervente cattolico [...]. Fin quando il suo timoratissimo anfitrione, istigato dal confessore, lo denunziò all'Inquisizione. Prima però, avendole già pagate, volle che il maestro terminasse le lezioni. (cap. 45; 1975, pp. 558-559)
  • Il processo andò avanti a singhiozzo per sette anni, durante i quali il Bruno fu sottoposto a ogni sorta di sevizie. La più perfida e raffinata era quella di rimandare la sentenza alle calende greche per esasperare l'imputato e sfibrarne la volontà. Ma il filosofo, sebbene malato, non si piegò. Anzi, si rimangiò le ritrattazioni precedenti e fino all'ultimo tenne fieramente testa agli inflessibili inquisitori, tra i quali spiccava il gelido e ascetico cardinale Bellarmino. (cap. 45; 1975, p. 560)

Explicit[modifica]

Bruno fu certamente una vittima della Controriforma, ma non un gladiatore del libero pensiero, che anche in Italia aveva trovato ben più validi e coerenti campioni negli Ochino e nei Carnesecchi. Gliene mancò l'impegno morale, il vigore e l'ascesi. Bruno era soltanto un anticlericale. E a metterlo in contrasto con la Chiesa non fu una diversa concezione religiosa, ma uno smisurato egocentrismo, ribelle a qualsiasi autorità per protervia, non per impegno di coscienza.
Tuttavia seppe morire. E se il martirio non basta a conferire alla vittima le dimensioni del titano, basta però ad attribuire i connotati dell'aguzzino a chi lo inflisse. Quel rogo che chiude il Cinquecento e apre il Seicento illumina della luce più pertinente lo squallido paesaggio dell'Italia della Controriforma: un prete e un gendarme intenti ad arrostire un ribelle privo anche del conforto di una causa a cui intestare il proprio sacrificio. (cap. 45; 1975, pp. 561-562)

L'Italia del Seicento[modifica]

