Paco Ignacio Taibo II

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Paco Ignacio Taibo II

Paco Ignacio Taibo II, pseudonimo di Francisco Ignacio Taibo Mahojo (1949 – vivente), scrittore, giornalista, saggista ed attivista spagnolo naturalizzato messicano.

Citazioni di Paco Ignacio Taibo II[modifica]

  • [...] ho capito che la Sicilia è molto più complessa di quello che si può pensare: la paragonerei ad una cipolla dai molti strati.[1]

Ritornano le ombre[modifica]

  • Chi mi ha incaricato di scrivere questo libro? Dio? il diavolo? (Quale con la minuscola e quale con la maiuscola?) Una combinazione dei due? Un arcangelo colto e bibliofilo? Niente di tutto ciò. Per quanto ne so, un'entità più rispettabile: il caso. (parte I, cap. V)
  • Scrivere un romanzo è fondamentalmente mancanza di pudore. Anche pettinarsi è mancanza di pudore, soprattutto se si fa con l'intento di mascherare la cicatrice che corre all'attaccatura dei capelli. Ma pettinarsi è una mancanza meno grave, mentre scrivere è grave. Significa mascherare la realtà, nascondere la paure, reinventare le cose che si sono dette e, soprattutto, le persone che le hanno dette. (parte I, cap. XIII)
  • Non c'è niente che plachi la sofferenza personale come affrontare la sofferenza altrui. Tenere la mano di quest'uomo perché passi piacevolmente attraverso il sonno, è come tendere un ponte cui ai miei demoni sia vietato passare. (parte I, cap. XXIII)
  • Diventa meticoloso solo chi possiede l'inerzia del disordine. Mette in fila tre matite solo chi pensa che altrimenti il caos si impadronirà della sua vita. Nessuno può scrivere con tre matite contemporaneamente. (parte VI)
  • E racconto tutto ciò perché a volte sembra, quando narriamo le nostre storie, che tutto sia semplice oggetto d'arredo; che quelli che fanno da personaggi secondari non vivano e non muoiano, e servano solo come particolari di colore, per fare in modo che noi, i personaggi principali, ci muoviamo per l'aneddoto circondati dall'incanto del paesaggio. In altre parole, né i piloti giapponesi né gli imperatori con pedana, né gli avvoltoi né gli scrittori sono elementi decorativi. (parte VII, cap. XII)
  • L'insieme aveva l'essenza degli incubi, senza esserlo, però. La sensazione d'irrealtà era reale. Solo l'irrealtà è reale. Se no, le cose sembrerebbero molto reali, ma anche assurde. (parte X, cap. XI)
  • Nei confronti degli scrittori classici del Siglo de oro Tomás Wong aveva un atteggiamento di diffidenza. Il fatto che qualcuno avesse deciso che erano classici lo rendeva nervoso. Essere classico era una specie di malattia che guastava la buona letteratura, ne faceva l'oggetto di studio di studenti e di opere di eruditi, e la letteratura era qualcosa che doveva entrare senza mediazioni, senza intermediari, tra lettore e autore, possibilmente entrambi in condizioni di solitudine. (parte XII, cap. VII)
  • C'è gente convinta che un romanzo debba spiegare tutto. Che il romanzo debba essere il riparatore della vita e delle sue incoerenze. Ma la vita è mai stata coerente? E perciò pensa che lo scrittore occupi questa posizione centrale nello spazio e nel tempo per dare un inizio e un finale alle storie (ma lei conosce qualche storia che abbia un finale, una cosa che si dovrebbe chiamare finale, finale-finale?), collegare riempire vuoti e dissipare zone d'ombra; spiegare i comportamenti dei personaggi.
    C'è chi crede che il romanzo abbia una funzione divulgativa e una vocazione pedagogica. Niente di più lontano dalla verità. Il romanzo non è fatto per mettere ordine nel caos. Il romanzo non è fatto per mettere ordine in un beneamato cazzo. Il romanzo non è nato per dare soddisfazione agli amanti dell'ordine. È fatto per divertirsi con le vertigini, per creare casino, per goderne, per rimestarlo.
    Non si tratta di rispondere a domande ma di farne altre, sempre nuove, sempre più inquietanti.
    Il romanzo, come la realtà reale, come le storie che conosciamo tutti e che ci capitano sempre, è pieno di parentesi, buchi, ellissi che ballano saltellando da una parte e dall'altra senza desiderare concretizzarsi, senza voglia di spiegarsi.
    Credo di essere ben lontano dall'illusione che quando la vita diventa profondamente incoerente arrivi il romanzo a metterci una pezza.
    D'altra parte non dobbiamo lamentarci troppo. Il romanzo è certamente il guercio in questo luminoso deserto messicano in cui abbondano i ciechi. (parte XIII, cap. II)
  • È in questi casi che la memoria fa cilecca. Il passato a medio termine mi si confonde con un altro passato che non credo di voler ricordare. La memoria cancella senza cautela, senza precisione; se vuole occultare qualcosa, nasconde anche le proprie parentele. (parte XV, cap. III)

