Silvio D'Amico

Da Wikiquote, aforismi e citazioni in libertà.
Silvio D'Amico con Marta Abba nel 1933

Silvio D'Amico (1887 – 1955), critico teatrale e docente italiano.

Citazioni di Silvio D'Amico[modifica]

  • [Su Mario Pelosini] Altrove in questi giorni si è ricordato, con parole giustamente commosse, la sua figura pressocché bohemienne, di credente nell'arte, e di divulgatore della poesia, in solenni adunate come in intimi ritrovi, dov'egli col magistero dell'arte sua tratteneva gli ascoltatori alla rivelazione di tesori, talora insospettati, talora riscoperti con una gioria nuova. Ma noi qui vorremmo ricordare la sua opera di maestro: maestro a tutta una generazione di attori, cui egli trasmise, col suo sacro fuoco, i segreti di quella sua arte.[1]
  • Come ognuno sa, Vera Vergani deve difendersi, anzitutto, da un pericolo grave: quello d'esser troppo bella.[2]
  • [Luigi Pirandello] Rinnega addirittura i 'penso, quindi sono' di Cartesio: per lui neanche pensare significa essere. Qui sarebbe lecito chiedersi: ciò non finisce col distruggere l'essenza della grande poesia tragica, la nobiltà del dolore? Ma appunto qui vuole essere l'originalità del Pirandello drammaturgo; appunto da questa impossibilità di una tragedia egli trae la più disparata delle tragedie, la sua.[3]
  • Se è vero che il teatro è fatto di fervore e di passione, niente è dunque meno teatro che quello di Shaw. Il disordine caotico delle sue opere rassomiglia al tumulto della vita assai meno che l'ordine geometrico delle commedie tradizionali. Tutte le sue inversioni, tutti i suoi paradossi, rivelano ad ogni passo la metodica premeditazione, senz'abbandono. Quando si è detto che l'irlandese Shaw, sia pure per reazione a una idolatria che in Inghilterra è divenuta accademica, si è fatto campione del frigido luterano Ibsen contro la veramente cattolica magnificenza di uno Shakespeare, s'intende anche troppo facilmente da che sia viziata la sua mentalità.[4]

Maschere[modifica]

