Petronio Arbitro

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Petronio Arbitro

Tito Petronio Nigro, o Petronio Arbitro o semplicemente Petronio (27 d.C. – 66 d.C.), cortigiano e scrittore romano.

Citazioni di Petronio Arbitro[modifica]

  • Fu la paura a creare per prima nel mondo gli dei. (Frammento 27 Bücheler)[1]
Primus in orbe deos fecit timor.[2]
  • Lascia i tuoi luoghi, e cerca altri lidi, o giovane! E ti si apriranno più vasti orizzonti.[3] (Frammento 27)
Linque tuas sedes alienaque littore quaere | o iuvenis! maior rerum tibi nascitur ordo.

Satyricon[modifica]

Il Satyricon, edizione 1587

Incipit[modifica]

«Ma sono di questo genere, proprio, per me, quelle Furie che agitano quelli che declamano, quando proclamano: "Queste mie ferite le ho subite per la libertà della repubblica, questo mio occhio l'ho perduto per voi. Datemi una guida, che mi guidi dai miei figli, che ci ho i tendini tagliati, che non mi tengono su il corpo". Che sono cose che si potrebbero sopportare, se ci potessero aprire una via, per quelli che si avviano verso l'eloquenza. Ma con dei contenuti tanto sballati, con delle frasi che fanno tanto chiasso per così niente, ci guadagnano soltanto questo, quelli, che ci arrivano nei tribunali, che si trovano come sbarcati sopra un altro pianeta.
[Petronio, Satyricon, traduzione di Edoardo Sanguineti, Einaudi, 1991]

Citazioni[modifica]

