Cesare Pavese

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Cesare Pavese

Cesare Pavese (1908 – 1950), scrittore, poeta, saggista e traduttore italiano.

Citazioni di Cesare Pavese[modifica]

  • [...] con R.L.S. entra nella prosa narrativa inglese, assumendovi un esotico fascino, la lezione di stile dei naturalisti francesi, la scelta della parola esatta, insostituibile, il senso del colore, del suono, della sfumatura essenziale, del particolare esattamente osservato — e insieme l'avversione a ogni intemperanza romantica o sentimentale, il gusto di una sobrietà e d'un controllo di sé quasi stoici. [...] Ma egli fu anche un narratore di favole, cui è ormai aliena ogni cronachistica e pettegola compiacenza nell'«oggettività» borghese, uno che riserva l'esattezza e la verità della frase, della sensazione, del gesto, a rendere palpabili e familiari le nostalgie, le baldanze, le fedeltà e gli eroismi dell'eterna avventura del ragazzo che entra nel mondo. Questo dissociare lo stile «veristico» del suo tempo dal programma di pseudo-scientifica inchiesta sociale che gli era congenito, nonché dal gusto decadente della sensazione scopo a se stessa, e applicarlo invece a raccontare, raccontare a rompicollo, fu un gesto inconsciamente rivoluzionario e ricco d'avvenire.[1]
  • David Copperfield è senza dubbio il romanzo di Dickens dov'è più estrosa la caratterizzazione e dov'è più gustosa la futilità dell'intreccio. Un mondo vastissimo ci viene qui evocato: borghesi, marinai, casalinghe, truffatori, semplici ragazze, avvocati, bottegai, fantesche, spostati, in un viluppo di quotidiane avventure che non escludono né l'eroismo né la morte, eppure tutti quanti stanno al reale nella proporzione di figurine vedute allo stereoscopio.[2]
  • Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi.[3]
  • Più si è malcontenti di sé e più la firma si mette gigante.[4]
  • Tu non sai le colline | dove si è sparso il sangue. | Tutti quanti fuggimmo | tutti quanti gettammo | l'arma e il nome.[5] (9 novembre 1945)
  • Verrà la morte e avrà i tuoi occhi | questa morte che ci accompagna | dal mattino alla sera, insonne, | sorda, come un vecchio rimorso | o un vizio assurdo.[6]

Dal carteggio tra Cesare Pavese e Bianca Garufi[modifica]

  • Crudele lo sono ancora certamente, se crudeltà si può chiamare il normale contegno di chi rispetta le donne al punto di non volerne sapere di loro. [...] Per guarire da ogni nostalgia amorosa non c'è che sperimentare d'essere amato o voluto o bramato o quello che vuoi, da una persona che ci dia ai nervi.
  • Io trovo molto bello questo maltrattarci insaziabile [...] siamo una bellissima coppia discorde.
  • Saprò diventare come vuoi. Devo diventarlo, perché non voglio che la nostra storia somigli alle altre che ho bruciato.

Dialoghi con Leucò[modifica]

Incipit[modifica]

Cesare Pavese, che molti si ostinano a considerare un testardo narratore realista, specializzato in campagne e periferie americano-piemontesi, ci scopre in questi Dialoghi un nuovo aspetto del suo temperamento. Non c'è scrittore autentico, il quale non abbia i suoi quarti di luna, il suo capriccio, la musa nascosta, che a un tratto lo inducono a farsi eremita. Pavese si è ricordato di quand'era a scuola e di quel che leggeva: si è ricordato dei libri che legge ogni giorno, degli unici libri che legge. Ha smesso per un momento di credere che il suo totem e tabù, i suoi selvaggi, gli spiriti della vegetazione, l'assassinio rituale, la sfera mitica e il culto dei morti, fossero inutili bizzarrie e ha voluto cercare in essi il segreto di qualcosa che tutti ricordano, tutti ammirano un po' straccamente e ci sbadigliano un sorriso. E ne sono nati questi Dialoghi.

Citazioni[modifica]

