Richard Adams

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Richard Adams nel 2008

Richard Adams (1920 – 2016), scrittore britannico.

Citazioni di Richard Adams[modifica]

  • A meno che gli uomini non li distruggano come hanno già fatto con il moa neozelandese, con il dodo e con l'alca gigante, gli uccelli, i pesci e gli animali terrestri continueranno a vivere la loro vita con suprema adattabilità, molto tempo dopo la nostra scomparsa dalla Terra. Infatti gli animali sono forti a causa della loro umiltà, così come noi siamo deboli per il nostro orgoglio.[1]

I cani della peste[modifica]

Incipit[modifica]

Venerdì 15 ottobre

L'acqua dentro la vasca di metallo sciaguattava appena; un rigagnolo scorreva lungo il bordo e, raggiunto l'angolo, colava giù. Sotto le luci elettriche, la superficie increspata, sfaccettata, faceva pensare a uno specchio pieno di crepe, a una equorea giubba d'arlecchino, ora opaca come pietra, ora invece scintillante come lama. Qua e là (poiché per un paio d'ore quell'acqua era venuta insudiciandosi) fluttuavano strie dorate di urina e bollicine di bava, come uova di pesce, sì da dare l'illusione – se qualcuno lì presente fosse stato propenso a lasciarsi suggestionare in tal modo – che non di acqua si trattasse, ma di un liquido più denso, chissà, come quelle misture di marmellata e birra acida che servono a farvi annegare le vespe, in barattoli appesi, oppure quelle bolle di liquame che inzaccherano il piancito di cemento delle stalle, sparse qua e là da zoccoli e stivali, nella Regione dei Laghi.

Citazioni[modifica]