  • Questo senso «religioso» del teatro fu la personale, essenziale caratteristica di Eduardo Boutet; che distingue nettamente, senza possibilità di confusione, la fisionomia di lui da quella di tutti gli altri critici nostri. (p. 30)
  • Boutet arrivò a' suoi cinquantanove anni, attraverso le delusioni più sfibranti che uomo fidente in un'idea abbia mai sopportato, con le convinzioni de' suoi diciotto, e con la serietà e la preoccupazione del suo apostolato, immutabili. «Fede, mistero, religioso, santo, sacro», sono appunto le parole che s'incontrano più frequenti ne' suoi scritti. Poteva accadere che scherzasse, forse nello stesso numero del giornale in cui Boutet scriveva, l'autore dell'articolo dove si trattava di politica, di pace, di guerra, o che so io: ma non scherzava lui, Boutet. Perché potevano essere mestieranti gli altri: lui si sentiva sacerdote. (p. 30)
  • Accade un po' dei giornalisti come degli attori: che la loro opera, avendo carattere momentaneo e quotidiano, non sopravviva alla loro morte: e non c'è chi possa poi ricordarla e discuterla, se non tra chi n'abbia avuto in tempo diretta e personale conoscenza. Che sappiamo e che sapremo mai, noi giovani, di Gustavo Modena e d'Adelaide Ristori? Parole. Che sappiamo noi delle famose critiche giornalistiche, che Eduardo Boutet sparse ne' quotidiani in voga durante la sua giovinezza, ora introvabili sin nelle biblioteche, introvabili a lui stesso che in questi ultimi tempi non ne serbava più se non il ricordo?
    Una fama le ha accompagnate nell'ambiente teatrale: la fama d'una grande severità. Per lo meno, chi le rammenta, ebbe questa impressione: che Boutet «stroncasse». (p. 31)
  • [...] noi italiani, mentre non abbiamo una grande tradizione d'autori drammatici e comici, ne abbiamo una senza confronto più importante e gloriosa di esecutori, che va dalle vecchie compagnie delle maschere ai nomi di Gustavo Modena, di Adelaide Ristori, Tommaso Salvini, di Ernesto Rossi, di Giovanni Emanuel, di Eleonora Duse, di Ermene Novelli.
    Ora questo fatto ha creato, nella realtà della nostra vita di teatro, un disequilibrio e un capovolgimento di valori, per cui l'attore è tutto e l'autore è nulla: l'attore è, invece che il fedele esecutore, il despota; e l'autore è, invece che il creatore, l'umile fornitore del canevaccio, dello schema-pretesto, su cui il comico verrà poi a ricamare le soggettive meraviglie della sua virtuosità. (p. 36)
  • [...] essendo l'attore italiano, forse più che i suoi confratelli di tutti gli altri paesi, altrettanto ricco di prodigiose doti naturali quanto scarso di vera intelligenza e privo di cultura, accade che il dominio della scena resti affidato unicamente al suo istrionismo e alla sua avidità dell'effetto e dell'applauso: coi quali debbon fare i conti tutti i disegni, tutti i tentativi, tutte le raffinatezze e le audacie del poeta. Quindi non è praticamente possibile attuare nessun rinnovamento nel nostro teatro, se prima non si attui il rinnovamento della mentalità di chi lo spadroneggia: ossia dell'attore. (p. 36)
  • Quello che Ermete Novelli – il quale ha pure avuto straordinarie qualità di mimo se non di interprete – esprimerebbe con larga smorfia, nel suo vivace gioco di tutti i muscoli facciali, Guitry lo esprime con un lieve socchiuder di palpebre, con una tenue contrazione delle labbra mobilissime. Egli ha, insieme con l'arte del dir semplice, l'arte di far intendere il non detto: l'arte della pausa. La sua controscena è sempre vigile; ma parca; e per questo d'una verità magnifica. (pp. 150-151)
  • Si è detto che Bourget è il più gran maestro del romanzo psicologico dopo Stendhal. Ma Stendhal era altro scrittore. Bourget è Bourget: non il sottile e raffinato casistico quale fu ritenuto per decennî, ché il fermo buon senso del suo cattolicismo positivista non gli consente poi sottigliezze estreme: sì lo studioso metodico e il disegnatore ordinato, che compone e rende, tratto per tratto, in un nitido rilievo di verità umane, figure come quella del marchese di Claviers-Grandchamp[5]. (pp. 153-154)
  • Abbiamo letto su un giornaletto teatrale un lamento sulla sorte della «povera» Maria Melato, che ci è parso il miglior elogio per lei. Maria Melato è sacrificata! Le hanno dato parti di secondaria importanza! La sciupano per rappresentar persone in cui la sua giovinezza sparisce, la sua voce non può cantare, la sua foga non può prorompere nella grande scena di rito, che avvince e attorce il pubblico! Abbiamo subito pensato: – Bravo Talli[6]; brava Maria Melato. – Perché quel che più di tutto apprezziamo in questa nostra attrice, più delle sue ricche tonalità più del suo stile doloroso, più della sua grazia pensosa, più della fissità de' suoi sguardi assorti, più della intensità delle sue attese, è la sua sete evidente di essere «una interprete». Che Dio la benedica per questa sete; e le dia quegli aiuti che ella cerca ed accetta sempre, con una umiltà pari al suo grande amore. (p. 165)
  • La pochade è un genere intraducibile. È roba fatta di spuma leggera, che si regge sul niente; panna montata. Chi, anche senza essere mai stato a Parigi, abbia letto in francese cotesti pasticci, nella edizione lucida da novantacinque centesimi, chi abbia udito per caso, in uno de' nostri teatri, qualcuna delle compagnie parigine che passano ogni tanto per qualche giorno dalle nostre parti, s'è bene accorto che il vuoto delle così dette pochades è tutto tenuto su da quel loro gergo rapido, da quel loro dialogo tutto tagli e scintillii, dalla stilizzazione di quella loro recitazione falsa, elegante e civettuola, a smorfie e a piccoli strilli. (p. 177)
  • Dina Galli non solo non è una interprete; ma non è nemmeno una vera attrice comica. Dina Galli è una pupattola straordinaria; è uno straordinario numero di caffè concerto. Come sogliono gli artisti di varietà (Viviani che fa lo scugnizzo, Cuttica che fa il coscritto, ecc.) anch'essa ha creato un suo unico tipo: quello della monella: che riserve in tutte le salse, in tutte le commedie che rappresenta. (p. 177)
  • Guai se la Galli si commuove o vuol commuovere. Essa non dispone che di alcune tipiche e sempre identiche smorfiette, con cui straluna il viso che non è un viso, ma una faccetta di bambola di biscuit, con due rossetti, un nasino all'insù, e due occhi enormi che paiono due uova al tegame. (p. 178)
  • In lei [Dina Galli] c'è una caricatura continua, e senza dubbio (quando le parti che sostiene son quelle della solita biricchina) gustosa; ma vera grazia non c'è, non c'è eleganza, non ci sono squisitezze. (p. 178)
  • [...] è risaputo che le Accademie sono, se non le produttrici, l'indice e le compagne del decadimento e del mal gusto. Fiorirono nella decadenza greca; imperversarono in quella latina; soffocarono, intristirono e isterilirono il nostro paese ne' suoi peggiori secoli. (p. 202)

