Luigi Settembrini

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Luigi Settembrini

Luigi Settembrini (1813 – 1876), scrittore e patriota italiano.

Citazioni di Luigi Settembrini[modifica]

  • [Su Basilio Puoti] Lo trovai fra una dozzina di giovani in una stanza dove non era altro arnese che libri negli scaffali, su le tavole, su le seggiole; ed in un canto v'era il suo letto dietro un paravento. "So che amate i giovani, io gli dissi, ed io desidero farmi aiutare da voi." "Bravo, giovanotto; se vuoi studiare saremo amici. Vediamo quello che sai: spiegami un po' degli Uffici di Cicerone." Spiegai, risposi a varie domande: "Bene, batti sul latino ogni giorno: ogni giorno una traduzione dal latino, e una lettura d'un trecentista. Nulla dies sine linea." E mi accettò tra i suoi scolari. Ei non viveva che di studi, in mezzo ai giovani ai quali era compagno ed amico: con essi studiava, con essi passeggiava, con essi lavorava ai comenti dei molti classici che fece ristampare per diffondere la buona lingua; ad essi dava consigli, libri, avviamento; molti ritrasse dai pericoli, a molti diede anche del suo. Sapeva bene il latino, bene il greco antico, parlava il moderno, benissimo il francese: pieno di motti e di lepori, facile all'ira, facilmente placabile, ebbe animo sempre giovanile, e seppe mettersi a capo di dugento giovani senza dare sospetto a chi reggeva. (1961, pp. 66-67)
  • [...] non è grande uomo chi sa molto, ma chi ha molto meditato.[1] (dalla lettera al figlio Raffaele, 16 gennaio 1852)
  • Si deve imparare più a riflettere che a leggere. (da una lettera dal carcere indirizzata a Salvatore Morelli; citato in Salvatore Morelli, La donna e la scienza o la soluzione del problema sociale).
  • Si guardavano l'un l'altro, si carezzavano, si palpavano in tutte le parti della persona, si baciavano negli occhi, e nella faccia, e nel petto, e nel ventre, e nelle cosce, e nei piedi che parevano d'argento: poi si stringevano forte e si avviticchiavano, e uno metteva la lingua nella bocca dell'altro, e così suggevano il nettare degli Dei, e stavano lungo tempo a suggere quel nettare: ed ogni tanto smettevano un po' e sorridevano, e si chiamavano a nome, e poi nuovamente a stringere il petto al petto e suggere quella dolcezza. E non contenti di stringersi così petto a petto, l'uno abbracciava l'altro a le spalle, e tentava di entrare fra le belle mele, ma l'altro aveva dolore, e quei si ritraeva per non dare dolore al suo diletto. (da I Neoplatonici, cap. 1)
  • Spesso nella tua vita tu troverai che un libro è migliore amico di un uomo.[2] (dalla lettera al figlio Raffaele, 16 gennaio 1852)

Lezioni di letteratura italiana[modifica]