  • Un cane tiene duro. [...] Un cane non disobbedisce mai a un uomo, qualunque cosa gli ordini. È questo il suo mestiere. [...] I cani sono tenuti a fare quello che vuole l'uomo. Io lo sento per intuito, anche se non ho mai avuto padroni. Gli uomini devono avere qualche motivo, non ti pare? E deve trattarsi di qualcosa di buono. Loro, certo, la sanno più lunga di noi. (Rauf, p. 19)
  • Oh, cacca del cielo! [imprecazione] (Snitter, p. 27)
  • Alcuni dicono che il sonno profondo è senza sogni e che si sogna solo nei momenti che precedono il risveglio, e che nel giro di pochi secondi si immaginano eventi della durata di minuti o di ore intere. Altri invece sostengono che si sogna per tutta la durata del sonno, così come le sensazioni e le esperienze si susseguono ininterrotte allorché si è svegli; ma che noi ricordiamo – quando ricordiamo qualcosa affatto – solo dei frammenti, gli episodi conclusivi della lunga vicenda onirica; come se uno che, di notte, fosse in grado di visitare gli abissi del mare ma che, al ritorno, riuscisse solo a ricordare gli ultimi istanti, prima di riaffiorare alla superficie: l'acqua verde che filtra la luce del giorno, le sabbie dell'approdo mattutini. Altri ancora ritengono che nel sogno profondo si spalancano le porte di antichissime, misteriose caverne della mente e ne escono fuori forze oscure, che però sono per loro natura inesprimibili – e quindi invisibili agli occhi di chi sogna. Alcune di tali forze oscure tuttavia (così sostiene questa teoria) riescono a risalire, dalle profondità degli abissi psichici, verso la soglia della coscienza, e nel risalire attraggono a sé qualche brandello, qualche scheggia – per concordanza o per affinità – della memoria individuale del dormiente che sogna: quindi qualcosa arriva dall'abisso alla ragione. I sogni sono perciò bolle, bollicine, immateriali globi di sostanza reale, che risalgono per loro natura attraverso l'elemento del sonno, che tutto avviluppa; e troppo numerose per venir conosciute e ricordate dal dormiente, il quale al suo risveglio ne afferra solo una qua e là, come un bimbo – d'autunno – può afferrare una foglia fra le mille e mille che, intorno a lui, cadono al suolo. (pp. 78-79)
  • Caldo e sciutto, nné mai brutto. Parla pogo, mena forte, spera ntela bona sorte. Usta boia, ora sì che parli bene. Chi che son io-me? Volpe, sono, e chi ho da esse? 'L più furbo predone del monte e del piano. (Volpe, p. 84)
  • Attraverso le tenebre fra i monti | La mia testa recinta di filo spinato | Cerca il luogo lontano | Dove hanno dimora i padroni, | Una città ch'è stata trafugata. | Il camion, avanzando fra la mota, | Sapeva che io scampo non avevo. | Con la testa spaccata e tutta in fiamme | Un cane sperso cerca un uomo scomparso. (canzone, p. 103)
  • Vuoi saper chi ha composto 'sta canzone?
    (Tabù, tabù)
    È stato un cane burlone, che visse vita breve.
    (Tabù, tabù, tabù)
    Kiff si chiamava, ed era bianco e nero.
    È finito bruciato, e ben gli sta:
    Un'altra volta impara.
    (Tabù, tabai, ta-bubbuli-bai
    Siam tutti destinati ad andar in fumo.)
    (p. 115)
  • [...] il cane stellare disse all'uomo: "Poiché tu hai fatto questo, che tu sia maledetto, più che ogni altra bestia. Esse seguiteranno a vivere come prima, senza rimpianti e rimorsi, e io parlerò ai loro cuori, guiderò i loro istinti, darò loro una chiara percezione del presente. Ma a te volgerò le spalle per sempre, e tu trascorrerai il resto dei tuoi giorni a chiederti cos'è bene e cos'è male, a cercare la verità che io ti avrò celata, e che invece avrò infuso nel balzo del leone e nel profumo della rosa. Tu non sei più adatto a proteggere gli animali. D'ora in poi sarai soggetto a ingiustizie, assassinio e morte, come loro; ma a differenza di loro sarai in preda a confusione e ti faranno schifo gli escrementi, persino quelli dei tuoi fratelli. Ora tògliti d'innanzi a me". (Rauf, pp. 119-120)
  • Quando l'uomo cadde in disgrazia e fu cacciato via, egli chiese a tutti gli animali se volevano seguirlo, condividendo la sua sorte. Solo due accettarono spontaneamente di andare con lui, il cane e il gatto. E da allora questi due animali sono sempre stati gelosi l'uno dell'altro, poiché ognuno vorrebbe essere il preferito. Ogni uomo preferisce o gli uni o gli altri. (Snitter, p. 120)
  • Poi finalmente la volpe attaccò la sua canzone.
    'Na volpa di muntagna | 'mpiattata ntra la fava | vardava li galline che ruspava | e pensava "Che cuccagna!". | Il villan che birbo era | chiude i polli intel pollaro | come cala giù la sera. | Ma la volpa che l'è più birba ancora | un bel gallo li fa fôra. | Vedessi la volpa sì come ridiva! | Giuliva! giuliva! (p. 126)
  • Per un po' camminò su e giù zoppicando mentre i compagni dormivano ancora, poi si coricò di nuovo e sognò un tremendo scontro, un'esplosione enorme, disintegrazione e terrore, e poi un cadere senza fine fra le lisce pareti di un pozzo putrescente, che sapeva di tabacco e disinfettanti. (p. 129)
  • Da Varsavia e da Babilonia | I fantasmi non mollano la presa. | Un pesante fardello grava sopra | Il superstite che annaspa. | Questa povera bestia cerca, cerca | Ciò che è vana speranza trovare. | Al di là dei quaderni e dei coltelli | Un cane sperso cerca un uomo scomparso. (canzone, p. 136)
  • Quello era il tanto ammirato esemplare inglese di "ambiente-lavoro" moderno, il salone aperto della redazione del London Orator, fiore all'occhiello della Ivorstone Press, un grande quotidiano a diffusione nazionale e risonanza internazionale, cane-da-guardia della libertà, culla della banalità, testa-d'ariete della pornografia leggera, lacrima-di-coccodrillo della morale corrente, fauci e denti dello squalo marino e personale scimmietta ammaestrata di Sir Ivor Stone in persona. A sommo del portone principale faceva spicco il blasone di Sir Ivor, con il suo motto-rebus, Primum lapidem iaciam. (p. 140)
  • [...] frattaglie e fegatelli! [imprecazione] (Snitter, p. 149)
  • Qual altro luogo, in tutta la Regione dei Laghi, può superare, per grandiosità e bellezza, la cima del Passo di Wreynus e l'eccelsa solitudine di Three Shire Stone? Dove, se non qui, si può trovare il cuore stesso della Lakeland – qui – dove il versante settentrionale della catena di Coniston si congiunge con la punta meridionale del gran Ferro di Cavallo di Scafell, e Langdale quasi tocca Dunnerdale, da cui la divide soltanto questa desolata fascia di rocce, terriccio ed eriche, che separa le due valli? (p. 155)
  • Chiuse gli occhi e il vento salmastro, capriccioso e folletto, canticchiava fra gli sterpi una canzone, mentre deboli odori, rompendosi come ondicine, gli accarezzavano le narici.
    Noi siamo il cervello che t'hanno rubato, | Tu la vittima sei di questo furto. ! La tua piaga potrebbe esser sanata | E la salute esserti ridata. | Ma tu non sei più tu, dopo quell'urto, | Né più in grado tu sei di regolarti. | Cane perso, cerchi ancora un padrone scomparso. (p. 186)
  • Fuori, stava calando la sera e il cielo era gremito di storni. A migliaia volavano sopra gli alberi del parco, cinguettando, rissando fra loro. La luce rifletteva – dalle loro piume smaglianti – rapidi, volubili riflessi verdi, azzurri, violetti. O felici creature viventi! Nessuna lingua saprebbe dire la loro bellezza! (p. 192)
  • Si incamminarono di nuovo. Snitter, in retroguardia, canticchiava per conto suo, con sommessi uggiolii:
    «I camici bianchi dipinsero un topo di blu, | Finché non si riconosceva quasi più. | E poi gli imbottiron gli orecchi di pece. | Ma il topo lo volete sapere cosa fece? | Lui li fece saltare per aria – davvero – | E annegarono tutti in un latte nero nero». (p. 198)
  • «Mi ricordo quelle luci di notte, Rauf. Le auto ringhiano, le senti... ecco perché i giovani cani spesso le rincorrono. È tempo sprecato. Loro non se n'accorgono neppure. Le luci sono pezzi di vecchie lune, sai.»
    «Che vuoi dire?» domandò Rauf, incuriosito suo malgrado.
    «Ecco, quando la luna diventa piena, qualcuno sale su ogni giorno e ne taglia via una fetta – hai notato? – finché della luna non ne rimane più. Ma poi, dopo un po', ne cresce un'altra. Quando è piena la luna è tutta coperta di crepe e di buchi – perché sia più facile tagliarne via dei pezzetti, ecco perché è così – evidentemente. La mia mamma mi diceva che le lune in realtà sono enormi, solo che sembrano piccole a causa della distanza. L'uomo che ne taglia via dei pezzi e delle fette, li porta sulla terra, e li usano per fare i fanali delle auto. Bravi, non ti pare?» (pp. 203-204)
  • «Oh, se avessi le ali di una pecora! [...] un tempo ce l'avevano, sai. Poi successe che una di loro volò in alto in alto nel cielo, e così tutte le altre la seguirono. Poi si tolsero le ali e si misero a pascolare e, come il sole si spostava nel cielo, gli andavano dietro, per stare calde. Così, verso sera, si levò un gran vento e portò via le loro ali, dal posto dove le avevano lasciate. Non le ritrovarono più... son rimaste su nel cielo, dove ancora puoi vederle, portate dal vento.»
    «Ma come fecero, le pecore, a tornare sulla terra?»
    «Ecco, laggiù lontano lontano il cielo si incurva finché tocca la terra. Gli è toccato camminare fin laggiù... ci hanno messo secoli.» (p. 204)
  • Senza motivo e con quasi altrettanta gioia che la capinera migrante a maggio – che canta sul limitare di un boschetto inglese – senza sapere che, di lì a sei mesi, un qualche irsuto porco, in Italia o a Cipro, con zufolo da richiamo e vischio, l'ucciderà affinché un altro porco, a Parigi, la mangi in salsa tartara, Snitter si mise a cantare alla luna.
    «O luna amica | bianca come un osso | lassù nel cielo | marcisci sola. | Le crepe e i segni | che in te io vedo | per me non sono | mica un mistero. | Dato il mio acume | per me è chiaro: | i vermi entrano, | le mosche escono. | Se ora una mosca, | per suo piacere, | si posa sopra | i miei escrementi, | non me n'importa | un fico secco. | Io son cortese...» (p. 205)
  • «Gli canterò una canzone!
    «Oh io sono un cane ardito | anche se ho la testa fessa! | Son selvatico, orribile | e completamente pazzo!» (Snitter, p. 241)
  • Non mi vanno affatto a genio gli esperimenti sugli animali, ammenoché non vi siano buoni ed eccezionali motivi in casi specifici. Ciò che non mi va è che, per gli animali, è impossibile capire perché vengono fatti soffrire. Essi non soffrono per il loro bene, per un loro vantaggio, e anzi mi chiedo fino a che punto sia a vantaggio di chiunque. Non si dà loro scelta, e non v'è alcuna autorità centrale cui spetti decidere se sia moralmente giustificato quel che si fa, in ogni singolo caso. Quegli animali-cavia sono solo degli oggetti senzienti. Sono utili perché in grado di reagire. Talvolta proprio perché sono in grado di provare paura e dolore. E vengono usati come se fossero lampadine elettriche o scarponi. In sostanza, laddove un tempo c'erano schiavi umani e animali, oggi ci sono soltanto animali schiavi. Essi non hanno alcun diritto legale, non hanno alcuna scelta. (maggiore John Awdry, p. 296)
  • È il mare, Rauf, di cui mi parlò la volpe, quel giorno in cui uscii dalla mia testa. Ricordo quel che disse. "Sale e alghe. È tutta acqua, là." Non capivo come un posto potesse essere tutta acqua. Guarda! Si muove di continuo! (Snitter, p. 309)
  • Fin in fondo hai bevuto l'amara scodella. | Non occorre che vai più vagabondando. | L'incantesimo è fatto, il libro è chiuso. | Tu sei giunto alla riva più remota. | Giaci e riposa, ormai, povero cane. | Prossimo è un altro grande mutamento. | E, dormendo, tu sogna che ritrovi, | Cane perso, il padrone scomparso. (canzone, p. 309)
  • Devo dire però [...] che per le persone ordinarie, pei non specialisti, un certo grado di antropomorfismo è forse utile, per aiutarli ad arrivare a provar simpatia per gli animali, vale a dire, anteporre il bene di una specie, o soltanto il benessere di un singolo esemplare, al di sopra del proprio vantaggio o profitto. Non tutti possono avere una mentalità scientifica. [...] È ora che la gente cominci a pensare all'uomo come a una delle tante specie di abitanti del pianeta; e se egli è il più bravo, ciò gli dà semplicemente maggiori responsabilità, affinché faccia sì che che le altre specie possano condurre una vita adeguata, naturale, con un minimo di controlli. (Peter Scott, p. 319)
  • Certo, noi siamo la specie più distruttiva, ma davvero siamo i più bravi? [...] È una questione molto discutibile. Considera l'uccello migratore. È reale quanto te e me e respira aria e vive sulla terra con cinque sensi. Non sa nulla di lunedì o martedì, di orologi e del Natale, della Cortina di Ferro e di tutte le cose che regolano il modo di pensare degli uomini. Ha una consapevolezza della vita sulla terra che è molto diversa dalla nostra – lo chiamiamo istinto ma è una coscienza altrettanto efficiente – più ancora, se mai – che utilizza venti, temperatura, pressione barometrica, orientamento, correnti termiche – adeguando la sua densità alla disponibilità di cibo – ai suoi predatori e alle sue prede – in un modo tale che noi ignoranti esseri umani non possiamo neanche sognarci di eguagliare. (Ronald Lockley, pp. 319-320)
  • Il più buono dei vini può esser bevuto solo una volta; e più parole si usano per descriverlo, più sciocche esse suonano. Ma forse – come il maggiore Awdry certo sosterrebbe – un animale che vive interamente nel presente immediato (e che crede se stesso morto) può sentire la marea di gioia anche più intensamente – se ciò è possibile – del suo padrone (che sa di esser vivo). (pp. 326-327)

