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Giuseppe Garibaldi

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Giuseppe Garibaldi nel 1866

Giuseppe Garibaldi (1807 – 1882), generale, patriota e condottiero italiano.

Citazioni di Giuseppe Garibaldi

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  • Da giovinetto, dopo le ruine di Roma, nulla mi commosse quanto quegli scherzi naturali che vi gettano nell'animo un indescrivibile piacimento ed un'ammirazione somma, – e nella fortuna che io ebbi di veder tanta parte di mondo, confesso esser stato più colpito alla vista dello stretto di Messina che di qualunque altro.
    Stromboli, faro del Faro colle sue eruzioni eterne, visibile alla distanza di sessanta miglia, che stupisce d'ammirazione, di rispetto e di gratitudine il navigante battuto dalle tempeste, e che può alla sua vista cercar con sicurezza un rifugio, fuggendo alle terribili divoranti scogliere di Scilla.
    Il vulcano di Lipari, minore dello Stromboli, ma anch'esso fumaiuolo della terra, ed i vulcani Alicudi-Felicudi, Salina, alti come il primo, ma spenti; – ma piramidi stupende vomitate dall'igneo centro del nostro globo, al disopra d'Anfitrite. – Entrando nel Faro da maestro a sinistra, le magnifiche falde dell'Aspromonte, certamente fratello dell'Etna, e l'aprica costa di Reggio col piede nell'onda, a destra le bellissime colline della Trinacria, servendo di contrafforti al padre dei vulcani italiani il Mongibello [l'Etna], lo stretto abbellito da Reggio, da Messina, da centinaia di pittoreschi casolari e da quella stupenda vegetazione di aranci, olivi, e quanto può vantare l'agricoltura meridionale è veramente incantevole.
    Reggio promette un avvenire splendido, ma Messina è destinata certamente ad essere uno dei primi emporii del Mediterraneo.
    Il sorprendente fenomeno della Fata Morgana che dipinge (non ricordo bene) la città di Reggio o quella di Messina, od ambidue nelle cristalline onde dello Stretto, è unico tra i fenomeni del mondo.
    Infine, al giovine nauta italiano, amante della natura e delle sue bellezze, lo stretto di Messina veduto per la prima volta, fa un effetto magico ed egli lo rivede sempre con amore.[1]
  • Favorito dalla fortuna, io ebbi l'onore nei due mondi di combattere accanto ai primi soldati, ed ho potuto persuadermi che la pianta uomo nasce in Italia, non seconda a nessuno; ho potuto persuadermi che quegli stessi soldati che noi combattemmo nell'Italia meridionale, non indietreggeranno davanti ai più bellicosi, quando saranno raccolti sotto il glorioso vessillo emancipatore.[2]
  • Generosi della Lucania, crederei frodare lode al coraggio, al genio, all'abilità vostra se non attestassi pubblicamente la simpatia che vi debbo. Nell'opera che sì brevemente iniziaste, io trovo questo di segnalato; e cioè a circostanze pari niuno tentò così risolutamente nel passato pochi riusciranno sì bene in avvenire. Voi senza mezzi speciali, sotto giogo di ferro, osteggiati da miglia di manigoldi, con a fronte l'idra comunista, spiati, interdetti sin dentro al pensiero... Voi, così ridotti! Guardaste in faccia il nostro fiero destino – sorgeste – vi costituiste. Vi scrivo nella più viva parte del cuore, né oblierò mai la bravura, l'umanità, la solerzia vostra, o egregi lucani. Abbiate le mie lodi, come a distinti collaboratori nell'eccelso risorgimento d'Italia.[3]
  • Goffredo [Mameli], che io avevo trattenuto al mio fianco per la maggior parte di quel giorno siccome aiutante mio, mi chiese supplichevole di lasciarlo procedere avanti ove più ferveva la pugna, sembrandogli ingloriosa la posizione presso di me. Dopo pochi minuti egli mi ripassava accanto, trasportato gravemente ferito, ma radioso e brillante nel volto, fiero di aver potuto spargere il suo sangue per il suo Paese. Non scambiammo una parola. Ma gli occhi nostri s'intesero nell'affetto che ci legava da tanto tempo. Egli proseguiva come in un trionfo.[4]
  • Ho divorato il vostro Lucifero. L'opera grande! Voi avete scalzato l'idolo di tanti secoli e vi avete sostituito il vero. Se la metà degli italiani potessero leggerlo e comprenderlo, l'Italia avrebbe raggiunto il suo terzo periodo d'incivilimento umano. Sulla classica terra d'Archimede, voi avete sollevato un nuovo mondo. Coraggioso! All'avanguardia del progresso noi vi seguiremo; e possa seguirvi la nazione intera nella grand'opera di emancipazione morale da voi eroicamente iniziata. Accogliete un bacio fraterno dal vostro Correligionario.[5]
  • I clericali sono sudditi e militi di una potenza straniera, autorità mista ed universale, spirituale e politica, che comanda e non si lascia discutere, semina discordie e corrompe.[6]
  • Io sono cristiano, sono un buon cristiano, e parlo a dei buoni cristiani; io amo e venero la religione di Cristo, perché Gesù Cristo è venuto al mondo per sottrarre l'umanità alla servitù, che non è lo scopo per cui Dio l'ha creata. Ma il papa, il quale vuole che gli uomini siano schiavi, e chiede ai potenti della terra ceppi e catene per gli Italiani, il papa-re misconosce Cristo; misconosce la sua propria religione.[7]
  • Il prete è l'assassino dell'anima poiché in tutti i tempi egli ha fomentato l'ignoranza e perseguito la scienza.[6]
  • L'Internazionale è il sole dell'avvenire.[8]
  • In conseguenza io dichiaro, che trovandomi in piena ragione oggi, non voglio accettare in nessun tempo il ministero odioso, disprezzevole e scellerato d'un prete, che considero atroce nemico del genere umano e dell'Italia in particolare.[9]
  • Io domando ai rappresentanti della Nazione se, come uomo, potrò mai stringere la mano a colui [Camillo Benso, conte di Cavour] che mi ha reso straniero in Italia.[10]
  • Io non tollero all'Internazionale, come non tollero alla monarchia, le sue velleità antropofaghe. E così come manderei in galera chi studia tutta la vita il modo di estorcere la sussistenza agli affamati per pascere grassamente i vescovi, io vi manderei pure gli archimandriti della società in quistione, quando questi si ostinassero nei precetti: guerra al capitale; la proprietà è un furto; l'eredità è un altro furto, e via dicendo.[11]
  • Io son fatto per romper i coglioni a mezza umanità, e l'ho giurato; sì! ho giurato per Cristo! di consacrar la mia vita all'altrui perturbazione, e già qualcosa ho conseguito, ed è nulla a paragon di ciò che spero, se mi lasciano fare, o se non possono impedirmi il farlo.[12]
  • [Su Adelaide Cairoli] L'amore di madre non può nemmeno esser compreso dagli uomini. [...] Con donne simili una nazione non può morire.[13]
  • La Grecia ebbe i suoi Leonida, Roma antica i suoi Fabî, e l'Italia moderna i suoi Cairoli, colla differenza che con Leonida e Fabio gli eroi furono trecento: con Enrico Cairoli, essi furono Settanta, decisi di vincere o morire per la libertà italiana.[14]
  • La spada è un delitto, come la pena di morte è un abuso, come la conquista è una ingiuria. Facciamo nostri i frutti della terra dove nascemmo, per farne libero scambio con altri. Facciamo della guerra un anacronismo, e del lavoro un inno allo Eterno. Quando le campane e i cannoni saranno divenuti macchine produttrici, il dispotismo disarmato tornerà nell'ombra donde uscì, per la disperazione degli uomini, e l'alba della felicità biancheggierà l'orizzonte, per irradiar quindi l'orbe universo.[15]
  • [Ultime parole] Muoio col dolore di non vedere redente Trento e Trieste.[16]
  • Noi siamo giunti sulla terra di rifugio, e dobbiamo il miglior contegno ai generosi ospiti; così avremo meritata la considerazione che è dovuta alla disgrazia perseguitata.
    Da questo punto io svincolo da ogni obbligo i miei compagni, lasciandoli liberi di tornare alla vita privata. Ma rammento loro che l'Italia non deve rimanere nell'obbrobrio, e che meglio è morire che vivere schiavi dello straniero.[17]
  • Obbedisco.[18]
  • Occorre una nuova conquista! L' abolizione del privilegio elettorale. Così il progresso italiano ripiglierà quella marcia normale, tranquilla, sicura, feconda, che mena ad ogni culto e generale felicità, scopo d'ogni sodalizio civile: l'ordine della scienza, il pane del lavoro. Per avere, bisogna volere; bisogna insistere fino a scopo compiuto. Volemmo la nazionalità: l'abbiamo. Volemmo Roma: l'abbiamo. Vogliamo il suffragio universale: l'avremo.[19]
  • Per pessimo che sia il Governo italiano, ove non si presenti l'opportunità di facilmente rovesciarlo, credo meglio attenersi al gran concetto di Dante: "Fare l'Italia anche col diavolo".[20]
  • Proteggere gli animali contro la crudeltà degli uomini, dar loro da mangiare se hanno fame, da bere se hanno sete, correre in loro aiuto se estenuati da fatica o malattia, questa è la più bella virtù del forte verso il debole.[21]
  • Quando io, sulle coste Americane dell'oceano ho potuto dire a degli schiavi "Voi siete liberi", quello fu certamente il più bel momento della mia vita.
    E voi bianchi! Padroni e carnefici dello schiavo nero, voi!...Tenetevi i diamanti vostri, io non li curo. A me pirata, come m'avete chiamato, bastami d'aver messo termine ai vostri delitti e al servaggio de' vostri schiavi.[22]
  • Qui, o Signora, io sento battere colla stessa veemenza il mio cuore, come nel giorno, in cui sul monte del Pianto dei Romani, i vostri eroici figli faceanmi baluardo del loro corpo prezioso contro il piombo borbonico! [...] E Voi, donna di alti sensi e d'intelligenza squisita, volgete per un momento il vostro pensiero alle popolazioni liberate dai vostri martiri e dai loro eroici compagni. Chiedete ai cari vostri superstiti delle benedizioni, con cui quelle infelici salutavano ed accoglievano i loro liberatori! Ebbene, esse maledicono oggi coloro, che li sottrassero dal giogo di un dispotismo, che almeno non li condannava all'inedia per rigettarli sopra un dispotismo più orrido assai, più degradante e che li spinge a morire di fame. Ho la coscienza di non aver fatto male; nonostante, non rifarei oggi la via dell'Italia Meridionale, temendo di esservi preso a sassate da popoli che mi tengono complice della spregevole genia che disgraziatamente regge l'Italia e che seminò l'odio e lo squallore la dove noi avevamo gettato le fondamenta di un avvenire italiano, sognato dai buoni di tutte le generazioni e miracolosamente iniziato.[23]
  • Qui si decidono i destini dell'Italia. Una battaglia vinta sotto Capua ci darà nelle mani l'Italia.[24]
  • [A Nino Bixio nella battaglia di Calatafimi] Qui si fa l'Italia o si muore.[25]
  • Roma o morte![26]
  • Se non vi fosse storia romana, ove imparammo una patria comune, se giovane non avessi vagato tra le macerie del gigante delle grandezze terrestri, io non saprei di essere Italiano. E dove è, cosa è questa Italia senza Roma? Può forse esistere un animale senza cuore? o durare un cuore incancrenito?[27]
  • Solo al veder un uccellino con la zampa spezzata mi fa star male.[28]
  • Tempi borgiani.[29]
  • Tutti quelli che vengono dalle Provincie meridionali non parlano che di reazione, di Governo provvisorio a Melfi, e cose simili, e non capisco poi come si tema tanto di spaventare coll'armamento i potenti vicini; io non capisco, come, armandoci, mentre l'Europa intera si arma, noi ci metteremmo in istato di provocazione.[30]
  • Un piede è posto alfin sulle ridenti | sponde di Reggio, e di novella gloria | ornâr la fronte gli Argonauti. Invano | ci vieta il varco il despotismo! | Invano spesseggian folti incrociatori, e invano | oste nemica numerosa! Il dito | di Dio conduce la tirannicida | falange, ed oste, e baluardi, e troni | son rovesciati nella polve e riede | sulle ruine del delitto il Santo | dell'uom diritto e libertade. | E il cielo alla redenta Umanità sorride![31]
  • [A Rosalia Montmasson, che a Quarto gli chiede, unica donna, di essere imbarcata con i Mille] Venite dunque, se così vi piace, ma ricordatevi che vi esponete a grave rischio e pericolo e che io non posso rispondere di nulla.[32]

