Giuseppe Antonio Borgese

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Giuseppe Antonio Borgese (1882 – 1952), scrittore, giornalista e critico letterario italiano.

Citazioni di Giuseppe Antonio Borgese[modifica]

  • Alla Germania vittoriosa converrebbe una Russia nihilista, un'Inghilterra labourista, una Francia in mano di Caillaux e dei suoi simili (pensate bene: se i tedeschi fossero entrati a Parigi avrebbe sentito Caillaux il bisogno di fare una gita in America?), senza fortificazioni e senza leva triennale, un'Italia inerme, allegramente rivoltosa come era in giugno, magari sbocconcellata in corrusche repubblichette socialiste.[1]
  • Il tema più essenziale della letteratura italiana, finché essa si è mantenuta sui vertici, è quello del Giudice divino e della Vergine. [..] La letteratura e l'arte italiana sorsero da un ceppo religioso e di esso continuarono a nutrirsi. Protagonista fu il Pantocrator, il Cristo vincente della Divina Commedia e del Giudizio universale. Eroina fu la Paneghia, la tutta santa, la tutta pura, la Vergine amata.[2]
  • L'arte del D'Annunzio è un'avventura del nostro spirito, la più frusciante di sete, la più densa di profumi; di tutte la più sterile ed amara.[3]
  • Ogni disperazione è fascista.[4]
  • [Su Maia, Laus vitae di D'Annunzio] Scritta precipitosamente nel tempo, essa è vertiginosa nel ritmo... La esaltazione della sfrenata libertà individuale che è nel concetto si manifesta anche nella forma: la pindarica strofa di ventun versi, rapida come un galoppo serrato, rapinosa come un torrente, col suo battito violento imprime al poema una tale velocità che perfin le lunghissime enumerazioni e le quasi indiane verbosità rotolano come valanghe, e gli ottomilaquattrocento versi della Laude si slanciano verso la fine con la snellezza delle dieci strofe di un inno guerresco... Energiche, fresche, vibranti sono le parole... Diritto e fugace il periodo.[5]
  • [Su Maia, Laus vitae di D'Annunzio] [...] una Divina Commedia capovolta [...][6]
  • [A proposito de I fratelli Karamàzov] Vanno oltre il bello. Essi raggiungono la dignità del libro sacro.[7]

La vita e il libro[modifica]

  • [...] il Lipparini vive nell'atmosfera autentica e nativa della sua fantasia: atmosfera debole, ma non viziata, che nutre fiori diafani e di odore un po' sciapo, ma non fiori di carta che un profumiere abbia immersi in essenze. S'intende che il Lipparini è un parnassiano, ma forse il migliore di quanti in Italia abbiano aspirato a questo titolo, l'unico che si possa ricordare con onore quando si discorra di quel tipo d'arte cui Anatole France deve la sua rinomanza europea. (cap. III Narratori, pp. 168-169)
  • Questo buon sangue letterario, ma rinvigorito dal secolo, circola nell'arte di Giuseppe Lipparini. Escogitare il nuovo; almanaccare, poniamo caso, novelle stravaganti come un Hofmann[8] o un Poe gli parrebbe insolente. Ricama tranquillamente un angolo di quell'eterno arazzo dell'arte classica e classicheggiante, alzando di tanto in tanto gli occhi per sorprendere una movenza o per carpire un piccolo segreto di stile. Non ha cure politiche, né religiose né morali; non osa rifare la patria né redimere la plebe. Vuole raggiungere una bella forma armoniosa e schietta. (cap. III Narratori, p. 171)
  • [...] Capuana, che s'era tuffato nell'acqua del verismo senza subire la metamorfosi di Glauco, ha continuato a respirare ed a vivere anche quando quell'acqua fu tutta quanta svaporata. Egli non appartenne mai ad un sistema o ad una scuola; non fece mai sacrificio della sua personalità ad una fede o ad un metodo, ma si servì, con gioconda agilità, dei metodi e delle mode per compiacere al suo prepotente istinto narrativo. E, perìta la fede artistica dei suoi anni migliori, egli, l'artista, sopravvive, e ricanta, più che settuagenario, ancora un inno alla voluttà di creare, e immagina, racconta, scrive con una fecondità che quasi c'inebria e ci fa più cara la vita come ogni segno di energia senile. (cap. III Narratori, pp. 223-224)
  • Il verismo era divenuto la sostanza dell'anima di Verga; e, quando quella formula si sciolse, quando quell'edificio teorico intaccato da ogni genere di critica crollò, il Verga era già troppo innanzi negli anni per farsi una nuova fede ed era, d'altro canto, un temperamento troppo appassionato e profondo per procedere innanzi senza la certezza di un terreno compatto. Parlò sempre più raro e più fioco, trepidò sentendosi mancare il consenso dei tempi, tacque. (cap. III Narratori, p. 223)
  • Tutte le volte che la Prosperi ha tentato un urto di passioni, un conflitto drammatico, le è mancato un punto d'appoggio nella realtà su cui far leva. Ma c'è un umile, continuo, represso grido lirico, ed è la particolare bellezza della Paura di amare: il grido della vergine violata, dell'amante inebriata, della sposa che partorisce, della puerpera che muore; il gemito sordo di questo spirito su cui la materia prevale, e che nello strazio cui lo sottomette l'istinto trova appena tanto di forza e di libertà che le basti per ergersi verso il cielo deserto, domandando pietà. (cap. III Narratori, p. 248)