Stessa città stessa pioggia[modifica]

Incipit[modifica]

"Quante volte sei morta tu?"
"Uhm" disse la ragazza con la coda di cavallo e fece segno di no con la testa. "Io, molte." Lei passò il dito indice sulle cicatrici che formavano ghirigori sul petto. Héctor spostò con delicatezza la sua mano e si diresse nudo verso la finestra. Era una notte fredda. Le Delicados con filtro erano rimaste sul davanzale; avvicinò la fiamma dell'accendino alla sigaretta e guardò i riflessi verdastri dei lampioni fra gli alberi.
"No, non per le cicatrici, non mi riferivo a questo. Nel senso di dormire, mettersi a dormire e morire ogni volta. Cento, duecento volte in un anno. Essere certi che il primo sonno sia come morire un'altra volta... Questo, intendo. Il primo maledetto istante del sonno, non è sonno, è tornare a morire."
"Si muore una volta sola."

Citazioni[modifica]

  • Non si fanno troppe domande in una città dove non si hanno amici. Si gira e rigira intorno a ogni cosa, si sommano piccoli dati, non si raggiungono grandi risultati.

Niente lieto fine[modifica]

Incipit[modifica]

«Cazzo capo, c'è un romano morto nel bagno.»
«Quando ha finito di pisciare, gli dica di entrare» rispose Héctor Belascoaràn.
Una serata dolce, tiepida, indolente, che non voleva saperne di finire, penzolava dalla finestra.
«Porca miseria, capo, non è uno scherzo» disse dal vano della porta Carlos Vargas, tappezziere e compagno d'ufficio del detective.
Héctor osservava le nubi scivolare lente lungo il soffitto del suo pezzetto di città.
«Ma la lancia ce l'ha o non ce l'ha?»
«Credo che sia proprio morto stecchito!»
Héctor si alzò dalla poltrona di pelle su cui aveva trascorso tutto il pomeriggio e guardò Carlos.
Il tappezziere, appoggiato allo stipite con la faccia stravolta, faceva roteare il martello che aveva ancora in mano.
Zoppicando, un po' per una vecchia ferita e un po' perché alzandosi aveva perso una scarpa, Héctor si avviò verso la porta dell'ufficio. Con la mano destra si scompigliò i capelli, come per scrollarsi di dosso la pigrizia.

Citazioni[modifica]