Clelia: il governo dei preti

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Come era bella la perla del Trastevere! Le treccie brune, foltissime; e gli occhi! il loro lampo colpiva come folgore chi ardiva affissarla. A sedici anni il suo portamento era maestoso come quello di una matrona antica. Oh! Raffaello in Clelia avrebbe trovato tutte le grazie dell'ideale sua fanciulla colla virile robustezza dell'omonima eroina[33] che si precipita nel Tevere per fuggire dal Campo di Porsenna.
Oh sì! era pur bella Clelia! E chi poteva contemplarla senza sentirsi ardere nell'anima la viva fiamma che usciva dalle sue luci?
Ma le Eminenze? Codeste serpi della città santa, i cui cagnotti con ogni più vile arte di corruzione cercavano pascolo alle libidine dei padroni, non sapevano forse che tale tesoro viveva nel recinto di Roma? Lo sapevano. E una fra l'altre agognava da qualche tempo a far sua quella bellezza che discendeva dai Vecchi Quiriti.[34]

Citazioni

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  • Tra le malizie gesuitiche dei tonsurati vi è pur quella di fingersi protettori delle belle arti e così hanno fatto che i maggiori ingegni d'Italia prendessero a soggetto dei loro capolavori le favole pretesche, consacrandole per tal guisa al rispetto ed all'ammirazione delle moltitudini. (cap. I; p. 43)
  • Nel 1849, al tempo del Governo degli uomini, io ho assistito a delle ricerche nei penetrali di quelle bolgie che si chiamano conventi e in ogni convento non mancavano mai gl'istromenti di tortura e l'ossario dei bambini. (cap. V; p. 12)
  • Il fenomeno della insaziabile tendenza pretina al solo godimento dei beni materiali è cosa a tutti nota, mentre pur tutti sanno egualmente che per il resto del mondo, cioè per chi non è prete, essi predicano e millantano i beni spirituali d'una vita avvenire colla gloria del Paradiso! (cap. VII; p. 16)
  • Agli stolti l'ignoranza e la miseria, per la maggior gloria di Dio; ai preti la crapula, ricchezze e lussuria, sempre per la maggiore gloria di Dio! (cap. VII; p. 16)
  • La seconda sorgente di ricchezze i preti la derivavano al capezzale degl'infermi ove padroni dei loro ultimi istanti, colle paure dell'Inferno e del Purgatorio da loro suscitate, carpivano legati e bene spesso l'intere eredità dei morenti a pregiudizio dei figli che riducevano senza pietà alla miseria. (cap. VII; pp. 16-17)
  • La confessione! quell'arma terribile del pretismo, elemento primo delle sue seduzioni, veicolo per cui esso giunge al conoscimento d'ogni cosa, spionaggio infernale ch'egli esercita massime sul sesso debole per il quale egli può signoreggiare ancora, benché disprezzato e maledetto, la maggior parte del sesso più forte! (cap. XIV; p. 30)
  • Giustizia! Santa parola, prostituita, derisa dai potenti della terra! (cap. XVII; p. 36)
  • L'Europa! Ove chi fatica muore dalla fame e gli oziosi nuotano nell'abbondanza e nella lussuria, ove poche famiglie signoreggiano le Nazioni e le mantengono in un perpetuo stato di guerra colle altisonanti parole di patriottismo, lealtà, onore della bandiera, gloria militare, ove una metà del popolo è schiava e l'altra metà fa giustizia, bastonando gli schiavi quando hanno l'ardire di lamentarsi!... (cap. XVII; p. 36)
  • Siccome l'ora della solenne vendetta della popolare giustizia non era sonata ancora, i preti se la cavarono con la sola paura. Essi ben temettero in quella spaventosa notte di veder rompere il capello a cui la giustizia di Dio tien sospesa la spada sterminatrice che reciderà il loro capo nefario: ma fu differito il castigo. Non, che la misura non sia colma, ma forse le colpe degli uomini meritano ancora quell'abbominevole flagello! (cap. XXII; p. 45)
  • Dacché nella famiglia umana, vi furono uomini che svestirono le forme umane per farsi impostori, cioè preti, dacché vi furono preti nel mondo, vi furono torture.
    Volendo costoro mantenere tutti gli uomini nell'ignoranza, quando emergeva alcuno che avesse ricevuto da Dio tanta intelligenza da capire le loro menzogne, quell'intelligente era da questi demoni torturato, acciò confessasse che la luce era tenebra, che l'Eterno, l'Infinito, l'Onnipotente, era un vecchio dalla barba bianca seduto sulle nubi; che una donna, madre d'un bellissimo maschio, era una vergine e che un pezzetto di pasta che voi inghiottivate era il creatore dei mondi che vi passava per le vie digestive, e poi e poi!!! (cap. XXII; p. 45)
  • Non si sa se più scellerati i preti e chi li sorregge o più stupido questo miserabile popolo che li soffre nel suo seno e non fulmina, non annienta questi istrumenti del suo servaggio, delle sue miserie e delle sue umiliazioni. (cap. XXII; p. 46)
  • Le statistiche assicurano essere gli omicidi in Roma più frequenti che in alcun'altra parte, e non può essere altrimenti coll'educazione corruttrice dei preti e la miseria prodotta dal loro infame governo. (cap. XXIII; p. 47)
  • Tolte le crudeltà commesse dai briganti assoldati dai preti, quella classe di gente, ha mostrato in questi ultimi tempi una tenacità ed una bravura degna di miglior causa; il che prova che gli stessi uomini sospinti dall'amor di patria e ben guidati sarebbero una barriera insuperabile contro qualunque invasione straniera. (cap. XXIII; p. 48)
  • La storia del Papato è storia di briganti. (cap. XXXII; p. 71)
  • Un altro fatto che attesta grandemente il progresso umano della nostr'età è l'avvicinamento dell'aristocrazia al popolo. (cap. XXXV; p. 77)
  • Chi negherà che le popolazioni dell'Italia meridionale non fossero migliori, perché meglio governate, nel 1860 che non lo sieno al giorno d'oggi? Allora, appena si sospettava il brigantaggio, e non v'erano prefetti, non gendarmi, non birri. Oggi all'incontro con quell'immensità di satelliti che minano le finanze dell'Italia, esiste nella parte meridionale della penisola l'anarchia, il brigantaggio e la miseria. Povere popolazioni! (cap. XXXVI; p. 80)
  • Dio vi si adora come si deve, col culto dell'anima, senza sfarzo, nel grandioso tempio della natura che ha il cielo per volta e gli astri per luminari. (cap. XLII, p. 94)
  • Odia i preti, come istituzione menzognera e nociva, ma il giorno in cui spoglino il lor carattere, malignamente buffone, e tornino uomini, egli è pronto ad accoglierli e perdonare i loro errori passati. (cap. XLII, p. 94)
  • Professa idee di tolleranza universale e vi si uniforma, ma i preti, come preti non li accetta perché egli non intende siano tollerati malfattori, ladri e assassini; e considera i preti quali assassini dell'anima, peggiori degli altri. (cap. XLII, p. 94)
  • Egli ha passato la sua vita colla speranza di vedere nobilitata la plebe e ne ha propugnato dovunque i diritti e sempre. Ma con rammarico confessa pure che egli è rimasto in parte deluso poiché il plebeo innalzato dalla fortuna a più alto stato, ha patteggiato col dispotismo ed è diventato peggiore forse del patrizio. (cap. XLII, p. 94)
  • Quando si pensa essere sì pochi che godono o per meglio dire monopolizzano i benefici della società incivilita e che tanti sono i sofferenti, non si può fare a meno di dubitare: se veramente la classe povera ritrae molto profitto dalla civiltà presente. (cap. XLVIII; p. 110)
  • La professione del prete è questa: godere e far credere alle moltitudini stupide ch'egli soffre di privazioni e di disagi. (cap. XLIX; p. 113)
  • [I preti] attizzano gli uni contro gli altri popoli a sbranarsi, trucidarsi, distruggersi e condannano senza pietà alle pene dell'inferno i novecento milioni d'esseri umani che non appartengono alla loro bottega. (cap. LII; p. 121)
  • Il prete che insegna Dio è un mentitore, poiché nulla egli sa di Dio.
    Egli, sacerdote dell'ignoranza, persecutore della sapienza, insegna Dio! Ma se Dio avesse voluto rivelarsi all'uomo lo avrebbe fatto ai Kepleri, ai Galilei, ai Newton, non a questi miserabili adoratori del ventre. (cap. LII; p. 121)
  • Il prete, sacerdote delle tenebre, colpito nelle sue miserie e nelle sue menzogne, trascinò il più grande degli italiani, Galileo, sull'altare dell'impostura, e con torture orribili volle fargli abiurare la grande dottrina del vero! Ed i preti passeggiano sulla terra di Galileo da padroni; e l'Italiano porge le impudiche sue labbra all'umiliante, vergognoso baciamano! (cap. LII; pp. 121-122)
  • La fratellanza umana è impossibile coi preti. (cap. LII; p. 122)
  • La maggior parte delle guerre, e le più sanguinose, furono, e sono fomentate dai preti. (cap. LII; p. 122)
  • Il Bonaparte, nemico di tutte le libertà, e protettore di tutti i tiranni, volle, come per saggio, provare le sue armi contro Roma, ove approdò sulle ali della menzogna e, consumato quel delitto di lesa-nazione, rovesciò i suoi inganni e i suoi satelliti sul credulo popolo di Parigi e ne fe' macello per le strade senza distinzione di età e di sesso. Dio rimeriti l'assassino del due dicembre e della libertà del mondo! (cap. LIII; p. 123)
  • «Morte ai preti!» – «Morte a nessuno!», gridava il solitario dall'alto del balcone alle moltitudini, rispondendo alla terribile loro esclamazione! Morte a nessuno!
    Eppure, chi è più meritevole di morte che la setta malvagia la quale ha fatto dell'Italia un Paese di morti, un cimitero? O Beccaria! le tue dottrine sono sante! io ripugno dal sangue! ma non so se l'Italia potrà liberarsi da' suoi tiranni dell'anima e del corpo senza distruggerne, senza annientarne sino l'ultimo rampollo! (cap. LVII; p. 132)
  • Tra le astuzie dei sardanapali pretini, ricchissimi com'eran, fu sempre mercé la stupidità dei fedeli, non ultima fu quella d'impiegare gli artisti più eminenti nell'illustrazione delle loro favole. Quindi i Michelangeli e i Raffaelli d'ogni età, furon da loro assoldati e il popolo anche persuaso della vanità delle proprie credenze, e dell'impostura dei leviti di Roma, rispetta ancora i simulacri della sua prostituzione, perché sono capi d'opera di molto pregio. Ma il primo capo d'opera d'un popolo non è la libertà? non è la dignità nazionale? E tutti quei portenti dell'arte, benché portenti, che gli rammentano il suo servaggio e la sua degradazione, oh!, non sarebbe meglio che ei li mandasse all'Inferno? (cap. LVII; p. 133)
  • Salve!, valoroso popolo del Messico! Oh!, io invidio la tua costanza e la tua bravura nella liberazione del tuo bel paese dai mercenari del dispotismo! Accettate, coraggiosi nipoti di Colombo, dai vostri fratelli d'Italia, un saluto alla vostra libertà redenta! (cap. LX; p. 141)
  • Oh! Roma!, patria dell'anima!, tu sei veramente la sola!, l'eterna! Al disopra d'ogni grandezza umana anche oggi... sotto qualunque degradazione! Il tuo risorgimento non può essere che una catastrofe da mettere a soqquadro il mondo! (cap. LX; p. 141)

Memorie

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  • Certo non provò tanta soddisfazione Colombo nella scoperta dell'America, come ne provai io al ritrovare chi s'occupasse della redenzione patria.
  • È sempre la storia di Socrate, di Cristo e di Colombo! Ed il mondo rimane sempre preda delle miserabili nullità che lo sanno ingannare.
  • Libertà non fallisce ai volenti.[35]
  • Se sorgesse una società del demonio, che combattesse despoti e preti, mi arruolerei nelle sue file.[36]
  • Siccome negli ultimi momenti della creatura umana, il prete, profittando dello stato spossato in cui si trova il moribondo, e della confusione che sovente vi succede, s'inoltra, e mettendo in opera ogni turpe stratagemma, propaga coll'impostura in cui è maestro, che il defunto compì, pentendosi delle sue credenze passate, ai doveri di cattolico: in conseguenza io dichiaro, che trovandomi in piena ragione oggi, non voglio accettare, in nessun tempo, il ministero odioso, disprezzevole e scellerato d'un prete, che considero atroce nemico del genere umano e dell'Italia in particolare. E che solo in stato di pazzia o di ben crassa ignoranza, io credo possa un individuo raccomandarsi ad un discendente di Torquemada.[37]

Memorie autobiografiche

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Io non devo dar principio a narrare della mia vita, senza far cenno de' miei buoni genitori, il di cui carattere ed amorevolezza tanto influirono sull'educazione mia e sulle disposizioni del mio fisico.

