Paolo Valera

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Paolo Valera (1850 – 1926), giornalista e scrittore italiano.

Vita intima e aneddotica di Prospero Moisè Loria[modifica]

Incipit[modifica]

Coloro che ammucchiano il denaro sono ammalati come coloro che lo buttano via per andare spensieratamente sulla spiaggia dei naufraghi. Senza questa concezione non si capirebbe la figura balzachiana di Felice Grandet, la cui avarizia gli aveva dato lo stupido gusto di contemplare di tanto in tanto l'oro della sua fortuna. Ricco a milioni, con tante vigne da contentare un paese intero, si sottoponeva ai sagrifici del poveraccio che non sa come tirare innanzi e lasciava moglie e figlia nelle stanze gelate a bubbolare di freddo. Il tiranno del proprio e dell'altrui benessere è un tipo che si riproduce in ogni tempo e in tutte le nazioni.

Citazioni[modifica]

  • Il ticchio del signor Prospero Moisè Loria non era di scaldarsi lo stomaco con gli sbattimenti di braccia e di trascinare i giorni in mezzo ai bisogni come il musicista e i Manzoni. Ma era anche lui della specie dei Grandet, con tutti i gusti e tutti i vizii dell'usuraio che non trova rapimenti che nell'accumulazione della propria ricchezza.
    A Parigi, se andava con le donne per dei bisogni fisiologici, non dimenticava mai di appartenere alla classe sordida che si lascia ammazzare piuttosto di tirar fuori un centesimo più del dovuto. Ne discuteva il prezzo prima per non avere seccature. Le sciagure umane lo hanno sempre lasciato indifferente. (pp. 2-3)
  • Chi ha mai udito il nome del Loria prima che facesse parlare di sé con la sua utopia di sciogliere il problema della disoccupazione con la Casa di Lavoro? La voluttà di voler entrare nella storia della vita collettiva come benefattore o come umanitario lo ha reso più di una volta insensibile ai dolori degli altri. (p. 3)
  • Con tutti i suoi milioni non si è mai accorto di avere intorno a sé un mondo di parenti poveri e arcipoveri ed è morto senza rammentarsi di loro, senza lasciar loro un quattrino. (p. 3)
  • Egli [Loria] voleva fondare l'Umanitaria con un «ufficio di indicazioni» che «tenesse nota di tutti gli istituti di beneficenza del paese e dei loro speciali regolamenti», «in guisa che chiunque desiderasse ricorrervi» non avesse che da manifestare il suo desiderio «su apposita stampiglia a disposizione del pubblico». La Casa del lavoro della Umanitaria non aveva gli intendimenti del Booth[1] e dei filantropi che vogliono «rifare l'uomo» come il calzettaio rifarebbe un identico paio di calze con della lana nuova. Voleva che non fosse che un ricovero momentaneo, un luogo di sosta per i disoccupati alla ricerca di un lavoro più confacente alle loro attitudini e meglio retribuito. (p. 16)

Incipit di alcune opere[modifica]

Alla conquista del pane[modifica]

CARA SIGNORA,
Le belle, deliziose serate che passammo! Io entrava nel vostro salotto solferino-pallido, le guancie imporporate di timidezza, il cuore commosso, sfiorando i ricchi tappeti per sorprendervi il pensiero che mi chiamava alla sfuriata dei baci. Voi, spruzzata da un bagliore crepuscolare, inchinata sulla tastiera, le pupille lampeggianti nella dolcezza lattea, sprigionavate un sospiro che era tutta una promessa e, colle bianche manuccie che affoltavate nel mucchio dei miei capelli selvaggi, mi soffocavate la bocca sulla bocca. Quale sorgente inesauribile misteriosa di voluttà. Voi suggevate perdendovi e io vi rimanevo perduto. Vi ricordate signora? Mi chiamavate, premendomi al seno che ansava, il vostro fanciullo e tremavate di non trovare l'amante. Le belle deliziose serate che passammo!

Dal Cellulare al Finalborgo[modifica]

Ho sempre avuto la fortuna di trovare sul cammino della vita dei simpatizzatori o delle persone che mi volevano bene prima di conoscermi. Al Cellulare, nello stanzone di "carico e scarico", mi si registrava e mi si salutava come un personaggio di casa. Mi si ricordavano episodii della mia vita cui io avevo completamente dimenticati. Come quello di essere stato alloggiato in una cella come scrittore scollacciato o come un égoutier della penna.
Tra gli impiegati che volevano assolutamente essermi utili, era un giovinetto alto, elegante, con una bella faccia illustrata dai baffi superbi e chiari e illuminata dalla lucentezza degli occhioni neri in campo azzurro. L'unghia lunga del mignolo e la cravatta di foulard a palloncini gialli sul fondo solferino pallido, e i manichini che gli uscivano candidi dalle maniche, gli davano l'aria di gran signore.