  • «Dica un po', lei che è uno scienziato...»«Io sono scienziato solo per quanto riguarda la rete fognaria, per tutto il resto mi regolo a occhio e croce.»
    «Proprio come me, egregio amico... Si figuri che mi son messo a fare il detective perché non mi piaceva il colore del tappeto che mia moglie aveva scelto per il salotto. Il certificato me l'hanno dato per trecento pesos, e non ho mai letto romanzi in inglese. Quando qualcuno parla di impronte digitali mi viene sempre in mente la pubblicità di un deodorante, e con la pistola riesco a centrare solo le cose che non si muovono troppo velocemente. E pensare che ho solo trentadue anni.» (cap. 1, p. 22)
  • I fallimenti allontanano, la paura fa passare la voglia di riprovarci e genera altra paura, e intanto la vita scorre via. E nel frattempo bisogna continuare a pensare, ma Héctor non aveva voglia di leccarsi le ferite, preferiva brontolare fra sé aspettando che la tortilla finisse di cuocere. (cap. 1, p. 24)
  • Così il 10 giugno, quando si decise che era venuto il momento di riprendersi le piazze, ci si aspettava il solito schieramento di granatieri, la familiare, compatta macchia azzurra fitta di sguardi corrucciati, più le sei nuove unità antisommossa inaugurate un paio di mesi prima e alle quali la mitologia studentesca giù attribuiva poteri straordinari e molteplici, fra cui quello di sputare lacrimogeni, getti d'acqua, vernice, pallottole blindate, pallottole comuni, scoregge e inni nazionali, quello di far suonare sirene assordanti, di vederci al buio grazie ai raggi infrarossi, di investire con le camionette i più distratti e di essere completamente invulnerabili alle molotov. E infatti eccole là, schierate in cerchio tutt'attorno al Casco de Santo Tomàs, le sei squadre antisommossa nuove di zecca, grigioazzurre e verde oliva. C'erano anche un paio di battaglioni di granatieri, rinnovati nel corso degli ultimi tre anni con un nuovo afflusso di giovani contadini senza terra di Puebla, di Tlaxcala, di Oaxaca, venuti a riempire i buchi lasciati dai disertori del '68, ormai svezzati dall'inevitabile abbrutimento iniziale e che già cominciavano ad assaporare il piccolo potere, la piccola impunità dell'uniforme; vaccinati con le prime iniezioni della grossolana ideologia secondo cui gli studenti sono contro la Vergine di Guadalupe, il comunismo vuole rovinare il Messico e cancellare il ricordo dei Piccoli martiri, e noi siamo l'ultimo baluardo della patria; eccoli là, a cercar di nascondere la loro paura sotto la nostra paura. (cap. 8, p. 92)
  • In lontananza, la macchina rossa bruciava davanti agli uffici della metropolitana, attirando una folla di curiosi. La Volkswagen si mosse.
    «Perché l'hai fatto?»
    «Perché sappiano che è una cosa seria.»
    «Che cosa?»
    «La guerra fra l'albo dei detective indipendenti e le Forze del Male.»
    «E cosa sarebbe questo albo dei detective indipendenti?»
    «Ma io, sorellina... Lo sai che negli ultimi due giorni ho ammazzato tre uomini?»
    Elisa lo guardò in silenzio. Héctor si stirò sul sedile dell'auto, gettando indietro la testa.
    «Portami a mangiare da qualche parte» disse. (cap. 9, p. 111)
  • Héctor si prese la testa fra le mani e cominciò a rimuginare. Sempre la stessa storia: la morte degli altri. Uccidere. Era sconcertato. Si suppone che la morte debba provocare in noi reazioni violente, si suppone che gli esseri umani non vengano al mondo per ammazzarsi a vicenda. O invece sì? Quella domanda gli penetrava dritta fra le sopracciglia, e rimaneva lì, sospesa.
    Gli piaceva il potere, il sapore del potere sulla vita degli altri? La sua buona mira, il sangue freddo, la prontezza di riflessi, e quella insospettabile capacità da guercio di fare a meno dell'occhio sinistro, il fatto che la vista gli si era adattata, a quanto pareva, e lui sparava meglio di prima. Dove aveva imparato a sparare così? (cap. 9, p. 112)
  • Rovistando fra le radici di quell'idea matrimoniale capì che in tutta quella storia assurda piena di Falchi e di romani, lui presentiva la morte: e non voleva morire senza essere tornato, almeno per un po', all'amore quotidiano. Un'ultima settimana di vita coniugale, prima di abbandonare per sempre il Distretto federale.
    Stava per mettersi a ridere, e ritrovandosi a filare idee di quel genere pensò di alzare lo sguardo per coglierlo nello specchio della gelateria.
    Era lui, era proprio lui. L'occhio immobile in un angolo della faccia, la cicatrice, l'aria da cane triste e solo a tratti illuminata dal sorriso. Trentatré anni allucinati e duri. (cap. 10, p. 118)
  • «Non ho fatto che tremare per due giorni interi... Una cosa stranissima, un misto di paura, nausea e senso di colpa. Poi mi son detto: vaffanculo. Ho ucciso uno stronzo, è vero, l'ho ucciso, ma avevo le mie buone ragioni. Così ho nascosto la pistola e sono tornato alla solita vita, tutto qui. Quelli non ce l'hanno con me, non sanno nemmeno che esisto. Per loro sono solo uno che lavora in quell'ufficio.»
    «Sa ingegnere, sto per sposarmi» disse improvvisamente Héctor.
    «Ciò che mi preoccupa sul serio è che questa cosa non finirà mai. E una storia senza lieto fine» gli rispose il Gallo. (cap. 10, p. 122)
  • Tuttavia, una cosa era passeggiare con il Gallo per il Parque Hundido in una magnifica mattinata di sole, e un'altra dover portare da solo quei morti sulle spalle. Rispondere "i cattivi" non era sufficiente: bisognava che avessero nomi, facce, circostanze. Héctor, che non aveva mai sbattuto il naso contro il potere, percepiva nebulosamente lo Stato come il grande castello della strega di Biancaneve, dal quale uscivano non solo i Falchi, ma anche i diplomi di ingegnere e i programmi di Televisa. Niente sfumature: una grande macchina infernale da cui era meglio tenersi alla larga. O magari qualche personaggio concreto che si poteva sfidare a duello, in uno scontro epico, preciso. La sua mente passava da un'immagine all'altra: uno stilizzato incontro di boxe, Bakunin contro lo stato, oppure Sherlock Holmes contro Moriarty. E in mezzo niente; e forse proprio lì, in quel niente che fondeva le due versioni, si nascondevano certi "cattivi" particolarmente ambigui. (cap. 10, p. 123)
  • Una nuova paura andò a sommarsi alla precedente. La paura di non arrivare a sapere, il terrore di morire per niente. (cap. 11, p. 138)
  • Non si andava da nessuna parte, la storia era chiusa. Forse altrettanto chiusa dei suoi ultimi tre anni di vita, durante i quali aveva interrotto il sogno dell'ingegnere benestante per passare a quello del detective solitario e indipendente. Sogno, solitudine, città nuovamente aliena, dominata dal potere senza ritegno, dall'aria viziata e marcia della storia recente. Non ci si poteva fare niente, Carlos aveva avuto ragione quando tre anni prima l'aveva avvisato che non si può pattinare ai limiti del sistema, che bisogna accettare che le cose stanno come stanno. Ma non era proprio ciò che aveva fatto? Accettare la situazione così com'era? Non aveva preso partito? (cap. 12, p. 150)
  • Non eravamo padroni di nulla. La città ci era diventata aliena. La terra che calpestavamo non era nostra. Non ci apparteneva quel venticello del cazzo che ci faceva alzare il bavero della giacca alle otto di sera, senza un posto in cui rifugiarci o un santo a cui votarci. Non era nostra la città, né i suoi rumori. Stranieri in quelle strade illuminate dalle vetrine, con i lampioni ogni ventidue metri che solo di rado lasciavano qualche zona d'ombra, troppo piccola per nascondersi, e perforata dai fari delle automobili. Quella notte niente era nostro, né mai sarebbe tornato a esserlo. Il paese, la patria, chiudeva le serrande: preda di gente abituata a vincere con le cattive, cinismo camuffato in belle frasi a cui non credeva più nessuno, pronunciate solo per forza d'abitudine. Il paese ricacciava gli sconfitti nelle fogne, in una notte senza fine.
    Camminare e continuare a camminare, per strappare alla paura ancora qualche ora. Camminare senza bussola: non per arrivare, ma per non arrivare mai. (cap. 13, p. 151)