Citazioni

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  • L'ingresso nella grande capitale ha più del portentoso che della realtà. Accompagnato da pochi aiutanti, io passai framezzo alle truppe borboniche ancora padrone, le quali mi presentavano l'armi con più ossequio certamente, che non lo facevano in quei tempi ai loro generali.
    Il 7 settembre 1860! E chi dei figli di Partenope non ricorderà il gloriosissimo giorno? Il 7 settembre cadeva l'abborrita dinastia che un grande statista inglese avea chiamato «Maledizione di Dio!» e sorgeva sulle sue ruine la sovranità del popolo, che una sventurata fatalità fa sempre poco duratura.
    Il 7 settembre un figlio del popolo, accompagnato da pochi suoi amici che si chiamavano aiutanti, entrava nella superba capitale dal focoso destriero[38]acclamato e sorretto dai cinquecentomila abitatori, la cui fervida ed irresistibile volontà, paralizzando un esercito intiero, li spingeva alla demolizione d'una tirannide, all'emancipazione dei loro sacri diritti; quella scossa avrebbe potuto movere l'intiera Italia, e portarla sulla via del dovere, quel ruggito basterebbe a far mansueti i reggitori insolenti ed insaziabili, ed a rovesciarli nella polve!
    Eppure il plauso ed il contegno imponente del grande popolo valsero nel 7 settembre 1860 a mantenere innocuo l'esercito borbonico, padrone ancora dei forti e dei punti principali della città, da dove avrebbe potuto distruggerla. (da Ingresso in Napoli, 7 settembre 1860, pp. 380-381)
  • A Napoli, come in tutti i paesi percorsi dallo Stretto Di Messina, le popolazioni furono sublimi d'entusiasmo e d'amor patrio, ed il loro imponente contegno contribuì certo moltissimo a sì brillanti risultati.
    Altra circostanza ben favorevole alla causa nazionale fu il tacito consenso della marina militare borbonica, che avrebbe potuto, se intieramente ostile, ritardare molto il nostro progresso verso la capitale. E veramente i nostri piroscafi trasportavano liberamente i corpi dell'esercito meridionale lungo tutto il littorale napoletano, senza ostacoli; ciò che non avrebbero potuto eseguire con una marina assolutamente contraria. (da Ingresso in Napoli, 7 settembre 1860, p. 381)
  • In Napoli più che a Palermo aveva il cavourismo lavorato indefessamente, e vi trovai non pochi ostacoli. Corroborato poi dalla notizia che l'esercito sardo invadeva lo Stato pontificio, esso diventava insolente. Quel partito, basato sulla corruzione, nulla avea lasciato d'intentato. Esso s'era prima lusingato di fermarci al di là dello stretto, e circoscrivere l'azione nostra alla sola Sicilia. Perciò avea chiamato in sussidio il magnanimo padrone, e già un vascello della marina militare francese era comparso nel Faro; ma ci valse immensamente il veto di lord John Russel che in nome d'Albione imponeva al sire di Francia di non immischiarsi nelle cose nostre.
    Quello che più mi urtava nei maneggi di cotesto partito era di trovare le traccie in certi individui che mi erano cari, e di cui mai avrei dubitato. Gli uomini incorruttibili erano dominati con l'ipocrita ma terribile pretesto della necessità! La necessità d'esser codardi! La necessità di ravvolgersi nel fango davanti ad un simulacro d'effimera potenza, e non sentire, e non capire la robusta, imponente, maschia volontà d'un popolo che, volendo essere ad ogni costo, si dispone a frangere cotesti simulacri e disperderli nel letamaio donde scaturirono.
    Cotesto partito, composto di compri giornali, di grassi proconsoli e di parassiti d'ogni genere, sempre pronto a servire, con ogni specie d'abbassamento e di prostituzione, chi lo paga, e pronto sempre a tradire il padrone quando questi minaccia di crollare, quel partito, dico, mi fa l'effetto dei vermi sul cadavere: il loro numero ne segna il grado di putridume! In ragion diretta del numero di questi vermi, si può valutare la corruzione d'un popolo. Io ebbi a soffrire delle mortificazioni da quei signori che la facevan da protettori dopo le nostre vittorie e che ci avrebbero dato il calcio dell'asino, come lo diedero a Francesco II, se si fosse stati sconfitti, le quali mortificazioni io certo non avrei tollerato, se si fosse d'altro trattato che della causa santa dell'Italia. (da Ingresso in Napoli, 7 settembre 1860, p. 382)
  • I pochi giorni passati in Napoli, dopo l'accoglienza gentile fattami da quel popolo generoso, furono piuttosto di nausea, appunto per le mene e sollecitudini di quei tali cagnotti delle monarchie, che altro non sono in sostanza che sacerdoti del ventre. Aspiranti immorali e ridicoli, che usarono i più ignobili espedienti per rovesciare quel povero diavolo di Franceschiello, colpevole solo d'esser nato sui gradini d'un trono, e per sostituirlo del modo che tutti sanno.
    Tutti sanno le trame d'una tentata insurrezione, che doveva aver luogo prima dell'arrivo dei Mille per toglier loro il merito di cacciar il Borbone, e farsene poi belli costoro presso l'Italia, con poca fatica e merito. Ciò poteva benissimo eseguirsi se coi grossi stipendi la monarchia sapesse infondere ne' suoi agenti un po' più di coraggio, e meno amor della pelle.
    Non ebbero il coraggio d'una rivoluzione i fautori sabaudi, ed era allora tanto facile di edificare sulle fondamenta altrui, maestri come sono in tali appropriazioni; ma ne ebbero molto per intrigare, tramare, sovvertire l'ordine pubblico, e mentre nulla avean contribuito alla gloriosa spedizione, quando poco rimaneva da fare ed era divenuto il compimento facile, la smargiassavano da protettori ed alleati nostri, sbarcando truppe dell'esercito sardo in Napoli (per assicurare la gran preda, s'intende), e giunsero al punto di protezionismo da inviarci due compagnie dello stesso esercito il giorno dopo la battaglia del Volturno, il 2 ottobre.
    Sempre il calcio dell'asino! (da Ingresso in Napoli, 7 settembre 1860, p. 383)
  • Trattavasi di rovesciare una monarchia per sostituirla, senza volontà o capacità di far meglio per quei poveri popoli, ed era bello veder quei magnati di tutti i dispotismi usar ogni specie di malefica influenza, corrompendo l'esercito, la marina, la corte, i ministri, servendosi di tutti i mezzi più subdoli per ottenere l'intento indecoroso.
    Sì, era bello il barcamenare di tutti cotesti satelliti, che si atteggiavano ad alleati del re di Napoli, consigliandolo, cercando di condurlo a trattative fraterne ed attorniandolo d'insidie e di tradimenti. E se non avessero tanto temuto per la loro brutta pelle, essi potevano presentarsi all'Italia come liberatori.
    Che bel risultato se potevano far restare con tanto di naso i Mille e tutta la democrazia italiana. Ma sì! Sono i bocconi fatti che piacciono a cotesti liberatori dell'Italia a grandi livree. (da Ingresso in Napoli, 7 settembre 1860, p. 384)