Emma Ivon al veglione[modifica]

— Anche tu?
— Anch'io.
— Ci minaccia la pioggia, veh!
— Faccia fino al diluvio. Purché io non manchi al veglione[2].
— Un dominuccio misterioso... Canagliaccia!
— In nome di mia moglie che dorme, protesto con tuttedue i polmoni. Io non ci vado che per dare il mio tributo di dieci lire a quella povera gente rimasta senza casa e senza pane.
— Sei socialista? Mi metto le mani in saccoccia.
— Socialista propriamente no, perché il mio non è degli altri.
— E viceversa.

Giacinto Menotti Serrati[modifica]

Si vive affrettatamente. Non c'è tempo di ambientare gli uomini che fanno storia. L'uomo che biografo è divenuto un personaggio nazionale. Nessuno ignora ormai, anche nelle provincie più beote, chi sia il direttore dell'Avanti! Giacinto Menotti Serrati è ormai sinonimo di leninismo. Impersona il protagonista della rivoluzione russa. Egli si è fatto nella opposizione. È sulla piattaforma socialista da molti anni. Ne ha oggi 48.

Giovanni Giolitti[modifica]

Si può dire che Giovanni Giolitti si è iniziato nella politica come crispino. I primi movimenti furono tali. Figlio di un impiegato dello stato anelava uscirne per salire. Egli era intimo di due giornalisti che avevano fatto storia. Firmarono tutti e tre la circolare che invitava il collaboratore massimo della liberazione siciliana a un grande banchetto politico a Torino. I due firmatari, compagni di Giolitti, erano Bottero, direttore della Gazzetta del Popolo, e Roux, direttore della Piemontese. Fu una amicizia durata poco. Una volta nel gabinetto Giovanni Giolitti si è sentito raffreddato. Crispi lo chiamava nei dietroscena con soprannomi antipiemontesi e antipatici. Li li per salire al posto di presidente dei ministri Crispi gli fu ingrato. Gli portò via dei mattoni di sotto i piedi.

Gli scamiciati. Seguito alla Milano sconosciuta[modifica]

Dimentichiamo il grosso sobborgo di Porta Ticinese, popolato dalla canaglia che smagrisce lavorando; chiudiamo gli occhi sulle appariscenti miserie svolazzanti dai poveri davanzali e ristiamo sul colonnino miliare dove pur sosta el Barchett di pover, decrepita, unica galea, che né venti, né tempeste, né furie, né progresso hanno potuto sommergere.
Quante memorie ci ripullulano nella mente alla vista di quel sicuro, sdruscito navilio di Boffalora! Quante rimembranze di compagni di viaggio non riveduti più mai; quante novellette ascoltate nel silenzio lungo le serate d'inverno, e quante lagrime sgorgate alla narrazione di pietose storie, ignorate dalla geldra borghese, che crede sanare le sventure dei pitocchi, dando pubblicamente due lire....

I cannoni di Bava Beccaris[modifica]

Era venerdì. S'andava via per l'atmosfera tepida come tanti punti interrogativi. Gli uni guardavano in faccia agli altri e tutti sentivano dell'inquietudine dell'Italia agitata dalla fame. Pavia come Sesto Fiorentino e come Soresina, aveva avuto i suoi ciottoli innaffiati dalla strage militare. Il povero Muzio Mussi, il figlio del vice presidente della Camera, era stato tramazzato al suolo a ventitré anni e la notizia angosciosa, propalata dai giornali, passava sui nervi della cittadinanza come una scarica d'indignazione. In mezzo alle piazze, lungo le vie, si temeva e si presentiva la fucilata. La conversazione sentiva del momento. Era una conversazione animata, concitata, che lasciava udire un po' della campana a martello. La gente parlava a monosillabi tragici, coi gesti che facevano sobbalzare il pensiero, con l'atto finale della mano in aria che traduceva l'impotenza e la minaccia.

I miei dieci anni all'estero[modifica]

Non so se ho fatto bene o male. Non ho voluto ricorrere in appello. Avrei dovuto rimestare il bagout dei palcoscenici dialettali, riacciuffarmi coi vecchi legulei in toga. Tirai innanzi. Se non avessi avuto vergogna avrei pianto. Mi ero battuto male. Con guitti senza idee. Con prime donne che avevano fatto della prigione come peccatrici d'alcova. Ero preceduto da un baule. Ero triste. Pareva proprio che me ne andassi con la patria sotto le suola delle scarpe. Forse facevo della rettorica. Prima di giungere alla stazione centrale venni avvertito dall'avvocato della ferrovia, Galateo, che gl'istrioni del teatro milanese erano là ad aspettarmi per una fischiata solenne. Volevano far credere che mi mandavano all'estero a grandi grida. Rinunciai alla colluttazione, alla mischia, allo scontro personale.

