Andrea Giani
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Andrea Giani (1970 – vivente), allenatore di pallavolo ed ex pallavolista italiano.
Citazioni di Andrea Giani
[modifica]Citazioni in ordine temporale.
- La pallavolo è un gioco di squadra. Io ho vinto tanto, ma certo non da solo.[1]
- A me in carriera è capitato di trovarmi a dare una mano ai miei tecnici. Anche in Nazionale ci sono stati momenti in cui ci siamo allenati male e noi giocatori, in campo, abbiamo risolto i problemi. [...] Le fortune degli allenatori le fanno i giocatori. Lo sapevo quando giocavo, lo trovo ancor più vero oggi [da allenatore].[2]
- Al di là delle partite vinte, vorrei vedere i miei uomini in campo giocare bene: mi interessa soprattutto riuscire a mettere in pratica una buona pallavolo. Prediligo lo spettacolo, viene prima di tutto.[3]
- [«L'allenatore Andrea Giani è diverso dal giocatore trascinatore che ha vinto tanto?»] Sono due modi di vivere la pallavolo completamente differenti. Da giocatore l'approccio all'allenamento e quello alle partite era vissuto in maniera del tutto diversa: più lucido, freddo, determinato e distaccato. Stare in campo dà emozioni forti. Da quando faccio l'allenatore sto scoprendo, poco alla volta, stimoli diversi. Il tecnico non ha tempi morti e per ottenere dei risultati deve adattarsi e studiare le varie situazioni.[3]
- [...] sono dell'idea che allenare è molto diverso rispetto a giocare, la forma di crescita non è tecnica: un giocatore cresce tecnicamente, un allenatore invece deve trovare soluzioni diverse e lo fa studiando, perché proprio le tempistiche sono diverse. Un giocatore pensa alla pallavolo forse quattro ore al giorno, un allenatore ci pensa dalla mattina alla sera. Realmente è così, bisogna riflettere, pensare, studiare, aggiornarsi, un consumo di molte energie, perché non è solo la capacità di quello che sai, perché devi studiare e pensare [...][4]
- [...] quando migliori e vinci con il gioco, con quelle cose con cui lavori tutti i giorni, su cui gli ho rompo le palle tutti i giorni... Questo come allenatore mi emoziona, perché è una squadra che ha sviluppato il gioco, è una squadra che trova soluzioni nei momenti difficili, che è abituata a stare in situazioni difficili e a vincere.[5]
- [Sulla differenza tra vincere da giocatore e da allenatore] Il giocatore è quello che attacca, mura, batte, difende, che alla fine vince e perde, quello che all'inizio della partita, le due ore prima della partita, sente la pressione, il peso del risultato, il peso della performance. L'allenatore non è così, deve aver fatto bene una pianificazione, deve aver fatto bene un lavoro per portare i giocatori a livello. Dopo la partita fai i cambi, chiami i time out, ma non sei tu il protagonista della partita. Questa è la differenza.[5]
Intervista di Aurora Puccio, auroracoaching.it, 12 aprile 2018.
- Essere consapevoli della propria forza è importante. Allo stesso tempo devi sapere che senza il sacrificio i risultati non li raggiungi perché lo scenario che si crea è questo: gli avversari sanno che tu sei la squadra più forte, da battere e con giocatori importanti. La tendenza sarà di allenarsi al massimo per colmare il divario tecnico. Questo pensiero li porta a spingere su ogni palla.
- Si costruisce una squadra nella parte tecnica e fisica, va bene. Ma cos'è che genera il miglioramento? Il fatto di spingere il gesto al massimo, perché se mi alleno, ad esempio ad attaccare al 70%, in partita poi con la tensione sono portato a esprimere il gesto al 100%. Il controllo però è diverso. È chiaro che incide anche la stanchezza o se hai fatto un certo tipo di lavoro in palestra la mattina. Quello che conta è il principio: spingere al massimo il gesto tecnico. Compito dell'allenatore è creare i presupposti per applicarlo. Non può essere tutti i giorni così ma, come atteggiamento, devi portare i tuoi atleti a spingere. Poi c'è un altro fattore determinante che fa in modo che il giocatore ti segua. Se tu lo porti a spingere e non vede miglioramenti significa che c'è qualcosa che non va nel tuo metodo. Non stai usando con lui gli strumenti giusti. A lungo andare il giocatore perde prima fiducia in se stesso e poi in te.
- [«Sei passato da giocatore al ruolo di allenatore. Che difficoltà hai riscontrato [...]?»] Penso che il primo approccio sia quello di togliersi la maglia da giocatore perché se ti senti ancora in questo ruolo, vieni percepito come tale. Non va bene. Quando ti siedi in panchina e guardi la partita da questa posizione, dopo 30 anni passati in campo, sei veloce a comprendere il gioco, ma non è più sotto il tuo controllo. Ti rendi conto che tutta la tecnica serve a poco. Nel senso che contano altre competenze: la comunicazione, la capacità di capire il modo di trasmettere le tue informazioni in base alla persona che hai davanti. È un lavoro complesso che ti fa lavorare dodici ore al giorno. Un altro aspetto diverso sono i tempi. Il giocatore finito l'allenamento, smette di pensare alla pallavolo per dedicarsi ad altro. Tu non stacchi mai. Hai tanti aspetti su cui lavorare, dal rapporto con i dirigenti, alla programmazione degli allenamenti, allo studio della partita.
