Manlio Cancogni

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Manlio Cancogni

Manlio Cancogni (1916 – 2015), scrittore, giornalista e insegnante italiano.

Il costo del progresso[modifica]

Incipit[modifica]

L'eccitazione provocata dalle gesta di Cavallero e dei suoi compagni accenna appena a calmarsi. Mai un crimine aveva finora suscitato un tale scoppio d'ira; mai ci eravamo sentiti così solidali nella deprecazione del delitto, e, diciamolo, nella caccia al delinquente.
Ci sarebbe da rallegrarsi come di una prova di civismo se la reazione non fosse stata troppo violenta. È vero, con i suoi episodi drammatici e patetici (l'invalido [Roaldo Piva] che sacrifica la propria vita per acciuffare l'assassino, la madre che consegna il figlio colpevole alla polizia) l'avvenimento si prestava a diventare uno spettacolo da Gran Guignol. Ma come negare che si sia calcata un po' troppo la mano?

Citazioni[modifica]

  • Niente ci assicura che oggi gli italiani non siano capaci di delinquere allo stesso modo degli americani, dei francesi, o dei tedeschi. Che cosa lo impedisce? La loro civiltà? La loro storia?
  • Gli uomini possiedono a ogni latitudine lo stesso bagaglio di vizi e di virtù.

Explicit[modifica]

La criminalità cui assistiamo oggi nel nostro Paese è una delle contropartite negative del suo progresso. Non si possono separare le due cose. Cavallero e compagni sono dunque cittadini della nostra società: non i suoi nemici come essi farneticavano, e come in un impeto di furore igienico, siamo portati a considerarli.

Storia dello squadrismo[modifica]

Incipit[modifica]

L'ultima fase della guerra [prima guerra mondiale] contro gli imperi centrali dette agli italiani l'illusione di una grande vittoria. Tutte le amarezze dei primi anni del conflitto vennero dimenticate: la battaglia del Piave nel giugno del '18[1] e quella di Vittorio Veneto[2], alla fine d'ottobre, avevano cancellato i ricordi spiacevoli. Ogni difficoltà pareva superata: in realtà stavano sopraggiungendo le peggiori.

Citazioni[modifica]