Scritti politici e militari, ricordi e pensieri inediti

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  • Tra le qualità che devono primeggiare negli ufficiali dell'esercito Italiano, oltre il valore, deve contarsi l'amabilità, che attrae e vincola l'affetto del soldato. (Alcune parole agli ufficiali e militi dell'esercito, Messina, 6 agosto 1860; p. 170)
  • Il valore è sempre accompagnato dalla generosità. Il valoroso soldato Italiano dev'essere magnanimo con tutti, e massime colle popolazioni tra cui soggiorna, e tra le quali transita. (Alcune parole agli ufficiali e militi dell'esercito, Messina, 6 agosto 1860; p. 170)
  • Il De Flotte appartiene all'Umanità intera, poiché per lui, la patria era colà dove il popolo sofferente si moveva per la libertà. De Flotte morto per l'Italia, ha combattuto per lei, come avrebbe combattuto per la Francia. (Ai miei compagni d'arme, 24 agosto 1860; p. 176)
  • In Europa la grande maggioranza, non solo delle intelligenze, ma degli uomini di buon senso, comprende perfettamente che potremmo pur passare la povera nostra vita senza questo perpetuo stato di minaccia e di ostilità degli uni contro gli altri, e senza questa necessità, che sembra fatalmente imposta ai popoli da qualche nemico segreto ed invisibile dell'Umanità, di ucciderci con tanta scienza e raffinatezza. (Alle Potenze d'Europa, Memorandum; pp. 205-206)
  • [Le scuole] [...] torrebbero alla miseria ed alla ignoranza tante povere creature che in tutti i paesi del mondo, qualunque sia il loro grado di civiltà, sono condannate dall'egoismo del calcolo, e dalla cattiva amministrazione delle classi privilegiate e potenti, all'abbrutimento, alla prostituzione dell'anima e della materia. (Alle Potenze d'Europa, Memorandum; p. 206)
  • I rappresentanti delle associazioni operaie italiane si sono presentati a me, in questa solitudine per offrirmi un cenno di simpatia a nome del ceto robusto e laborioso del popolo. Evento più grato al mio cuore non poteva aspettarmi, perché io conto sempre sull'incallita destra degli uomini della mia condizione, [cioè i contadini] per la redenzione sacrosanta di questa terra, e non sulle false promesse dei raggiratori politici. (Ai deputati delle Associazioni operaie italiane, Caprera, 30 marzo 1861; p. 213)
  • Cristo gettò le basi dell'uguaglianza tra gli uomini e tra i popoli e noi dobbiamo essere buoni cristiani. Ma noi faremmo un sacrilegio, se durassimo nella religione dei preti di Roma. Essi sono i più fieri e i più temibili nemici dell'Italia.
    Dunque fuori dalla nostra terra quella setta contagiosa e perversa. I nostri preti li vogliamo cristiani sì, ma non della religione dei nostri nemici. (Alla Società Operaia Napoletana, Maiatico (presso Parma) 28 aprile 1861; p. 221)
  • Avvicinino i potenti della terra il povero popolo, ch'è pur di carne e d'ossa come loro; lo consolino, lo educhino, lo sollevino; e allora sparirà nella società umana quell'abisso immenso che divide il povero dal ricco, che li fa nemici, e che fa al bracciante in molti Paesi dell'Europa desiderare lo sfacelo della cosa pubblica, la proscrizione dei padroni, unico mezzo per poter ottenere un miglioramento in questo mondo, per lui di miserie e d'afflizioni. (Alle donne italiane, Caprera, 8 maggio 1861; p. 225)
  • Sì, le nazioni vogliono intendersi, e vogliono la fratellanza di tutti; i despoti non la vogliono. Legge sacra, irrevocabile emanazione divina del Cristo, essa è nella coscienza di tutto il mondo: essa è in cima delle aspirazioni delle razze soffrenti; e l'ipocrito egoismo delle false grandezze mondane la soffoca sotto la sua cappa di piombo e suscita colla menzogna e la corruzione tutti gli ostacoli che si oppongono al suo compimento.
    Noi domandiamo lavoro, pane e l'amore scambievole.
    Ci si risponde: fucili di precisione, bombe e vascelli corazzati, come se la distruzione fosse il miglior modo d'intenderci. Costanza nondimeno, miei cari amici. È un fatto che l'Europa non presentò mai il sublime spettacolo dell'umano ravvicinamento che essa presenta oggi. Un grido di dolore in qualunque degli angoli di questa vecchia padrona del mondo rimbombò nel cuore delle masse e la loro onnipotente voce di riprovazione fa impallidire il barbaro autocrate. (Agli operai della Francia, Caprera, 1° ottobre 1861; p. 235)
  • Il dispotismo sorregge la logora sua esistenza colla discordia dei popoli. Uniamoci tutti in nome di Dio! Ed il mostro nutrito di sangue umano rovescierà nell'abisso per non più risorgere. (Ai Romani, Torino, 20 marzo 1862; p. 256)
  • Sì! Se i nostri padri eressero il campanile di Giotto e la cupola di Brunelleschi, noi aiutati dalla concordia del pensiero e delle opere, possiamo lasciare ai nostri figli un monumento anche più splendido e sontuoso: una Italia libera e forte. (All'Associazione degli operai — Bergamo, Trescore, 7 maggio 1882; p. 264)
  • È tempo che tutti i popoli si preparino alle supreme battaglie.
    Su dunque; voi pure stringetevi [popoli slavi] in un popolo solo, dimenticate odi, discordie, pregiudizi di religione e di razza. E accoglietevi in un solo pensiero di vendetta e libertà, e fate impeto irresistibile contro i vostri oppressori. Non prestate ascolto alle mendaci promesse della diplomazia; diffidate de' suoi artifici, delle sue scaltrezze. Vi tradì, vi vendette cento volte; se la soffrite, vi tradirà e vi venderà ancora. Fidate soltanto nel vostro valore, nelle vostre armi, nella vostra concordia, e fidate nei popoli che, come voi, vogliono la libertà e combattono per ottenerla. Tutte le nazioni sono sorelle; esse non hanno cupidigie, ambizioni liberticide; ciascuno vuole la sua parte di terra e di sole; ciascuna aiuterà le altre a ottenerla.
    È dovere dei popoli liberi, e che vogliono essere tali, di accorrere dovunque si combatte per i diritti delle nazioni, dovunque s'innalza la bandiera della libertà. [...] La causa della libertà è una sola, qualunque sia il nemico che la combatta, qualunque il popolo che la difende, qualunque sia il colore della bandiera sotto cui si schierano gli eserciti. Quando tutti i popoli abbiano intesa questa verità, che la storia e l'esperienza dovrebbe ormai aver loro insegnata, quando pratichiamo davvero questa santa legge di fratellanza e di comune difesa, il regno del dispotismo sarà finito per sempre sulla terra. (Alle genti slave sotto la dominazione austriaca e ottomana, Palermo, 23 luglio 1862; pp. 274-275)
  • Ascoltereste chi [...] vi lusinga della folle speranza di compiere il vostro riscatto cogli espedienti della legalità, ormai provati insufficienti a redimere i popoli, o peggio, vi esorta di aspettare aiuti stranieri? [...] Coraggio! Voi siete forti, purché sappiate osare. Non ascoltate le parole di chi vi consiglia la pazienza dell'ignominioso servaggio; ma la voce della vostra coscienza che vi grida: «Sorgete!» (Ungheresi, Palermo, 26 luglio 1862; p. 276)
  • Le società operaie molto hanno giovato all'Italia, moltissimo devono giovare per l'avvenire; il lavoro è virtù; il lavoro è libertà; benedetti coloro che lavorano! (Alla Società degli operai — Asti, Pisa, 14 novembre 1862; p. 299)
  • Il lavoro ci farà liberi, la libertà ci farà grandi. (Alla Fratellanza operaia — Firenze, Pisa, 30 novembre 1862; p. 301)
  • Gli uomini nella sventura sono tutti fratelli, e la causa dei popoli oppressi è una sola.
    Uniamoci dunque, e la nostra voce suoni potente a scuotere i troni di tutti i despoti. (Al Comitato della Emigrazione Slava Meridionale, Pisa, 3 dicembre 1862; p. 303)
  • A Napoli, in mezzo a voi, io ho passati giorni felici, giorni di giubilo e di speranza, giorni in cui mi sembrava vicinissimo il momento di vedere l'Italia libera ed unita. La debolezza di alcuni uomini, la loro prepotenza, l'ignoranza d'altri, hanno impresso una sosta al vostro movimento nazionale. (Alla Società Operaia — Napoli, Pisa, 16 dicembre 1862; p. 306)
  • Non sono nato alle pubbliche assemblee; ma se v'è radunanza alla quale ami trovarmi, è quella degli operai. In mezzo a quei semplici cuori, io mi sento in famiglia. (Alla Società operaia — Genova, Caprera, 16 settembre 1863; p. 334)
  • Lavoro, Patria, Libertà: ecco il programma vostro, operai, e di tutti gli uomini che non credono creato il mondo per satollare la loro ingordigia e la loro ambizione. (Alla Società operaia — Genova, Caprera, 16 settembre 1863; p. 335)