Le belle[modifica]

  • A Megara ci sono ancora i garofani sui balconi, e le donne portano gonne lunghe; sicché, se si scopre una caviglia, voi vedete letteralmente i giovani tremare. Ma questo accade di rado, perché vanno caute e sorvegliate; e si sorvegliano da sé; e, se piove, preferiscono rincasare con l'orlo della gonna schizzato di pillacchere che con le calze morse da sguardi caldi come baci. Poi, se ne vede poche per le strade; tranne le servette, e quelle, proprio di basso popolo, che vanno – ancora – con l'anfora sulla testa alla fontana. (La Siracusana, p. 9)
  • Non credo d'avere visto mai più una donna così bella. Non si vedeva nulla di lei tranne il viso. Le donne d'allora non erano come quelle d'ora, che somigliano a frutta ignude, fra il fogliame. Andavano celate in un dedalo di pizzi e di ricami, con sottane bianche inamidate, simili alla carta rigida e ornata che a quei tempi usava intorno ai bouquets di fiori, e sulle sottane una gran gonna a fiorami, a volanti, a falbalà, maestosa come una pagoda, e al petto il busto, armato, inespugnabile. (La Siracusana, pp. 13-14)
  • A modo loro le ragazze erano belle; Ignazia forse più di tutte; col corpetto attillato bianco e nero come piuma di rondine. con gli orecchini lunghi di filigrana d'argento, e quei due baci o morsi in cima alle gote in forma di due ciliege stampate lì. (Ignazia, p. 19)
  • Una donna quasi sempre sa credere di essere amata per se stessa; ma un uomo, con le donne che lo scelgono, non sa che cosa valga lui e che cosa valga il suo denaro, o il suo nome, o la sua nomea mondana. (L'amore, p. 37)
  • Calùmi, solo solo, pensava che il bene e il male sono cuciti a filo doppio e che niente è tanto difficile come fare il bene senza ferire chi lo riceve, o gli altri, e alla fin fine se stessi. Bisognerebbe non eccedere mai; sorvegliarsi sempre; essere economi col cuore; gelosi. E lui, così corretto, passeggiando e meditando, si sorprendeva a grattarsi la barbetta bionda, acuta. (L'olio, p. 96)
  • Poi gli anni furono veloci, i primi anni in discesa, quelli che della gioventù hanno ancora la foga, ma è una corsa di abbandono. Il primo tratto si fa di corsa, quasi volentieri, quasi con le forze accumulate salendo; ci si lascia dietro la cima, senza voltarsi a guardarla; più giù, si riprende il freno; comincia un'altra rampa, più lunga, più piana; ed è la vecchiaia. (Il vedovo, p. 104)
  • Ci sono cose della mia vita di cui non posso lodarmi; ma di questa non so pentirmi; non degli anni che vissi in un segreto delirio; e nemmeno del giorno in cui concordi, quasi all'improvviso, decidemmo di separarci. Con le mani nelle mani, ma diritti, e le persone l'una dall'altra tanto distanti quanto potevano essere, ci dicemmo addio; e sapevamo di volere così che il nostro amore non deperisse e rimanesse nel ricordo, perfetto: qualche cosa di eterno. (Hussàn-abà, p. 106)
  • Le parole di Annalìa erano rimaste nell'aria, e il cosiddetto «ruggito» del motore le faceva ricordare.
    – Una voce di donna sulla soglia del deserto ha un suono straordinariamente fresco. Come una fontana. Mette sete. (Il miraggio, p. 157)