  • Che possono le leggi, là dove solo il denaro ha potere, | o dove la povertà non ha mezzi per vincere? | Persino quei filosofi, che passano i giorni gravati dalla cinica bisaccia, | finiscono anch'essi col vendere a fior di quattrini i loro assiomi. | Pertanto anche un procedimento legale è merce da mettere a mercato, | e anche il cavaliere che siede in giudizio non sdegna di farsi comperare. (cap. XIV; 1982, p. 19)
Che cosa possono farci le leggi, dove il denaro è sovrano, | dove la povertà non può trionfarci mai? | I Cinici, persino, che vivono con il sacco in spalla, | tante volte, per i soldi, ci vendono il vero. | La giustizia è una merce, tutta esposta lì in piazza, | e il cavaliere che giudica dà la ragione a chi compera. (1991)
  • Sulla parete era dipinto un cane enorme, legato alla catena, e sotto c'era scritto a caratteri cubitali: «Attenti al cane». (XXIX, 1)[4]
Canis ingens, catena vinctus, in pariete erat pictus superque quadrata littera scriptum «Cave canem».
  • Ahimè, grida, più a lungo vive il vino che un omuncolo. È bene che noi badiamo a titillarci la gola, ché la vita si spiega tutta nel vino. (cap. XXXIV; 1982, p. 57)
Ahiahi, che ci campa più il vino, qui, che l'omettino! Bisogna che ci facciamo le spugne, noi, allora, che è la vita che è il vino. (1991)
  • Ohimé, ohimé! Siamo sacche gonfie che camminano. Valiamo meno delle mosche. Quelle almeno un po' di forza ce l'hanno; noi non abbiamo più consistenza delle bolle. (cap. XLII)
Ahiahi, che siamo proprio gli otri gonfiati che ce ne andiamo a spasso, noi, che siamo meno che una mosca, che le mosche ci hanno un po' la loro vitalità, almeno, ma che noi, invece, non siamo più che una bolla. (1991)
Heu, eheu! Vtres inflati ambulamus. Minoris quam muscae sumus. <Illae> tamen aliquam virtutem habent; nos non pluris sumus quam bullae
  • La fortuna è di vetro, proprio quando splende si infrange. (traduzione di Andrea Aragosti)
Fortuna vitrae est, tum cum splendet, frangitur.
  • [...] il medico non serve che a tener alto il morale. (cap. XLII; 1912, p. 59)
  • L'antico amore è come un cancro. (cap. XLII[5])
Antiquus amor cancer est.
  • Fugge lontano chi fugge i suoi.[6] (cap. XLIII)
  • Ora, invece, gli Dei hanno i piedi felpati, perché noi non abbiamo più fede... E i campi sono là in abbandono... (cap. XLIV; 1982, p. 77)
Ma gli dei ci hanno le mani legate, adesso, che non ci è più religione. Le campagne se ne stanno... (1991)
  • Salva me, che io salverò te. (cap. XLIV[7])
Serva me, servabo te.
  • Quello che non è oggi sarà domani; così passa la vita.[8] (XLV)
Quod hodie non est, cras erit: sic vita truditur.
  • Chi non può dare all'asino dà al basto.[9] (XLV)
Qui asinum non potest, stratum caedit.
  • Il serpente non genera corda.[10] [Equivale a «tale padre, tale figlio»] (XLV)
Colubra restem non parit.
  • Tagliare le unghie a un nibbio che vola.[11] [Detto di cosa impossibile] (XLV)
Milvo volanti ungues resecare.
  • Chi è nato nell'orto non sogna palazzi.[12] (XLV)
Qui in pergula natus est, aedes non somniat.
  • Qui passeggiano i porci belli e cotti. (XLV, 4)
Hic porcos coctos ambulare.
  • Una mano lava l'altra.[13] (XLV, 13)
Manus manum lavat.
  • Ma, indegno obbrobrio, v'è gente che mangia carne di pecora eppure indossa una tunica di lana! In quanto alle api, io le considero delle bestie divine, perché vomitano miele, seppure si voglia dire che lo ricevano da Giove. E se è vero che esse pungono, gli è perché là dove è dolcezza, vi troverai unita amarezza. (cap. LVI; 1982, p. 99)
Che è un delitto che è tremendo, davvero, che uno si mangia la pecorella, e che ci prende il mantello, in più. Ma le api, per me, sono bestie da dei, che ti vomitano il miele, anche se ci raccontano che se lo prendono da Giove. Che è per questo, poi, che ci pungono, perché là, dove ci sta il dolce, ti trovi anche l'amaro. (1991)
  • Quale il padrone, tale anche il servo. (58[7])
Qualis dominus, talis et servus.
  • Amici, badate che anche i servi sono uomini e hanno bevuto lo stesso latte, come noi, e non vuol dire nulla se poi mala sorte li colse. (cap. LXXI; 1982, p. 135)
Ma anche gli schiavi, amici miei, uomini sono, che ci hanno bevuto tutti un latte, anche se un porco destino c'è, che li schiaccia. (1991)
  • Hai un soldo? Vali un soldo: possiedi, e avrai stima. (77, 6)
Basta, che ci hai un soldo, ci vali un soldo. (1991)
Assem habeas, assem[14] valeas: habeas, habeberis.
  • Se prosperan gli affari, o amici, mi siete vicini; | Se cado, vilmente fuggite a precipizio. (cap. LXXX; 1912, p. 117)
  • Non bisogna fidarsi troppo dei piani prestabiliti, perché la fortuna segue una sua logica, che è ben lungi dal coincidere con la nostra. (cap. LXXXIII; 1982, p. 163)
Ma non bisogna mica poi crederci, a quello che uno si progetta, che la Fortuna ci ha poi la logica sua. (cap. LXXXII, 1991)