Explicit[modifica]

La spiaggia ora è deserta, a parte qualche gabbiano. La brezza è caduta, l'aria è calma. Ogni tanto uno smergo si tuffa e riappare. I ciuffi di ammofila arenaria si stagliano contro il cielo vespertino, immobili come le loro radici sotto la sabbia. Più oltre, dove la sabbia finisce, cresce un'erba più densa e compatta. La marea sale, con un ritmico sussurro e ribollio fra i ciottoli del lido, cancellando man mano le orme di Snitter e Rauf, di Digby Driver e degli altri, eppoi anche le tracce lasciate dagli pneumatici della limousine. Prima che la marea sia giunta al suo apice, i gabbiani sono già andati via, volando, tutti insieme lungo la costa, salendo ad alta quota, poi virando verso l'interno, sopra l'estuario, oltre Ravenglass, sopra Muncaster Fell e la piccola ferrovia che percorre la valle dell'Esk. Da lassù si vede ancora il sole che tramonta, in lontananza, dietro l'isola di Man; ma quaggiù, nel crepuscolo, già si addensa la nebbia, cancellando pian piano le montagne – i Crinkles, la solitaria cima di Great Gable, la pietrosa pendice di Mickledore e il versante meridionale di Scafell – e poi, con l'avanzare della notte, ammanta il Passo di Hard Knott, Three Shire Stone e Cockley Beck; e, lontano, lontano, a est di Dow Crag e Levers Hause, le luci di Coniston brillano nell'oscurità; e, più oltre, il lago luccica, una semplice stria grigia fra invisibili sponde.

La collina dei conigli[modifica]

Incipit[modifica]

Di primule non ce n'erano più. Dalla parte del bosco – dove questo finiva, l'aperta campagna scendeva in pendio fino a un vecchio recinto, oltre il quale c'era un fossato rivestito di rovi – si vedevano ancora rare chiazze di giallo ormai sbiadito, fra l'euforbia e le radici delle querce. Di qua da quel recinto, la parte alta del campo era crivellata di buchi: tane di conigli. In alcuni punti l'erba era del tutto scomparsa e dovunque c'eran mucchietti di escrementi secchi, intorno ai quali non cresceva altro che dell'erba cardellina. Un centinaio di metri più sotto, in fondo alla pendice, scorreva il ruscello, non più largo d'un metro, mezzo soffocato da ranuncoli, nasturzi e ciuffi di vischio. Un tratturo, dopo aver attraversato quel corso d'acqua su un rudimentale ponticello, s'inerpicava su per l'opposto declivio fino a un cancello a cinque sbarre e una siepe di spini. Oltre il cancello cominciava un viottolo. (p. 11)

Citazioni[modifica]