  • Senza ricercare e senza ripensare non s'impara mai nulla. (vol. I, p. VII)
  • La Letteratura, come ogni altra disciplina, va studiata viva, cioè nella sua storia; e fuori la storia non si può, che sarebbe come chi per conoscere l'uomo osservasse il cadavere. Bisogna considerare prima i pensieri i sentimenti le azioni, ché costituiscono la vita; e poi come tutta questa vita passando a traverso il lucido cristallo della fantasia si riflette in vari colori, e ci si presenta nella luce della parola. (vol. I, p. 4)
  • L'arte italiana adunque, come degli altri popoli di Europa, si distingue dall'antica greco-latina per il suo contenuto, perché non rappresenta la sensazione (natura) ma la riflessione (spirito, coscienza). Si distingue dalle altre moderne di Europa, perché essa più di tutte ritiene le forme antiche. (vol. I, p. 13)
  • Il Novellino ed i Fioretti sono le fonti più schiette della nostra lingua, perché sono le espressioni più semplici della vita senza artifizio alcuno. (vol. I, p. 78)
  • Io non so se Roma pagana gettò più uomini alle belve, che Roma cristiana al rogo. (vol. II, p. 219)
  • Ci sono due specie di critiche, l'una che si ingegna più di scorgere i difetti, l'altra di rivelar le bellezze. A me piace più la seconda che nasce da amore, e vuol destare amore che è padre dell'arte; mentre l'altra mi pare che somigli a superbia, e sotto colore di cercare la verità distrugge tutto, e lascia l'anima sterile. (vol. II, pp. 279-280)
  • [Il Candelaio] Come opera d'arte non è bella, ma è ammirabile per forza d'ingegno. (vol. II, p. 329)
  • Il Bartoli, come tutti i Gesuiti, non ha un affetto mai, non ti fa sentire mai un affetto neppure pei Santi dei quali egli parla, onde tu non sai se egli creda davvero quello che dice: nessun pensiero mai, né ti fa mai meditare. Egli ebbe memoria forte, e fantasia gagliardissima, però il suo stile è tutto immagini, tutto frasi, tutto parole; è un giuoco, una fantasmagoria, e niente altro. Dentro è vuoto, senza pensiero, senza vita, senza verità, senza ordine: e un fascio di fattarelli tratti da tutti gli scrittori sacri e profani, o descrizioni di ogni minima inezia. (vol. II, p. 383)
  • A me pare che la colonna sia fatta a somiglianza dell'uomo. Quando io vidi nel Museo Britannico la colonna del Partenone, semplicissima, di purissime proporzioni, e svelta per modo che io credevo poterla prendere e muovere con mano, mi parve simile alla bella persona dell'uomo greco, simile all'Apollo del Belvedere. La colonna toscana robusta e schietta mi ricorda gli antichi italiani di dure fattezze, di duro animo, e mi pare di vederci la severità d'una legge. La gotica lunghissima, sottile, non mai sola ma a fascio con le altre, mi rappresenta quegli uomini settentrionali lunghi lunghi come candeli, che valevano per moltitudine. La bizantina a spire, lavorata, e ricamata mi ha somiglianza ai Greci degenerati, pieghevoli, astuti, chiacchieroni. La moresca senza base e sovraccarica di capitello mi pare proprio l'arabo che ha i piedi scalzi e un voluminoso turbante in testa. La colonna del Seicento diviene pilastro che non ha più significato artistico, o pure rimane ornamento senza scopo, perché l'arco è spezzato ed essa non più lo sostiene: non ha sua ragione nell'edifizio, ci sta per ostentazione e lusso, anzi ce ne stanno molte di ogni ordine e di ogni carattere, le une sovrapposte alle altre, appunto come gli uomini che sono raccolti nelle città ma ci vivono senza scopo, divisi tra loro, non più formano e sostengono l'unità dello stato. (vol. II, p. 407)
  • La pittura italiana è quasi tutta religiosa, e se noi vogliamo la storia delle nostre arti dobbiamo ricercarla nelle chiese. Quando la chiesa fu edificata raccogliendo i piccoli danari che dava il popolo, come il Domo di Firenze e il Domo di Napoli, le arti allora furono semplici, modeste, espressione di sincero sentimento religioso: quando fu edificata da monaci ricchi, le arti furono sfarzose, faticose, e ci mostrano quello sforzo che doveva fare l'artista per esprimere quello che non sentiva. I monaci erano i soli ricchi, i soli che potevano pagare le opere di arte, e però l'arte di questo tempo non è religiosa, perché vuota di sentimento, ma monacale: e se qualcuno volesse annoverare tutti i quadri dipinti nel Seicento, troverebbe molte migliaia di figure delle quali due terzi sono monaci. (vol. II, p. 413)
  • La scienza è il pensiero nei fatti; il metodo scientifico è la speculazione nell'osservazione: la scienza non è nel teloscopio, nei lambicchi, nelle ampolle, e nei fatti positivi, come oggi li chiamano, ma nel pensiero che nel fatto sa scoprire una legge, nel contingente sa vedere l'assoluto e l'eterno. (vol. II, p. 429)
  • A me pare che la libertà non abbia una forma sola ed immutabile, e che sia come il cielo il quale ha sereni ed ha tempeste, e col variare delle temperie feconda ed abbellisce la terra, e dove esso non varia ivi sono sterili solitudini o di arene o di ghiacci. (vol. III, p. 223)
  • [...] nei giornali [...] presi insieme ci sono le mille e diverse voci della moltitudine, il vero, il falso, le calunnie, le adulazioni, e quanto di bene e di male può uscire da mille bocche [...]. (vol. III, p. 227)
  • Perdonare le offese, sì, posso perdonarle quando sono fatte a me; ma quando sono fatte alla mia patria e a molti milioni di uomini io non debbo perdonarle, perché perdonando ad un solo offensore io fo male a molti milioni di offesi: l'idea del perdono è santa fin tanto che non contraddice all'idea della giustizia. (vol. III, p. 310)
  • [Su I promessi sposi] [...] mi pare simile ad una donna di formosità rara, di nobile legnaggio, di maniere amabilissime, colta, giudiziosa, arguta, buona, modesta, caritatevole, padrona di tutti i cuori, prima in tutte le buone azioni, ma gesuitessa. (vol. III, p. 315)
  • Il più necessario studio per l'uomo è l'uomo, la più nobile parte dell'uomo è il pensiero: e il pensiero domina i fatti, trasforma la materia, muta la faccia della terra: e chi vuole civiltà può trovarla soltanto dove splendono, e scambievolmente si danno luce tra loro, la Filosofia e l'Arte. (vol. III, p. 421)