  • Il despotismo ha saputo sempre, per i suoi fini, profittare dei pregiudizi del nazionalismo e della religione; se n'è valso per trasformare in odio la naturale alleanza dei popoli. Allorché il sangue scorre, i più forti devono, se non altro, almeno un po' dì pietà ai deboli. (All'illustre russo Alessandro Herzen, Caprera, 23 dicembre 1863; p. 342)
  • Se l'antichità romana ha detto: «L'ozio essere il padre de' vizi», ha inteso dire al tempo stesso: il lavoro essere il padre di ogni virtù. (Alla Società Operala — Viareggio, Caprera, 16 maggio 1864; p. 353)
  • Sì; esercitatevi alla carabina; essa costituisce fatalmente la giustizia dell'odierna civilizzazione; è, quando maneggiata da robusti uomini come voi, il diritto di non aver padroni in casa propria. Il giorno in cui i contadini saranno educati nel vero, i tiranni e gli schiavi saranno impossibili sulla terra. (Alla Società del Tiro in Ganzo, Caprera, 29 agosto 1864; p. 356)
  • È il popolo rivendicato a se stesso, libero del suo braccio e della sua coscienza che dovrà creare in Italia il nuovo elemento di progresso civile, morale ed economico. Però oggi è d'uopo crear quest'Italia, che non esiste, né può esistere, col Tedesco a Venezia e col Papa a Roma. (Alla Società operaia — Millesimo, Caprera, 4 luglio 1865, p. 373)
  • È un fatto consolantissimo, in mezzo alle tante sciagure che ci circondano, quello di vedere che lo spirito d'associazione va sempre più crescendo in Italia e specialmente nell'elemento dell'operaio.
    Gli operai italiani facciano a loro volta quello che vanno oggi facendo gli operai inglesi, i quali si schierano e si coordinano costituendosi in lega. Una Lega operaia italiana si costituisca e dia la mano alla Lega operaia inglese; e su larga scala gli operai tutti di Italia imitino l'atto generoso e fraterno degli operai di Parigi e gli operai di Berlino. Si lavori alacremente a cementare l'elemento operaio delle diverse nazioni sorelle in uno: Lega operaia universale, ed alle subdole arti della diplomazia e delle false alleanze e dei congressi buonaparteschi, potrebbero gli operai uniti opporre la vera democrazia, l'alleanza della Lega operaia, i Congressi operai universali; in una parola, alla depressione apporre l'educazione, perché è l'educazione che scioglierà il gran problema che si agita nel nostro secolo, l'emancipazione. Essa, l'educazione, ai prepotenti della terra, in cocolla o senza, dirà col Giusti: «Cessi il mercato reo, cessi la frode». (San Fiorano, 4 maggio 1867, p. 427)
  • Ch'io me ne vado in America, dicono dunque i giornali della camorra governativa e pretina; e lo desiderano ne son certo, stimandomi assai più che non merito.
    Sì; più che non lo merito, perché da per me nulla valgo, logoro del corpo come sono; ma se si volesse profittare dell'anima mia, che non sento logora affatto; se questo popolo infelice volesse scuotere il suo manto d'inerzia, le sudicie superstizioni che lo legano al negromantismo; allora sì che meriterei quel desiderio d'allontanamento. Io sono veramente un po' stanco di predicare al deserto; ma'che diavolo andrò a fare in America? Se non mi portano via per forza, io poserò le ossa su questa mia terra; che codardia e tradimento potranno strappare all'Italia giammai. (A Giuseppe Tironi, Caprera, 29 settembre 1868; p. 492)
  • La repubblica è il governo della gente onesta, e se ne vide la prova in tutte le epoche. Esse durano mentre virtuose, e cadono quando corrotte e piene di vizi. (Agli amici di Spagna, Caprera, 11 novembre 1868; p. 495)
  • Nemico della pena di morte ed amico della pace e della fratellanza umana, mi trovo a fare la guerra, che è l'antitesi de' miei principii. Amico della pace, certamente; ma nemico dei ladri, e considero come tali, l'Austria, il Bonaparte, e più che ladro il Papa. (Signor Enrico Guesnet — Ingelmunster, 16 novembre 1870, p. 552)
  • Un brigante onesto è un mio ideale [...]. (All'Avv. Petroni, Caprera, 21 ottobre 1871; p. 595)
  • [...] le infallibilità muoiono, ma non si piegano! (All'Avv. Petroni, Caprera, 21 ottobre 1871; p. 595)
  • Soccorrere i soci infermi, questo è dovere sacro per ogni società operaia. Per soccorrersi reciprocamente però e d'un modo efficace conviene avere i mezzi. Per cui è necessario migliorare la condizione degli operai stessi. Di più del mutuo soccorso le società operaie devono occuparsi di politica, cioè, procurar col tempo di avere un buon governo che non tolga i figli del popolo per il servizio d'una monarchia, ma per quello del proprio Paese.
    Sostituire in poche parole all'esercito permanente, la nazione armata quando sia d'uopo. (Caprera, 28 novembre 1871; p. 603)
  • La democrazia dev'essere il palladio dell'ordine. I disordini sono suscitati nel mondo dal dispotismo e dal prete che tiene il popolo in una condizione insopportabile. (Caprera, 28 novembre 1871; p. 604)
  • [L'Istruzione] Dobbiam reclamarla obbligatoria, gratuita e laica. Senza questa condizione, la scuola, dominata dalla setta clericale, pervertirebbe invece di educare. Lo Stato non può favorire le dottrine della fede cieca, che s'insinua coi primi insegnamenti, e prepara la schiavitù dell'anima e del pensiero. (Appello alla democrazia, Caprera, 1° agosto 1872; p. 628)
  • Non restiamo noi soli Italiani, garruli ed indolenti, a contemplare cretinamente ciocché si trama a Roma per colpirci col doppio giogo della menzogna e del furto.
    A cotesti uomini del disordine, che si chiaman Governo, [il Governo Lanza] si dica finalmente che siamo stanchi dei loro inganni e delle loro depredazioni. (da A Giuseppe Mussi, Caprera, 1° gennaio 1873; p. 646)
  • Puntello d'una tirannide mascherata, il sacerdozio cattolico ha ridotto la Francia dal primato delle nazioni, all'imo della scala umana. (da A Giuseppe Mussi, Caprera, 1° gennaio 1873; p. 646)
  • Io sono per l'arbitrato internazionale, cioè per l'assoluta abolizione della guerra fra nazioni e nazioni. (A Trieste e Trento, Roma, 29 marzo 1875; p. 708)
  • Non vi fidate della diplomazia; cotesta vecchia senza cuore vi inganna certamente! (Ai fratelli dell'Erzegovina e agli oppressi dell'Europa Orientale, Roma, 6 ottobre 1875; p. 721)
  • Degni del Parlamento Italiano e del Ministero Cairoli, sarebbero i tre atti seguenti:
    1° La nazione armata;
    2° La tassa unica;
    3° I preti alla vanga. (Al Deputato Elia, Caprera, 8 ottobre 1878; p. 831)
  • [...] qualunque nome egli abbia, a qualunque religione appartenga — il prete è un impostore — il prete è la più nociva di tutte le creature, — perché egli più di nessun altro è un ostacolo al progresso umano, alla fratellanza degli uomini e dei popoli. (Il Prete; p. 888)
  • Il credito, il potere dei preti, sono sempre in ragione diretta dell'ignoranza dei popoli.
    In ogni tempo i preti furono d'accordo coi potenti, poiché vivendo del sudore del popolo, come i potenti essi fecero causa comune con loro. (Il Prete; p. 888)
  • Nizza e Savoia furono vendute per la viltà di chi governava l'Italia, ma tale vendita non si sarebbe realizzata col voto senza i preti. (Il Prete; p. 889)
  • I preti nell'Umanità rappresentano il vero pomo di discordia, ed impediscono colle loro menzogne, che il cattolico possa avvicinarsi al protestante, il turco al cristiano, e così di seguito. (Il Prete; p. 889)
  • I preti colle loro imposture dominano le classi povere ed ignoranti, massime nelle campagne — a quelle essi facciatamente promettono il Paradiso — e molti di loro hanno anche l'abilità di farsi credere buoni a forza d'ipocrisia. (Il Prete; p. 891)
  • I preti, questa peste del mondo, falsando la via di redenzione e di amore del gran Legislatore e deificandolo per meglio ingannare il prossimo, si diedero ad ogni sfrenatezza.
    Lunga e scellerata è la storia di questi cannibali — e per nostra sciagura più che su qualunque altro popolo, pesarono sull'Italiano.
    Per i preti la Nazione Italiana fu sempre divisa, non poté mai unificarsi, ad onta degli sforzi de' nostri grandi di tutte le epoche, e fu perciò in tutte le epoche dominata da stranieri, che i preti stessi chiamarono in Italia in loro aiuto contro le popolazioni irritate dalle enormezze dei falsi leviti. (Il Prete; p. 899)
  • Non tutti i preti sono malvagi, ma è pur forza confessarlo: i buoni sono rarissimi, e quei pochi buoni sono nell'incapacità di far bene, perché non protetti e quindi impauriti dalle persecuzioni dei malvagi. (Il Prete; p. 900)