  • Alla chiusura del secolo, sul Soglio sedeva Clemente VIII della principesca famiglia toscana Aldobrandini. L'ugonotto Sully, primo ministro di Enrico IV, lo descrive come "il più libero, fra gli ultimi Pontefici, da pregiudizi di parte e il più rispettoso della carità e della comprensione che il Vangelo prescrive". Quando si pensa che fu lui a mandare sul rogo Giordano Bruno, si capirà facilmente che cosa avevano dovuto essere, quanto a comprensione e carità, i Papi della Controriforma. (cap. 1; 1969, p. 22)
  • [Margherita di Valois] Questa donna bellissima, spiritosa, volubile e piena di sex-appeal, riempiva il marito di corna, o per meglio dire gli ricambiava quelle che lui le faceva. Ma nelle emergenze era sempre presente. Tuttavia tante ne fece che alla fine i due Enrichi – il marito e il fratello – decisero di comune accordo di confinarla in un castello. Essa lo ridussa a mezzo salotto, mezzo ad alcova, fu in corrispondenza con Montaigne, scrisse un libro di pettegolezzi autobiografici degno di un rotocalco moderno, ingrassò nel peccato, dopo la menopausa se ne pentì, si prese come cappellano Vincenzo da Paola, fondò un convento, e morì rimpianta da tutti. (cap. 2; 1969, p. 34)
  • Il loro [degli astronomi] più autorevole esponente, Tycho Brahe, era un nobile danese nato tre anni dopo la morte di Copernico, e pieno di soldi e di bizzarrie. Portava un naso artificiale d'oro perché quello vero l'aveva perso in un duello. Aveva sposato una contadinella con gran scandalo dei suoi pari, e aveva investito tutto il patrimonio nella costruzione di un osservatorio. Ci rimase vent'anni a scrutare il cielo. Lo scrutava come poteva perché il telescopio non era stato ancora inventato. Ma questo non gl'impedì di raccogliere un materiale che batteva ogni primato per ricchezza e precisione dei dati. (cap. 19; 2009, p. 220)
  • [...] [Tycho Brahe] era, malgrado il naso, uno studioso serio che lasciò alla Scienza un prezioso patrimonio di accertamenti e le aprì molte strade. Ma rifiutava Copernico. La terra, per lui, restava il centro del Creato. (cap. 19; 2009, p. 220)
  • Galileo si presentò [a Roma, per il suo processo] il 12 aprile 1633, e fu subito dichiarato in stato d'arresto. [...]. Al primo interrogatorio gli chiesero se si riconosceva colpevole. Rispose di no. Ma alcuni giorni dopo ammise di aver esposto la dottrina copernicana con più vigore di quella tolemaica, e si offrì di purgare il testo e di fare penitenza. Negli interrogatori successivi dichiarò che dall'editto del 1616 aveva smesso di dubitare della validità del sistema tolemaico, e ormai anche lui era arciconvinto ch'era il Sole a girare intorno alla Terra, non viceversa. Qualcuno dice che gli avevano strappato questa menzogna con la tortura. Con la tortura, no. Ma con la minaccia della tortura – ch'è già di per se stessa una tortura –, è probabile. (cap. 23; 2009, p. 230)
  • L'Inquisizione proclamò Galilei colpevole di eresia e gl'impose di rinnegare le sue teorie. Per quell'uomo orgoglioso dovett'essere terribile pronunciare, inginocchiato, l'atto di ritrattazione: «Con cuor sincero e fede non finta abiuro, maledico e detesto li suddetti errori et heresie... e giuro che per l'avvenire non dirò mai più né asserirò, in voce o per iscritto, cose tali per le quali si possa haver di me simil sospitione, ma se conoscerò alcun heretico o che sia sospetto d'heresia, lo denuntiarò a questo Santo Offizio...». Dopodiché il Tribunale gl'inflisse la prigione «per un periodo da determinarsi a nostro piacere», e come penitenza, per tre anni, la recitazione quotidiana dei sette salmi penitenziali. Il Papa [Urbano VIII] non volle firmare la sentenza. Forse aveva tentato di addolcirla, ma i gesuiti gliel'avevano impedito. (cap. 23; 2009, pp. 230-231)
  • Checché ne dicano i suoi esaltatori, il barocco è aria fritta. Fritta – qualche volta – benissimo, con grande maestria, ma sempre inficiata dal virtuosismo di mestiere. Le manca l'anima. Ed anzi è proprio per nascondere questo vuoto che si abbandona a quell'orgia di forme e di colori, a quella teatralità di sfondi, a quei contorsionismi muscolari nella scultura, a quella solennità scenografica nell'architettura. (cap. 23; 2009, p. 263)
  • Il barocco è un'arte ricca che nasce nei Paesi poveri. Non a caso la sua culla sono l'Italia e la Spagna. (cap. 23; 2009, p. 263)
  • Bernini non diventò Michelangelo perché neanche Michelangelo, se fosse nato allora [nel Seicento], sarebbe diventato Michelangelo. Ma come lui era un lavoratore infaticabile ed esigentissimo, mai soddisfatto di quel che faceva, e infatti lo disfaceva e rifaceva continuamente. Passava notti intere a correggere un naso, a limare una fronte, a scavare una ruga. (cap. 23; 2009, p. 266)
  • [Bernini] Era piuttosto un bell'uomo, di media statura, vigoroso, bruno di carnagione e nero di capelli, occhi vivaci e penetranti, ciglia lunghe e folte, fronte spaziosa, narici dilatate, gote un po' cascanti. Come tutti gli uomini di carattere aveva un caratteraccio, che le frequenti emicranie vieppiù incupivano. Si adirava per un nonnulla e faceva scenate terribili. Era di gusti semplici e d'abitudini spartane. I suoi pasti erano limitati a una fetta di carne e a un po' di frutta. Dormiva poco, di giorno non si concedeva un attimo di tregua, poneva mano e attendeva contemporaneamente a più opere, andava ogni mattina a messa, faceva due volte la settimana la comunione e la sera, prima di coricarsi, leggeva i Padri della Chiesa. Ma non era un bacchettone. (cap. 23; 2009, pp. 267-268)
  • [Il giovane Francesco Borromini] Scontroso, timido, taciturno, i suoi unici compagni erano il marmo, il bulino e il martello. Non si concedeva svaghi e passava tutto il tempo fra cornici e scalini, stipi e balaustre, statue e colonne. (cap. 23; 2009, p. 271)
  • Una notte d'estate del 1667, non riuscendo a prendere sonno, Francesco [Borromini] afferrò la spada e si trapassò da parte a parte come un samurai. Vani furono i tentativi di salvarlo. Il giorno dopo morì dissanguato, e con lui scomparve uno dei grandi maestri del barocco. Il più grande, forse, dopo il grandissimo Bernini. (cap. 23; 2009, p. 272)