Rubè[modifica]

Incipit[modifica]

La vita di Filippo Rubè prima dei trent'anni non era stata apparentemente diversa da quella di tanti giovani provinciali che calano a Roma con una laurea in legge, un baule di legno e alcune lettere di presentazione a deputati e uomini d'affari. Veramente egli aveva portato qualcos'altro del suo, segnatamente una logica da spaccare il capello in quattro, un fuoco oratorio che consumava l'argomentazione avversaria fino all'osso e una certa fiducia d'essere capace di grandi cose, postagli in cuore dal padre; il quale era segretario comunale a Calinni, e, conoscendo bene l'Eneide in latino e la vita di Napoleone in francese, giudicava che tutti, a cominciare da se medesimo, fossero intrusi in questo mondo fuorché i geni e gli eroi.

Citazioni[modifica]

  • Voialtri sapete benissimo quale vento soffi. Fino al maggio, fino al giugno si poteva supporre che l'entrata in guerra dell'Italia decidesse. Allora, in un anno o due, si sarebbe riparata la vecchia fabbrica del mondo. Ora non più. Ora è chiaro che il mondo brucerà finché ci sia da bruciare. Questa è l'età del fuoco. Poi verrà l'età della cenere. Soffia un vento di perdizione. Ma voialtri vi imbottite il nido nel fitto della foresta, sperando che il vento vi sdruccioli accanto e si faccia sentire quanto basta per dare un gradevole smarrimento d'altalena a chi dormicchia tra le piume. Fa tanto bene quando tuona e lampeggia star dietro una vetrata coperta di ricami cinquecento coi trafori che fanno ti vedo e non ti vedo. Dico sul serio. Vi ammiro. Il destino del genere umano è affidato a quei pochi che fra otto o dieci anni, quando questa consumazione sarà finita, avranno l'orgoglio di dire: io non c'ero. Ma non vada, signorina Mary, a fare l'infermiera. Lasci stare. Le cose si fanno o non si fanno. È meglio, infinitamente meglio non farle. Ma pensi che cosa sarebbe il mondo fra dieci anni se non ci fosse proprio nessuno con un po' di salute, di gioventù, di ragione. Oh! fate almeno che una bella donna non abbia toccato una piaga, che un uomo, un uomo solo, non abbia ucciso. (parte prima, cap. IV)

Studi di letterature moderne[modifica]

  • [...] egli [Pietro Metastasio], fra tutti gli scrittori italiani, non solo ebbe in vita tanta gloria quanta forse neppure il Marino[9], e favori di donne e di sovrani e giovinezza avventurosa seguita da vecchiaia placida e lauti agi, nei quali precorse alle grandezze di certi scrittori del secolo XIX così da spolpare tutto un buon patrimonio e poi farsene un altro e lasciare un'eredità di centotrentamila fiorini; ma anche dai posteri ebbe affettuosa simpatia e condono di quella troppa gloria ch'ebbe ai suoi tempi e che la critica per solito considera come un anticipo da sottrarre al credito dei poeti. La terza Roma[10] gli alzò, prima che a Dante, una statua: la quale, collocata nel cuore della città, fu poi trasferita altrove per far posto alle tranvie: destino lievemente canzonatorio, ma non tragico, su per giù come quello che incombe agli eroi dei suoi melodrammi. (cap. I, III, p. 29)
  • E se, dicendo che anche oggi Metastasio si legge con avidità da un capo all'altro, intendiamo dire che la sua abilità nel fabbricar letteratura commerciale fu anche più grande di quella di un Sue[11] o di un Alessandro Dumas padre, così grande e sicura nel distinguere ciò che piace alle intelligenze tarde e alle anime disoccupate che anche dopo un secolo e mezzo i suoi «prodotti» rilucono nuovi lampanti nel bazar della letteratura amena, allora certo la lode è meritata. E si può asserire senza errore che chi ha bisogno di una lettura volgare, di un ignavo passatempo – e non v'è alcuno che a momenti non ne abbia bisogno, quasi per distensione e rilassamento delle sue forze – troverà in Metastasio il fatto suo. (cap. I, III, p. 31)
  • E di tanti [dei poeti della scuola romana] solo uno sopravvive in ispirito e in corpo, Domenico Gnoli, che, dopo molteplici reincarnazioni in avventurosi pseudonimi, trovò la sua anima sotto le spoglie di Giulio Orsini, e la manifestò in alcune liriche, Orpheus, ch'ebbero clamorosa fortuna finché il pubblico poté udirvi il primo grido di una nuova energia poetica ricca d'avvenire, e poi furono messe un poco da parte quando non senza delusione si seppe che l'autore era a mezza via fra i sessanta e i settant'anni. Ma si tornerà a cercare in quel gramo libriccino quanto di più vivo abbia dato la poesia della nuova Italia dopo Pascoli e D'Annunzio. (cap. I, V, p. 47)