Explicit[modifica]

Héctor buttò a terra i caffè e le frittelle, tirò fuori la pistola e cominciò a sparare correndo in diagonale attraverso le pozzanghere.
Il suo secondo sparo attraversò il cranio di uno dei Falchi che cercava di scendere dalla macchina senza finire con i piedi in un canaletto di scolo.
Continuò a correre e a sparare. Con un altro tiro centrò la gamba di un Falco che usciva dall'edificio. E stava quasi per raggiungere il riparo della struttura metallica dell'edicola quando una raffica gli tagliò il corpo in due scagliandolo in aria, squarciato, spaccato.
Quando cadde nella pozzanghera era già quasi morto. La mano affondò nell'acqua sporca cercando di afferrare qualcosa, di trattenere, di impedire che tutto se ne andasse. Poi rimase immobile. Un uomo gli si avvicinò e gli diede un calcio in faccia, e un altro. Risalirono in macchina e se ne andarono. Sul cadavere di Héctor Belascoaràn Shayne continuò a piovere.

Note[modifica]

  1. Citato in Paco Ignacio Taibo parla di Gela alla stampa estera, corrieredigela.it, 26 gennaio 2004.

Bibliografia[modifica]

  • Paco Ignacio Taibo II, Stessa città stessa pioggia, traduzione di Gloria Corica e Pino Cacucci, Edizioni Marco Tropea.
  • Paco Ignacio Taibo II, Ritornano le ombre, traduzione di Silvia Sichel, Edizioni Marco Tropea. ISBN 8843803425
  • Paco Ignacio Taibo II, Niente lieto fine, traduzione di Stefania Cherchi, Edizioni Marco Tropea, 2001. ISBN 8843803190

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