Ricordanze della mia vita[modifica]

Incipit[modifica]

Ho a parlare di tante malinconie, lasciatemi prima rinfrescare lo spirito con le memorie dei miei primi anni quando entrai nel mondo, che mi parve tanto bello ed allegro.

Io ero un diavoletto di bambino che pigliavo e rompevo tutto in casa; e mio padre che era ammalato e ne pativa, mi diceva sempre: "La levatrice fu profetessa quando dopo il battesimo ti presentò a tua madre ed a me e disse che saresti riuscito un gran diavolo perché avevi rotta la fonte". "Non ho rotto nessuna fonte," dicevo io. Ed egli: "Tu nascesti in Napoli nell'anno 1813, il 17 di aprile, giorno di sabato santo[3], e fosti il primo battezzato nella fonte della nuova acqua benedetta, e però rompesti la fonte". Così fui fatto cristiano e cattolico senza ch'io ne sapessi niente.

Citazioni[modifica]

  • Io aveva vent'anni, ed era della guardia nazionale, e una mattina feci la sentinella innanzi alla camera dove erano a consiglio i capi della repubblica, e quando uscirono presentai le armi a Domenico Cirillo che uscì primo, e mi guardò, e mi sorrise, ed io ancora ricordo quel sorriso: presentai le armi a Mario Pagano e Vincenzo Russo che andavano ragionando, presentai le armi a tutti gli altri. Si avvicinava il cardinale Ruffo. Chi può descrivere i furori della plebe, e il terrore che faceva il grido di "viva il re"? (p. 4)
  • L'amore che io avevo ai libri mi era stato istillato nell'animo dal caro e benedetto padre mio, il quale era poeta, e aveva fatto versi improvvisi, e ne scriveva che mi piacevano tanto, ed era bel parlatore, e mi ragionava sempre di uomini grandi e della bellezza del sapere, e mi diceva sempre che nei libri si trova tesori inestimabili. "Quando tu leggerai e intenderai bene Virgilio, Lucrezio, Livio, Cicerone, e poi quando saprai il greco e leggerai Omero, Sofocle, Tucidide, tu ti sentirai più che uomo, ci troverai bellezze divine, sapienza profonda; e se tu lavori, e Iddio ti benedice, tu potrai essere grande anche tu." (p. 6)
  • La saviezza senza la pazzia sterilisce l'anima, ed è come il sole senza la rugiada della notte. (III)
  • Intanto venne l'agosto, vennero le nuove delle tre giornate di luglio a Parigi. Che salti, che allegrie, che propositi facevamo noi altri giovani! S'aspettava anche noi il giorno di pigliare le armi, e scoparla una volta per sempre questa razza borbonica nemica di ogni bene e di ogni libertà. Re Francesco fu atterrito dalla novella. Corse voce che il giovane Ferdinando, che allora attendeva a riformare l'esercito, dicesse al padre: "Andiamo noi coi nostri soldati a rimettere l'ordine a Parigi". E Francesco rispose: "Che soldati! Ti puzza ancora la bocca di latte, e non sai che bestie sono i francesi". Se è vero, non so; né io ero lì in corte per udire cosiffatto discorso. Si diceva, e io lo ridico. Se è un'invenzione, dentro c'è la verità del carattere del padre e del figliuolo. Sul cominciare di novembre re Francesco morì dopo cinque anni regnati coi preti, con le spie e col carnefice. (p. 14)
  • [...] siccome le cose di questo mondo vanno raramente secondo ragione, così il matto spesso s'appone meglio del savio. (V)
  • [A Napoli dopo la salita al trono di Ferdinando II delle Due Sicilie] Dopo il 1830 nacque una nidiata di giornali, che sebbene parlassero di sole cose letterarie, e dicessero quello che potevan dire, pure ei si facevano intendere, erano pieni di vita e di brio, e toccavano quella corda che in tutti rispondeva. Era moda parlare d'Italia in ogni scritturella, si intende già l'Italia dei letterati: e sebbene molti avessero la sacra parola pure al sommo della bocca, nondimeno molti altri l'avevano in cuore. (p. 21)
  • Voi sapete che, quando un popolo ha perduto patria e libertà e va disperso pel mondo, la lingua gli tiene luogo di patria e di tutto; e che quando gli ritorna il pensiero e il sentimento della sua passata grandezza, la lingua ritorna appunto all'antico. Sapete che così avvenne in Italia, e che la prima cosa che volemmo quando ci risentimmo italiani dopo tre secoli di servitù, fu la nostra lingua comune, che Dante creava, il Machiavelli scriveva, il Ferruccio parlava. Sapete infine che parecchi valenti uomini si dettero a ristorare lo studio della lingua, e fecero opera altamente civile, perché la lingua per noi fu ricordanza di grandezza di sapienza di libertà, e quegli studi non furono moda letteraria, come ancora credono gli sciocchi, ma prima manifestazione del sentimento nazionale. (p. 28)