  • Purtroppo è proprio così: se c'è uno, che, nemico di tutti i vizi, batte la strada giusta della vita, súbito si attira l'odio di chi non segue la stessa strada. Infatti, chi si sente il coraggio di approvare ciò, che egli stesso si guarda bene dal fare? In secondo luogo, chi si dedica esclusivamente a far quattrini, non è disposto ad ammettere che fra gli uomini vi sia attività di maggior pregio di quella, a cui egli si attiene. Quindi perseguita con tutti i mezzi i letterati, perché appaia che anch'essi, seppure stimati, sono sempre al di sotto di quelli che hanno denaro. (cap. LXXXIV; 1982, p. 167)
Ma che è così, poi proprio. È che se uno si fa il nemico del vizio, che si mette che ci marcia, sopra la strada là del bene, quello se lo detestano già tutti, intanto, che è uno che non è come gli altri. E come fa, poi uno, che si approva le cose che non fa? E poi, ci sono quelli che ci pensano a farsi i soldi, soltanto, che non vogliono mica che gli uomini si credono che ci sta niente che ci sta meglio che quello che quelli ci hanno già. E così te li perseguitano, come che possono, sempre, quelli che si coltivano le lettere, che così se lo vedono poi tutti, che ci valgono meno che i soldi, anche quelli lì. (1991)
  • Quando facevo il servizio militare in Asia, mi capitò di alloggiare a Pergamo presso una famiglia privata. Ci stavo volentieri non solo perché la casa era comoda e pulita ma soprattutto in grazia del figlio del mio ospite, un bellissimo ragazzo; sicché mi misi subito a escogitare il modo di farmene un amichetto senza dare sospetti al padre. [...]
    Pochi giorni dopo, offertasi [di notte] l'occasione propizia, appena sentii russare il padre, cominciai a pregare il mio efebo di far la pace, di concedersi alla gioia, e tutte quelle parole che può suggerire un intenso desiderio. Ma lui, tutto corrucciato, non faceva che rispondermi:
    – Dormi o lo dico a mio padre.
    Tuttavia non c'è nulla di così difficile che a forza d'insistere non si possa ottenere. E, mentre lui bada a ripetermi "Adesso sveglio mio padre", io scivolo nel suo letto e, dopo un po' di resistenza mal simulata, raggiungo il mio scopo. La mia perfidia non dovette dispiacergli molto perché, dopo essersi lamentato un bel pezzo, aggiunse:
    – Tuttavia, vedrai che non sono [un bugiardo] come te. Se vuoi, fallo ancora.
    Allora, dimenticato ogni rancore, torno nelle grazie del ragazzo e, dopo aver approfittato della sua condiscendenza, mi abbandonai al sonno. Ma la replica non bastò al mio efebo nel pieno fiore di un'età ardente di desideri. Mi tolse dunque ai miei sogni e:
    – Non desideri altro? – mi chiese.
    Il dono non mi riusciva del tutto sgradito, sicché, alla meno peggio, tra un grande anfanare e sudare, gli diedi quello che desiderava e ricaddi sfinito nel sonno. Ma non era nemmeno trascorsa un'ora che quello mi dà un pizzicotto e riprende a dire:
    – Perché non lo facciamo più?
    Allora nel sentirmi svegliare a ogni momento, vado su tutte le furie e gli restituisco tali e quali le sue parole:
    – Dormi, o lo dico a tuo padre! (Eumolpo; capp. LXXXV–LXXXVII; 1960)
  • Non ti devi dunque stupire, se oggigiorno la pittura è bella e defunta, dato che a tutti, dei e uomini, pare più attraente un mucchio d'oro che qualunque capolavoro di Apelle o di Fidia, che ci fanno proprio la figura di essere dei Grechetti dalla testa matta. (cap. LXXXIX; 1982, p. 175)
Non ti devi mica farti la meraviglia, tu allora, che la pittura ci è morta. Che è il mucchio d'oro che ci è più bello per tutti, per gli dei e per gli uomini, che tutto quello che ti ha fatto Fidia con l'Apelle, questi grecastri qui, deliranti che sono. (cap. LXXXVIII, 1991)
  • È assai raro trovare la saggezza accompagnata dalla bellezza. (XCIV)[4]
  • Le nevi si fermano più lungamente sui terreni incolti e trascurati; ma dove la terra, lavorata dall'aratro, diventa splendente, la brina leggera sparisce in men che non si dica. Analogamente nel cuore umano si comporta l'ira: nelle anime rozze si insedia, mentre quelle raffinate appena le sfiora e si dilegua. (cap. XCIX; 1982, p. 201)
Ci resiste di più, la neve, là nelle zone che ci sono aspre e selvagge, ma che dove la terra ci sorride tutta, lì che se la domano gli aratri, tu non ci fai le due parole, che già si scioglie la brina leggiera. Che è così che ci entra dentro, qui a noi nel cuore, la rabbia, che le teste dure se le prende tutte, che le teste fini, invece, ci fa la sua carezza. (1991)
  • È una cosa che non riesco a mandar giù, che il ragazzotto piaccia ad Eumolpo. Ma, del resto, che fare? Non è forse possesso comune ogni cosa bella, che sia opera della natura? Il sole spande la sua luce per tutti e la luna, con il suo innumerabile corteggio di astri, guida al pascolo anche le fiere. Ci può essere qualche cosa più attraente dell'acqua? Ebbene, essa sgorga a libera disposizione di tutti. Allora, solamente l'amore dovrà essere un furto, e non un premio? Non di meno io mi rifiuto di possedere quelle gioie, che altri non mi possono invidiare. Si tratta di un uomo solo, e, per giunta, anziano, quindi non mi darà fastidio; anche quando volesse prendersi qualche cosa, sarebbe tradito dal suo ansimare. (cap. C; 1982, p. 203)