  • La Nube. Ho paura. Ho veduto le cime dei monti. Ma non per me, Issione. Io non posso patire. Ho paura per voi che non siete che uomini. Questi monti che un tempo correvate da padroni, queste creature nostre e tue generate in libertà, ora tremano a un cenno. Siamo tutti asserviti a una mano più forte. I figli dell'acqua e del vento, i Centauri, si nascondono in fondo alle forre. Sanno di essere mostri. [...] La morte, ch'era il vostro coraggio, può esservi tolta come un bene. Lo sai questo? [...] Per te la morte è una cosa che accade, come il giorno e la notte. Tu sei uno di noi, Issione. Tu sei tutto nel gesto che fai. Ma per loro, gli immortali, i tuoi gesti hanno un senso che si prolunga. Essi tastano tutto da lontano con gli occhi, le narici, le labbra. Sono immortali e non san vivere da soli. (da La nube)
  • La Nube: C'è una legge, Issione, cui bisogna ubbidire.
    Issione: Quassù la legge non arriva, Nefele. Qui la legge è il nevaio, la bufera, la tenebra. E quando viene il giorno chiaro e tu ti accosti leggera alla rupe, è troppo bello per pensarci ancora. (da La nube)
  • Sarpedonte. Nessuno si uccide. La morte è destino. Non si può che augurarsela, Ippòloco. (da La Chimera)
  • Tiresia. Che degli dèi si parla troppo. Esser cieco non è una disgrazia diversa da esser vivo. [...] Il mondo è più vecchio di loro. Già riempiva lo spazio e sanguinava, godeva, era l'unico dio – quando il tempo non era ancor nato. Le cose stesse, regnavano allora. Accadevano cose – adesso attraverso gli dèi tutto è fatto parole, illusione, minaccia. Ma gli dèi possono dar fastidio, accostare o scostare le cose. Non toccarle, non mutarle. Sono venuti troppo tardi. [...] È accaduto qualcosa – che non è bene né male, qualcosa che non ha nome – gli daranno poi un nome gli dèi. (da I ciechi)
  • Edipo: Ma è davvero così vile il sesso della donna?
    Tiresia: Nient'affatto. Non ci sono cose vili se non per gli dèi.
  • Ermete. Gli dèi nuovi di Tessaglia che molto sorridono, soltanto di una cosa non possono ridere: credi a me che ho veduto il destino. Ogni volta che il caos trabocca alla luce, alla loro luce, devono trafiggere e distruggere e rifare. (da Le cavalle)
  • Tànatos. Che per nascere occorra morire, lo sanno anche gli uomini. Non lo sanno gli olimpici. Se lo sono scordato. Loro durano in un mondo che passa. Non esistono: sono. Ogni loro capriccio è una legge fatale. Per esprimere un fiore distruggono un uomo. (da Il fiore)
  • Britomarti. O Saffo, non è questo il sorridere. Sorridere è vivere come un'onda o una foglia, accettando la sorte. È morire a una forma e rinascere a un'altra. È accettare, accettare, se stesse e il destino. [...]
    Saffo.Il desiderio non è canto. Il desiderio schianta e brucia, come il serpe, come il vento. (da Schiuma d'onda)
  • Meleagro. Non so. Ma ho sentito narrare di libere vite di là dai monti e dai fiumi, di traversate, di arcipelaghi, d'incontri con mostri e con dèi. Di uomini più forti anche di me, più giovani, segnàti da strani destini.
    Ermete. Avevano tutti una madre, Meleagro. E fatiche da compiere. E una morte li attendeva, per la passione di qualcuno. Nessuno fu signore di sé né conobbe mai altro. (da La madre)
  • Edipo. No, non capisci, non capisci, non è questo. Vorrei che fossero più atroci ancora. Vorrei essere l'uomo più sozzo e più vile purché quello che ho fatto l'avessi voluto. Non subìto così. Non compiuto volendo far altro. Che cosa è ancora Edipo, che cosa siamo tutti quanti, se fin la voglia più segreta del tuo sangue è già esistita prima ancora che nascessi e tutto quanto era già detto? [...]
    Mendicante. [...] Mendicare o regnare, che importa? Abbiamo entrambi vissuto. Lascia il resto agli dèi.
    Edipo. Non saprai mai se ciò che hai fatto l'hai voluto... (da La strada)
  • Prometeo. Tutti avete una rupe, voi uomini. Per questo vi amavo. Ma gli dèi sono quelli che non sanno la rupe. Non sanno ridere né piangere. Sorridono davanti al destino. [...] Ma ricòrdati sempre che i mostri non muoiono. Quello che muore è la paura che t'incutono. Così è degli dèi. Quando i mortali non ne avranno più paura, gli dèi spariranno. (da La rupe)
  • Orfeo. Io cercavo, piangendo, non più lei ma me stesso. Un destino, se vuoi. Mi ascoltavo. [...] Il mio destino non tradisce. Ho cercato me stesso. Non si cerca che questo. [...] Visto dal lato della vita tutto è bello. Ma credi a chi è stato tra i morti... Non vale la pena. [...] E voi godetela la festa. Tutto è lecito a chi non sa ancora. È necessario che ciascuno scenda una volta nel suo inferno. L'origine del mio destino è finita nell'Ade, finita cantando secondo i miei modi la vita e la morte.
    Bacca. E che vuol dire che un destino non tradisce?
    Orfeo. Vuol dire che è dentro di te, cosa tua; più profondo del sangue, di là da ogni ebbrezza. Nessun dio può toccarlo. (da L'inconsolabile)
  • Secondo cacciatore. Non conosci la strada del sangue. Gli dèi non ti aggiungono né tolgono nulla. Solamente, d'un tocco leggero, t'inchiodano dove sei giunto. Quel che prima era voglia, era scelta, ti si scopre destino. Questo vuol dire, farsi lupo. Ma resti quello che è fuggito dalle case, resti l'antico Licaone. (da L'uomo-lupo)
  • Litierse. Non c'è dei sopra il campo. C'è soltanto la terra, la Madre, la Grotta, che attende sempre e si riscuote soltanto sotto il fiotto di sangue. Questa sera, straniero, sarai tu stesso nella grotta. (da L'ospite)
  • Padre. E dunque. Se una volta bastava un falò per far piovere, bruciarci sopra un vagabondo per salvare un raccolto, quante case di padroni bisogna incendiare, quanti ammazzarne per le strade e per le piazze, prima che il mondo torni giusto e noi si possa dir la nostra? [...]
    Figlio. [...] Sono ingiusti, gli dèi. Che bisogno hanno che si bruci gente viva?
    Padre. Se non fosse così, non sarebbero dèi. Chi non lavora come vuoi che passi il tempo? Quando non c'erano i padroni e si viveva con giustizia, bisognava ammazzare ogni tanto qualcuno per farli godere. Sono fatti così. Ma ai nostri tempi non ne han più bisogno. Siamo in tanti a star male, che gli basta guardarci. (da I fuochi)
  • Calipso. Immortale è chi accetta l'istante. Chi non conosce più un domani. Ma se ti piace la parola, dilla. Tu sei davvero a questo punto?
    Odisseo. Io credevo immortale che non teme la morte.