- [...] è la routine che ti porta dentro nel match. La mia cominciava quando entravo nello spogliatoio, poi mi vestivo sempre seguendo la stessa sequenza. Leggevo anche due pagine di un libro. Non è scaramanzia. Ma un metodo per attivare la concentrazione. Poi in partita c'è poco da fare devi essere sempre concentrato. Giochi bene o male non importa. Dico sempre ai miei atleti, che possono fare male una cosa ma devono fare bene altro. Devono avere voglia di stare in campo e devono impegnarsi. Tutto questo nasce da come tu li alleni. Quando questo atteggiamento di allenare i giocatori diventa automatico... dico che in partita l'allenatore conta zero. Perché tu li hai preparati alle situazioni che si troveranno in campo e a risolverle da soli. Le info che si danno ai giocatori devono essere poche perché il gioco è velocissimo. Ci sono allenatori che ti dicono tutto quello che devi fare e soffocano la loro creatività. La partita non è solo il risultato della tattica. Ma è frutto della capacità dei giocatori di risolvere le situazioni in modo autonomo. Tante volte gli faccio vedere anche il talento degli avversari perché uno deve riconoscerlo perché se no sarebbe tutto uguale e non è così. Una volta che fai capire che dall'altra parte c'è un talento ad esempio in recezione, cominci a lavorare sulla sua testa. Nonostante un muro strepitoso se l'avversario è un fenomeno e prende tutte le palle, non è un errore e lo devi accettare. Non per questo devi attaccare più forte perché al contrario, questo atteggiamento, ti porta a sbagliare.
- [«Cosa vi ha insegnato Julio Velasco?»] Ci ha insegnato l'obiettività. Lui sa tutto di tutto. Alle volte anche eccede. Ma quando lui ti parla e vede una cosa di te, te la dice profonda. Può essere anche negativa. Poi sta a te elaborarla.
Intervista di Roberto Zucca, volleynews.it, 5 luglio 2020.
- [Sulla Generazione di fenomeni] Modena aveva vinto le finali degli ultimi tre anni contro Parma. Il 1990 fu l'anno in cui la Maxicono ebbe la meglio. Negli anni precedenti, ciò che Modena e Parma vincevano a livello italiano ed europeo non si ripercuoteva in altrettante vittorie della nazionale. Da quel 1990, otto giocatori di quei due club diventarono consapevoli di aver raggiunto una maturità tecnica e di gioco tale per cui anche in azzurro si poteva fare quel salto di qualità avvenuto col club, con il quale in Coppa si era avuta la meglio sulle grandi squadre russe. Julio [Velasco] conosceva bene molti di loro e ha continuato a crescerli professionalmente anche per farli vincere con la nazionale italiana. Ecco, penso sia nato tutto da lì.
- Ho vissuto l'alto livello quando ero molto giovane e anche in maniera piuttosto incosciente. Non badavo ai premi, alle vittorie, al successo e a ciò che avrebbero scritto su di me. Mi interessava solo fare qualcosa che mi appassionava. Lavoravo per imporre la mia forza tutti i giorni. [«E come si fa in quei momenti lì a non perdere la testa?»] C'era una cultura che veniva dalle nostre famiglie e dalle società, che sicuramente era predominante ed era fatta di valori solidi. In più il lavoro quotidiano attorno a noi era svolto da persone preparate. Tutto ciò che scaturiva da quel momento fu gestito bene da tutti, senza mai perdere la direzione.
- La mia filosofia era quella dell'attaccante. Per me l'attacco è una parte importante. Poi c'erano il muro e la difesa che mi davano proprio gioia e mi stimolavano tanto. La battuta e la ricezione un po' meno, lo ammetto. Ma nel corso del tempo anche la battuta ebbe un suo percorso e una sua evoluzione. La spin la utilizzai nelle competizioni internazionali. Nel club usavo più la flot, non per una ragione dettata dagli allenatori. Il gioco è sempre stato una mia scelta personale.
- Andrea [Zorzi] è stato il mio fratello maggiore. Arrivai a Parma a 15 anni. Lui ne aveva 20. Fu una base che mi permise di avere una certa stabilità emotiva, anche perché era la prima volta che mi allontanavo da casa. Durante la finale dell'88 contro Modena, eravamo al bar e lui, prendendo il giornale in mano, mi disse: "Oh Giangio sei stato convocato in nazionale!". E io: "Ah sì?". Ecco, lo racconto spesso perché questo fa capire la misura di ciò che abbiamo condiviso, e per me è stato davvero importante.
