Scipio Slataper

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Scipio Slataper

Scipio Slataper (1888 – 1915), scrittore italiano.

Citazioni di Scipio Slataper[modifica]

  • In un giorno, ancora giovane, camminando nel Carso, quando i sassi e i fiori mi diranno le cose che io ho già dette, allora uno slavo mi scaglierà addosso un sasso corroso e forte e pieno di spigoli. E io cadrò giù, sul Carso. Non nel letto, con lagrime e puzza e bisbigli e passi cauti nella stanza. Voglio morire alla sommità della mia vita, non giù. Sarà l'ultima «Calata» portato a spalle.[1]
  • La storia nell'anima di Carducci, con buona pace del suo metodo storico, è quasi sempre una proiezione di presente negli sfondi lontani, per dargli autorità e obiettività. La storia in Carducci è polemica. Poeta della storia potrebbe al più significare poeta drammatico, e Carducci non creò una persona artistica fuori della sua personalità lirica. (da E i cipressi di San Guido?, «Voce», 5 ottobre 1911, ristampato in Scritti letterari e critici, Roma, 1920, pp. 172-178.[2])
  • La terra ha mille patimenti. Su ogni creatura pesa un sasso o un ramo stroncato o una foglia più grande o il terriccio d'una talpa o il passo di qualche animale. (da Il mio Carso)
  • S'ciavo,[3] vuoi venire con me? Io ti faccio padrone delle grandi campagne sul mare. Lontana è la nostra pianura, ma il mare è ricco e bello. E tu devi esserne il padrone.
    Perché tu sei slavo, figliolo della nuova razza. Sei venuto nelle terre che nessuno poteva abitare, e le hai coltivate. Hai tolto di mano la rete al pescatore veneziano, e ti sei fatto marinaio, tu figliolo della terra. Tu sei costante e parco. Sei forte e paziente. Per lunghi anni ti sputarono in viso la tua schiavitù; ma anche la tua ora è venuta. È tempo che tu sia padrone.
    Perché tu sei slavo, figliolo della grande razza futura. Tu sei fratello del contadino russo che presto verrà nelle città sfinite a predicare il nuovo vangelo di Cristo; [...] Trieste deve esserti la nuova Venezia. Brucia i boschi e vieni con me. (da Il mio Carso, 1912)
  • Voi non sapete come un ragazzo possa, obbedendo, costringere i genitori a fare quello ch'egli vuole. (da Il mio Carso)

Ibsen[modifica]

Incipit[modifica]

Henrik Johan Ibsen è nato il 20 marzo 1828, l'anno di Tolstoi, a Skien, nel Telemarken (Novergia sud-orientale), una delle provincie più ricche di tradizioni e costumi, dove l'epico Sigurd è diventato uomo e eroe popolare.
Skien è oggi una città commerciale e industriale di 12 mila abitanti, centro sempre più importante di linee fluviali e marittime, unita con la ferrovia a Cristiania. Allora era un borgo di provincia, congiunto con un canale al Frierfiord e al mare, di cui viveva, esportando sopratutto il legno tagliato dalle sue segherie idrauliche, e da cui gli arrivavano le notizie del mondo. Skien ha forti tradizioni religiose; nel settecento fu uno dei centri del movimento pietistico; nella seconda metà del secolo scorso il pastore Lammers vi fondò una comunità libera, sul genere di quelle, tra severissime e mistiche, così frequenti nei paesi protestanti, che Selma Lagerlöf ci descrisse con tanta limpida partecipazione nella prima parte del suo Gerusalemme.