    Calipso. Chi non spera di vivere. [...] Qualcuna di noi resisté ai nuovi dèi; lasciai che i nomi sprofondassero nel tempo; tutto mutò e rimase uguale; non valeva la pena di contendere ai nuovi il destino. Ormai sapevo il mio orizzonte e perché i vecchi non avevano contesto con noialtri. [...] Non c'è vero silenzio se non condiviso. [...] Non vale la pena, Odisseo. Chi non si ferma adesso, subito, non si ferma mai più. Quello che fai, lo farai sempre. Devi rompere una volta il destino. Devi uscire di strada, e lasciarti affondare nel tempo... [...] Che cos'è vita eterna se non questo accettare l'istante che viene e l'istante che va? L'ebbrezza, il piacere, la morte non hanno altro scopo. Cos'è stato finora il tuo errare inquieto?
    Odisseo. Se lo sapessi avrei già smesso. Ma tu dimentichi qualcosa.
    Calipso. Dimmi.
    Odisseo. Quello che cerco l'ho nel cuore, come te. (da L'isola)
  • Virbio. È felice il ragazzo che fui, quello che è morto. Tu l'hai salvato, e ti ringrazio. ma il rinato, il tuo servo, il fuggiasco che guarda la quercia e i tuoi boschi, quello non è felice, perché nemmeno sa se esiste. Chi gli risponde? chi gli parla? l'oggi aggiunge qualcosa al suo ieri? [...] Solamente altro sangue può calmare il mio. E che scorra inquieto, e poi sazio. [...] Ma ho bisogno di stringere a me un sangue caldo e fraterno. Ho bisogno di avere una voce e un destino. O selvaggia, concedimi questo.
    Diana. Pensaci bene, Virbio-Ippolito. Tu sei stato felice.
    Virbio. Non importa, signora. Troppe volte mi sono specchiato nel lago. Chiedo di vivere, non di essere felice. (da Il lago)
  • Circe. Sì. Qualcuno di loro sa ridere davanti al destino, sa ridere dopo, ma durante bisogna che faccia sul serio o che muoia. Non sanno scherzare sulle cose divine, non sanno sentirsi recitare come noi. La loro vita è così breve che non possono accettare di far cose già fatte o sapute. Anche lui, l'Odisseo, il coraggioso, se gli dicevo una parola in questo senso, smetteva di capirmi e pensava a Penelope. [...] Sì ma vedi, io lo capisco. Con Penelope non doveva sorridere, con lei tutto, anche il pasto quotidiano, era serio e inedito – potevano prepararsi alla morte. Tu non sai quanto la morte li attiri. Morire è sì un destino per loro, una ripetizione, una cosa saputa, ma s'illudono che cambi qualcosa. [...] E il ritorno innumerevole dei giorni non gli parve mai destino, e correva alla morte sapendo cos'era, e arricchiva la terra di parole e di fatti. [...] L'uomo mortale, Leucò, non ha che questo d'immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia. Nomi e parole sono questo. Davanti al ricordo sorridono anche loro, rassegnàti. (da Le streghe)
  • Teseo. Ci fu un tempo che l'Ida non conobbe che dee. Che una dea. Era il sole, era i tronchi, era il mare. E davanti alla dea gli dèi e gli uomini si sono schiacciati. Quando una donna sfugge l'Uomo, e si ritrova dentro al sole e alla bestia, non è colpa dell'uomo. È il sangue guasto, è il caos. (da Il toro)
  • Iasone. C'è una verginità nelle cose, Mélita, che fa paura più del rischio. Pensa all'orrore delle vette dei monti, pensa all'eco. [...] Si fa male per essere grandi, per essere dèi.
    Mélita. E perché vostra vittima è sempre una donna? [...] Iasone. Ho imparato a Corinto, a non essere un dio. E conosco te, Mélita. (da Gli argonauti)
  • Leucotea. Cara mia, ma gli dei sono il luogo, sono la solitudine, sono il tempo che passa. [...] Tutti gli dei sono crudeli. Che vuol dire? Ogni cosa divina è crudele. Distrugge l'essere caduco che resiste. Per svegliarti più forte, devi cedere al sonno. Nessun dio sa rimpiangere nulla. (da La vigna)
  • Cratos. Ma tu sai cosa sono gli uomini? Miserabili cose che dovranno morire, più miserabili dei vermi o delle foglie dell'altr'anno che son morti ignorandolo. [...]
    Bia. Ma non ne segue che il suo cenno sia scaduto. Sono invece scaduti i signori del Caos, quelli che un tempo hanno regnato senza legge. Prima l'uomo la belva e anche il sasso era dio. Tutto accadeva senza nome e senza legge. Ci voleva la fuga del dio, la grossa empietà del suo confino tra gli uomini quando ancora era bimbo e poppava alla capra, e poi la crescita sul monte tra le selve, le parole degli uomini e le leggi dei popoli, e il dolore la morte e il rimpianto, per fare del figlio di Crono il buon Giudice, la Mente immortale e inquieta. [...] Il bambino rinato divenne signore vivendo tra gli uomini. [...] La parola dell'uomo, che sa di patire e si affanna e possiede la terra, rivela a chi l'ascolta meraviglie. [...] Si conosce la bestia, si conosce l'iddio, ma nessuno, nemmeno noialtri, sappiamo il fondo di quei cuori. C'è persino, tra loro, chi osa mettersi contro il destino. Soltanto vivendo con loro e per loro si gusta il sapore del mondo. (da Gli uomini)
  • Dioniso. Non sarebbero uomini, se non fossero tristi. La loro vita deve pur morire. Tutta la loro ricchezza è la morte, che li costringe industriarsi, a ricordare e prevedere. [...] Ma che vuoi che gli diamo? Qualunque cosa ne faranno sempre sangue.
    Demetra. C'è un solo modo, e tu lo sai. [...] Dare un senso a quel loro morire. [...] Insegnargli la vita beata. [...] Insegnargli che ci possono eguagliare di là dal dolore e dalla morte. Ma dirglielo noi. Come il grano e la vite discendono all'Ade per nascere, così insegnargli che la morte anche per loro è nuova. [...] Moriranno e avran vinta la morte. Vedranno qualcosa oltre il sangue, vedranno noi due. Non temeranno più la morte e non avranno più bisogno di placarla versando altro sangue. (da Il mistero)
  • Amadriade. Alle volte, non so. Mi chiedo che cosa sarebbe morire. Quest'è l'unica cosa che davvero ci manca. Sappiamo tutto e non sappiamo questa semplice cosa. Vorrei provare, e poi svegliarmi, si capisce.
    Satiro. Sentila. Ma morire è proprio questo – non più sapere che sei morta. Ed è questo il diluvio: morire in tanti che non resti più nessuno a saperlo. [...]
    Amadriade. Strana gente. Loro trattano il destino e l'avvenire, come fosse un passato.
    Satiro. Questo vuol dire, la speranza. Dare un nome di ricordo al destino. (da Il diluvio)
  • Dioniso. E carne e sangue gronderanno, non più per placare la morte, ma per raggiungere l'eterno che li aspetta.
    Demetra. Si direbbe che vedi il futuro. Come puoi dirlo?
    Dioniso. Basta avere veduto il passato, Deò. Credi a me. Ma ti approvo. Sarà sempre un racconto.