Una Sicilia senza aranci[modifica]

  • Sia fatta confessione plenaria, o quasi. Io non sono mai stato a Girgenti, io non ho mai salito l'Etna, io non sono mai stato a Selinunte, io non ho mai visto Erice, Monte San Giuliano, di cui mi raccontava abbaglianti meraviglie il mio professore d'Italiano al liceo, Ugo Antonio Amico, e di cui, anche recentemente, un giovane scrittore italiano, non siciliano, mi diceva che Capri non è nulla al confronto. Ultimo, e peggio di tutti per misurare l'abisso della mia ignoranza, io non sono mai stato a Segesta che è, si direbbe, alle porte di Palermo.
    Eppure a che servono questi elenchi? E che cosa sono quando le cose che esistono dentro la mente, dentro al cuore vi si sono stampate con un'orma la cui profondità, la cui stabilità non è paragonabile a nessun'altra? (Discorso sulla Sicilia (ai siciliani?), p. 93)
  • Essi, i miei connazionali, e soprattutto i miei corregionali, mi hanno aiutato un poco a farmi capire che cosa sono venuto a fare in America. Il primo impulso, la prima tentazione di uno di noi è di fuggire, imbarcandosi di nuovo sullo stesso piroscafo per tornare a casa. Il secondo stato d'animo consiste nel farsi una nicchia dentro questo mondo, nello starci a modo nostro ignorandolo: veri emigrati, anzi veri esuli, dalle facce lunghe, con una patina di tristezza che non si può dire, e che si riconosce anche su gente ch'è qui da trent'anni, e che magari ha fatto bene i suoi affari. Non credo che alcuna altra razza abbia conservato come la nostra questo carattere inibitivo, questa obiezione silenziosa.
    Io cerco, come alcuni hanno cercato, di giungere a un terzo stadio: non dico di divenire americano, ma di comprendere, cioè di prendere in me, questo mondo. Una conquista dell'America?, naturalmente, ritorno a ricordarmi di quelle indimenticabili parole di Goethe, che ho sempre nell'animo a questo e a molti altri propositi. "Qui, o in nessun luogo, è l'America". Qui, cioè dentro di noi. (I siciliani in America, pp. 125-126)
  • Un'isola non abbastanza isola: in questa contraddizione è contenuto il tema storico della Sicilia, la sua sostanza vitale.
    Lo stretto di Messina che la separa dal continente nel suo punto più angusto non raggiunge i quattro chilometri [...] Le montagne del suo nord-est sono esattamente analoghe a quelle che formano la catena parallela di Aspromonte in Calabria [...] Anche la separazione dall'Affrica, ben più vasta, ma non enorme (ottanta miglia), non ebbe carattere di stabilità [...]
    Questa vicenda e caratteristica geologica è l'abbozzo del destino umano della Sicilia, il suo nec tecum nec sine te vivere possum. (Sicilia, p. 129)
  • Goethe che visitò la Sicilia quando era più lontana che non sia l'India oggi, ed era ignota de visu anche ad archeologi d'avanguardia, anche allo stesso Winckelmann, Goethe ammirò incantato il monte Pellegrino su Palermo, «il più bel promontorio del mondo», e cercò arte e natura su strade ancora inospiti, su clivi inaccessi, disse una delle sue parole profetiche scrivendo che l'Italia senza la Sicilia non è un tutto. (Sicilia, pp. 140-141)
  • Meno che nazione, la Sicilia è più che regione; non un frammento d'Italia, ma sua integrazione e aumento. (Sicilia, p. 141)
  • Giacché tale è la caratteristica dell'arte di Luigi Pirandello: un realismo cinico. Non ch'egli sia incapace di pagine sottilmente e dolorosamente poetiche, ove vibri un umorismo di superiore qualità spirituale. (recensione di La vita nuda di Luigi Pirandello, p. 206)