  • I due conigli si fecero più da presso, a saltelli, e andarono ad agguattarsi in un cespuglio di ortica, lì vicino. Arricciavano il naso all'odore di alcuni mozziconi di sigaretta, fra l'erba. D'un tratto, Quintilio cominciò a rabbrividire e rannicchiarsi su se stesso.
    «Oh, Moscardo! È da qui che proviene! Ora lo so... Una cosa molto brutta! Qualcosa di terribile... E vicina, vicina.»
    Piagnucolava, dalla gran paura.
    «Che genere di cosa?... che vuoi dire? Poco fa mi dicevi che pericoli non ce ne sono.»
    «Non lo so, che cos'è» rispose Quintilio, desolato. «Qui non c'è nessun pericolo, per ora. Ma si sta avvicinando... è in arrivo. Oh, Moscardo, guarda! il prato! È coperto di sangue!» (cap. 1, Il cartello, p. 15)
  • Tanto tanto tempo fa, Frits creò il mondo. Creò tutte le stelle del firmamento, e anche il mondo è una stella. Lui le creò spargendo per il cielo i suoi cacherelli, ecco perché l'erba e le piante crescono così fitte a questo mondo. [...] Frits creò gli animali della terra e gli uccelli dell'aria, però appena creati tutti quanti erano uguali. Il passero e il falcone erano uguali, e tutt'e due mangiavano panìco e moscerini. E il coniglio e la volpe erano amici, e mangiavano l'erba. (Dente di Leone; cap. 6, Come El-ahrairà fu benedetto, p. 35)
  • "E va bene," gli disse [Frits] "benedirò dunque il tuo didietro che sbuca dalla buca. Didietro, sii la forza e sii il monito e la velocità, per salvare in sempiterno il tuo padrone. E così sia!" Detto ch'ebbe, a El-ahrairà spuntò una coda bianca che splendeva al pari d'una stella; e le zampe posteriori gli divennero lunghe e potenti; [...] Uscito dalla buca, si mise a correre più veloce di qualsiasi altro essere vivente. E Frits gli gridò dietro: "Ascolta, El-ahrairà. Il tuo popolo non potrà dominare il mondo intero, perché io non lo permetto. Tutto il mondo sarà vostro nemico. E chi t'acchiapperà, t'ammazzerà, Principe dai Mille Nemici. Però prima dovranno pigliarti. Tu sei bravo a scavare e veloce nella corsa, principe, d'udito fine e tutti i sensi all'erta. Sii dunque astuto e inventa stratagemmi, e il tuo popolo mai verrà distrutto". (Dente di Leone; cap. 6, Come El-ahrairà fu benedetto, pp. 37-38)
  • Quintilio guardava lontano, oltre il confine del terreno demaniale. Quattro miglia più a sud, all'orizzonte, si stagliava il profilo ondulato delle grandi colline. Sul punto più elevato, i faggi di Cottington's Clump si agitavano al vento che, lassù, tirava più robusto che in pianura fra le eriche.
    «Guarda!» disse d'un tratto Quintilio. «Eccolo là, Moscardo, il posto che fa per noi. Colline alte e solitarie, dove il vento porta con sé rumori lontani e la terra è asciutta come paglia in un granaio. Là noi dovremo abitare. Là, bisogna che andiamo.» (cap. 10, La strada e la brughiera, p. 60)
  • «Sono molto carini e gentili,» rispose Nicchio «ma vi dirò che cosa m'ha colpito. Mi sembrano tutti terribilmente tristi. Non riesco a capire perché, dal momento che sono così belli e robusti e hanno questa magnifica conigliera. Ma mi fanno venire alla mente gli alberi di novembre. [...]» (cap. 14, Come alberi a novembre, p. 90)
  • C'è un detto fra i conigli: Nella conigliera, più racconti che cunicoli. E un coniglio non può rifiutarsi di narrare una storia, più di quanto un irlandese possa rifiutare una scazzottata. (cap. 14, Come alberi a novembre, p. 101)
  • «Il mio cuore è andato a unirsi ai Mille, perché il mio amico oggi ha smesso per sempre di correre» disse [Moscardo] a Mirtillo, ripetendo un proverbio conigliesco. (cap. 17, Il laccio, p. 123)
  • Il vento gli arruffava la pelliccia e sferzava l'erba, che odorava di timo e di brunella. La solitudine dava un senso di libertà, di euforia. Il cielo era così vicino e il resto così distante, che ne furono inebriati e si misero a saltellare nel tramonto. «Oh Frits delle colline,» esclamò Dente di Leone «questa l'hai creata apposta per noi!» (cap. 18, Il colle Watership, p. 139)
  • «Lo sapete, Capitano,» disse Campànula «che cosa disse il primo filo d'erba al secondo filo d'erba?»
    Moscardo lo guardò brutto, ma Pungitopo l'incoraggiò: «Allora?».
    «Gli disse: "Guarda là! un coniglio! siamo fritti!".» [barzelletta] (cap. 20, Un nido d'api e un topo, p. 153)
  • «[...] Io avevo quei terribili incubi, e basta. Frits mio d'oro, spero di non provare più simili orrori! Non me li scorderò fin che campo. E neanche la notte che ho trascorso sotto il ginepro. Quanto male c'è al mondo.»
    «È dagli uomini che viene» disse Pungitopo. «Tutti gli altri elil fanno quello che devono fare e Frits li spinge come spinge noi. Vivono su questa terra e hanno bisogno di nutrirsi. Gli uomini invece non sono contenti finché non hanno rovinato la terra e distrutto gli animali. [...]» (cap. 21, La catastrofe, p. 164)
  • Canto alla luna [...] Tutti i porcospini cantano alla luna, per far uscire fuori le lumache. Che? non lo sapevi?
    Oh Luma-Luna, Luna mia Lumacchia
    Da' al riccio tuo fedel un po' di pacchia! (Yona; cap. 22, Il processo a El-ahrairà, p. 185)
  • Dice un detto degli uomini: «Non piove mai, diluvia». Il che non è esatto, ché spesso piove senza diluviare. Il proverbio dei conigli è più preciso. Essi dicono: «Una nuvola si sente troppo sola». Ed è proprio vero perché, quando appare una nuvola in cielo, spesso altre ne arrivano e di lì a poco il tempo s'imbroncia. (cap. 23, Kehaar, p. 191)
  • Che mi prenda un lacciolo! (Moscardo; cap. 25, L'incursione, p. 223)
  • Ribes cercò di venirmi in aiuto. Parlò con molta eloquenza della solidarietà fra gli animali, del loro innato senso dell'onore. "Gli animali non si comportano come gli uomini" disse. "Se devono battersi, si battono. Se devono uccidere, uccidono. Ma non usano la loro intelligenza per trovar la maniera di arrecar danni alle altre creature, di avvelenar loro la vita. Essi hanno dignità, hanno animalità." (Pungitopo; cap. 27, Non se lo può immaginare chi non c'è stato, pp. 251-252)
  • Gran Frits! (Pungitopo; cap. 29, Il ritorno e la partenza, p. 268)
  • Campànula si mise a recitare una strofetta:
    «Si va dove che l'erba è più verde
    E ci crescon carote e lattuga
    E un coniglio di libera stirpe
    Si conosce dai graffi sul muso.» (cap. 29, Il ritorno e la partenza, p. 269)
  • Frits fra le fronde! (Parruccone; cap. 29, Il ritorno e la partenza, p. 271)
  • La saggezza la si trova [...] sul colle desolato dove nessuno va a pascolare, e sul greppo pietroso dove invano il coniglio si scava la tana. (Frits; cap. 31, El-ahrairà e il Coniglio Nero di Inlé, p. 295)
  • Frits mio d'oro in cima a un monte! (Mirtillo; cap. 33, Il grande fiume, p. 315)
  • Per i baffi di Ravascuttolo! (Mirtillo; cap. 33, Il grande fiume, p. 315)
  • Frits fra la nebbia! (Parruccone; cap. 35, A tastoni, p. 331)
  • Ecco cosa intendo fare. [piano] Domani sera, quando la Marca esce a silflaia, tu e Thethuthinnèa terrete le compagne presso di voi – tutte quelle che avrete reclutato – pronte a scappare. Io darò istruzione all'uccello di attaccare le scolte non appena mi vedrà rientrare nella tana. Alle guardie di Nerigno penserò io. Quelle certo non s'aspetteranno una mossa del genere. Così, appena liberato Nerigno, vi raggiungo. A questo punto la confusione sarà completa e ne approfitteremo per darci alla fuga. L'uccello attaccherà chiunque tenti di inseguirci. Ricorda: punteremo dritti per il sottopassaggio della strada di ferro. I miei amici aspetteranno là. Non dovrete che seguirmi: io vi guiderò. (Parruccone; cap. 35, A tastoni, p. 342)
  • Cadde in un inquieto dormiveglia. Gli pareva che Garofano tramutato in gabbiano volasse sul fiume, strillando. Si svegliò spaventato. Si riaddormentò e vide Cerfoglio che conduceva a forza Nerigno verso un lacciolo di lucente fildiferro, fra l'erba. E su tutti incombeva, grande quanto un cavallo, al corrente di tutto ciò che succedeva da un capo all'altro del mondo, la figura gigantesca di Vulneraria. [sogno] (cap. 35, A tastoni, pp. 343-344)
  • «I figli dei nostri figli udranno una bella storia» disse Moscardo, citando un proverbio dei conigli. (cap. 39, I due ponti, p. 382)
  • [...] guardare qualcuno in pericolo equivale, quasi, a condividerlo. (cap. 39, I due ponti, p. 390)
  • Penso, comunque, che andrà tutto bene. Lo conosci anche tu, il detto, no? Sottoterra il coniglio non corre alcun periglio. (Moscardo; cap. 40, La via del ritorno, p. 398)
  • Molti uomini dicono di godersi l'inverno, ma ciò che in realtà si godono è il sentirsi al riparo da esso. Per loro non c'è mancanza di cibo, d'inverno, hanno case riscaldate e indumenti caldi. L'inverno non può nuocere, quindi accresce il loro senso di sicurezza, di ingegnosità. Per gli uccelli e gli animali – come per la gente povera – l'inverno è altra cosa. I conigli, al pari di quasi tutti gli animali selvatici, patiscono il freddo e gli stenti. È vero, sono più fortunati di altri poiché il cibo non viene quasi mai a mancare del tutto. Ma quando c'è la neve gli tocca restare sotterra per giorni di fila, ruminando palline per nutrirsi. Sono più soggetti a malattie, d'inverno, e il freddo riduce la loro vivacità. Nondimeno, le tane posson essere calducce e accoglienti, specie se affollate. L'inverno è inoltre stagione d'amori, per loro, più che la tarda estate e l'autunno; e l'epoca della maggior fertilità, nelle coniglie, comincia verso febbraio. Vi son belle giornate, in cui fare silflaia è un godimento. Per i più avventurosi, le razzie in orti e giardini hanno un fascino particolare. E sottoterra ci si racconta novelle, si gioca a sasso-spasso, ci son altri passatempi. Per i conigli, l'inverno è quel che era per gli uomini del medio evo: duro ma sopportabile, e non del tutto privo di consolazioni. (cap. 50, La vita continua, p. 477)
  • «Abbiate, pazienza, Capitano, non ho mai visto un gatto» disse il coniglio giovinetto.
    «No, non l'hai ancora visto» ammise il comandante. «Ebbene, un gatto è un'orrenda bestia con la coda lunga lunga. È coperto di pelo liscio, ha baffi setolosi e, quando combatte, emette un gnaulo barbaro, malvagio. È molto astuto, sapete.» (cap. 50, La vita continua, p. 481)
  • Il Generale Vulneraria non si rivide mai più. Era peraltro vero, come aveva detto Gramigna, che il suo corpo non fu mai ritrovato da nessuno [...] Correva la leggenda, tuttavia, che da qualche parte, fra quelle colline, viveva un grande coniglio solitario, un gigante che metteva in fuga gli elil come fossero sorci, e che talvolta andava alla silflaia su nel cielo. In caso di grave pericolo, egli accorreva a combattere per quelli che onoravano il suo nome. E le madri dicevano ai loro cuccioli, se facevano i disubbidienti, che sarebbe venuto il Generale a portarli via: il Generale ch'era cugino di primo grado del Coniglio Nero. Questo era il monumento a Vulneraria: e, forse, non sarebbe dispiaciuto a lui stesso. (Epilogo, p. 486)