Il carcere[modifica]

Incipit[modifica]

Stefano sapeva che quel paese non aveva niente di strano, e che la gente ci viveva, a giorno a giorno, e la terra buttava e il mare era il mare, come su qualunque spiaggia. Stefano era felice del mare, venendoci, lo immaginava come la quarta parete della sua prigione, una vasta parete di colori e di frescura, dentro la quale avrebbe potuto inoltrarsi e scordare la cella.

Citazioni[modifica]

  • La gioia di riavere una porta da chiudere e aprire, degli oggetti da riordinare – che era tutta la gioia della sua libertà – gli era durata a lungo, come una umile convalescenza. Stefano ne sentì presto la precarietà, quando le scoperte ridivennero abitudini; ma vivendo quasi sempre fuori, riservò per la sera e la notte il suo senso d'angoscia.
  • Nessuno si fa casa di una cella, e Stefano si sentiva sempre intorno le pareti invisibili. A volte, giocando alle carte nell'osteria, fra i visi cordiali o intenti di quegli uomini Stefano, si vedeva solo e precario, dolorosamente isolato, fra quella gente provvisoria, dalle sue pareti invisibili. Il maresciallo che chiudeva un occhio e lo lasciava frequentare l'osteria, non sapeva che Stefano a ogni ricordo, a ogni disagio, si ripeteva che tanto quella non era la sua vita, che quella gente e quelle parole scherzose erano remote da lui come un deserto, e lui era un confinato, che un giorno sarebbe tornato a casa.
  • [...] l'angoscia vera è fatta di noia, [...].
  • [...] si resiste a star soli finché qualcuno soffre di non averci con sé, mentre la vera solitudine è una cella intollerabile.

Il compagno[modifica]

Incipit[modifica]

Mi dicevano Pablo perché suonavo la chitarra. La notte che Amelio si ruppe la schiena sulla strada di Avigliana, ero andato con tre o quattro a una merenda in collina – mica lontano, si vedeva il ponte – e avevamo bevuto e scherzato sotto la luna di settembre, finché per via del fresco ci toccò cantare al chiuso. Allora le ragazze si erano messe a ballare. Io suonavo – Pablo qui, Pablo là – ma non ero contento, mi è sempre piaciuto suonare con qualcuno che capisca, invece quelli non volevano che gridare più forte. Toccai ancora la chitarra andando a casa e qualcuno cantava. La nebbia mi bagnava la mano. Ero stufo di quella vita.

Citazioni[modifica]

  • Pensavo, invece, rientrando la sera, ai discorsi che avevo fatto con tutti ma a nessuno avevo detto ch'ero solo come un cane, e non mica perché non ci fosse più Amelio – anche lui mi mancava per questo. Forse a lui l'avrei detto che quell'estate era l'ultima e tra osterie, negozio e chitarra ero stufo. Lui le capiva queste cose. (p. 329)
  • Non gli dissi ch'ero uscito con Linda. Adesso, prima cosa si sentiva quel profumo. La finestra era aperta, ma nel freddo sentivo il profumo. Guardavo in terra i mozziconi se eran sporchi di rossetto. (p. 337)
  • Quando arrivai a Roma sul camion che Milo mi aveva trovato ero contento di aver fatto tanta strada e che al mondo ci fossero degli altri paesi, delle città, delle montagne, tanti posti che non avevo mai visto. Arrivammo di notte. Carletto dormiva appoggiato al conducente. (p. 404)
  • Lei mi disse che andava al cinema quel giorno. Io pensai "Con la blusa a quadretti?". Nel pensarlo le diedi un'occhiata. Lei mi capì e la vidi ridere con gli occhi. Accidenti, era ben sveglia. E sembrava un ragazzo. Fino a notte rividi la testa riccia e quella bocca e il camminare nella tuta. Fu quella volta che scappai senza aspettare che chiudessimo. (p. 420)
  • Cara donna, vuoi che mettiamo il letto in negozio? Sono Pablo, e lavoro a giornata.
  • Il suo fianco era il mio. La sua voce era come abbracciarla.
  • L'acqua correva piano piano sotto il cielo.

Explicit[modifica]

Parlammo ancora di Torino e della casa. Lei mi parlò di Carlottina e di mia madre. – Le vedrò quando verrò a Torino? – diceva. Tornammo a piedi, verso sera. C'era un sole d'oro fra le pietre e le piante. Era l'ora che in carcere battono i ferri. Raccontai a Gina di Amelio. Lei stette a sentire, tenendomi il braccio. – Verrà a Roma, – le dissi, – verrà anche lui. Come gli altri. Poi ci lasciammo sulla porta del negozio. Era già notte.