  • Oggi non si vuol sapere di sette, e va benissimo: ma una volta esse ci sono state, e per esservi dovevano avere la loro ragione. Non bisogna scandalezzarsene e biasimarle così a la cieca, ma considerare che in certi tempi e in certi popoli elle sono una necessità, e moltissimi uomini di virtù e di senno credettero bene di appartenervi. Nei paesi liberi ci sono le parti, le quali sono pubbliche, e adoperano mezzi se non sempre onesti almeno d'un'apparenza legale. Nei paesi servi ci sono le sette, che sono segrete, e che per ira e corruzione non badano troppo alla qualità dei mezzi. Le sette sono una necessità della servitù, e cessano quando l'idea che le ha formate non è più né segreta né di pochi, ma pubblica e generale, e deve diffondersi e volare per tutto. Se volete la farfalla, dovete avere prima il verme. Allora non potevamo in altro modo intenderci, accordarci, tentare libertà, e spargere il seme di quelle idee che han prodotto il frutto che ora apparisce. Non abbiate dunque a male se io vi parlo d'una setta. (p. 30)
  • In tutte le cose del mondo un poco d'impostura ci vuole, ed è come il sale che da sapore se è poco, e rende amaro se è molto. L'è una cosa difficile, ma il più difficile e più bello. (p. 30)
  • L'unità d'Italia fu sempre antico e continuo desiderio di tutti gli Italiani intelligenti e generosi. Dante voleva l'unità del mondo con a capo l'Italia, la monarchia universale con due capi l'imperatore e il papa: questa era una poesia ma ha il suo valore storico, perché indica che l'unità religiosa del medio evo era già rotta e divisa in due. (p. 31)
  • Se l'Italia fosse repubblica non potrebbe essere che una federazione di repubbliche, delle quali più che la metà sarebbero del papa. (p. 31)
  • Io non conobbi mai Giuseppe Mazzini, ma io l'onoro come uomo che al suo tempo fece gran bene alla causa della libertà. Egli ebbe un concetto monco, la libertà e l'indipendenza, e non si curò dell'unità che per noi italiani è idea madre di tutte le altre: rappresentò un'idea vaga di libertà e però egli ebbe seguaci tutti coloro che non avevano un concetto determinato della libertà, e specialmente i giovani. (p. 31)
  • Io non perdevo briciola di tempo, ed anche camminando per le vie leggevo Omero, e ne andavo ripetendo i versi: e poi a un tratto correvo col pensiero a lei, e mi scordavo d'Omero. Oh, chi mi ridona quegli anni, quegli studi, quei giorni d'amore e di speranza? Una sola volta in vita si studia bene, come una volta sola veramente si ama. (p. 33)
  • Io le voglio un gran bene a quella città di Catanzaro, e piacevolmente mi ricordo sempre di tante persone che vi ho conosciute piene di cuore e di cortesia, ingegnose, amabili, ospitali. (p. 34)
  • [Da Catanzaro] Il mare è distante da la città sei miglia, ma ti pare di averlo sotto la mano, e ne odi il fragore: vi si discende per una strada che va lungo un torrente, e quando sei su la riva trovi un villaggio che chiamano la Marina, dove i signori hanno loro casini e la primavera vanno a villeggiare. (p. 34)
  • Quando da un luogo della città detto la Villa io guardai quella fioritissima veduta, volli trovare la fede di battesimo di Catanzaro, e dissi: "Se la vostra cronaca narra che un potente bizantino a nome Flagizio venne nell'ottavo secolo e fondò o ampliò la città, egli le dovette dare questo nome di Catantheros, Catantharos, (Κατανθήρος) che vuoi dire sul fiorito, e glielo diede pel sito bellissimo ed amenissimo su cui forse ebbe una sua villa, e poi surse la città". "Oh, che Flagizio e che greco voi ci contate. Una volta c'erano due fratelli briganti, Cataro e Zaro, i quali dopo molti anni che scorsero la campagna, infine si pentirono, e vennero qui che era luogo forte, e nessuno poteva toccarli: qui abitarono con la loro compagnia e le loro famiglie, qui fabbricarono una chiesa e ci furono seppelliti; e così si formò la città che porta il nome di tutti e due." Ci ebbi una quistione lunga che non è decisa ancora: anzi ogni buon catanzarese tiene per i due briganti, e non so come non gli hanno messi tra i santi protettori della città. (p. 35)