Storia del teatro drammatico[modifica]

  • È ben vero che il carattere fondamentale di Eschilo è la sua religiosità. Soltanto – e il Prometeo incatenato n'è una riprova: non la sola – questa religiosità non coincide con l'ossequio alla religione ufficiale del tempo suo. Tanto vero che anche Eschilo, come molti spiriti più veramente e profondamente religiosi dei propri contemporanei, fu accusato d'empietà. (vol. I, parte prima, cap. III, pp. 39-40)
  • La religiosità di Eschilo non è quella, antropomorfica e superstiziosa, dei Greci del tempo suo. Eschilo ha, della Divinità, un concetto indicibilmente più alto e più puro; tende al monoteismo. (vol. I, parte prima, cap. III, p. 40)
  • Negli eventi umani Eschilo scorge una forza misteriosa, che non è la Provvidenza cristiana (non è consolatrice, non è chiaroveggente), ma piuttosto una giustizia inesorabile, la quale raggiunge il colpevole, e lo castiga, in lui e nel suo sangue, cioè nei figli, e nei figli dei figli. Idea anche questa biblica; e strettamente connessa all'altra, che la colpa genera la colpa, e il sangue chiama sangue, sino alla totale espiazione. (vol. I, parte prima, cap. III, p. 40)
  • Nei suoi sei piccoli drammi, d'argomento edificante, Rosvita s'era proposta di imitare, quanto allo stile, Terenzio. Per fortuna, dice Anatole France ch'ebbe notoriamente un debole per lei, non vi riuscì. Invece d'un freddo ricalco, abbiamo un'attonita opera nuova. L'eleganza terenziana ha soltanto dato un certo garbo alla prosa ritmica latina della scrittrice, senza distruggere la sua liliale personalità. (vol. I, parte seconda, cap. I, p. 107)
  • Chi fece per primo entrare , non nel solo Teatro ma in genere nella Letteratura scandinava, il soffio della nuova cultura europea, fu Ludvig Holberg [...]. (vol. I, parte seconda, cap. I, p. 115)
  • Nell'arte di Holberg, o almeno nel suo teatro, c'è un residuo d'infantile, se non proprio di barbarico; s'avverte qua e là una mancanza di misura e di gusto, che lo lascia notevolmente lontano dagli agognati modelli e, nemmeno a dirlo, dal suo adorato Molière. (vol. I, parte seconda, cap. I, pp. 115-116)
  • Paese di confine fra due continenti, due civiltà, due religioni, ponte di passaggio dall'estrema Europa occidentale al Nordafrica musulmano, la Spagna partecipa di caratteri europei e africani. (vol. I, parte terza, cap. IV, p. 191)
  • [...] la storia del Melodramma metastasiano è, in fondo, la storia del supremo sforzo d'uno spirito mediocre, per arrivare a quei cieli della Tragedia che gli sono irrevocabilmente negati. (vol. I, parte terza, cap. IX, p. 279)
  • Il Metastasio non ci dette una grande tragedia, perché non era un grand'uomo; era un brav'uomo. Le tesi morali che ispirano tutta l'opera sua non furono frutto d'ipocrisia; anzi testimoniano un'aspirazione schietta. Ma ch'esse attingessero, nell'espressione del loro poeta, un valore anche lontanamente paragonabile a quello raggiunto dai tragici veri, è questione da non porsi nemmeno. (vol. I, parte terza, cap. IX, p. 279)
  • [David Garrick] Era fornito di gran talento, cultura sufficiente, straordinarie doti mimiche e vocali le quali gli consentivano l'imitazione dei tipi più vari non solo in natura ma anche in arte: di che si valse per combattere la sua battaglia servendosi (come Molière, ma su ben più larga scala) anche della parodia, cioè mettendo in caricatura, a teatro, la recitazione dei vecchi attori (uno de' quali, offeso, lo sfidò a duello, e lo ferì). (vol. I, parte terza, cap. XII, p. 314)
  • [Heinrich von Kleist] Ancora oggi, accanto alle critiche e riserve più recenti (Croce: poeta secondario, d'importanza soprattutto documentaria), il suo nome suscita innamorate apologie (Gundolf[7]: il solo tragico che la Germania abbia avuto). (vol. II, parte quarta, cap. I, p. 13)