Il diavolo sulle colline[modifica]

  • Sei sì o no persuaso che lo stato dell'uomo è la debolezza? Come puoi sollevarti se prima non precipiti? (V)
  • Non c'è niente che sappia di morte più del sole in estate della gran luce, della natura esuberante. Tu fiuti l'aria e senti il bosco e ti accorgi che piante e bestie se ne infischiano di te. Tutto vive e si macera in se stesso. La natura è la morte. (VII)
  • Pensai a quanti luoghi ci sono nel mondo che appartengono così a qualcuno, che qualcuno ha nel sangue e nessun altro li sa. (IX)
  • Non sai che quello che ti tocca una volta si ripete? Che come si è reagito una volta, si reagisce sempre? Non è mica per caso che ti metti nei guai. Poi ci ricaschi. Si chiama il destino. (XI)
  • Perché tanti discorsi ambigui, buttati con l'edera a nascondere un pozzo, quando tutti sapevamo di che pozzo si trattava? (XVIII)
  • Queste notti moderne, – disse Pieretto. – Sono vecchie come il mondo.
  • – È una stupida, – dissi. – Una donna innamorata è sempre stupida.

Il mestiere di vivere[modifica]

Cesare Pavese

Incipit[modifica]

Che qualcuna delle ultime poesie sia convincente, non toglie importanza al fatto che le compongo con sempre maggiore indifferenza e riluttanza. Nemmeno importa molto che la gioia inventiva mi riesca qualche volta oltremodo acuta. Le due cose, messe insieme, si spiegano coll'acquisita disinvoltura metrica, che toglie il gusto di scavare da un materiale informe, e insieme interessi miei di vita pratica che aggiungono un'esaltazione passionale alla meditazione su certune poesie. (6 ottobre 1935)

Citazioni[modifica]