  • C'era stato il terremoto grande del 1832, e tutti ne parlavano con terrore, e mi mostravano le rovine in vari luoghi, e narravano fatti dolorosissimi. "Ah," mi diceva uno, "se non ci fossero i terremoti ed i briganti, la Calabria sarebbe il primo paese del mondo". (p. 35)
  • L'arte che tutti i calabresi sanno benissimo, dal più ricco all'ultimo mendico, è quella di maneggiare il fucile. (p. 35)
  • Quando le strade comunali, provinciali, e ferrovie metteranno i Calabresi in facili comunicazioni tra loro e con le altre genti d'Italia, allora si scioglierà quell'antica lotta chiusa in ogni paesello tra il proprietario sempre usuraio lì, e il proletario sempre debitore, si ammansirà quell'odio per oltraggi antichi che è la vera cagione del brigantaggio. (p. 36)
  • Quando quelle genti avranno lavoro, istruzione e giustizia, quelle loro nature sì gagliarde nei delitti saranno gagliarde nel lavoro, nelle industrie, nelle arti, nella guerra santa e nazionale. In nessuna contrada ho veduto più ingegno che in Calabria, lì schizza proprio dalle pietre, ma raramente è congiunto a bontà, spesso è maligna astuzia. (p. 36)
  • In quel sozzo lombricaio borbonico, il solo re Ferdinando fu costumato. (p. 38)
  • Nessun prete voleva riceverlo in chiesa. Il Ranieri parlò a parecchi parrochi, e tutti no: gli fu indicato quello di San Vitale come uomo di manica larga e ghiotto di pesci. Ei tosto corse a la Pietra del pesce, comperò triglie e calamai, e ne mandò un bel regalo al parroco, il quale si lasciò persuadere, e fece allogare il cadavere nel muro esteriore accanto la porta della chiesa. Così per pochi pesci Giacomo Leopardi ebbe sepoltura. Queste cose me le diceva il Ranieri, ed è bene che il mondo le sappia queste cose. (p. 40)
  • [...] chi ama un'idea o una persona, più soffre per lei, più se ne innamora. (XVII)
  • Il soldato, il prete, ed il maestro di scuola sono i soli uomini che fanno le rivoluzioni: il soldato ed il prete hanno sinora comandato il mondo, il maestro di scuola attende la sua volta, la quale verrà quando il mondo sarà guidato non dalla forza né dal sentimento, ma dalla intelligenza: e pare che si avvicini perché oggi, risorgendo il popolo, prevale il maestro che deve sollevarlo con la scuola. Gli uomini che fanno il mestiere di soldato, di prete, e di maestro di scuola sono pochi e male retribuiti dell'opera loro: chi può degnamente retribuire il soldato, il buon prete, il maestro che educa ed istruisce? E il mondo stima poco quello che paga poco, e però tiene questi uomini in poco pregio. E veramente chi vuol fare uno di questi mestieri per solo fine di guadagno lo fa male, ed è meritamente spregevole: perché senza una grande abnegazione, senza un grande animo, e senza poesia non si è bravo soldato, non si è buon prete, o si è maestro ed educatore degli uomini. (p. 65-66)
  • [...] il popolo è come il bambino che impara a camminare dopo molte cadute. (XVII)
  • L'aspettare è senza pericolo [...]. (XIX)
  • Tutte le religioni si dicono venute da Dio, ma esse sono uscite da la coscienza dei popoli e si mutano necessariamente come essa coscienza si muta. (XVIII)
  • Per governare i popoli, per educare i fanciulli, e per curare i pazzi non basta la ragione e la parola, perché l'uomo ha pure quel della bestia, che vuol essere corretto con la forza. (XXII)
  • [...] ha colpa l'educatore del male che fanno i fanciulli da lui non saputi correggere a tempo. (XXII)
  • Tre cose belle furono in quell'anno [1839]: le ferrovie, l'illuminazione a gas e Te voglio bene assai. (1879; p. 160)
  • L'isoletta di Ventotene, col suo paesello che scende declinando sino alla marina, e con le biancheggianti mura del suo camposanto, mi si dipingeva tutta quanta innanzi agli occhi come una ninfa marina che solleva dal mare la bella faccia con le chiome verdeggianti di alga. Nelle campagne di questa isoletta sono molte casette sparse qua e là, da due delle quali le più lontane, saliva nell'aere una verghetta di fumo che si spandeva e vaniva. Le grotte incavate nel tufo, nelle quali abitano i pescatori, il porto, un ponticello sopra una vallata, alcuni scogli, e più sopra un cannone con la bocca rivolta a Santo Stefano tutto mi appariva distintamente. (parte terza, cap. XXIV, La finestrella sul mare; p. 98)