Incipit di alcune opere

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Cantoni il volontario

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Bello come l'Apollo di Fidia[39], come Milone di Crotona robusto[40], Cantoni, il coraggioso volontario di Forlì, destava l'ammirazione universale degli uomini quando alla testa de' suoi militi assaltava il nemico d'Italia, e quella delle donne, – e le donne sì che sanno apprezzare il bello e valoroso uomo. Sulle donne dunque egli esercitava quel delizioso fascino contro cui non varrebbero le gelose mura degli harem[41], custodite dalle guardie di Neri e dagli Eunuchi del severo despotismo orientale, quel fascino che lega al destino del suo idolo la più debole, la più forte, la più virtuosa, la più depravata. ma comunque la più perfetta delle creature con cui Dio abbellì la famiglia degli esseri animati su questa terra.

I mille

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O Mille! in questi tempi di vergognose miserie – giova ricordarvi – l'anima si sente sollevata pensando a voi – rivolta a voi – quando, stanca di contemplar ladri e putridume pensando che non tutti – perché la maggior parte di voi ha seminato l'ossa su tutti i campi di battaglia italiani – non tutti ma bastanti ancora per rappresentare la gloriosa schiera – restante – avanzo superbo ed invidiato – pronto sempre a provare ai boriosi nostri detrattori, che tutti non son traditori e codardi – non tutti spudorati sacerdoti del ventre in questa terra dominatrice e serva!

Lettere a Speranza von Schwartz

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Genova, 22 settembre 1855.

Gentilissima Signora,
Io fui assai onorato dal voler lei occuparsi della mia vita, e quando le inviai que' poveri manoscritti che ne trattano fu perché ne facesse ciò che li pare, certo di guadagnar sotto il suo patrocinio.
Ritratti non ne ho presentemente, ma subito che me ne capiti alcuno mi farò un dovere di presentarglielo.
Io nacqui il 4 luglio 1807 ed il nome del suo servo è

GIUSEPPE GARIBALDI.

Poema autobiografico (dall'autografo). Carme alla morte e altri canti inediti

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Sulle tue cime di granito, io sento
Di libertade l'aura, e non nel fondo
Corruttor delle Reggie, o mia selvaggia
Solitaria Caprera. I tuoi cespugli
Sono il mio parco, e l'imponente masso
Dammi stanza sicura ed inadorna,
Ma non infetta da servili. I pochi
Abitatori tuoi ruvidi sono,
Come le roccie che ti fan corona,
E come quelle alteri ed isdegnosi
Di piegar il ginocchio. Il sol concento
S'ode della bufera in questo asilo,
Ove né schiavo né tiranno alberga.