Ma è un bel fastidio, però, che il mio ragazzo gli piace, all'amico. Certo, che quello che la natura ci fa di meglio, quello è lì che è lì per tutti. E il sole ci fa la sua luce per tutti. E la luna, che ci ha le sue tante stelle che le vanno dietro, quella ci guida anche le bestie, là al pascolo. E non c'è niente che tu dici che è più bello che l'acqua, ma che quella, però, ci scorre lì per tutti. Ma soltanto l'amore, allora, ci è più una preda che un premio? Mai no, che non ci voglio avere niente di buono, io, che la gente poi non me lo invidia. Uno che è lì che è uno solo, che è uno vecchio, non mi pesa mica tanto, qui a me. Che se si vuole poi prendere qualche cosa così, quello ci ha poi il suo fiato grosso che gli tradisce il suo sforzo. (1991)
  • Andate adesso, o mortali, e gonfiate pure i vostri petti di grandi progetti; andate avanti guardinghi e fate piani per mille anni su quelle ricchezze, che avete con la frode carpito ad altri. [...] Se fai giusto conto della realtà delle cose, dovunque è naufragio. Ma colui che muore per la furia del mare, non ha l'estrema consolazione del sepolcro: come se ci fosse qualche differenza per chi è destinato a morire, se debba essere ucciso dal fuoco o dall'acqua o dagli anni! Qualunque cosa tu faccia, il risultato è sempre il medesimo. Ma le fiere strazieranno questo cadavere: come se il fuoco potesse riceverlo con maggiore cortesia! Anzi, questa pena riteniamo che sia la peggiore di tutte, tant'è vero che con essa siamo soliti inveire contro gli schiavi. E allora, che pazzia è mai la nostra, fare di tutto perché la sepoltura non lasci nessuna traccia di noi? (cap. CXV; 1982, pp. 247-9)
Ma via, su adesso, mortali, che ve lo riempite con i grandi sogni, il vostro cuore! Ma via, su adesso, prudenti, che vi fate il bilancio preventivo per i mille anni, lì con i soldi che voi vi siete lì fregati! [...] Se ti fai bene i tuoi calcoli, ti sta dappertutto, il naufragio. Ma quello che l'onda se lo travolge, non ci trova la sua sepoltura. Come che ci fa la differenza, per il corpo che si muore, la cosa che se lo consuma, il fuoco, l'onda, il tempo! Tutto quello che ti fai, tutto arriva a questo punto. Ma le belve te lo sbranano, il tuo cadavere. Come che il fuoco te lo accoglie meglio! Che è questa, invece, la pena che noi ce la crediamo la peggiore, quando ci abbiamo la nostra rabbia, con gli schiavi nostri. Ma che ci siamo matti, allora, che ci facciamo di tutto, proprio, perché il sepolcro, poi, non ci lascia più niente, di noi! (1991)
  • Del resto, una mente ben fondata evita gli ornamenti soltanto superficiali, e il cervello umano non può concepire, né mettere sulla carta qualche cosa di esteticamente valido, se non è, per così dire, inondato del largo fiume della cultura. Quindi si deve rifuggire con ogni cura da ogni elemento di uso comune nella scelta lessicale e bisogna andare a cogliere le parole, che non puzzano di volgarità e far proprio il motto di Orazio, il quale affermava di odiare il popolino ignorante e di scansarlo in ogni modo. (cap. CXVIII; 1982, p. 257)
  • O dei e dee, come va tutto a rovina per quanti vivono fuori della legge! non fanno altro che aspettarsi quello che sanno di meritarsi. (cap. CXXV; 1982, p. 279)
O dei, o dee, come che la va male, ai fuorilegge! Come che ci hanno la paura, sempre, per quello che si meritano! (1991)
  • Il caso volle che il padrone andasse a Capua per vendere qualche cianfrusaglia fuori uso. Approfitto dell'occasione e persuado un nostro ospite ad accompagnarmi fino al quinto miglio. Si trattava d'un soldato coraggioso come un leone. Ci avviammo al canto del gallo: splendeva una luna che pareva giorno. Ma, arrivati a certe tombe, il mio uomo si nasconde a fare i suoi bisogni tra le pietre, mentre io continuo a camminare canticchiando e mi metto a contarle. Mi volto e che ti vedo? Il mio compagno si spogliava e buttava le vesti sul ciglio della strada. Mi sentii venir meno il respiro e cominciai a sudare freddo. Sennonché quello si mette a inzuppare di orina le vesti e diventa d'improvviso un lupo. (LXII, 1994)
  • Sono stati gli Dei più importanti che mi hanno fatto tornare uomo. Infatti Mercurio, che conduce e riconduce le anime, mi ha restituito quello che mi aveva tolto. Perciò sappi che adesso sono fornito meglio di Protesilao e degli altri eroi antichi. Guarda qua. E detto questo, sollevai la tunica, rimettendomi al suo giudizio. E lui dapprima fa un balzo indietro atterrito, ma poi quasi non credendo ai suoi occhi, mi afferra con le mani quel dono degli Dei. (CXL; 1987)
  • Infatti, come mai potrebbero vivere i ciarlatani e gl'imbroglioni, se non gettassero l'amo all'ingenua turba con qualche scrignetto o qualche borsa piena di denaro sonante? Come i pesci si prendono coll'esca, così gli uomini non si potrebbero gabbare, se non si desse loro qualche speranza da mordere. (CXL; 1912, pp. 218-219)
  • Già non v'è carne al mondo che piaccia di per sé; vi si mette sempre qualche condimento per renderla accetta agli stomachi difficili. (CXLI; 1912, p. 220)
  • Chi ha soldi naviga con vento sicuro.[15]