Citazioni[modifica]

  • Bisogna pensare alla vita oscura invernale d'un borgo isolato nella Norvegia d'un secolo fa, ricordare l'infanzia di Peer Gynt, che per confessione del poeta somiglia molto alla sua, per comprendere in che aria cresceva il piccolo Henrik. (p. 7)
  • Catilina è scritto di getto, rubando qualche quarto d'ora alle ore rubate per lo studio. È scritto di furto, con la complicità della notte, quando il «lüttje Abtekerjunge» si levava il grembiule da impastator di pillole e ridiventava il giovane desideroso di lotta e d'avvenire. Ibsen notava più tardi, con quel fine sorriso con cui sapeva parlare delle cose sue passate e degli altri, che tutta la favola si svolge di notte perché egli poteva lavorare per conto suo soltanto nelle ore notturne. (p. 19)
  • È la prima volta in vita sua che riposa. Sdraiato sui margini erbosi della Via Appia e della via Latina, il groviglio interno gli si allenta al sole e alla larga pace. Attorno a lui l'immenso silenzio di Roma. Strade semivuote, piazze larghe e armoniche, palazzi, i cento colori della Chiesa trionfante. Gente calma, gente disinteressata, indolente: ma gente libera. Troppa storia e troppa grandezza è passata per questo sangue perché possa scomporlo una qualunque novità e commuoverlo una forma politica piuttosto che un'altra. Roma è abituata a veder passare. (p. 84)
  • Appena ora, di fronte alla statuaria classica, egli vede chiaramente come l'estetismo sia falso. In questa tanto decantata purità di forme egli non trova niente che lo appaghi: non c'è individualità, passione, contenuto. Sono anonime e fredde. Di scuola e non di anima. (Naturalmente egli in generale ha ragione: ma qualche volta basterebbe che il suo occhio penetrasse oltre l'incrostazione applicata loro dalla stima consuetudinaria ch'egli sente falsa, per trovarvi − come gli scriveva Björnson − anche ciò che cerca. È la solita storia: quando uno s'accorge che è falso il criterio per cui un'opera è stimata, dichiara falsa anche l'opera, mentre essa ha valore molto più profondo, magari proprio nel senso ch'egli vorrebbe. Di fatti poi anche Ibsen lo trova nelle opere classiche). (pp. 87-88)
  • Per Faust azione in fondo, voleva dire ricerca. Il centro dell'uomo è la necessità di provare, cioè di accrescersi. Per Brand invece azione è volontà. In Faust, greco, la passione è armoniosa con il volere; in Brand, luterano scandinavo (non bisogna mai dimenticare questi suoi due attributi di ambiente sociale e religioso), il volere è l'opposto inconciliabile della passione. Lì la parole è: – Accogli! – qui è: – Rinunzia! – Acquistare tutto: rigettare tutto. Tanto Goethe che Ibsen predicano la pienezza, ma per Goethe questa pienezza è l'impossessarsi dell'universo; per Ibsen del proprio spirito. La legge morale è intesa in modo diverso. C'è di mezzo Kant, che non ha presa, neanche per il tramite di Schiller, su Goethe. Faust vince Mefistofele servendosi dell'armi di Mefistofele; Brand lo vince perché ne soggiace. (pp. 91-92)
  • Sarebbe agevole dimostrare come la contraddizione della nostra epoca sia entrata, elemento finora conturbatore perché negato, in quasi tutti i nostri capolavori artistici, anche in quelli in cui, esplicitamente, non sono nominate le parole: etica e religione. È ormai uno stato d'animo che si riflette in ogni atto valutativo e rappresentativo; e Ibsen è tale poeta «nostro», che in quasi tutti i suoi lavori, dobbiamo ritrovare questa nostra contraddizione essenziale. Egli è una personalità rotta: volontà, dura freddezza, opposta (e fusa) alla debolezza sognante, all'egoismo rapace, diabolico scorpione del suo sangue, al suo enorme orgoglio, al suo peccato – e amore, purezza, vita, grazia, ch'egli invoca. (pp. 104-105)