Citazioni su Giuseppe Garibaldi

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  • All'apice della gloria, Giuseppe Garibaldi era forse il personaggio più celebre d'Italia. Il suo nome era molto più famoso di quello di Cavour e di Mazzini, e molta più gente avrebbe udito parlare di lui che non di Verdi o di Manzoni. All'estero, Garibaldi simboleggiava l'Italia risorgimentale di quei drammatici anni e l'intrepida audacia che tanto contribuì alla formazione della nazione italiana. (Denis Mack Smith)
  • Cavour aveva di Garibaldi quel concetto che finirà per essere confermato dalla storia quando quest'uomo straordinario sarà giudicato dal tempo; e siccome non vi fu mai uomo che sia stato più adulato dai suoi partigiani, ed abbia ottenuto una popolarità più incontestata, così Cavour lo apprezzava in ragione dell'influenza che poteva esercitare sull'andamento della causa d'Italia. (Michelangelo Castelli)
  • Cavour, Mazzini e il federalista Cattaneo avevano una visione, più o meno elaborata, della società che desideravano realizzare. Garibaldi aveva soprattutto sentimenti, intenzioni. Il suo apporto «ideologico» all'unità italiana è pressoché nullo. Ma la sua influenza, nel bene e nel male, fu enorme e le sue tracce sul percorso della storia unitaria, dal 1859 in poi, profonde e durature. (Sergio Romano)
  • Cercando di risollevarci il morale con un prosecco in attesa dell’autobus per Comacchio, stabiliamo che la versione di Bonnet non può essere vera. Sarebbe troppo clamoroso che, osservando lo svolgersi degli eventi accanto ai soldati austriaci, sia riuscito ad arrivare in spiaggia proprio quando Garibaldi è in acqua con Anita tra le braccia, mentre i soldati non si vedono. È il copione di un film. Ma, comunque si siano incontrati, Garibaldi lo reputò il più grande colpo di fortuna della sua vita. Aveva bisogno di un salvatore, e quel salvatore gli apparve. «Io mi rimisi intieramente all’arbitrio suo.» È una delle frasi che più mi hanno colpito, leggendo le memorie di Garibaldi: un uomo abituato a comandare si rende conto, nel giro di pochi secondi, che ora dovrà rimettersi interamente al giudizio di un altro. E così fa. (Tim Parks)
  • Chi visiti minutamente il nostro paese, guardando le lapidi apposte sui muri, avrà la sensazione – e qualcuno lo ha anche detto – che questo Garibaldi sia stato dappertutto, abbia soggiornato in ogni villaggio d'Italia. Ebbene, questo è vero: Garibaldi fu dappertutto, e in ogni luogo lasciò di sé un ricordo animatore. Il giorno della riscossa, saranno in molti ad accorrere dietro le sue bandiere, proprio perché avevano avuto modo, in quell’infausto '49, di conoscerlo e di amarlo. (Luciano Bianciardi)
  • Con tutti i suoi difetti, Giuseppe Garibaldi ha un suo posto ben fermo fra i grandi uomini del secolo decimonono. Ebbe una sua grandezza, in primo luogo, come eroe nazionale, come famoso soldato e marinaio, cui più che ad alcun altro si dovette l'unione delle due Italie. Ma oltre che patriota, egli fu anche grande internazionalista; e nel suo caso non era un paradosso. Liberatore di professione, combatté per la gente oppressa, ovunque ne trovasse. Pur avendo la tempra del combattente e dell'uomo d'azione, riuscì ad essere un idealista nettamente distinto dai suoi contemporanei di mente più fredda. Tutto quello che fece, lo fece con appassionata convinzione e illimitato entusiasmo; una carriera piena di colore e d'imprevisto ci mostra in lui uno dei più romantici prodotti dell'epoca. Inoltre, era persona amabile e affascinante, di trasparente onestà, che veniva ubbidita senza esitazioni e per la quale si moriva contenti. (Denis Mack Smith)
  • È il più generoso dei pirati che abbia mai incontrato. (William Brown)
  • Era tale la magia del suo nome che gli eserciti si dissolvevano al suo arrivo. (Jawaharlal Nehru)
  • Era un uomo d'azione all'eterna ricerca di un ideale che giustificasse l'azione. (Indro Montanelli e Marco Nozza)
  • Fra gli italiani la figura che mi ha appassionato di più è senz'altro Garibaldi. Credo che sia proprio lui, tutto sommato, il personaggio più degno di ammirazione nella vita pubblica del XIX secolo. (A. J. P. Taylor)
  • Garibaldi avria potuto essere il Byron, e Mazzini il Victor Hugo dell'Italia, se in luogo di conquistar Roma, avesser dovuto glorificarla. Non abbiamo poeti, abbiamo soldati, non scriviamo romanzi, facciamo la storia. Manzoni tace, ma parla il cannone, Pepoli non scrive più commedie, manipola trattati; Visconti Venosta non commenta più Prudhon nel Crepuscolo, ma persuade alla Camera. (Giuseppe Guerzoni)
  • Garibaldi. Cos'è questo Garibaldi? È un uomo, niente più. Ma un uomo in tutta l'estensione sublime della parola: l'uomo della libertà, l'uomo dell'umanità. «Vir», direbbe il suo compatriota Virgilio. (Victor Hugo)
  • Garibaldi deve vincere a forza: egli non è un uomo; è un simbolo, una forma; egli è l'anima italiana. Tra i battiti del suo cuore, ciascuno sente i battiti del suo. (Francesco De Sanctis)
  • Garibaldi entrò a Napoli scortato dai mafiosi e dai camorristi. Per questo andrei a fucilarne il cadavere e non certo a celebrarlo. [...] Questi sono fatti storici, la gente deve sapere che Garibaldi pagò le pensioni alle mogli dei mafiosi. È l'icona di Roma ladrona, un alleato della mafia. [...] Per la nostra gente l'unità d'Italia ricorda soprattutto le tasse, gli sprechi, le pensioni facili, tutta quella porcheria. (Mario Borghezio)
  • Garibaldi ha reso agli italiani il più grande dei servigi che un uomo potesse rendergli: ha dato agli italiani fiducia in se stessi, ha provato all'Europa che gli italiani sapevano battersi e morire sui campi di battaglia per riconquistarsi una patria. (Camillo Benso, conte di Cavour)
  • Garibaldi, l'«eroe dei due mondi», dopo aver consegnato oltre la metà dell'Italia a quel «ricettatore» di Vittorio Emanuele II d'Italia, che non vedeva nessun conflitto di interessi nel «subentrare» al suo alleato Francesco II delle Due Sicilie attraverso un plebiscito, si ritirò a sognare di Roma Capitale (imitando apertamente Crusoe) sull'isola deserta di Caprera, dove «il leone» «giaceva» con il suo asinello Pio IX, che presto avrebbe egli stesso contemplato l'Italia dall'isola del Vaticano. (Richard Newbury)
  • Garibaldi scrisse il romanzo Clelia, o il governo dei preti nel 1868, a distanza di anni dalle gesta eroiche che condussero all’unità d’Italia, ma prima dell’annessione di Roma al regno del 1870. Il fine dichiarato era ricordare i morti, denunciare il possesso di quella che doveva essere la capitale d’Italia da parte della Chiesa e «campare un po’ anche col mio guadagno». Al centro del romanzo vi è una figura, che evidentemente è il Generale stesso, chiamata «il Solitario», che vive su una piccola isola, «la Solitaria». Superati i sessant’anni, a dispetto di una vita passata tra uomini disposti a morire per lui e donne di ogni estrazione sociale avide di avventure, Garibaldi si vedeva così: un solitario che prende decisioni difficili da solo, sempre vigile contro il tradimento e l’incompetenza, costretto più e più volte a lasciarsi alle spalle i suoi compagni, feriti o morti, per andare avanti e ricominciare. Guardando l’intera parabola della sua vita, pare ben possibile che proprio in questi primi giorni dell’agosto 1849 il Generale abbia iniziato a pensarsi come il Solitario. (Tim Parks)
  • In quel paese [la Sicilia, nel corso della spedizione dei Mille], dove la donna è più cara della vita, ed è più cara della libertà, le monache, aggiunse il Mario[42], non solo mandavano al Generale canditi in copia e cotognate, e buccellati, e bocche di dama, e castelli, e tempietti, e gli erigevano statue in zucchero, adorne di filigrana, di nastri ricamati e d'ogni altro lavorio della paziente e dolce industria claustrale; ma, quando ne vedevano la fisionomia soave e gloriosa, susurravano: Come somiglia a nostro Signore! e le più ardimentose volevano baciargli le mani; e siccome egli le ritirava, allora esse si avvinghiavano alla sua camicia rossa ed arrivavano a baciarlo in bocca. Il contagio di quell'arditezza giovanile toccava persino la matura badessa, che dapprima voleva sgridare le sue pecorelle dello scandalo; e poi finì anch'essa per baciare il Generale in bocca. (Giovanni Faldella)
  • Io preferisco Garibardi perché è l'eroe dei due mondi, e così ora l'Italia non ha più vergogna di andare in America. (Io speriamo che me la cavo)
  • La coscienza nazionale nulla dimentica: arde viva, immortale la fiamma della riconoscenza sull'ara consacrata al Padre della patria, perenne è il culto dedicato alla memoria di quanti con lui furono benemeriti d'Italia. Augusti principi recano riverenti il loro tributo di rimpianto e di riconoscente ammirazione al glorioso duce dei Mille. (Giuseppe Biancheri)
  • L'unico eroe di cui il mondo ha mai avuto bisogno si chiama Giuseppe Garibaldi. (Che Guevara)
  • Molti uomini hanno colla potente individualità rifatto un regno e risuscitata una nazione, ma da Cristo in poi, o Giuseppe Garibaldi, tu sei l'unico che abbia impugnata la gran causa di tutta quanta l'umanità. (Franco Mistrali)
  • Nel 1860 nessuno pensava che Garibaldi potesse avere ragione dei Borboni ma quando l'eroe dei due Mondi occupò Napoli, i Savoia si gettarono alla rincorsa: il 10 settembre Vittorio Emanuele II invase lo Stato Pontificio. Sei settimane dopo era a Teano, nel Casertano, dove veniva salutato da Garibaldi come "primo re d'Italia". (Gianluca Di Feo)
  • Non ci può essere Italia unita senza il fondamento di Garibaldi. La leggenda garibaldina è, in realtà, il solo filo nazionale della nostra storia moderna. (Giovanni Spadolini)
  • Non vi fidate di Garibaldi! Perché Garibaldi ama la monarchia. (Giovanni Passannante)
  • Pur troppo Garibaldi (e non glie ne faccio carico perché subì l'influenza altrui) vide sempre in Cavour l'uomo che aveva venduto la di lui patria[43]. (Michelangelo Castelli)
  • Roma, sosteneva Garibaldi, la si poteva difendere meglio portando la guerriglia nelle campagne, dove c’era modo di manovrare e insieme di vettovagliarsi e di fare insorgere contado e villaggi. E quando Roma, alla fine di quel giugno, dovette capitolare, il solo a non arrendersi fu proprio lui: con quattromila uomini al suo diretto comando, uscì dalla città, deciso a continuare la lotta: «Ovunque noi saremo, sarà Roma». (Luciano Bianciardi)
  • Un onesto babbeo. (Lorenzo Del Boca)
  • Un timido che aveva dentro una grande carica, quella carica che andando avanti nella vita, lo ha spinto ad agire e rischiare. (Maurizio Merli)