L'Italia del Settecento[modifica]

  • Alcuni storici vedono nell'Alberoni un precursore del Risorgimento perché parlava di «liberare l'Italia». Sì, la voleva liberare dagli Asburgo, ma per farne una dipendenza dei Borbone spagnoli in quanto successori dei Farnese. Questo era il suo programma. (cap. 1; 2004, p. 31)
  • I salotti di Francia contavano. Non erano, come lo sono in Italia, convegni di una mondanità sfaccendata e semianalfabeta anche quando, anzi specialmente quando i frequentatori ostentano blasoni con molte palle. Erano il punto d'incontro fra cultura e politica, e davano il via a successi e carriere. (cap. 8; 1971, p. 108)
  • [Voltaire] In nessuna epoca, in nessun Paese c'è mai stato un intellettuale più "moderno" di lui. Seguita ad esserlo, vecchio di due secoli. Non si può pensare in modo più libero di lui. Non si può scrivere in modo più penetrante di lui. Fu, e rimane, il "maestro" per antonomasia. (cap. 9; 1971, pp. 116-117)
  • Non si può scrivere meglio di Voltaire, non si possono dire cose più serie con più aerea leggerezza ("La solennità è una malattia" diceva. E se i suoi colleghi italiani lo avessero ascoltato!...), con un più perfetto dosaggio di furore, d'umorismo e di fantasia picaresca. (cap. 9; 1971, p. 122)
  • Erano cento i volumi comparsi sotto il nome di Voltaire, e non ce n'era uno che non contenesse qualche scintilla del suo genio. A distanza di due secoli, si può rileggerli tutti senza trovarvi un aggettivo superfluo, un grammo di adipe, ed emergere da questa scorpacciata con una fame intatta di Voltaire. Non conosciamo scrittore di cui si possa dire in piena coscienza altrettanto. (cap. 9; 1971, pp. 132-133)
  • Marchigiano di nascita e arciprete di professione, il Crescimbeni non era un grande letterato, ma in compenso era un eccellente organizzatore, autoritario ed efficientissimo. Trasformò quella peripatetica e sparpagliata comitiva [l'Accademia dell'Arcadia] in una specie di partito con tanto di statuto fissato in dodici tavole dal Gravina[4], apparato centrale e succursali in quasi tutte le altre città d'Italia. (cap. 28; 2004, p. 391)
  • Dell'Arcadia si può fare, con eguale fondatezza, sia l'elogio che la denigrazione. Ma non c'è dubbio che alla denigrazione offre più argomenti che all'elogio. Come tante, e forse tutte le cose italiane, cominciò bene, si sciupò per strada, e finì per provocare guasti più gravi di quelli che intendeva riparare. Ma il fatto che questi guasti si avvertano tuttora dimostra quale importanza, sia pure in senso negativo, essa abbia avuto. (cap. 28; 2004, p. 392)
  • Quelli dell'Arcadia, che si erano assegnati il lodevole compito di «restaurare la poesia italiana mandata a soqquadro dalla barbarie dell'ultimo secolo»[5], riuscirono a costruire una specie di repubblica culturale al di sopra degli Stati in cui il Paese [l'Italia] era frazionato: e questo fu certamente un risultato positivo, in quanto creò negli italiani il senso di una comunità, sia pure solo letteraria. Una dopo l'altra, tutte le città della penisola ebbero la loro filiale, cui facevano capo i «notabili» locali. Nei suoi registri troviamo iscritti anche nomi di uomini che in realtà con l'Arcadia e i suoi moduli e modelli non avevano nulla a che fare come l'Alfieri, il Goldoni, il Vico. Ma questa è appunto la riprova della sua forza: l'iscrizione all'Arcadia era allora ciò che oggi è l'iscrizione al «Rotary»: una consacrazione e un passaporto. Essa fu copiata anche all'estero, e alla sua anagrafe troviamo registrati perfino Voltaire e Goethe. (cap. 28; 2004, p. 393)
  • [L'Accademia dell'Arcadia] Essa dava una patria alla cultura italiana, ma una patria astratta e completamente avulsa dal Paese e dai suoi reali interessi e bisogni. I temi che dibattevano gli Arcadi appassionavano solo gli Arcadi. essi esercitavano la loro fantasia, o per meglio dire la castravano rispolverando le favole della mitologia greca. Nel loro club non c'era posto che per pastori e pastorelle. Ne adottavano i nomi, ne assumevano le pose, ne copiavano i riti. Sprecavano tonnellate di fiato e d'inchiostro per dimostrare che il loro precursore era stato Gesù per l'omaggio ricevuto in culla dai pastori. Si azzuffavano sulla derivazione di certe parole, chiamando in soccorso Virgilio e Petrarca, loro supremi modelli. (cap. 28; 2004, p. 394)
  • [Maria Antonietta] Capricciosa, prepotente, sventata, non era mai stata popolare. Ora aveva perso anche la sua pàtina di frivola gaiezza un po' perché non ne aveva più l'età, un po' perché proprio in questa emergenza la sorte l'aveva duramente colpita portandole via il primogenito, erede al trono. Bruscamente richiamata da quella sventura alla realtà, vi reagiva con puntigliosa acredine. (cap. 35; 1971, pp. 668-669)