  • Questo principalmente distingue lo scrittore dalla maggioranza dei suoi amici; ch'egli preferisce abitualmente l'ultimo libro, e la maggioranza degli amici trova sempre migliore il libro precedente. (Piccole confidenze di G.A. Borgese, p. 252)
  • Aspiro, per quando sia morto, a una lode: che in nessuna mia pagina è fatta propaganda per un sentimento abietto o malvagio. (Piccole confidenze di G.A. Borgese, p. 253)
  • Polizzano o petralese, il ragazzetto di montagna era comunque «regnicolo», uno del regno, che è poi la provincia, tutta l'isola, come la misura dai suoi fastigi il fanciullo nativo di quella che fu, e sempre è nel suo cuore, la metropoli coronata, caput mundi. Egli la chiama, con l'enfasi che le spetta, Palieimmu, il regnicolo non sa sollevarsi dal suo piatto Palermu. Più radicato delle varianti di pronunzia e lessico, dei diversi giri grammaticali e fraseologici, è il contrasto dei toni. Petralese o polizzano, l'accento regnicolo, udito nella città regnante, suona rallentato, arcaico; non sale a quella veemenza del parlar palermitano, unica, che anche se i più fidi amici si fermano sul marciapiede a dialogare, ti pare siano lì lì per venire alle mani. (Accenti, p. 266)
  • L'accento: quest'aura del discorso, odore, si direbbe, della frase, ritmo che il metronomo non scandisce, diagramma sul cui andirivieni fluttua l'inafferrabile. Altrimenti detto intonazione; musica d'intervalli così brevi che nessuna notazione li trascrive; eppure è quella che è e non altra, e può essere erronea anche quando ogni altra cosa, pronunzia, vocabolario, sintassi, è a posto. Copiarla quando non s'è più fanciulli è da commedianti, al più da attori. (Accenti, p. 267)
  • Questa delle pronunzie e accenti può essere una faccenda fatale come fu ai francesi del Vespro che non sapevano dir cece e per inadempienza fonetica caddero trafitti, o com'era già stata agli Eframiti che per dire sibboleth invece di scibboleth furono strangolati ai guadi del Giordano. (Accenti, p. 269)
  • Lei dice "chiunque intenda quella stessa lingua", "le parole sono segni di cose", e invece non vivono due persone che parlino la stessa lingua, né ci sono due momenti in cui una parola individui la stessa cosa, παντα ρει. […] la lingua della poesia e della vita non è né una lingua morta, né una lingua concettuale – sostituibile vale a dire, con un complesso di segni grafici senza suono […]. Il significato emozionale della parola varia da uomo a uomo, ed ogni sillaba è colorata dal tono del suo spirito (Lettera a Giovanni Alfredo Cesareo, p. 318)
  • Come ancor oggi Palermo è per i viaggiatori italiani città più lontana di Parigi e Londra, così la sua vita di un secolo fa è meno simpatica al nostro spirito – dico simpatica nel senso profondo della parola – di quella che oggi si vive in America o in Giappone. E fors'anco è più affinità fra noi e i siciliani dell'epoca sveva, anzi che fra gli italiani d'oggi e i palermitani del regno di Ferdinando I. […] Eppure, sullo scorcio del secolo XVIII, la Sicilia era più remota da ogni sentimento d'italianità che non fosse, starei per dire, ai tempi di Federico II. Patria, razza, mondo era l'isola delle tre punte, l'isola che fu creata dalla testa di Giove, mentre l'Italia non era che una gamba della divinità secondo l'apologo del Meli. Matrigna chiama il Meli la lingua italiana, in antitesi alla siciliana madre. […] Certo in altre province d'Italia non si dormiva così grosso; e la prova ne è che la Rivoluzione le toccò tutte, fuorché la Sicilia, e che la Sicilia rimase fino a Waterloo l'unico sicuro asilo dell'ancien régime in Italia. (recensione a Palermo avanti la rivoluzione del 12 febbraio 1905, p. 371)