Citazioni su Petronio Arbitro[modifica]

  • Fine, scettico, gaudente, Petronio a quanto sembra, dà il giorno al sonno, la notte ai piaceri, a tutti i piaceri. (Georges Roux)
  • I suoi vizi non rappresentano che alcune facce di una individualità complessa. Oltre ad essere stato buon scrittore è stato grande magistrato, ed anzi fra i più notevoli. Proconsole in Bitinia, quindi Console a Roma, in queste alte funzioni, dice Tacito, «diede prova di energia e di capacità». (Georges Roux)
  • Petronio vede dall'alto il mondo che dipinge: il suo libro è una testimonianza d'altissima civiltà, ed egli attende lettori di tale levatura sociale e cultura letteraria da poter subito intendere tutte le sfumature del mal comportamento sociale e dell'abbassamento della lingua e del gusto. (Erich Auerbach)

Note[modifica]

  1. Citato in Dizionario delle sentenze latine e greche, a cura di Renzo Tosi, Rizzoli, 2017.
  2. Presente anche in Publio Papinio Stazio (Tebaide, 3, 661).
  3. Citato in L. De-Mauri, Flores sententiarum, Hoepli, Milano, 1926, p. 308
  4. a b Citato in Dizionario delle citazioni, a cura di Italo Sordi, BUR, 1992. ISBN 88-17-14603-X
  5. Citato in Paola Mastellaro, Il libro delle citazioni latine e greche, Mondadori, Milano, 2012, p. 26. ISBN 978-88-04-47133-2
  6. Vittorio De Simone, Petronio Arbitro: riflessioni e commenti sul Satyricon con una traduzione annotata della cena di Trimalcione, R. tipografia Francesco Giannini & figli, 1894, p. 84.
  7. a b Citato in Giuseppe Fumagalli, Chi l'ha detto?, Hoepli.
  8. Citato in Vannucci, pp. 32-33.
  9. Citato in Vannucci, p. 33.
  10. Citato in Vannucci, pp. 33-34.
  11. Citato in Vannucci, p. 34.
  12. Citato in Vannucci, p. 35.
  13. Citato in Paola Mastellaro, Il Libro delle Citazioni Latine e Greche, Mondadori, Milano, 1994. ISBN 978-88-04-47133-2
  14. Un assis (asse) vale un quarto di sestertius (sesterzio): poco.
  15. Citato in Elena Spagnol, Enciclopedia delle citazioni, Garzanti, Milano, 2009. ISBN 9788811504894

Bibliografia[modifica]

  • Petronio Arbitro, Satyricon, traduzione di Umberto Limentani, A. F. Formíggini, Genova, 1912.
  • Petronio Arbitro, Satyricon, traduzione di Ugo Dèttore, Rizzoli, 1960.
  • Petronio Arbitro, Il satiricon, traduzione di A. Marzullo e M. Bonaria, Zanichelli, 1982.
  • Petronio Arbitro, Satyricon, a cura di G. A. Cibotto, Fratelli Melita, 1987.
  • Petronio Arbitro, Satyricon, traduzione di Edoardo Sanguineti, Einaudi, 1991.
  • Petronio Arbitro, Satyricon, traduzione di G. A. Cibotto, in Storie di lupi mannari, a cura di Gianni Pilo, Newton & Compton, 1994.
  • Petronio Arbitro, Satyricon, introduzione, traduzione e note di Andrea Aragosti.
  • Atto Vannucci, Saggio di proverbi latini, Cellini, Firenze, 1865.

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