Note[modifica]

  1. Poveri di Lione furono chiamati i seguaci di Valdo.
  2. Affresco della cappella Brancacci nella basilica di Santa Maria del Carmine a Firenze.
  3. 1450.
  4. Giovanni Vincenzo Gravina.
  5. Riferimento alla poesia barocca del Seicento.

Bibliografia[modifica]

  • Indro Montanelli, Roberto Gervaso, L'Italia dei secoli bui, Rizzoli, Milano, 1968.
  • Indro Montanelli, Roberto Gervaso, L'Italia dei Comuni
  • Indro Montanelli, Roberto Gervaso, L'Italia dei Comuni, settima edizione BUR Saggi, Rizzoli, Milano, 2004. ISBN 88-17-11809-5
    • Storia d'Italia. Volume VIII: L'età di Federico Barbarossa, BUR, Milano, 1974.
    • Storia d'Italia. Volume XI: L'età di Federico II di Svevia, BUR, Milano, 1974.
  • Indro Montanelli, Roberto Gervaso, L'Italia dei secoli d'oro, nona edizione BUR Saggi, Rizzoli, Milano, 2009. ISBN 978-88-17-11813-2
  • Indro Montanelli, Roberto Gervaso, L'Italia della Controriforma
    • Storia d'Italia. Volume XIII: La fine della libertà italiana, BUR, Milano, 1975.
    • Storia d'Italia. Volume XV: Il meriggio del Rinascimento, BUR, Milano, 1975.
    • Storia d'Italia. Volume XVI: L'età della Controriforma, BUR, Milano, 1975.
  • Indro Montanelli, Roberto Gervaso, L'Italia della Controriforma, quinta edizione BUR Saggi, Rizzoli, Milano, 2004. ISBN 88-17-11818-4
  • Indro Montanelli, Roberto Gervaso, L'Italia del Seicento, Rizzoli, Milano, 1969.
  • Indro Montanelli, Roberto Gervaso, L'Italia del Seicento, settima edizione BUR Saggi, Rizzoli, Milano, 2009. ISBN 978-88-17-11815-6
  • Indro Montanelli, Roberto Gervaso, L'Italia del Settecento, Rizzoli, Milano, 1971.
  • Indro Montanelli, Roberto Gervaso, L'Italia del Settecento, sesta edizione BUR Saggi, Rizzoli, Milano, 2004. ISBN 88-17-11830-3

Voci correlate[modifica]