  • Il mito nell'arte non è stimato troppo nel giudizio estetico dei popoli meridionali. Ci sembra esso sia un'aggiunta intellettuale che raffreddi la commozione artistica. Il poeta vede un concreto, e ne vuol fare un astratto; crede di accrescere intensità, e invece la disperde. Il campo dell'arte è la realtà, cioè l'individuo e non la verità, cioè l'universale. [...] Ma ci sono dei poeti in cui non c'è aggiunta: mondo intellettuale e mondo estetico si compenetrano, condizionandosi l'un l'altro: Goethe, p. e., e ancor più Dante. Di fronte a Dante il De Sanctis è l'esempio classico di questo nostro comportamento. Partito, hagelianamente, dalla distinzione delle due opposte attività spirituali, egli, con tutto il suo genio, non può far altro che tentare di dimostrarle pur nel Paradiso staccate l'una dall'altra e volute riunire dal poeta a terribile detrimento dell'opera d'arte. In realtà, se non si comprende come intelletto e immagine siano nel Paradiso di Dante una sola e identica cosa, non si comprende tutta la grandezza di Dante, anche se esso, apparentemente, è solo poeta. Dimostrarlo qui mi porterebbe troppo lontano. Basta per il mio scopo mostrare che lo stesso errore s'è commesso davanti al simbolismo d'Ibsen. (p. 111-112)
  • La donna che non possiamo stimare, la dobbiamo venerare. Essa sa darsi tutta, fino all'ultima goccia, senza lotta né dolore. È la purissima. (p. 119)
  • [...] il vero Ibsen non è poeta da epopee goethiane. Con esse afferma, non conchiude il suo pensiero. In fondo è povero di pensiero. È profondo, moralmente profondo, conosce la verità centrale: ma il suo intelletto non afferra la verità nelle sue multicolori forme. È una profonda personalità, non un genio. E una Divina Commedia, un Faust, se si reggono sul proprio centro etico, vivono soltanto perché esso, a immagine di Dio, s'irradia in ogni aspetto della vita. Mancando al poeta questa dominanza intellettiva, questa divinità, il poema si riduce allo schema, ricchissimo del suo eroe.[4] (p. 120)
  • Veder bene è veder davanti alla storia, è uno sforzo morale. Un atto morale. (p. 126)
  • Egli non s'interessa dello stato. Esiste la libertà, non esistono le libertà. Le cosiddette libertà politiche fanno male invece che bene. Il libero pensiero prospera ancora meglio nell'assolutismo. Disse una volta: «La Russia è un paese magnifico» –? – Sì, perché c'è violenta oppressione: e dove c'è oppressione, c'è amor di libertà. «Cosicché non mette conto di dare una goccia di sangue per mutar la forma allo stato; se mai, tutto il sangue per distruggerlo dalle fondamenta. Ma non la solita inutile rivoluzione! Occorre, se mai, un nuovo diluvio, amico mio, orator rivoluzionario: tu incaricati dell'acqua, e io penserò a metter la piccola torpedine sotto l'arca di Noè (Poesia del '69)». Perché se lo stato è veramente qualche cosa, allora esso è «una maledizione per l'individuo». Guardiamo: con che è stata pagata la forza statale della Prussia? «Con l'assorbimento dell'individuo nel concetto politico e geografico. Il cameriere è l'ottimo soldato».
    Perciò egli odiava di tutto cuore il prussianesimo. (p. 135)
  • L'individuo, per Ibsen, è una specie di dato supremo che nasce con in potenza tutta la propria vita. Si tratta dunque di svilupparsi indipendentemente, difendendosi magari con robusto egoismo, con «egoismo puro sangue»; esser fedeli in verità e libertà a sé stessi, negando tutto ciò che non è nostro, che è ambizione e vanità, bugia. Quest'è agire moralmente. Grandi, immensamente grandi, quelli che vogliono essere più di quel che sono: ma di tragica, orgogliosa grandezza. Bisogna trovare la propria personalità e ubbidire. Essere «liberi nella necessità». Questa sarà la futura legge. (p. 140)
  • Il primo regno è stato della conoscenza. Adamo s'è ribellato a Dio. Ha fatto del suo intelleto la sua legge. È la civiltà sapiente, ellenica; la civiltà cesarea, la città terrestre: della bellezza e del gaudio. Apollo e Dionisio. È venuto Cristo: e la terra, ogni gioia, ogni sapienza, ogni potere sono stati annullati. Non basta dare a Cesare quel ch'è di Cesare, ma bisogna dare tutto a Cesare o tutto a Dio. Non c'è posto per due. O la vita o il cielo. E finalmente nascerà uno che incarnerà i due mondi, che sarà uomo-Dio, Cesare-Galileo[5]; il Pan – che vuole ciecamente e bellamente, – e il logos – che è coscienza e verità. E costui più che Dio e più che uomo, farà santa tutta la vita. Ecco affermato con decisione ciò che già Brand aveva sentito necessario, aveva, per un momento, insegnato senza saper mettere in effetto né per sé né per gli altri. È la vita che si ribella a Brand. (pp. 140-141)