Incipit di Meditazioni[modifica]

Se io non scrivo, io non vivo: lo scrivere per me è un gran bisogno del cuore; e lo fo come il cuore mi detta dentro.[4]

Citazioni su Luigi Settembrini[modifica]

  • Molto il Settembrini della maturità deve all'abate Galiani. Anche per le motivazioni (dimostrative) che lo portarono all'approntamento dell'edizione del Novellino di Masuccio: se dagli scritti burleschi si passa al trattatello galianeo Del dialetto napoletano (1779), attuale all'antiquaria filologica dell'editore del novelliere aragonese. […] Galiani era per la “nazionalizzazione” del dialetto napoletano, che poteva vantare l'ufficialità di un uso illustre nel Quattrocento aragonese: “[...] ben lungi dall'innalzar lo stendardo della ribellione e della discordia tra 'l napoletano e l'italiano, noi crediamo non potersi far meglio quanto il cercare di raddolcire il nostro dialetto, d'italianizzarlo quanto più si può e di renderlo simile a quello che i nostri ultimi re, gli Aragonesi, non sdegnarono usare nelle loro lettere e diplomi e nella legislazione”. (Salvatore Silvano Nigro)

Note[modifica]

  1. Da Scritti inediti, p. 337.
  2. Da Scritti inediti, p. 336.
  3. Via Magnocavallo, case di Don Innocenzo Rossi, poi del Signor Luigi Manzelli. (N.d.A.)
  4. In Scritti inediti.

Bibliografia[modifica]

  • Luigi Settembrini, Ricordanze della mia vita e Scritti autobiografici, Feltrinelli, Milano, 1961.
  • Luigi Settembrini, Ricordanze della mia vita, Rizzoli, 1964.
  • Luigi Settembrini, Le Ricordanze di mia vita, Morano Editore, Volume I, 1879.
  • Luigi Settembrini, Lezioni di letteratura italiana, 2 voll., Ghio, Napoli, vol. I, 1866, vol. II, 1868.
  • Luigi Settembrini, Lezioni di letteratura italiana, 3 voll., Morano, Napoli, 1872, vol. III.
  • Luigi Settembrini, Scritti inediti, a cura di Francesco Torraca, Società commerciale libraria, Napoli, 1909.

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