Il cinquantenario: note per la ricostruzione della vita pubblica italiana[modifica]

Nella storia cinquantenaria non c'è terreno camminabile. Più mi sforzo a gambate di giungere in qualche zona sbloccata dalla melma ufficiale, e più sdrucciolo e più mi inzacchero e più sprofondo e più mi trovo chiuso nelle tortuosità fangose.
Sono come in un'immensa metropoli di fango. Luce giallastra, vie limacciose, edifici di loto, monumenti di mota viscida, personaggi di palta.
Mi pare di avere negli occhi le pillacchere e sul viso la belletta. L'aria stessa che respiro è impura. Sente di cloaca.
Sono nel periodo della contaminazione, nel periodo della fame, nel periodo della corruzione parlamentare, nel periodo delle atrocità politiche, nel periodo della vigliaccheria italiana. Voltatevi indietro. Ecco l'Italia nelle mani dei farabutti, dei mascalzoni, dei truffatori, dei ribaldi. Sfilate, miserabili!

L'assassinio Notarbartolo o le gesta della mafia[modifica]

«Credete a me, caro signor Luraschi, se voi siete un giornalista con dei pregiudizi, venuto nella nostra Isola con dei preconcetti, la è finita; io non ho altro da aggiungere. Ma se siete un giornalista che salta la leggenda e studia l'ambiente per proprio conto, voi ritornerete al vostro giornale un difensore del siciliano trascinato per le colonne dei giornali come un delinquente nato.
Qualcuno, non ricordo più chi, ha paragonato la Sicilia all'Irlanda e non ha avuto torto. In Irlanda un contadino taglia i garretti al bestiame di un landlord, ed ecco tutta la Grande Bretagna in aria come se si trattasse di un avvenimento inaudito. Il dizionario non ha più sostantivi abbastanza roventi per la paisaneria di quel paese di patate. Gli occhi inglesi non vi vedono più che dei criminali.
Nello stesso giorno in cui imperversano per il Regno Unito le ventate della collera inglese contro il paddy, Jack lo squartatore lasciò in Whitechapel – il quartiere popolare di Londra – la undecima donna colla gola recisa e le cosce insanguinate e a nessuno venne in mente di chiamare la capitale una città di ammazza donne».

L'insurrezione chartista in Inghilterra[modifica]

Che cos'è questo chartismo? — È della storia comune a tutte le nazioni che non hanno ancora — nel 1894! — inaugurato il sistema dell'uguaglianza economica, politica, sociale. Sono le classi che negano dei diritti alle masse. Sono gli eserciti del lavoro che si levano in piedi con dei vogliamo. È tutto un popolo di malcontenti che, prima di abbandonarsi ai tumulti o di consumare gli ultimi sforzi in una insurrezione armata, si è lasciato acciuffare pei capelli e provocare lungo un periodo tragico. Sono delle saccate di collera popolare, della collera insaccata per degli anni, della collera che si è scatenata pel cielo britannico come una minaccia collettiva.

L'uomo più rosso d'Italia[modifica]

Amilcare Cipriani è nato in Rimini il 18 ottobre 1844. Tempi sciagurati. I popoli erano della stramaglia umana. L'Italia nella camicia di forza si dibatteva per non morire soffocata. Cinque tiranni le erano sopra con gli arnesi della coercizione dolorosa e della soppressione violenta. Tempi di congiura. La gente era disperata. La sollevazione tumultuava, era in tutti i cervelli. Si cospirava, si correva al sacrificio, si spasimava nelle attese, si comunicava di bocca in bocca l'ebbrezza patriottica. Era il sogno di tutti. Tutti si scaldavano dello stesso pensiero, tutti si affratellavano e si proponevano di vincere o morire. Le angosce, le disillusioni, le persecuzioni, le afflizioni erano spinte che spingevano classi e masse nell'atmosfera che aspettava la scintilla.