  • La vita senza fumo è come il fumo senza l'arrosto. (20 dicembre 1935)
  • Quale mondo giaccia di là di questo mare non so, ma ogni mare ha l'altra riva, e arriverò. (16 febbraio 1936)
  • Il futuro verrà da un lungo dolore e un lungo silenzio. (16 febbraio 1936)
  • Bisogna osservare bene questo: ai nostri tempi il suicidio è un modo di sparire, viene commesso timidamente, silenziosamente, schiacciatamente. Non è più un agire, è un patire. (24 aprile 1936)
  • L'unico modo di sfuggire all'abisso è di guardarlo e misurarlo e sondarlo e discendervi. (24 aprile 1936)
  • Una donna che non sia stupida, presto o tardi, incontra un rottame umano e si prova a salvarlo. Qualche volta ci riesce. Ma una donna che non sia una stupida, presto o tardi trova un uomo sano e lo riduce a rottame. Ci riesce sempre. (3 agosto 1937)
  • Le uniche donne che vale la pena di sposare, sono quelle che non ci si può fidare a sposare. (30 settembre 1937)
  • Un uomo non rimpiange per amore chi l'abbia tradito, ma per avvilimento di non avere meritato la fiducia. (13 novembre 1937)
  • Far poesie è come far l'amore: non si saprà mai se la propria gioia è condivisa. (17 novembre 1937)
  • Se è vero che ci si abitua al dolore, come mai con l'andar degli anni si soffre sempre di più? (21 novembre 1937)
  • No, non sono pazzi questa gente che si diverte, che gode, che viaggia, che fotte, che combatte – non sono pazzi, tanto è vero che vorremmo farlo anche noi. (21 novembre 1937)
  • L'unica gioia al mondo è cominciare. È bello vivere perché vivere è cominciare, sempre, ad ogni istante. Quando manca questo senso – prigione, malattia, abitudine, stupidità, – si vorrebbe morire. (23 novembre 1937)
  • Ma la grande, la tremenda verità è questa: soffrire non serve a niente. (26 novembre 1937)
  • Pensiero d'amore: ti voglio tanto bene che desidero esser nato tuo fratello, o averti messo al mondo io stesso. (30 novembre 1937)
  • Ogni critico è propriamente una donna nell'età critica, astioso e refoulé. (30 novembre 1937)
  • Proprio a te doveva accadere di concentrare tutta la vita su un punto, e poi scoprire che tutto puoi fare tranne vivere quel punto. (25 dicembre 1937)
  • Se il chiavare non fosse la cosa più importante della vita, la Genesi non comincerebbe di lì. (25 dicembre 1937)
  • C'è qualcosa di più triste che invecchiare, ed è rimanere bambini. (25 dicembre 1937)
  • Questo è definitivo: tutto potrai avere dalla vita, meno che una donna ti chiami il suo uomo. E finora tutta la tua vita era fondata su questa speranza. (5 gennaio 1938)
  • L'arte di vivere è l'arte di saper credere alle menzogne. (5 gennaio 1938)
  • Povera gente, i testicoli da cui siamo nati, sono ancora sempre la nostra sostanza. Immensamente più felice è lo scemo, il povero, il malvagio di cui funzioni il membro, che non il genio, il ricco, l'evangelico, anormale là sotto. (5 gennaio 1938)
  • La difficoltà di commettere suicidio sta in questo: è un atto d'ambizione che si può commettere solo quando si sia superata ogni ambizione. (16 gennaio 1938)
  • Perché il veramente innamorato chiede la continuità, la vitalità (lifelongness) dei rapporti? Perché la vita è dolore e l'amore goduto è un anestetico, e chi vorrebbe svegliarsi a metà operazione? (19 gennaio 1938)
  • Consolante pensiero: non contano le azioni che facciamo, ma l'animo con cui le facciamo. Cioè: soffrano pure gli altri, tanto non c'è altro al mondo che sofferenza. Il problema è solo come portare una coscienza pura. E ciò sarebbe la morale. (26 gennaio 1938)
  • Per disprezzare il denaro bisogna appunto averne, e molto.[7] (2 febbraio 1938)
  • Quei filosofi che credono all'assoluto logico della verità, non hanno mai avuto a che discorrere a ferri corti con una donna. (19 febbraio 1938)
  • Vendicarsi di un torto ricevuto è togliersi il conforto di gridare all'ingiustizia. (5 marzo 1938)
  • Non manca mai a nessuno una buona ragione per uccidersi. (23 marzo 1938)
  • Perché – quando si è sbagliato – si dice «un'altra volta saprò come fare», quando si dovrebbe dire «un'altra volta so già come farò»? (25 aprile 1938)
  • Siccome Dio poteva creare una libertà che non consentisse il male (cfr. lo stato dei beati liberi e certi di non peccare), ne viene che il male l'ha voluto lui. Ma il male lo offende. È quindi un banale caso di masochismo. (13 maggio 1938)
  • In fondo, l'unica ragione perché si pensa sempre al proprio io è che col nostro io dobbiamo stare più continuamente che non chiunque altro. (26 maggio 1938)
  • La morte è il riposo, ma il pensiero della morte è il disturbatore di ogni riposo. (7 giugno 1938)
  • Tutti «gli affetti più sacri» non sono che una pigra abitudine. (12 giugno 1938)
  • Tanto poco un uomo s'interessa dell'altro, che persino il cristianesimo raccomanda di fare il bene per amore di Dio. (8 luglio 1938)
  • Il fascino sottile delle convalescenze consiste in questo: tornare alle proprie abitudini con l'illusione di scoprirle. (28 agosto 1938; 1967, p. 109)
  • Gli uomini che hanno una tempestosa vita interiore e non cercano sfogo o nei discorsi o nella scrittura, sono semplicemente uomini che non hanno una tempestosa vita interiore. (19 settembre 1938)
  • Date una compagnia al solitario e parlerà più di chiunque. (19 settembre 1938)
  • L'origine di tutti i peccati è il senso d'inferiorità – detto altresì ambizione. (21 settembre 1938)
  • L'uomo d'azione non è l'ignorante che si butta allo sbaraglio dimenticandosi, ma l'uomo che ritrova nella pratica le cose che sa. (3 ottobre 1938)
  • L'offesa più atroce che si può fare a un uomo è negargli che soffra. (5 ottobre 1938)
  • Sciocco addolorarsi per la perdita di una compagnia: quella persona potevamo non incontrarla mai, quindi possiamo farne a meno. (13 ottobre 1938)
  • La religione consiste nel credere che tutto quello che ci accade è straordinariamente importante. Non potrà mai sparire dal mondo, proprio per questa ragione. (13 ottobre 1938)
  • Non si desidera di godere. Si desidera sperimentare la vanità di un piacere, per non esserne più ossessionati. (16 ottobre 1938)
  • La fantasia umana è immensamente più povera della realtà. (25 ottobre 1938)
  • Soffrire non serve a niente | Soffrire limita l'efficienza spirituale | Soffrire è sempre colpa nostra | Soffrire è una debolezza. (28 ottobre 1938)
  • Non bastano le disgrazie a fare di un fesso una persona intelligente. (2 novembre 1938)
  • Sostenere che i nostri successi ci sono impartiti dalla Provvidenza e non dall'astuzia, è un'astuzia di più per aumentare ai nostri occhi l'importanza di questi successi. (4 novembre 1938)
  • Passavo la sera seduto davanti allo specchio per tenermi compagnia... (6 novembre 1938)
  • La letteratura è una difesa contro le offese della vita. Le dice: «Tu non mi fai fesso: so come ti comporti, ti seguo e ti prevedo, godo anzi a vederti fare, e ti rubo il segreto componendoti in scaltrite costruzioni che arrestano il tuo flusso». (10 novembre 1938)
  • Non si desidera possedere una donna, si desidera possederla noi soli. (13 novembre 1938)
  • Leggendo non cerchiamo idee nuove, ma pensieri già da noi pensati, che acquistano sulla pagina un suggello di conferma. Ci colpiscono degli altri le parole che risuonano in una zona già nostra – che già viviamo – e facendola vibrare ci permettono di cogliere nuovi spunti dentro di noi. (3 dicembre 1938)
  • L'ozio rende lente le ore e veloci gli anni. L'operosità rapide le ore e lenti gli anni. (10 dicembre 1938)
  • La cosa più banale, scoperta in noi diventa interessantissima. Nasce da ciò, che non è più un'astratta cosa banale, ma un inaudito miscuglio di realtà e di nostra essenza. (29 gennaio 1939)
  • Per libertario che sia un giovane, cerca sempre di modellarsi su di uno schema astratto, quale in sostanza deduce dall'esempio del mondo. E un uomo, per conservatore che sia, fa consistere il suo valore della deviazione individuale dal modello. (5 marzo 1939)
  • Tutto il problema della vita è dunque questo: come rompere la propria solitudine, come comunicare con altri. (15 maggio 1939)
  • Il sesso è un incidente: ciò che ne riceviamo è momentaneo e casuale; noi miriamo a qualcosa di più riposto e misterioso di cui il sesso è solo n segno, un simbolo. (15 maggio 1939)
