Paolo Roversi

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Paolo Roversi, 2009

Paolo Roversi (1975 – vivente), scrittore e giornalista italiano.

Incipit di alcune opere[modifica]

La mano sinistra del diavolo[modifica]

La bacchetta roteò veloce nell'aria e la banda attaccò a suonare le note tirate di un vecchio Sinatra. Il corteo iniziò lentamente a muoversi nel caldo impossibile del pomeriggio. A Capo di Ponte Emilia non si era mai visto un funerale del genere. Con i gonfaloni dell'ANPI, le bandiere rosse, gli ex combattenti con il fazzoletto al collo, i musicisti con gli ottoni lucidi, la bara di rovere adagiata sopra a un carro trainato da sei cavalli bianchi. In testa il sindaco e gli assessori, poi gli amici, i Conoscenti e via via tutti gli altri. Una cerimonia con i fiocchi, degna d'un nobile. Anche se in quella cassa di nobiltà non ce n'era nemmeno un grammo. Doti Lino, il parroco del paese, seguiva il corteo più in disparte. Senza armamentario né addobbi; il morto era stato chiaro: lui in chiesa non ci sarebbe andato. Nemmeno con i piedi in avanti. «Quando tiro le cuoia», ripeteva sempre, «mi portate dritto al camposanto, su un carro con i cavalli, con la banda che suona e la gente che piange. Se piange». Era fatto così l'uomo e la gente piangeva, eccome, Al borgo lo conoscevano tutti quanti: Pietro Caramaschi, detto Giasér.

Pescemangiacane[modifica]

I racconti di mio zio iniziavano sempre con le stesse parole. La sera, dopo una lunga giornata di pesca, quando le braci ancora rosse riscaldavano la stanza e nei piatti non restavano che le lische. Grappa o nocino nel suo bicchiere. Io seduto sul pavimento di pietra della cascina, accanto al camino: le storie della gente del Po.

L'ira funesta[modifica]

Se capitaste in un piccolo borgo rurale, di quelli che sulla carta bisogna mettersi d’impegno per trovare, al cospetto di un omone a dorso nudo grande come un armadio, che vi grida contro con occhi feroci mentre impugna una spada giapponese affilata come un rasoio, intanto che le teste di cuoio dei carabinieri vi sparano addosso bombe al peperoncino – che fanno lacrimare voi e l’energumeno come vitelli – e un nugolo di vecchietti artritici immersi in una pozza d’acqua tiepida fino alle ginocchia assiste alla scena, ridendo di gengiva e indicando un piccoletto che vi viene incontro infilato dentro un’armatura quattrocentesca e brandisce una mazza ferrata, ecco, l’unico consiglio, casomai vi trovaste in questa situazione è: non disperate e rimanete calmi.

Il killer di piazzale Dateo[modifica]

Nervetti. Prima di trasferirsi a Milano, ormai dieci anni prima, Enrico Radeschi non aveva nemmeno idea che si potessero mangiare. Ora, nonostante trentacinque gradi esterni benché fossero le nove di sera, era già al terzo piatto. Andava apposta all’osteria della Madonnina, sui Navigli, dove già dal nome si capiva quali fossero le specialità della casa. E quello era solo un antipasto: avrebbe continuato, infatti, con la cotoletta di vitello con l’osso, la milanese appunto, e si sarebbe portato a casa l’osso, il suo, e un’altra mezza dozzina che il padrone del locale gli teneva da parte per Buk, il suo labrador dagli occhi quasi umani, che lo attendeva nella casa di ringhiera di via Venini.

Solo il tempo di morire[modifica]

«Questa roba ti manda in paradiso! E il bello è che non devi nemmeno schiattare! No piccola, sto parlando da solo, non devi rispondere. Tu continua così, brava.»
Agostino Ebale è uno dei primi a capire la nuova aria che tira. A fiutare l’affare. Succede quando a Milano arriva la neve. Non quella che cade dal cielo, fredda e bagnata, che non interessa a nessuno, l’altra da spararsi su per il naso e sballare, che vale un sacco di quattrini. E che ti scalda l’anima.

Nervetti. Prima di trasferirsi a Milano, ormai dieci anni prima, Enrico Radeschi non aveva nemmeno idea che si potessero mangiare. Ora, nonostante trentacinque gradi esterni benché fossero le nove di sera, era già al terzo piatto. Andava apposta all’osteria della Madonnina, sui Navigli, dove già dal nome si capiva quali fossero le specialità della casa. E quello era solo un antipasto: avrebbe continuato, infatti, con la cotoletta di vitello con l’osso, la milanese appunto, e si sarebbe portato a casa l’osso, il suo, e un’altra mezza dozzina che il padrone del locale gli teneva da parte per Buk, il suo labrador dagli occhi quasi umani, che lo attendeva nella casa di ringhiera di via Venini.

La confraternita delle ossa[modifica]

La mano lascia un’impronta rossa sulla pietra nuda.
Sangue.
L’avvocato Giovanni Sommese, membro di uno degli studi più prestigiosi di Milano, si appoggia a una colonna per non cadere. Gli gira la testa e il dolore è indicibile per via del pugnale conficcato nel ventre.
Da piazza del Duomo gli giungono le voci delle persone ma lui non ha sufficiente fiato in gola per chiedere aiuto.
Il grande abete addobbato scintilla nella notte; i turisti lo fotografano e passeggiano estasiati in Galleria Vittorio Emanuele II col naso rivolto all’insù per ammirare gli addobbi della cupola.
Il freddo è intenso ma Sommese, ormai, non lo avverte più. Sente la vita correre via.

Bibliografia[modifica]

Altri progetti[modifica]