Explicit[modifica]

Parve, a Moscardo, che non avrebbe avuto più bisogno del proprio corpo, e così lo lasciò sulla proda del fosso. Poi si fermò un momento, per guardare i suoi conigli, e per abituarsi alla straordinaria sensazione che la sua forza e velocità fluissero, inesauribilmente, da lui ai loro sani, agili corpi e istinti e sensi.
«Non ti dare pensiero per loro» gli disse il suo compagno. «Se la caveranno... e mille e mille altri come loro. Seguimi, e ti farò vedere cosa intendo.»
E saltò in cima al greppo, d'un sol balzo. Moscardo lo seguì. E insieme s'allontanarono, correndo lievi fra gli alberi del bosco, dove già cominciavano a fiorire le primissime primule. (p. 487)

La collina dei ricordi[modifica]

  • Maestà, se ci concedi questo dono, prometto a te e a tutte le altre creature qui presenti che il mio popolo diventerà la più grande fonte di guai per la razza umana. Saremo per loro un tormento costante e una continua afflizione; distruggeremo il loro raccolto, scaveremo sotto le loro recinzioni, rovineremo i loro orti senza tregua, giorno e notte. (El-ahrairà; Il Senso dell'Odorato, p. 35)
  • El-ahrairà non invecchierà
    se la sua mente risoluta resterà
    e il suo cuore sempre coraggioso sarà. [canzone] (zigolo giallo; La storia delle Tre Mucche, p. 39)
  • Giunto appena dietro
    Al bosco delle campanule e alle ampie colline
    El-ahrairà più cercare non dovrà. [canzone] (zigolo giallo; La storia delle Tre Mucche, p. 41)
  • Per le mie ali, il mio becco e la mia coda,
    Ti dico che la prima mucca non è lontana.
    Proprio ai piedi del Colle, qui vicino,
    Si trova il bosco incantato delle mucche pezzate. [canzone] (zigolo giallo; La storia delle Tre Mucche, p. 41)
  • El-ahrairà, El-ahrairà,
    El-ahrairà è guarito e non è più stanco
    E adesso deve cercare il grande toro bianco! [canzone] (zigolo giallo; La storia delle Tre Mucche, p. 45)
  • L'estate è passata e quasi finita,
    ed El-ahrairà ricomincia la partita. [canzone] (zigolo giallo; La storia delle Tre Mucche, p. 48)
  • L'inverno giunge con la neve e il freddo.
    E quando arriva, nessuno si muove.
    Prima che tutto geli
    El-ahrairà muoversi dovrà. [canzone] (zigolo giallo; La storia delle Tre Mucche, p. 48)
  • El-ahrairà ha scoperto laggiù
    la fonte segreta dell'eterna gioventù. [canzone] (zigolo giallo; La storia delle Tre Mucche, p. 52)
  • Bel gattino, esci fuori dal mio orecchio.
    Qui ci sono ratti in abbondanza.
    Inseguili e falli volare parecchio.
    Spezza loro il collo e riempiti la panza. [canzone] (El-ahrairà; La storia di Re Pelliccia Furiosa, p. 57)
  • Venite fuori, corvi, due alla volta.
    Insegnate alle donnole come ci si comporta.
    Beccatele sulla testa.
    E dopo che le avrete uccise faremo festa! [canzone] (El-ahrairà; La storia di Re Pelliccia Furiosa, p. 58)
  • Formiche, formiche, uscite ch'è festa.
    Qui ci sono gli Ermellini Selvaggi.
    Mordete loro la coda e la testa.
    E trasformateli in un mucchio di cadaveri! [canzone] (El-ahrairà; La storia di Re Pelliccia Furiosa, p. 59)
  • Vieni fuori, ruscello, esci dal mio orecchio.
    Trascina con te questo puzzone.
    Scorri sulla sua testa, restaci parecchio.
    E sommergilo finché annega, questo lercio testone. [canzone] (El-ahrairà; La storia di Re Pelliccia Furiosa, p. 60)
  • Per Frits su una mucca! (Nerigno; Una storia di fantasmi, p. 82)
  • Per tutte le mosche cavalline! (Smerlotto; Borragine, p. 235)
  • Frits su un hrududù! (Parruccone; Borragine, p. 240)
  • Un coniglio che puzza d'uomo deve essere ammazzato: questa è una regola che è sempre valsa ovunque, fin dai tempi più remoti... (Parruccone; Borragine, p. 241)

La ragazza sull'altalena[modifica]

Incipit[modifica]

Oggi ha tirato vento tutto il giorno: strano tempo, per esser la fine di luglio. Il vento vorticava fra le siepi come un'onda di marea fra le alghe, squassandole, strapazzandole, piegando i sambuchi e i ligustri fino a farli strisciar quasi a terra e dividerli nettamente dai più robusti prugnoli. Svelleva la clematide purpurea dalla sua spalliera e involava rametti e foglie verdi dalle querce, in fondo alla boscaglia.

Citazioni[modifica]