Note

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  1. Da I mille, cap. XXVII.
  2. Citato in Martino Cellai, Fasti militari della Guerra dell'Indipendenza d'Italia dal 1848 al 1862, vol. 4, Tip. e litografia degli Ingegneri, 1867, p. 471; citato in Giuseppe Fumagalli, Chi l'ha detto?, Hoepli, 1921.
  3. Citato in Decio Albini, La Lucania e Garibaldi nella rivoluzione del 1860, Tip. delle Mantellate, 1912, pp. 48-49.
  4. Citato da Silvio Paolucci nella Seduta pomeridiana del 6 luglio 1949 della Camera dei Deputati.
  5. Citato in Mario Rapisardi, Le poesie religiose, introduzione.
  6. a b Dal proclama agli elettori, 22 febbraio 1867.
  7. Citato in Revue de deux mondes dal 15 marzo al 1 maggio 1861; citato in Maxime Du Camp, La spedizione delle due Sicilie, Cappelli, Bologna, 1963 (ed. originale Bourdilliat, Parigi, 1861), pp. 374-375.
  8. Citato in Leo Longanesi, In piedi e seduti, Longanesi, 1968.
  9. Dal testamento; citato in G. Sacerdote, La vita di Giuseppe Garibaldi, Rizzoli, 1933, p. 938.
  10. Dal discorso del 18 marzo 1961 alla Camera dei Deputati del Regno d'Italia
  11. Lettera del 21 ottobre 1871 a Giuseppe Petroni.
  12. Da Edizione nazionale degli scritti di Giuseppe Garibaldi: Epistolario, vol. 1, 1834-1848, L. Cappelli, 1973, p. 19.
  13. Settembre 1860; da Scritti e discorsi politici e militari, 1932.
  14. Dal manifesto dettato da Monterotondo il 2 novembre 1867; citato in Felice Cavallotti, Storia della insurrezione di Roma nel 1867, La libreria Dante Alighieri, Milano, 1869, p. 536.
  15. Al Popolo di Stoccolma, Varignano, 2 ottobre 1862.
  16. Citato in Indro Montanelli e Marco Nozza, Garibaldi, Rizzoli, Milano, 1966, p. 606.
  17. Garibaldi, San Marino, 31 Luglio 1849. Citato in Pier Carlo Boggio, Storia politico-militare della guerra dell'indipendenza italiana (1859-1860), vol. I, Tipografia Scolastica di Sebastiano Franco e Figli e Comp, Torino, 1860, p. 493,
  18. Bezzecca, 9 agosto 1866. Risposta telegrafica di Garibaldi al dispaccio del generale Alfonso La Marmora che, in preparazione dell'Armistizio di Cormons, ordinava il ritiro delle truppe dal Tirolo (vedi l'immagine del telegramma).
  19. Edizione nazionale degli scritti di Giuseppe Garibaldi: Scritti et discorsi politici e militari, vol. 3, 1868-1882
  20. Da Testamento politico.
  21. Citato in Franco Libero Manco, Biocentrismo: l'alba della nuova civiltà, Nuova Impronta Edizioni, Roma, 1999, pp. 202-203.
  22. Da I mille, Torino, 1874.
  23. Ad Adelaide Cairoli, 1868; citato in Lettere ad Anita ed altre donne, raccolte da G. E. Curatolo, Formiggini, Roma, 1926, pp. 113-116. on line
  24. Citato in Gueroni, Ricordi Manoscritti del Generale Sacchi, vol. I, p. 299; citato in Agostino Carnesecchi, Breve cronistoria del passaggio di Giuseppe Garibaldi a Rocca d'Arce.
  25. Citato in Giuseppe Cesare Abba, Storia dei Mille, cap. Dopo la vittoria. Il Dizionario delle citazioni, a cura di Italo Sordi, (BUR, 1992. ISBN 88-17-14603-X) riporta che Nino Bixio aveva prospettato a Garibaldi l'opportunità di ritirarsi durante la battaglia di Calatafimi, ma Giuseppe Bandi, che c'era, riferisce che il Generale avrebbe risposto «Ma dove ritirarci?» (I Mille, II, 6)
  26. Frase pronunciata nella cattedrale di Palermo; citato in Denis Mack Smith, Garibaldi, Arnoldo Mondadori Editore, 1993, p. 152.
  27. Al Deputato Luciani, Direttore del giornale «Il Campidoglio», Caprera, 1° agosto 1865.
  28. Citato in Aa.Vv., Garibaldi. Vita, pensiero, interpretazioni. Dizionario critico, Gangemi Editore, Roma, 2008, p. 250. ISBN 978-88-492-1481-9
  29. Citato in Giuseppe Fumagalli, Chi l'ha detto?, Hoepli, 1921, p. 595.
  30. Dalla Discussione sull'interpellanza del deputato Ricasoli Bettino intorno all'esercito meridionale; citato in Atti parlamentari dello Senato, Tip. E. Botta, 1861, p. 628.
  31. Da Poema autobiografico, Carme alla morte e altri canti inediti, (dall'autografo), a cura di Giacomo Emilio Curatolo, Nicola Zanichelli, Bologna, 1911; Poema autobiografico, Canto XXII, Reggio Passaggio del Faro, p. 89.
  32. Citato in Maurizio Stefanini, Una su Mille, Il Foglio Quotidiano, 21 gennaio 2023.
  33. La Clelia Romana del tempo di Porsenna.
  34. I trasteverini si credono pura stirpe degli antichi Romani.
  35. Cfr. Giovanni Berchet: «Libertà non fallisce ai volenti, | ma il sentier de' perigli ell'addita; | ma promessa a chi ponvi la vita, | non è premio d'inerte desir».
  36. Citato in Il libretto rosso di Garibaldi, a cura di Massimiliano e Pier Paolo Di Mino, Castelvecchi Editore, 30 gennaio 2011.
  37. Dal testamento; citato in Memorie: con una appendice di scritti politici, Giuseppe Armani, Biblioteca universale Rizzoli, 1982, p. 390.
  38. Simbolo di Napoli.
  39. Esistente nel museo di Roma.
  40. Milone che con un pugno uccise un bue.
  41. Negli Harem i Turchi tengono le loro donne.
  42. Alberto Mario, autore de I Mille.
  43. Si allude alla cessione alla Francia di Nizza, città natale di Garibaldi, nel 1860.

Bibliografia

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Voci correlate

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