  • Tutta l'opera del Kleist risente del suo spirito ultraindividualista, pregna com'è d'un indicibile orgoglio che non può adattarsi alla realtà nemica, e un morboso spasimo per quel mancato adattamento. (vol. II, parte quarta, cap. I, p. 13)
  • [Luigi Bellotti Bon] [...] stremato dalle imposte assunte per sé e per i suoi scritturati, non poté sostenere gli impegni presi, e in un'ora di scoramento si uccise: episodio di terrificante significato, che mostra lo Stato d'allora, non solo agnostico verso l'arte nazionale, ma addirittura suo nemico mortale, nel senso letterale di questo aggettivo. (vol. II, parte quarta, cap. XIII, p. 150)
  • [Benito Pérez Galdós] È il primo scrittore di Spagna che, con un'opera costante e metodica, prende posizione contro la reazione politica, spirituale e religiosa, facendosi campione di un Risorgimento della Spagna in senso liberale e, se non proprio anticattolico, anticlericale. (vol. II, parte quarta, cap. XVI, p. 183)
  • [...] l'antesignano del nuovo spettacolo teatrale fu, nel campo della scenografia, uno svizzero d'origine italiana, il ginevrino Adolphe Appia (1862-1928); che, movendo dallo sdegno sia per la banalità della scena realistica sia per la falsità della scena dipinta, lanciò le sue nuove teorie – austere, si disse, sino al calvinismo – sulla necessità di una scena ideale, a tre dimensioni, ridotta a uno schematismo di estrema suggestione, tale da invocare come suo necessario compimento la presenza della persona umana, soggetto del dramma. (vol. II, parte quarta, cap. XVI, p. 187)
  • Dilettante di tutte le esperienze estetiche e mondane, umanista che non conosce il greco, futurista, dadaista, surrealista, e a un certo momento perfino neocattolico, Cocteau ha fatto il ragazzaccio a spese dei classici, s'è divertito a spostare e a capovolgere tutte le posizioni della più venerabile tradizione. (vol. II, parte quinta, cap. III, p. 243)
  • [...] la moda recentissima è quella dell'angoscia esistenzialista: disperazione dell'umana esistenza ineluttabilmente schiava e vana. Vero è che «esistenzialismo» è vocabolo meglio ripetuto che inteso; o perlomeno inteso in sensi addirittura opposti, da quello cattolico di Gabriel Marcel a quello ateo di Jean-Paul Sartre. (vol. II, parte quinta, cap. III, p. 245)
  • Come tutte le scuole del primo Novecento, anche questa [L'Espressionismo] reagiva al naturalismo e al verismo fine-Ottocento; e precisamente a quelle forme che, in pittura, si erano chiamate Impressionismo. I pittori impressionisti s'erano proposti di trasportare sulla tela un pezzo di realtà, com'è; i pittori espressionisti vollero, al contrario, «far violenza alla natura»; non riprodurla com'è, ma foggiarla come l'artista vuole che sia. Le loro opere rappresentano le cose deformate da una preconcetta visione e interpretazione dell'artista. (vol. II, parte quinta, cap. VI, p. 291)
  • [Miguel de Unamuno] Singolarissimo spirito di mistico «moderno», riafferrandosi a suo modo alle sorgenti morali della razza, egli proclama la necessità della fede non in quanto essa si rivolge a una realtà trascendente, ma in quanto crea essa stessa il proprio oggetto, soddisfatta e beata unicamente di sé. (vol. II, parte quinta, cap. V, p. 280)
  • Forse, di Benelli, s'è detto e troppo bene e troppo male. La sua opera è intimamente sincera; l'eterno conflitto tra il Male e il Bene con cui egli si sente sempre, romanticamente, alle prese, veramente lo travaglia, lo affanna, lo fa soffrire. Ma è pure un fatto che la sua reale compiacenza di rappresentatore è nella pittura degli esseri lividi, rabbiosi, impegnati nel voler procurare una sensuale rivincita alla loro smaniosa impotenza; mentre la pittura del cosiddetto Bene gli svanisce e sfuma in un mare di parole astratte, che suonano desolatamente a vuoto. (vol. II, parte quinta, cap. VIII, p. 329)