  • L'altra notte sognai di svegliarmi avendo udito uno strano rumore da basso, appena percettibile: una sorta di tenue tintinnio come ne producevano quegli spaventapasseri di vetrini colorati che, ai tempi della mia infanzia, si appendevano in giardino, a luccicare e tintinnare alla brezza. Mi alzo e scendo giù in salotto. Gli sportelli della vetrinetta contenente le ceramiche sono spalancati, ma tutte le statuine sono al loro posto: La Libertà e il Matrimonio, Le Quattro Stagioni, La Ragazza di Reinicke in groppa alla mucca e... sì, anche lei... La Ragazza sull'Altalena. Di lì proveniva quella specie di tintinnio: le statuette stavano piangendo. Cadevano lacrime di cristallo minuscole come granelli di sabbia, che avevan ricoperto – come neve – il panno verde scuro sul quale posavano negli scaffali. A piccoli frammenti era così venuta via la loro vernice, si eran sgretolate le loro decorazioni. Già alcune eran quasi irriconoscibili. La collezione era rovinata! Io cado in ginocchio e scoppio a piangere come un bambino. «Tornate! vi prego, tornate!» Mi svegliai e m'accorsi di singhiozzare sul serio. (Alan, p. 10)
  • Per gare e partite non avevo né inclinazione né attitudine, però me la cavavo nella scherma. La sciabola non mi piaceva, ma nella più precisa e delicata disciplina del fioretto e della spada trovavo soddisfazione e anche diletto. L'avversario con la maschera – compagno più che nemico – i giudici schierati intorno, allerta, la metallica agilità delle lame, l'improvviso «Stop!» che ti arresta, seguito dal dettagliato riassunto e giudizio dell'arbitro: tutto ciò – controllato, formale e dignitoso – era per me la quintessenza dello sport. (Alan, p. 14)
  • Bach, amanuense di Dio, compose la musica delle sfere celesti, matematicamente precisa e ordinata come le maree o il ritorno della cometa di Halley. Se l'emozione era presente, essa era controllata e nella giusta proporzione; cioè, nella misura in cui quell'emozione nelle creature viventi è una parte funzionale, costituente dell'intero ordine creato. (Alan, p. 35)
  • [...] secondo me, come il fervore di Bach non prendeva direttamente d'assalto le emozioni intime dei suoi ascoltatori, accostandosi a esse, piuttosto, sul terreno (per lui) universale della Fede cristiana e delle sacre Scritture, così l'eccitazione emotiva stimolata dai ceramisti con le loro forme, i loro smalti, le loro decorazioni, era tenuta, con decenza e sobrietà, a distanza dall'utilitarismo del loro lavoro, dalla necessaria concentrazione sugli aspetti pratici dell'artigianato e, infine, dal puro e semplice fatto che essi appartenevano a un'età in cui non era compito dei loro pari – anche qualora fossero degli innovatori – dare disturbo e scandalizzare, ma, al contrario, porre in risalto e illeggiadrire l'accettato ordinamento della vita. Inoltre essi avevano, e conservavano, un fascino particolare: quello delle loro stesse imperfezioni. Mi ha sempre deliziato il provincialismo di Felix Pratt, Obadiah Sherratt e compagnia bella. È dalla loro stessa ingenuità e maldestrezza che scaturisce il loro pregio. Non esemplano forse, costoro, l'essenza stessa della condizione umana: rimestare nel fango per guadagnarsi il pane creando qualcosa di attraente a un prezzo che la gente comune può permettersi? (Alan, p. 36)
  • Così avvenne che, a dieci anni di distanza dalla mia separazione da Kirsten, mi recai finalmente a Copenhagen: la città cinta dal mare, København dalle verdi guglie.
    A me, København apparve come la cosa più prossima alla città ideale che avessi mai visto. Non mi spinsi fino a decidere che si potrebbero anche incendiare Parigi, Roma e Madrid ma, sin dall'inizio, mi innamorai perdutamente di København, e non fui mai tanto sciocco da tentare – in nome d'un malriposto rispetto per i valori generalmente accettati – di inibirmi, con il ragionamento, questa gioia spontanea. Le coeur a ses raisons que la raison ne connaît point.
    Parigi, Firenze, Venezia... queste città sono ormai consce della propria bellezza e gremite di persone che vanno là perché hanno letto o sentito dire che bisogna andarci: København invece possiede – come parte integrante dello splendore barocco delle sue chiese e dei suoi palazzi – una sua modestia naturale, una sua disinvoltura, simile a quella d'un aristocratico troppo educato per attrarre l'attenzione su ricchezze o grandiosità. [...] Non v'è città più modesta, e quindi più cordiale e rassicurante di Copenhagen. Come son belli – dice Keats – i fiori in sé racchiusi. (Alan, pp. 37-38)
  • Quella stessa mattina, al mio arrivo, avevo trovato, su alcuni scaffali, compreso quello delle anticaglie, dei cartellini stampati, sui quali era scritto in caratteri gotici: [Poesie dai libri]
    Belli da guardare,
    deliziosi da toccare,
    ma se li fai cadere
    li devi pur PAGARE!
    (Alan, p. 44)
  • Oh, Alan, [...] ti amo tanto! Non potevo non dirtelo. Ti trovo meraviglioso. Farei qualsiasi cosa per te... e lo farò! (Barbara, p. 47)
  • L'amore non è una cosa che, tutto sommato, decidi freddamente che potrebbe darti gioia [...] È una cosa che t'afferra e ti possiede, o bere o affogare, o la va o la spacca. (Alan, p. 48)
  • Quando un'impresa ha sortito successo si dimenticano poi, in retrospettiva, le ansietà, le delusioni e gli errori costosi; non solo: si dimentica anche che non eravamo sicuri, allora, che avremmo poi vinto. Nella memoria cambia l'intera Stimmung e i nostri ricordi divengono come una storia che abbiamo già letto e di cui conosciamo il finale. Sapendo, ora, che le nostre paure erano illusorie, ricordiamo soltanto quel che appare come il nostro coraggio e la nostra abilità. (Alan, p. 53)
  • Ho sempre considerato la cattedrale di San Canuto, a Odense, fra i più stupendi edifici medievali del Nord Europa. Il suo puro stile gotico ha una severa formalità che sembra esprimere – in anticipo, per così dire – il latente ideale protestante. È ammirevole il suo riserbo e ha un nonsoché di austero che non manca mai di commuovermi. (Alan, p. 64)
  • Io facevo fatica a mangiare. Mi sentivo lo stomaco sovreccitato. Non riuscivo a staccare gli occhi da lei. Osservavo ogni suo movimento, gesto, espressione come si osserva un arcobaleno o il salto dei salmoni a una chiusa. L'arcobaleno svanirà, i salmoni se n'andranno e a te non resta che tornare a casa sotto la pioggia. (Alan, p. 72)
  • Karin, ascolta! Io t'ho amato dal primo momento che t'ho vista... ti amo alla follia... sei la più bella ragazza che io abbia conosciuto in vita mia... non riesco a credere a quello che mi hai detto or ora. Me n'andavo via perché non potevo tollerare il pensiero che tu non avresti mai... Karin, se mi vuoi, io sono tuo per sempre. Vuoi sposarmi? (Alan, p. 97)
  • Dicono che spesso i ragionamenti dei matti sono logici, tranne che si basano su premesse assurde. Si accetti la premessa, e tutto il resto ha senso. (Alan, p. 227)
  • [...] feci un sogno intricatissimo in cui io stesso ero proteiforme: ora bambino, ora giovanetto, ora adulto. Eccomi in mare e vengo inseguito da un grosso pesce che tenta di afferrarmi e trascinarmi in fondo. Poi sono uno studente pieno d'ansietà alla vigilia d'un esame. Un pagliaccio al circo gonfia un pallone fino a farlo scoppiare e io, seduto in prima fila, affondo la faccia fra le mani. Poi, ecco, sono in preda a una smania amorosa, mi agito... ma so che l'orgasmo provocherebbe la morte di Karin. (Alan, p. 228)
  • Ricevere buone notizie – qualcosa che ti riguarda da vicino, e imminente – è come camminare per una campagna e giungere in vista di una meta gradita: la casa di un amico, un fiume o una cattedrale. Tu sapevi, vagamente, che prima o poi saresti arrivato a vederla. Ebbene, ora eccola là; e sebbene ogni cosa sia uguale a prima, tutto è cambiato. Tu adesso cammini consciamente verso quello che ti aspetta: qualunque cosa possa essere. (Alan, p. 274)
  • Dormii anch'io. E sognai ch'eravamo fuggiaschi in un paese di montagna. Ogni volta che cercavamo di scendere a valle, trovavamo nemici nell'ombra, in agguato, e dovevamo tornare sulle alture selvagge, pur sapendo che prima o poi la fame ci avrebbe costretto ad arrenderci. (Alan, p. 283)
  • Gli esseri umani nell'universo sono come cani e gatti in una casa. Gran parte di quel che avviene esula dal loro comprendonio, e la cosa più saggia e sicura è – come fan loro – sopportare o ignorare. Sperare che ci venga consentito di vivere in pace. (Alan, p. 342)

Explicit[modifica]

[Su porcellana e ceramica] Dovrei capirne qualcosa, ormai, nevvero? di quella grazia e di quelle forme, tratte dal fango e modellate in modo che trascendano questo orrendo luogo dove noi ci affanniamo, in attesa di morire. Argilla estratta dalla terra, mischiata con acqua, sabbia, pietra e cenere d'ossa; impastata, accarezzata e modellata da mani pazienti; cotta al forno e utilizzata, per alleviare la nostra sorte, per dare comodità e un po' di eleganza alla nostra necessità di mangiare, di bere, di lavarci, di defecare; o messa là semplicemente per esser ammirata, come la musica, per la nostra dignità e per il nostro piacere; e, al pari della nostra carne, condannata alla fine a perire, ad andare in frantumi, a finire fra i rifiuti, a tornare nella terra donde provenne. Cos'altro è più emblematico della natura umana e manifesta meglio, dal finito, l'infinito? Ho del lavoro da compiere. In qualche modo, il mio dolore e il mio lutto arricchiranno il mondo.