La catastrofe degli czars[modifica]

Tra la grande rivoluzione francese e la grande rivoluzione russa non c'è analogia che nel finale catastrofico dell'antico regime. Le due monarchie sono cadute come due immensi bubboni purulenti che si slabbrarono e inondarono i due paesi di un fetore nauseabondo. Il tonfo dei rovesci dinastici è stato sentito in tutto il mondo. Le Corti nello sconquasso sono sembrate due ambienti di putrefazioni feudali. L'una non aveva nulla che non avesse l'altra. Gli stessi cervelli in decomposizione, la stessa corruzione, lo stesso assolutismo, la stessa terra dei supplizi. Due personaggi di trono che avevano lavorato i sudditi con la tirannia massima dei loro mostruosi avi. Due insensibili e insensati che si liberavano dalle moltitudini, che volevano vivere con le cariche dei corazzieri e dei cosacchi, che aggredivano e uccidevano.

La donna più tragica della vita mondana[modifica]

Sono giunto in Parigi in luglio in una mattinata tepida, con gli occhi gonfi della lettura notturna e con il cervello offuscato dal sangue dei delitti sui giornali sparsi per i tavolini del treno di lusso. L'impressione macabra è entrata con me nel fiacre-automobile che mi conduceva all'hôtel Continental, via Castiglione, 3. La stessa atmosfera della metropoli francese mi pareva quella di un immenso bagno penale. Io ero come in una capitale di delinquenti. I cittadini e le cittadine invece di darmi il godimento della loro eleganza, mi disseppellivano dal materiale dei ricordi i truci personaggi che hanno mandato il nome all'immortalità del museo criminale. Fra i pedoni vedevo i tipi di coloro che hanno fantasticato dietro la grandezza o sentito il bisogno di arricchirsi in una notte o sognato di ascendere alla sommità della gioia di vivere con un fattaccio, con una operazione finanziaria o con una strage umana.

La folla[modifica]

Giorgio rivide il Casone del Terraggio di Porta Magenta parecchi anni dopo che gli erano cresciuti i baffetti biondi. La facciata aveva pur sempre i solchi delle sassate dei monelli che avevano giocato con lui, e la lunga crepa perpendicolare, che pareva volesse dimezzarla, aveva conservato al centro la schiacciatura della martellata di Ernesto. Guardando, gli risorgevano gli anni in cui aveva sculacciato per il terriccio con la ragazzaglia del Casone. La penultima tegola del murello d'entrata era ancora senza la parte sporgente, sbattuta via dal suo bastone. Non c'era nulla di cambiato nell'edificio. Sole le persone avevano subito qualche trasformazione.

Milano sconosciuta[modifica]

L'ho conosciuta. Era una ditta postribolare. Il suo soprannome era «Zia». Tutti i ghiottoni di donne clandestine e tutte le donne venderecce si compiacevano di chiamarla «Zia». È morta il cinque marzo, alle quattro pomeridiane del 1902, nella sua abitazione carnimoniale di via Disciplini, 4 confortata dalla religione che l'ha assolta delle turpitudini di mercantessa di depravazione. È spirata come una pia donna che avesse dedicata l'esistenza al culto della preghiera. Nella stanza non c'era traccia del mestiere infame ch'ella aveva esercitato in una città di mezzo milione e più di abitanti animalizzati dalle passioni carnascialesche.

Mussolini[modifica]

Ricordo Benito Mussolini con quel suo paltoncino proletario, dal bavero rialzato. Il freddo milanese lo sentiva molto. Compariva tutto freddoloso nel mio studio di via Fontana 18, con una certa timidezza. Protendeva la testa con quei suoi occhioni di fuoco. Sovente, entrando, domandava: "Sei solo?". Non sedeva quasi mai. Passeggiava concitato e sviluppava i suoi pensieri rivoluzionari. Demoliva il regime del quale oggi è ricostruttore: monarchia, militarismo, parlamentarismo, capitalismo. Tutta roba che allora mandava all'égout.

Citazioni su Paolo Valera[modifica]

  • Socialista feroce a parole, rivoluzionario a parole, sanguinario a parole, egli ha, a parole, sbranato la borghesia e polverizzato tutto il mondo capitalistico. Aveva il genio dell'ingiuria. Gli uomini contro cui la sua penna si accaniva finivano a brandelli. Non aveva coltura. Aveva letto opuscoli libertari: le sue conoscenze storiche si limitavano alla Rivoluzione Francese, alla Comune al nichilismo: ma scriveva bene, con una lingua sua e uno stile inimitabile. (Mario Borsa)

Note[modifica]

  1. Charles James Booth (1840-1916), sociologo e filantropo britannico.
  2. Si allude al veglione di beneficenza Milan-Milan. Fu in quella nottata di bagordi che la borghesia milanese si buttò pubblicamente nelle braccia delle cocottes.

Bibliografia[modifica]

Altri progetti[modifica]