  • Durante la guerra gli arditi avevano vissuto da eroi. Erano le truppe scelte per gli assalti. Il giorno dell'azione, mentre il bombardamento sconvolgeva le linee del nemico, i camion li portavano sotto le posizioni da conquistare. Lì attendevano l'ora stabilita, facendo circolare le borracce di cognac e di grappa, fumando, facendo scongiuri.
    Ad un ordine uscivano all'attacco con le bombe a mano e il pugnale.
    Tutto si sbrigava in poco tempo: era la vittoria o la morte. Il più delle volte, il nemico, sopraffatto dal fuoco dell'artiglieria, aveva già sgombrato le posizioni. Chi non era morto o ferito, giaceva stupidito dal terrore nei ricoveri. Entrando di slancio nelle trincee, gli arditi non trovavano che corpi privi di vita o inermi. Vibravano colpi di pugnale come dentro a sacchi, scagliavano le bombe nei ricoveri.
    Se invece il nemico aveva resistito sotto il bombardamento, gli arditi erano accolti dal fuoco delle mitragliatrici. Allora si accendeva sulle quote una violenta battaglia che finiva a corpo a corpo. (cap. I, pp. 12-13)
  • Agli arditi erano risparmiati gli estenuanti turni in trincea che abbrutivano le normali truppe di fanteria, soggette ai bombardamenti, al sole, alla pioggia, al fango, alla fame, alla sete, ai pidocchi. Essi alloggiavano comodamente dietro le linee. Fra un'azione e l'altra si godevano il vitto migliore, il soprassoldo e la gloria. (cap. I, p. 13)
  • I corrispondenti dal fronte non parlavano che di loro. Le gesta degli arditi, tutte rapidità e fuoco, facevano dimenticare le miserie, la pena, lo sporco della guerra di posizione. I disegnatori dei giornali illustrati rappresentavano l'ardito col pugnale fra i denti, gli occhi scintillanti, la nappa del berretto nero spavaldamente gettata indietro, mentre si apriva un varco tra i reticolati sconvolti e le esplosioni delle bombe. (cap. I, p. 13)
  • Dopo Caporetto, erano divenuti famosi «i caimani del Piave». Erano arditi[3] specializzati nel traversare di nottetempo il fiume. Nudi, col corpo dipinto in modo da confondersi con il colore torbido dell'acqua e con la vegetazione delle rive, attraversavano a nuoto la corrente per andare a uccidere le vedette austriache. I «caimani» erano celebrati come esseri di leggenda, benché molti di coloro che si fregiavano di quel titolo, avessero fatto solo qualche bagno nelle acque fredde del Piave.
    La leggenda nascondeva la realtà. Nascondeva fra l'altro che gli arditi erano in maggioranza ex detenuti, condannati spesso per omicidio o altri gravissimi reati, gente che si era arruolata nei reparti di assalto per riavere la libertà. (cap. I, pp. 13-14)
  • Centinaia di ragazzi quel giorno[4] diventarono fascisti. La vista della strage di tanta carta stampata li aveva esaltati. Sognavano di far subire la stessa sorte ai registri delle scuole, alle cattedre, e magari a qualche professore.
    «L'Avanti! non c'è più! L'Avanti! non c'è più!» cantavano i fascisti tornando sui loro passi. Giunti in via Paolo da Cannobio si ammassarono sotto le finestre del Popolo d'Italia per rendere omaggio a Mussolini. (cap. I, pp. 27-28)
  • L'indomani [delle aggressioni degli squadristi], i contadini, i capilega o qualche dirigente socialista, andavano dai carabinieri a denunciare le bastonature, i ferimenti, le uccisioni, gli incendi, il saccheggio: i carabinieri li cacciavano via, e, se insistevano, li arrestavano. Avevano l'ordine di fare così. Nessuno osava testimoniare contro il capitano Forni che si faceva vedere in pubblico durante il giorno, alto e grosso, con la faccia spavalda, come se niente fosse accaduto. Eppure tutti sapevano che era alla testa delle squadre. (cap. III, p. 69)
  • Arrivando al Gambrinus, il Mago [Umberto Banchelli] guardava i camerati dall'alto in basso, tenendo un poco sollevato il mento, forse perché temeva che gli altri lo deridessero per un suo difetto di pronunzia. Era fiero del suo passato di guerriero. A sedici anni era andato con i garibaldini a combattere contro i turchi a Domokos. A chi gli chiedeva perché l'avesse fatto, rispondeva fieramente: «Per... per la libertà della Grecia». (cap. V, p. 95)
  • Dumini era uno che parlava poco. Stava sempre sotto i portici come se aspettasse qualcuno. S'allontanava camminando con passo duro, marcato, e poi tornava al posto di prima. Aveva gli occhi fissi, opachi, come se fossero concentrati in un solo pensiero. (cap. V, p. 96)
  • Carosi[5] giocava con l'arma e intanto guardava, senza parlare, gli operai e i contadini che, dal momento che i fascisti erano entrati, tacevano fermi ai loro tavoli con le carte in mano. «Tu», disse indicandone uno. L'interpellato guardava impaurito ora gli amici ora il fascista. «Mettiti là», disse Carosi. Indicandogli il punto con la pistola lo fece andare in fondo alla stanza con le spalle appoggiate al muro. Si alzò, si accostò a una credenza, prese da una fruttiera una mela, la mise sulla testa dell'uomo. «Adesso sta' fermo», disse. Andò al capo opposto della stanza, puntò la pistola, fece fuoco. L'uomo scivolò per terra colpito in fronte. Si chiamava Pietro Pardi. (cap. VI, p. 107)
  • Nei primi tempi dello squadrismo a Cremona, i socialisti avevano dato a Roberto Farinacci il soprannome di Tettoia che poi gli conservarono anche quando, alle elezioni del '21, fu eletto deputato. Lo chiamavano così perché era impiegato alle ferrovie, ma il soprannome nascondeva un'allusione maligna. Infatti Farinacci, durante la guerra, benché fosse interventista e avesse l'età e la salute per la vita di trincea, era rimasto in servizio nelle ferrovie, non staccandosi mai dall'amica tettoia. (cap. VIII, p. 137)
  • [Francesco] Misiano[6] durante la guerra [del 1915-18] aveva disertato e alle elezioni del '19 era stato eletto alla Camera dai socialisti. D'Annunzio gli aveva promesso «il castigo supremo a ferro diaccio» e i fascisti non perdevano un'occasione per offenderlo e tormentarlo. Il poveretto girava armato di pistola, ma con quell'arma non aveva mai sparato un colpo.
    Un giorno alla Camera, un gruppo di deputati fascisti gli dette l'assalto. Misiano estrasse la rivoltella ma non premette il grilletto e, dopo qualche secondo d'incertezza, consegnò l'arma. Farinacci se ne impadronì e come se fosse stato lui a disarmare il nemico, andò a mostrarla a Giolitti che non s'era mosso dal suo scanno presidenziale. «Con questa pistola», gridò, «si tentava di assassinare i deputati d'Italia.»
    Giolitti annuiva senza rispondere. «Gliela consegno», insisté Farinacci gettando la pistola sul banco. Giolitti guardò la pistola senza toccarla. «Veramente», rispose, «non ho il porto d'armi.» (cap. VIII, pp. 137-138)
  • Facendo il lattaio, il carbonaio, l'incettatore di fieno, di lana, l'allevatore di pecore, di maiali, il camionista, [Amerigo Dumini, trasferitosi in Cirenaica] era riuscito a farsi una posizione. S'era anche sposato con la figlia di un colono dell'altipiano, una ragazza molto più giovane di lui, piccola e timida. Allo scoppio della guerra [seconda guerra mondiale] viveva a Derna dove dirigeva una azienda di trasporti. S'era fatto molti amici fra gli arabi. Forse quella gente apprezzava proprio ciò che nella sua persona lo rendeva pauroso agli occhi degli italiani: la fissità opaca dello sguardo, la capacità di tacere a lungo guardando nello stesso punto, l'incedere duro e indifferente, e quella sorta di fatalità che lo accompagnava dovunque fosse. (cap. XI, p. 200)
  • Dumini restò in Cirenaica a organizzare un servizio di spionaggio alle spalle degli inglesi. Fu scoperto, arrestato e condannato a morte. Si era nell'aprile del '41, era cominciata la controffensiva di Rommel.
    Una sera, alla vigilia del ritorno delle truppe italiane a Derna, gli inglesi presero Dumini e lo portarono in un cortile. Sei uomini col Thompson[7] imbracciato l'aspettavano. Un capitano lesse la sentenza al lume di una torcia elettrica: «... In ottemperanza agli ordini ricevuti e in seguito alla vostra condanna a morte voi sarete fucilato in questo istante... You must die, you must die».
    I sei uomini fecero fuoco e Dumini cadde bocconi attraverso il cadavere d'un sergente che era stato giustiziato poco prima. L'ufficiale si piegò sul corpo ponendogli una mano sul cuore, gli illuminò la faccia con la lampada. «Dead», disse. «This man is gone.» L'ufficiale e gli uomini se ne andarono. Dumini udì i loro passi allontanarsi sulla ghiaia. Era stato ferito in dodici punti, una pallottola gli aveva rotto una vertebra del collo, ma non aveva perso i sensi. Appena fu sicuro di essere solo s'alzò e fuggì via. (cap. XI, pp. 200-201)