La valle dell'orso[modifica]

Incipit[modifica]

Nonostante la secca calura di tarda estate, nella grande foresta non v'era mai silenzio. Raso terra – il suolo spoglio e molle era coperto di rami caduti, fuscelli, foglie marce nereggianti come cenere – un rumorio fluiva senza tregua. Come un fuoco che, ardendo con assiduo crepitio, ogni tanto scoppietta – quando un nodo del legno s'infiamma o un ciocco ruzzola fra le braci – così, nella foresta, appié degli alberi, le ore trascorrevano nella penombra fra stormire di fronde e tonfi e schianti, intermittenti sospiri della brezza, fruscii di rettili o di roditori e, di quando in quando, lo scalpiccio di qualche animale più grosso in movimento.

Citazioni[modifica]

  • Si udiva il canto di una donna: «Lui di notte, di notte lui viene. | Ho un fiore rosso, rosso fra i capelli. | Ho lasciato la fiaccola accesa, | La mia fiaccola arde. | Senandril na kora, senandril na ro». (p. 27)
  • Trogloditi e assiro-babilonesi, civili greci e barbari vichinghi, tartari e aztechi, samurai e cavalieri, antropofagi e tagliatori di teste: una cosa li accomuna tutti. Bisogna sempre aspettare i comodi di qualche personaggio importante, prima d'esser ricevuti. (p. 29)
  • «[...] Eppure la Tuginda, sulla sua isola vuota, ha ancora una missione. Credimi, Kelderek, la più ardua. Il suo compito è attendere. Esser pronta, in qualsiasi momento, pel ritorno di Shardik. Una cosa infatti è certa, poiché è stata predetta e preannunciata da ogni sorta di presagi e prodigi: un giorno Shardik farà ritorno».
    Kelderek restò a lungo soprappensiero, guardando i canneti al chiardiluna. Infine disse: «E i Vasi d'Elezione, saiett? Siamo Vasi, diceste, voi e io».
    «A me è stato insegnato che Dio rivelerà agli uomini una grande verità mediante Shardik e tramite due Vasi d'Elezione, un uomo e una donna. Questi Vasi saranno però prima frantumati, da Lui, e poi rimodellati, secondo i Suoi fini.» (p. 61)
  • Non è mai stato profetizzato che il ritorno di Shardik ridarà necessariamente agli ortelgani il dominio imperiale. Anzi, un proverbio dice: "Dio non fa mai due volte la stessa cosa". (Tuginda, p. 61)
  • L'orso è pura follia – traditore, pazzo, imprevedibile – è una tempesta che spazza via tutto, che ti fa naufragare quando credi di trovarti in piena bonaccia. Da' retta, Kelderek, non fidarti mai dell'orso. Ti promette il potere di Dio, poi ti tradisce e ti conduce alla rovina. (Bel-ka-Trazet, p. 74)
  • L'adorazione non frutta nulla, a chi è tiepido o sbadato. Vi son uomini la cui religione, se fosse un tetto da essi costruito, gli cadrebbe sulla testa alla prima pioggia. (Kelderek, p. 86)
  • E canticchiò fra sé il ritornello di una canzone.
    Un vecchio ladro disse alla consorte | (Zan, zan, zaranzanzan) | "Vita pacchia, farò, fino alla morte!" (p. 161)
  • Kelderek, che non lo perdeva di vista, pregava in continuazione come aveva pregato cinque anni innanzi nelle tenebre della foresta: «Pace, Shardik, Signore. Dormi, Re Shardik. Il tuo potere viene da Dio. Nulla può nuocerti». (p. 178)
  • Solo Kelderek, unico fra tutti, sentiva suo dovere andargli vicino, offrirgli la propria vita senza chieder alcun premio, ripetendo di continuo la preghiera dedicatoria: «Senandril, Sommo Shardik. Accetta la mia vita. Sono tuo e non ti chiedo nulla in cambio». (p. 180)
  • Lo sai come cantavano i soldati, dopo la presa di Bekla? "Adesso che la guerra l'abbiam vinta, farem l'amore e ci godrem la vita!" (Zeldan, p. 192)
  • Trovarsi d'un tratto di fronte a un'opera nefanda del passato (un atto vergognoso di cui restano vestigia: come i ruderi della casa di un pover'uomo distrutta da qualche signorotto egoista per biechi motivi d'interesse; o il corpicino d'un bimbo indesiderato che il fiume ributta sulla riva) trovarsi, inaspettatamente, di fronte a un'accusa che nessuna bravata può sfidare né alcuna loquela sminuire; un'accusa non gridata ai quattro venti, ma espressa sommessamente, a tu per tu, senza rabbia, forse senza parole, a qualcuno che è colto alla sprovvista dai propri rimorsi; è certo cosa da lasciar confusi, sgomenti, allibiti. Le vittime di soprusi, come gli spettri, non hanno bisogno di parlare ai loro persecutori o di accusarli al cospetto di una folla. Di gran lunga più terribile è la loro inaspettata silente ricomparsa in qualche luogo solitario, in un'ora propizia. (p. 267)
  • Conosco il detto, saiett. A Zerai la memoria ha un acuto pungiglione, e il saggio la evita. (Ankrai, p. 282)
  • [Su Bel-ka-Trazet] Soltanto Ankrai e io gli fummo accanto fino all'ultimo. Lottò duramente, come puoi figurarti. L'ultima cosa che disse fu: "L'orso... di' loro che l'orso...". Mi chinai su di lui e chiesi: "Dir loro che cosa, mio signore?". Ma non disse più un'altra parola. (p. 288)
  • Poi, chinandosi ad attizzare il fuoco, canticchiò il ritornello di una vecchia ninnananna ortelgana, ch'egli aveva da tempo dimenticata.
    Dove se'n va la luna ogni mese | E dove son fuggiti i vecchi anni? | Non dartene pensiero, amico mio, | Non aggiungere questo ai tuoi affanni. (p. 302)
  • Ridatemi quelle aspre solitudini | Di rovi e sterpi, asilo della belva. | Quello è il mio vero regno, impareggiabile: | Questa corte al confrronto è tetra selva. (canzone cantata da Melathis, p. 307)
  • Al mio paese dicono: "Batti quanto ti pare sul legno, tanto i tarli non se ne vanno mica". (Kelderek, p. 344)
  • Il silenzio fu rotto soltanto allorché un corifeo yeldascé intonò la prima strofa del celebre lamento noto come Le lacrime di Sarkid, in cui si narra della nascita, infanzia e giovinezza di U-Depariot, il liberatore della Yelda e fondatore della Casa di Sarkid. [...]
    Fra i covoni di grano ella si giacque, | Affranta giacque la fanciulla e sola, | Ferita, senza amici, con il marchio | Degli Strehel su di lei, e partorì | L'eroe Depariot, quando Yelda era schiava. (p. 386)
  • Un altro coro si levò dal lido. Erano i pescatori di Tissarn che intonavan un loro canto, per incitare i giovani vogatori.
    All'alba noi spingiamo nell'acqua le barche. | Se avremo fortuna, nessuno patirà la fame oggi. | Pagar cara la saggezza è destino dell'uomo. | I poveri s'arrangiano per vivere. | La fortuna per noi è un fuoco acceso | E aver piena la pancia, una donna | Nel letto e figli cui insegnare il mestiere. (p. 387)
  • Si mise a giocare con quei bambini, come non faceva più da anni, cantando la canzoncina che accompagna le corse e le risse:
    «Gatto, gatto, piglia il pesce! | Corri e portalo a casa! Corri, gatto! | Porta il pesce alla fanciulla | Che t'aspetta presso il fuoco. Corri ratto!» (p. 394)
  • La cantilena dei battellieri proseguiva monotona, reiterata, a voci alterne.
    «Shardik a moldra konvei gau
    «Shar-dik! Shar-dik!»
    «Shardik a londa, Shardik a pronta!»
    «Shar-dik! Shar-dik!» (pp. 401-402)
  • I figli... nascon per un atto d'amore... o così dovrebbe essere. E Dio vuole che crescano liberi e sani, idonei al lavoro e allo svago, adatti ad affrontare le gioie e le avversità. Insomma, completi. La schiavitù... la vera schiavitù consiste nell'esser privati della possibilità di crescere completi. I derelitti, i diseredati, gli indesiderati sono schiavi, anche se non se ne rendono conto. (Kelderek, p. 410)