  • La politica è l'arte del possibile. Tutta la vita è politica. (15 maggio 1939)
  • La guerra imbarbarisce perché, per combatterla, occorre indurirsi verso ogni rimpianto e attaccamento a valori delicati, occorre vivere come se questi valori non esistessero; e, una volta finita, si è persa ogni elasticità di tornare a questi valori. (9 settembre 1939)
  • Si fa l'elemosina, per levarsi d'innanzi il miserabile che la chiede. (17 settembre 1939)
  • Ci vuole la ricchezza d'esperienze del realismo e la profondità di sensi del simbolismo. (14 dicembre 1939)
  • Tutta l'arte è un problema di equilibrio fra due opposti. (14 dicembre 1939)
  • L'amore è la più a buon prezzo delle religioni. (21 dicembre 1939)
  • Le cose gratuite sono quelle che costano di più. Come? Costano lo sforzo per capire che sono gratuite. (21 gennaio 1940)
  • In genere è per mestiere disposto a sacrificarsi chi non sa altrimenti dare un senso alla sua vita. (9 febbraio 1940)
  • Se una vita libera assolutamente da ogni senso di peccato fosse realizzabile, sarebbe vuota da far spavento. (17 marzo 1940)
  • Le generazioni non invecchiano. Ogni giovane di qualunque tempo e civiltà ha le stesse possibilità di sempre. (19 aprile 1940)
  • Finché si avranno passioni non si cesserà di scoprire il mondo. (16 giugno 1940)
  • Il sogno è una costruzione dell'intelligenza, cui il costruttore assiste senza sapere come andrà a finire. (22 luglio 1940)
  • Gli anacoreti si maltrattavano a quel modo, per farsi scusare presso la gente comune la beatitudine che avrebbero goduto in cielo. (27 luglio 1940)
  • Non si ricordano i giorni, si ricordano gli attimi. (28 luglio 1940)
  • Non bisogna mai dire per gioco che si è scoraggiati, perché può accadere che ci pigliamo in parola. (5 agosto 1940)
  • La vita non è ricerca di esperienze, ma di se stessi. Scoperto il proprio strato fondamentale ci si accorge che esso combacia col proprio destino e si trova la pace. (8 agosto 1940)
  • Riesce a compiere un'opera soltanto chi valga più di quest'opera. (14 agosto 1940)
  • La vera genialità [...] non è conquistare una donna già desiderata da tutti, ma scovarne una preziosa in un essere ignorato. (7 ottobre 1940)
  • C'è un'arte di ricevere in faccia le sferzate del dolore, che bisogna imparare. Lasciare che ogni singolo assalto si esaurisca; un dolore fa sempre singoli assalti – lo fa per mordere piú risoluto e concentrato. E tu, mentre ha i denti piantati in un punto e inietta qui il suo acido, ricordati di mostrargli un altro punto e fartici mordere – solleverai il primo. Un vero dolore è fatto di molti pensieri; ora, di pensieri se ne pensa uno solo alla volta; sappiti barcamenare tra i molti, e riposerai successivamente i settori indolenziti. (10 ottobre 1940)
  • L'amore ha la virtù di denudare non i due amanti l'uno di fronte all'altro, ma ciascuno dei due davanti a sé. (12 ottobre 1940)
  • I grandi amanti saranno sempre infelici, perché per loro l'amore è grande e quindi esigono dalla bienaimée la stessa intensità di pensieri ch'essi hanno per lei – altrimenti si sentono traditi. (14 ottobre 1940)
  • Le cose si ottengono quando non si desiderano più. (15 ottobre 1940)
  • Una decisione, un atto, sono infallibili presagi di ciò che faremo un'altra volta, non per qualche mistica ragione astrologica, ma perché escono da un automatismo che si riprodurrà. (4 aprile 1941)
  • Nessuna donna fa un matrimonio d'interesse: tutte hanno l'accortezza, prima di sposare un milionario, d'innamorarsene. (14 aprile 1941)
  • Quando una donna si sposa appartiene a un altro; e quando appartiene a un altro non c'è più nulla da dirle. (Inverno 1941-1942)
  • Le cose si scoprono attraverso i ricordi che se ne hanno. Ricordare una cosa significa vederla – ora soltanto – per la prima volta. (28 gennaio 1942)
  • Nell'inquietudine e nello sforzo di scrivere, ciò che sostiene è la certezza che nella pagina resta qualcosa di non detto. (4 maggio 1942)
  • Amore è desiderio di conoscenza. (30 agosto 1942)
  • Viene un giorno che per chi ci ha perseguitato proviamo soltanto indifferenza, stanchezza della sua stupidità. Allora perdoniamo. (6 settembre 1942)
  • Il problema non è la durezza della sorte, poiché tutto quello che si desidera con bastante forza, si ottiene. Il problema è piuttosto che ciò che si ottiene disgusta. E allora non deve mai accadere di prendersela con la sorte, ma con il proprio desiderio. (3 febbraio 1943)
  • Nel sogno sei autore e non sai come finirà. (8 ottobre 1943)
  • Raccontare le cose incredibili come fossero reali – sistema antico; raccontare le reali come fossero incredibili – moderno. (11 novembre 1943)
  • La tua modernità sta tutta nel senso dell'irrazionale. (8 febbraio 1944)
  • La ricchezza della vita è fatta di ricordi, dimenticati. (13 febbraio 1944)
  • L'innamorato e l'odiatore si fanno dei simboli, come il superstizioso. È della passione conferire unicità alle cose o persone. Chi non conosce simboli è un ignavo di Dante.
    Ecco perché l'arte si rispecchia nei riti dei primitivi o nelle passioni forti: cerca dei simboli. E vertendo sul primitivo gode del selvaggio. Cioè dell'irrazionale (sangue e sesso). (14 luglio 1944)
  • Viene un'epoca in cui ci si rende conto che tutto ciò che facciamo diventerà a suo tempo ricordo. È la maturità. Per arrivarci sogna appunto già avere dei ricordi. (1 ottobre 1944)
  • Non è bello esser bambini: è bello da anziani pensare a quando eravamo bambini. (6 settembre 1945)
  • Non ci si libera di una cosa evitandola, ma soltanto attraversandola. (22 novembre 1945)
  • Come si può aver fiducia in una persona che non si arrischia ad affidarti tutta la sua vita, giorno e notte? (28 novembre 1945)
  • Certo, avere una donna che ti aspetta, che dormirà con te, è come il tepore di qualcosa che dovrai dire, e ti scalda e t'accompagna e ti fa vivere. (8 febbraio 1946)
  • Non c'è vendetta più bella di quella che gli altri infliggono al tuo nemico. Ha persino il pregio di lasciarti la parte del generoso. (4 marzo 1946)
  • È bello scrivere perché riunisce le due gioie: parlare da solo e parlare a una folla. (4 maggio 1946)
  • Le lezioni non si dànno, si prendono. (18 agosto 1946)
  • Aspettare è ancora un'occupazione. È non aspettar niente che è terribile. (15 settembre 1946)
  • C'è un solo piacere, quello di essere vivi, tutto il resto è miseria. (16 settembre 1946)
  • Si aspira ad avere un lavoro, per avere il diritto di riposarsi. (21 luglio 1947)
  • I problemi che agitano una generazione si estinguono per la generazione successiva non perché siano stati risolti ma perché il disinteresse generale li abolisce. (10 agosto 1947)
  • Il mito greco insegna che si combatte sempre contro una parte di sé, quella che si è superata, Zeus contro Tifone, Apollo contro il Pitone. Inversamente, ciò contro cui si combatte è sempre una parte di sé, un antico se stesso. Si combatte soprattutto per non essere qualcosa, per liberarsi. Chi non ha grandi ripugnanze, non combatte. (28 dicembre 1947)
  • Non è che accadano a ciascuno cose secondo un destino, ma le cose accadute ciascuno le interpreta, se ne ha la forza, disponendole secondo un senso – vale a dire, un destino. (25 gennaio 1948)
  • Si odiano gli altri, perché si odia se stessi. (3 dicembre 1948)
  • Perché il mondo l'avvenire ora l'hai dentro come passato, come esperienza, come tecnica, e il perenne e ricco mistero si ritrova essere quel tu infantile che non hai fatto in tempo a possedere. (13 febbraio 1949)
  • Tutte le passioni passano e si spengono tranne le più antiche, quelle dell'infanzia. (5 aprile 1949)
  • Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla. (20 marzo 1950)
  • Il gesto – il gesto – non dev'essere una vendetta. Dev'essere una calma e stanca rinuncia, una chiusa di conti, un fatto privato e ritmico. L'ultima battuta. (10 maggio 1950)
  • Nulla si assomma al resto, al passato. Ricominciamo sempre. (16 agosto 1950)
  • Chiodo scaccia chiodo. Ma quattro chiodi fanno una croce. (16 agosto 1950)
  • I suicidi sono omicidi timidi. Masochismo invece che sadismo. (17 agosto 1950)