Citazioni su Silvio D'Amico[modifica]

  • Noi dobbiamo a D'Amico, [...], lo sblocco di una certa involuzione, sblocco che è avvenuto con pubblicazioni, con la Rivista italiana del dramma con la fondazione dell'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica e con la Compagnia dell'Accademia. Dalla fondazione dell'accademia, prima scuola di Stato in Italia (che coincide, sì, con il fascismo, ma che sarebbe assurdo riconoscere come prodotto da una politica del fascismo) indubbiamente il teatro italiano trova un suo sblocco. (Paolo Grassi)

Note[modifica]

  1. Da Radiocorriere, Ricordo di Mario Pelosini, n. 29, p. 14, 16-22 luglio 1950, Rai edizioni
  2. Da Il tramonto del grande attore, Arnoldo Mondadori, Milano, 1929, p. 142.
  3. Citato in Il teatro di Luigi Pirandello, VII ristampa, Oscar Mondadori, gennaio 1976, introduzione, p. XXIII.
  4. Da Il teatro dei fantocci, Vallecchi Editore, Firenze, 1920, p. 50.
  5. Personaggio de L'Émigré (1908).
  6. Virgilio Talli (1858 – 1928), attore e regista teatrale italiano.
  7. Friedrich Gundolf (1880 – 1931), critico letterario tedesco.

Bibliografia[modifica]

Altri progetti[modifica]