Explicit[modifica]

Entrò Melathis, con un coscio di cinghiale infilato a uno spiedo. Si era cambiata d'abito. Indossava una specie di grembiale.
Siristru si alzò. Le sorrise. Le chiese: «Posso dare anch'io una mano?».
«Un'altra sera forse... Quando sarete ormai un vecchio amico. Vedete, U-Siristru, la vostra venuta ci offre l'occasione di fare un po' festa. Fa caldo abbastanza? Metto su dell'altra legna?»
«No, non vi disturbate.» Poi, come soprapprensiero: «Che bel fuoco!...»

Traveller[modifica]

Incipit[modifica]

Inizio della primavera del 1866. Lexington, Virginia: una cittadina situata in una valle montana sotto le Blue Ridge. È un posto solitario e remoto, di difficile accesso: si può scegliere tra un viaggio di ventitré miglia su una strada pessima che parte dalla stazione ferroviaria di Goshen, o una navigazione di dodici ore lungo il fiume James e il Kanawha Canal, partendo da Lynchburg. Vi abita una comunità piuttosto austera, composta per la maggior parte di presbiteriani, il cui carattere serio e ordinato si riflette nelle strade di calcare blu costeggiate da case in mattoni rossi con le facciate di pietra, con semplici colonne e siepi curatissime lungo i vialetti di mattoni. Anche se è notte, la luce della luna è sufficiente a rivelare l'aspetto cadente del posto: pitture scrostate, muri malamente cementati, cancelli crollati e recinti rotti. La città non ha banca, e non ne ha bisogno. Sul crinale che la sovrasta sorgono le mura diroccate e sudice del Virginia Military Institute, distrutto dai federali due anni prima.

Citazioni[modifica]

  • La pioggia batteva come il piscio di una vacca su un sasso piatto. (cap. IV, p. 37)
  • Jim è riuscito ugualmente a trovarmi un po' di fieno, e anche dell'avena. Solo il cielo sa come ce l'ha fatta. Da allora ho imparato che un buon soldato è come un buon gatto: deve anche essere un buon ladro. (cap. IV, p. 38)
  • Quell'uomo [il Generale Lee] non aveva cambiato solo la mia mattinata: aveva cambiato la mia vita, anche se non lo avessi più rivisto. Non sapevo che ci potesse essere un cavaliere simile, che capiva quello che provavi prima ancora di te. Jim era un buon cavaliere, ma quell'uomo... be', come ho già detto, era un cavallo che in qualche modo si era trasformato in un uomo. Perlomeno, parlava il linguaggio dei cavalli. Ti ricordi, Tom, che ti avevo detto che quando Andy mi aveva montato per la prima volta avevo sentito che era esperto e affidabile? Be', da quell'uomo traboccava, come l'acqua in un abbeveratoio, una grande simpatia per me e per tutti gli animali del mondo. (cap. IV, pp. 41-42)
  • [...] un vero cavallo non si deve limitare a fare quello che gli dicono. Un vero cavallo dev'essere parte del suo padrone, deve volere essere parte di lui. Una volta che incominciano a intendersi perfettamente, l'uomo dovrebbe essere libero di dimenticarsi di governare il suo cavallo tutto il tempo, e di continuare a fare quello che ha fa dare. Il cavallo sa quello che vuole il suo padrone. Lo capisce da centinaia di piccole cose. E da un'infinità di cose l'uomo capisce il suo cavallo, senza doversi veramente distrarre da quello che sta facendo. Ma devono essere l'uomo giusto e il cavallo giusto. (cap. IV, p. 44)
  • È così che noi soldati affrontiamo la vita: giorno per giorno, rallegrandoci quotidianamente di essere ancora vivi. (cap. X, p. 153)
  • Generale Hood, [...] non voglio dire che i vostri uomini siano dei ladri. Dico solo che, quando siete in giro voi texani, i polli devono andare a posarsi molto in alto. (Padron Robert; cap. XI, p. 156)
  • Che cosa sono le parate, Tom? Be', quando tutti i soldati si ripuliscono e si lustrano, poi si allineano per compagnia, con le bande che suonano e i drappi rossi e blu che svolazzano. Poi Padron Robert e io passiamo in rassegna un reggimento dopo l'altro, e i generali fanno il saluto e cavalcano con lui per un tratto, mentre Padron Robert dice loro che si stanno comportando molto bene. E infine lui e io prendiamo posto un po' in alto, dove tutti possono vederci: poi incomincia la sfilata, e Padron Robert saluta i vari reggimenti mentre passano. Ti assicuro, Tom, una grande parata è uno spettacolo da non perdere. (cap. XVI, p. 225)

Explicit[modifica]

Sta' a sentire, Tom. Salta nella mangiatoia – perfetto! – e fa' come se fossi Padron Robert. Siamo in una campagna militare ed è mattino presto. Tu guardi in giro per l'accampamento per controllare che tutto sia stato rimesso in ordine e predisposto per la partenza. E io sto aspettando, sellato di tutto punto, con Joker e gli altri. Benissimo! Adesso ti giri da questa parte e che cosa dici? Non te lo ricordi? Te lo suggerisco io. Dici: «Togliete le tende!».

Note[modifica]

  1. Dall'intervista in Enzo Biagi, Quante storie, p. 19

Bibliografia[modifica]

  • Richard Adams, I cani della peste, traduzione di Pier Francesco Paolini, Rizzoli, Milano, 1978.
  • Richard Adams, La collina dei conigli, traduzione di Pier Francesco Paolini, Rizzoli, Milano, 1975.
  • Richard Adams, La collina dei ricordi, traduzione di Alessandra De Vizzi, Rizzoli, Milano, 1997. ISBN 88-17-67407-9
  • Richard Adams, La ragazza sull'altalena, traduzione di Pier Francesco Paolini, Rizzoli, Milano, 1982.
  • Richard Adams, La valle dell'orso, traduzione di Pier Francesco Paolini, Rizzoli, Milano, 1976.
  • Richard Adams, Traveller, traduzione di Marisa Castino Bado, Rizzoli, Milano, 1990. ISBN 88-17-67013-8
  • Enzo Biagi, Quante storie, Rizzoli, Milano, 1989. ISBN 88-17-85322-4

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