Incipit di alcune opere[modifica]

Allegri, gioventù[modifica]

Il temporale di fine estate, quest'anno, nella valle, è venuto con ritardo: non per ferragosto, come di consueto: a metà settembre. E ha lasciato il segno. Cominciò dopo la mezzanotte quando erano già tutti a letto.
Alla Magnolia, la Signora aveva sempre la luce accesa, il libro le tentennava fra le mani. Sonnecchiando sentiva che qualcuno veniva su per la strada rumoreggiando, un uomo nero o un carro molto grande. Una frana di ciottoli enormi, un rimbombo, le fecero riaprire gli occhi sui caratteri di colpo nitidi del libro che le si era raddrizzato fra le mani. Sentì l'acqua che si rovesciava sul tetto mentre un lampo si insinuava fra le stecche della persiana; capì, ma non ebbe il tempo di contare perché subito ci fu la scarica. Meno forte però del fulmine che l'aveva svegliata.

Il ritorno[modifica]

M'avevano fatto viaggiare tutto il giorno, da un paese all'altro, per strade impossibili, sassi e buche, sempre più lontano dalla civiltà.[8]

La cugina di Londra[modifica]

Nora e Nino fecero amicizia quando i nonni materni, assenti a lungo dalla Versilia, decisero di tornare per un'estate.
Benché cugini primi, figli di sorelle, abitanti nella stessa città, finora s'erano visti di rado. Nora aveva undici anni, Nino sette.

Note[modifica]

  1. Battaglia del solstizio o seconda battaglia del Piave, Cfr. voce su Wikipedia.
  2. Battaglia di Vittorio Veneto o terza battaglia del Piave, Cfr. voce su Wikipedia.
  3. Arditi, Cfr. voce su Wikipedia.
  4. Il 15 aprile 1919, a Milano, nazionalisti, fascisti, allievi ufficiali e arditi assaltarono e devastarono la sede del quotidiano socialista Avanti! Cfr. voce su Wikipedia.
  5. «Nel pisano primeggiava su tutti Sandro Carosi, un farmacista di Vecchiano ch'era diventato il terrore della provincia», M. Cancogni, op. citata, p. 106.
  6. Francesco Misiano, Cfr. voce su Wikipedia.
  7. Modello di mitra, Cfr. voce su Wikipedia.
  8. Citato in Giacomo Papi, Federica Presutto, Riccardo Renzi, Antonio Stella, Incipit, Skira, 2018. ISBN 9788857238937

Bibliografia[modifica]

  • Manlio Cancogni, Allegri, gioventù, Club degli Editori, Milano 1976.
  • Manlio Cancogni, La cugina di Londra, Elliot Edizioni, 2011. ISBN 9788861922488
  • Manlio Cancogni, Storia dello squadrismo, Longanesi, Milano 1959.

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