- Mio papà ha un grandissimo pregio, ovvero non aver mai limitato le mie passioni sportive. Ho cominciato col canottaggio e in quel momento non mi disse mai nulla e non mi allenò mai, ma mi lasciò scegliere. Non avermi mai limitato è stata la mia grande fortuna. Anche caratterialmente.
Intervista di Paolo Grossi, gazzettadiparma.it, 23 settembre 2020.
- [«A Parma è rimasto [...] undici anni, dal 1985 al '96»] Quegli anni furono un periodo sportivo straordinario per Parma e averne fatto parte da protagonista mi dà ancora i brividi. C'erano quattro o cinque squadre in diversi sport che competevano a massimi livelli nazionali e a volte anche internazionali. Giocare, vincere e partecipare da spettatore alle vittorie degli altri è stato eccezionale. A Parma tutti praticavano, seguivano, parlavano di sport. Andavo nelle scuole con altri sportivi e insieme facevamo educazione ai ragazzi. Davvero una situazione unica.
- Io dico che un ciclo nasce sempre dalle idee e dalle qualità di dirigenti e allenatori. Il nostro ebbe inizio con Gianfranco Briani, segretario generale della Federazione, e Alexander Skiba. Poi si sono innestati i vari Velasco, Montali, Doug Beal, Bebeto, Prandi che già era un veterano. Una base straordinaria è così cresciuta a livello di prestazioni, di carisma e con noi è lievitata la popolarità del nostro sport.
- Gli allenatori sono educatori. Se ne hanno la capacità [...] trasmettono non solo nozioni tecnico-tattiche ma anche un modo di affrontare lo sport, di rapportarsi con gli altri. Ti costruiscono come persona sportiva.
- [...] a me la pallavolo ha dato la possibilità di svilupparmi nell'uomo che sono, di fare con costanza una cosa che mi piace fino a trasformarla in un lavoro. E divertirsi lavorando con quello che più ti piace è il massimo. A livello personale, da piccolo ho centrato quello che volevo fare e quella fiamma è sempre accesa. La passione è la stessa, gli stimoli sono ancora gli stessi. Lo sport ha improntato tutta la mia vita.
- Al di là che la pallavolo non è uno sport individuale, certi collegamenti umani sono fondamentali. Dietro le performance in un grande evento ci sono ore e ore nei palazzetti, negli spogliatoi, nelle camere d'albergo. È lì che nascono le amicizie, e senza quelle non sarebbero arrivati [...] i [...] risultati.
Citazioni su Andrea Giani
[modifica]- [Dopo il record di presenze con la nazionale, «ha battuto Giani che ne aveva collezionate 474...»] Considerando che la foto di Andrea era sul mio diario quando andavo a scuola, alle medie, direi che è una bella soddisfazione aver superato un simbolo come lui. (Eleonora Lo Bianco)
- Ho sempre avuto sinergia con le compagne di squadra, ma guai a togliermi la possibilità di cucire sulla maglia il numero 4. Il motivo? Era il numero che apparteneva ad Andrea Giani della Nazionale dei Fenomeni, il mio unico vero grande idolo al quale mi sono sempre ispirata. Una volta tornata a casa dopo aver vinto il mondiale lo incontrai e mi fece i complimenti, interrogandomi sulle sensazioni provate. Proprio lui, che di mondiali ne aveva vinti tre... (Manuela Leggeri)
- [Al termine delle semifinali play-off del campionato di Serie A1 1991-92 tra Parma e Gonzaga Milano] Lei, Giani, ora ha il ghiaccio sul ginocchio. I miei dirigenti invece se lo dovrebbero mettere in testa per non averla ingaggiata. (Silvio Berlusconi)
- Per me rappresenta lo sportivo per antonomasia, dotato di una qualità e di una mentalità sportive che raramente ho ritrovato in qualcun altro. (Claudio Galli)
Note
[modifica]- ↑ Dall'intervista di Carlo Gobbi, Giani (per ora) resta: «Io non mi arrendo», La Gazzetta dello Sport, 19 novembre 2008.
- ↑ Dall'intervista di Mario Salvini, Giani: «Pago anche per gli altri. Ma tornerò», La Gazzetta dello Sport, 17 dicembre 2008.
- ↑ a b Dall'intervista di Roberto Marcelletti, Giani e la sorpresa Roma "Lo spettacolo prima di tutto", repubblica.it, 22 novembre 2010.
- ↑ Da Andrea Giani, intervista al volley fatto persona, metropolitanmagazine.it, 17 marzo 2020.
- ↑ a b Dopo la vittoria del torneo maschile di pallavolo ai Giochi della XXXIII Olimpiade; citato in Luca Muzzioli, Olimpiadi: La battuta di Giani. "Ho vinto qualche ora prima di Velasco...", volleyball.it, 11 agosto 2024.
Voci correlate
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