Il mio carso[modifica]

Incipit[modifica]

Vorrei dirvi: Sono nato in carso, in una casupola col tetto di paglia annerita dalle piove e dal fumo. C'era un cane spelacchiato e rauco, due oche infanghite sotto il ventre, una zappa, una vanga, e dal mucchio di concio quasi senza strame scolavano, dopo la piova, canaletti di succo brunastro.
Vorrei dirvi: Sono nato in Croazia, nella grande foresta di roveri. D'inverno tutto era bianco di neve, la porta non si poteva aprire che a pertugio, e la notte sentivo urlare i lupi. Mamma m'infagottava con cenci le mani gonfie e rosse, e io mi buttavo sul focolaio frignando per il freddo.

Citazioni[modifica]

  • Il carso è un paese di calcari e ginepri. Un grido terribile, impietrito. Macigni grigi di piova e di licheni, scontorti, fenduti, aguzzi. Ginepri aridi. Lunghe ore di calcate e ginepri. L'erba è setolosa.
  • [Sul Carso] Bora. Sole. La terra è senza pace, senza congiunture. Non ha un campo per distendersi. Ogni suo tentativo è spaccato e inabissato. Grotte fredde, oscure. La goccia, portando con sé tutto il terriccio rubato, cade regolare, misteriosamente, da centomila anni, e ancora altri centomila. (p. 146)
  • [Sul Carso] Qui è pietrame e morte. Ma quando una genziana riesce ad alzare il capo a fiorire, è raccolto in lei tutto il cielo profondo della primavera. (p. 146)

Citazioni su Scipio Slataper[modifica]

  • Scipio Slataper è, anzitutto, l'autentico e rappresentativo figlio di Trieste, fusione di razze diverse nel crogiolo della coltura italiana. Guardatelo: alto, biondo, coi pomelli un poco sporgenti, e gli occhi azzurri, si vede subito il discendente di una razza slava (ma da parte di madre era italianissimo, veneto). (Giuseppe Prezzolini)
  • Slataper era vergine, Dico in tutti i sensi, salvo che in quello imbecille. Era vergine con piena coscienza del valore della sua verginità e purezza, e senza nessun velo di ciò che potesse essere – ciò che si chiama non essere vergini. Questa grande purezza cosciente ed orgogliosa di sé, meriterebbe un'analisi più minuta di quel che io posso fare. Però dico che quella e soltanto quella spiega la deliziosa finezza di certe leggende per bimbi, che egli ha scritto. (Giuseppe Prezzolini)

Note[modifica]

  1. Citato in Giani Stuparich, Scipio Slataper, pubblicazione della soc. an. ed La Voce, quaderno 46, serie quarta, Firenze, 1922, pp. 203,204.
  2. Citato in I classici italiani nella storia della critica, opera diretta da Walter Binni, vol. II, da Vico a D'Annunzio, La Nuova Italia, Firenze, 1973, pp. 580-581.
  3. Così i triestini chiamavano con disprezzo gli sloveni, con i quali non sopportavano la convivenza nell'impero austroungarico.
  4. Peer Gynt.
  5. Cesare e Galileo è il titolo dell'opera teatrale di Ibsen che Slataper analizza.

Bibliografia[modifica]

  • Scipio Slataper, Ibsen, G. C. Sansoni Editore, Firenze, 1944.
  • Scipio Slataper, Il mio Carso, Mondadori, 1980.
  • Scipio Slataper, Il mio carso, introduzione di Giulio Cattaneo, Rizzoli, Milano, marzo 2020, ISBN 978-88-17-06149-0

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