Maria Chiara Pievatolo

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Maria Chiara Pievatolo

Maria Chiara Pievatolo (1963 – vivente), docente universitaria di filosofia politica, traduttrice e scrittrice italiana.

Sette scritti politici liberi[modifica]

Incipit[modifica]

  • «Quando il mondo della creatività avrà compiuto la sua secessione, l'industria dell'appropriazione che limita i diritti d'uso […] deperirà lentamente nel campo cinto di filo spinato che finge di coltivare. Ne è così consapevole che è pronta a tutto per impedirlo. Noi dobbiamo proteggere l'ecosistema dell'informazione da questi attacchi, ma ciò non ci esime dal riflettere sui vincoli al suo sviluppo e al suo divenire. E se ce ne daranno l'occasione, potrà essere utile aiutare questa industria a reinventarsi in forme meno distruttive.»[1] Queste parole di Philippe Aigrain, nel suo libro dedicato al conflitto fra la condivisione libera e il monopolio proprietario dei beni informativi, possono essere lette e riprodotte in virtù di una scelta coerente e consapevole del suo autore, che ha sottoposto il testo a una licenza Creative Commons. La domanda di Aigrain – fino a che punto la cosiddetta "proprietà intellettuale", un monopolio che rende artificiosamente costoso qualcosa che sta diventando riproducibile sempre più facilmente, danneggia la creatività e la cultura? – è ormai molto comune, 2 anche se buona parte degli autori accademici italiani, almeno nel settore delle scienze umane, sembra continuare a ignorarla. (introduzione, p. 11)

Introduzione[modifica]

Liberare Kant[modifica]

  • L'espressione "proprietà intellettuale" è tanto fuorviante quanto propagandistica: chi riproduce un testo senza autorizzazione non sottrae nessun oggetto, materiale o immateriale, dalla disponibilità di qualcun altro: viola, semplicemente, un monopolio temporaneo riconosciutogli dal diritto positivo, ossia, propriamente, un "privilegio intellettuale". (p. 11)
  • Per quanto questo volume nel suo complesso sia soggetto a una licenza Creative Commons più restrittiva, le singole traduzioni possono essere liberamente riprodotte e modificate. (p. 12)
  • Nel mio caso, l'argomento per il quale soltanto la speranza di guadagnare una modestissima percentuale del prezzo del libro e di offrire una rendita, fino a settant'anni dopo la mia morte, a sconosciuti pronipoti mi avrebbe indotto a impegnarmi in questo lavoro è così ridicolmente falso che non merita di essere confutato. Altrettanto astratta e remota è la prospettiva che questo lavoro possa avere un qualche significato per la mia carriera accademica. (p. 12 sg.)
  • [L]'edizione di questo testo è stata finanziata con fondi di ricerca statali: la mia traduzione, in altre parole, esiste grazie a denaro pubblico. Che senso ha privatizzare col privilegio intellettuale qualcosa che è nato pubblico, perché il contribuente lo ha pagato con le sue imposte? Come possiamo chiedere il sostegno economico del pubblico se l'esito più immediato del nostro lavoro non può essere fruito da tutti? (p. 13)
  • [Sulla proprietà intellettuale] Se in generale fosse lecito […] modificare una traduzione altrui per migliorarla o per aggiornarla, gli umanisti potrebbero ripetere con profitto l'esperienza del software libero, collaborando per uno sforzo comune e cumulativo, anziché ricominciare ogni volta da capo. (p. 13)
  • Cedere i propri diritti a un editore che ci priva della proprietà della nostra biblioteca, cioè, weberianamente, dei nostri mezzi di produzione, ci avvicina al proletariato. Ma svilire la dignità del proprio lavoro al punto di credere che il suo valore non dipenda dall'essere usato, condiviso e discusso, bensì dall'essere privatizzato da un qualche editore di prestigio ci fa scendere fra la plebe. (p. 15)

Dal privilegio intellettuale alla censura[modifica]

  • Perché spendere per una nuova traduzione quando si gode di un redditizio monopolio che permette di lucrare sulla versione esistente fino al 2056? (p. 16)
  • [Sul privilegio intellettuale] Se la dignità del nostro lavoro – anzi, la possibilità stessa di compierlo – dipende dalla benevolenza di un privilegiato, è ben comprensibile che gli autori si azzuffino come pezzenti che si contendono l'elemosina. (p. 16)
  • Un caso meno recente, ma assai più scandaloso, di censura economica che si trasforma in censura politica, riguarda la traduzione inglese di Mein Kampf. Alan Cranston, corrispondente dell'International News Service nei due anni precedenti alla seconda guerra mondiale, si rese conto che la versione inglese autorizzata, i cui diritti erano detenuti da Houghton Mifflin, era stata espurgata di varie parti significative e in particolare delle sezioni che illustravano il progetto hitleriano di dominio del mondo. Per rendere noti al lettore americano gli effettivi piani di Hitler, Cranston produsse una nuova traduzione commentata e annotata […] [per] informare, alla vigilia della seconda guerra mondiale, l'opinione pubblica della più grande democrazia del mondo di allora su quanto covava al di là dell'oceano. […] Houghton Mifflin, l'editore autorizzato da Hitler, intentò una causa per violazione del copyright. Nel luglio del 1939 un tribunale statunitense gli diede ragione, mandando al macero cinquecentomila copie già stampate. Poco meno di due mesi dopo, le truppe tedesche invasero la Polonia, attuando il piano che Cranston aveva tentato di far conoscere ai suoi concittadini. (p. 16 sg.)
  • L'uso censorio del copyright ha il sapore di un ritorno alle origini, quando i precursori dell'istituto servivano per imporre l'identificazione dell'autore per poterlo più facilmente punire come eretico o come sovversivo. (p. 17)

Citazioni[modifica]

  • La condizione civile, per Kant, poggia su tre princípi dati a priori, cioè prima e al di sopra di ogni ordinamento positivo: libertà, uguaglianza, indipendenza.[2] (p. 136)

Note[modifica]

  1. Traduzione di Maria Chiara Pievatolo da Philippe Aigrain, Cause commune: l’information entre bien commun et propriété, Fayard, Parigi, 2005, p. 215 sg.
  2. Annotazioni della curatrice nel paragrafo Una teoria liberale: i tre princípi della condizione civile.

Bibliografia[modifica]

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