Citazioni su Giuseppe Antonio Borgese[modifica]

  • La discussione sul fascismo mai morto non è cominciata avantieri, ma dura da quando Mussolini è stato appeso a Piazzale Loreto. Nel suo Golia, tradotto in Italia nel 1946, Giuseppe Antonio Borgese volle dare un messaggio chiaro: il fascismo è caduto, ma dipenderà da noi la sua definitiva scomparsa. (Luciano Canfora)
  • Se Borgese mi nega ogni valore | ho un amor di vicina che mi apprezza || È orfana di madre, è un po' sfacciata, | va in visibilio per un mio sonetto. (Ugo Ricci)
  • [...] ricordando una frase che è nella voce «letterati» del dizionario di Voltaire – «la più grande sventura dell'uomo di lettere forse non è quella di essere oggetto della gelosia dei colleghi, vittima dell'intrigo, disprezzato dai potenti; ma quella di essere giudicato dagli imbecilli» – possiamo aggiungere, ricordando questa frase, che Borgese ebbe, davvero in questo senso, «tutto»: tanti altri scrittori lo invidiarono, qualche intrigo fu ordito a suo danno, qualche potente lo disprezzò al punto di volerlo perdonare. Ma soprattutto ebbe quella che, secondo Voltaire, è la sventura maggiore: che molti imbecilli lo giudicarono e forse ancora, senza conoscerlo, continuano a giudicarlo. (Nota di Leonardo Sciascia a Le belle, p. 176)

Note[modifica]

  1. Da Italia e Germania, Fratelli Treves Editori, Milano, 1919, Parte prima, pp. 72-73.
  2. Da Il senso della letteratura italiana, F.lli Treves, 1931.
  3. Citato in I classici italiani nella storia della critica, opera diretta da Walter Binni, vol. II, da Vico a D'Annunzio, La Nuova Italia, Firenze, 1974, p. 690.
  4. Citato in Francesco Merlo, Il "Golia" di Giuseppe Antonio Borgese: il fascismo e la disperazione, Repubblica.it, 22 ottobre 2022.
  5. Da Gabriele D'annunzio, Napoli, 1909; citato in De Marchi e Palanza, Protagonisti della civiltà letteraria nella critica, Antologia della critica Letteraria dalle Origini ai nostri giorni, Casa Editrice Federico & Ardia, Napoli, 1974, pp. 702-703.
  6. Citato in I classici italiani nella storia della critica, opera diretta da Walter Binni, vol. II, da Vico a D'Annunzio, La Nuova Italia, Firenze, 1974, p. 690.
  7. Citato in Igor Sibaldi, Introduzione, in Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamàzov, Mondadori, Milano, 1994, p. XIV. ISBN 88-04-52723-4
  8. Ernst Theodor Amadeus Hoffmann.
  9. Giovan Battista Marino.
  10. Roma capitale dopo l'annessione al Regno d'Italia.
  11. Eugène Sue.

Bibliografia[modifica]

  • Giuseppe Antonio Borgese, La vita e il libro, Terza serie e conclusione, Fratelli Bocca editori, Milano-Roma, 1913.
  • Giuseppe Antonio Borgese, Le belle (1927), Sellerio editore, Palermo, 1983, ISBN 88-389-0228-3
  • Giuseppe Antonio Borgese, Rubè, Mondadori, Milano, 1988.
  • Giuseppe Antonio Borgese, Studi di letterature moderne, Fratelli Treves editori, Milano, 1920.
  • Giuseppe Antonio Borgese, Una Sicilia senza aranci, a cura di Ivan Pupo, Avagliano Editore, Roma, 2005, ISBN 88-8309-179-5

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