Explicit[modifica]

La cosa più segretamente temuta accade sempre.
Scrivo: o Tu, abbi pietà. E poi?

Basta un po' di coraggio.

Più il dolore è determinato e preciso, più l'istinto della vita si dibatte, e cade l'idea del suicidio.

Sembrava facile, a pensarci. Eppure donnette l'hanno fatto. Ci vuole umiltà, non orgoglio.

Tutto questo fa schifo.
Non parole. Un gesto. Non scriverò più. (18 agosto 1950)[8]

La bella estate[modifica]

Incipit[modifica]

A quei tempi era sempre festa. Bastava uscire di casa e traversare la strada, per diventare come matte, e tutto era cosí bello, specialmente di notte, che tornando stanche morte speravano ancora che qualcosa succedesse, che scoppiasse un incendio, che in casa nascesse un bambino, e magari venisse giorno all'improvviso e tutta la gente uscisse in strada e si potesse continuare a camminare camminare fino ai prati e fin dietro le colline. – Siete sane, siete giovani, – dicevano, – siete ragazze, non avete pensieri, si capisce –. Eppure una di loro, quella Tina che era uscita zoppa dall'ospedale e in casa non aveva da mangiare, anche lei rideva per niente, e una sera, trottando dietro gli altri, si era fermata e si era messa a piangere perché dormire era una stupidaggine e rubava tempo all'allegria.

Citazioni[modifica]

  • Pieretto diceva che la vecchia pretesa di trovare intatta la donna era un residuo dello stesso gusto – la sciocca mania di arrivare primo. Diceva che il gusto dell'intatto e del selvaggio era il gusto di spargere il sangue. Si fa all'amore per ferire, per spargere sangue. Il borghese che si sposa e pretende una vergine, vuole cavarsi anche lui questa voglia.
  • È bello svegliarsi e non farsi illusioni. Ci si sente liberi e responsabili. Una forza tremenda è in noi, la libertà. Si può toccare l'innocenza. Si è disposti a soffrire.
  • I lavativi hanno la pelle dura.
  • La vera confidenza è sapere quel che desidera un altro, e quando piacciono le stesse cose una persona non dà più soggezione.
  • Un padre va sempre aiutato. Bisogna insegnargli che la vita è difficile. Se poi, com'è giusto, tu arrivi dove lui voleva, devi convincerlo che aveva torto e che l'hai fatto per il suo bene.

La casa in collina[modifica]

Incipit[modifica]

Già in altri tempi si diceva la collina come avremmo detto il mare o la boscaglia. Ci tornavo la sera, dalla città che si oscurava, e per me non era un luogo tra gli altri, ma un aspetto delle cose, un modo di vivere. Per esempio, non vedevo differenza tra quelle colline e queste antiche dove giocai bambino e adesso vivo: sempre un terreno accidentato e serpeggiante, coltivato e selvatico, sempre strade, cascine e burroni. Ci salivo la sera come se anch'io fuggissi il soprassalto notturno degli allarmi, e le strade formicolavano di gente, povera gente che sfollava a dormire magari nei prati, portandosi il materasso sulla bicicletta o sulle spalle, vociando e discutendo, indocile, credula e divertita.

Citazioni[modifica]

  • Non avevo tristezze, sapevo che nella notte la città poteva andare tutta in fiamme e la gente morire. I burroni, le ville e i sentieri si sarebbero svegliati al mattino calmi e uguali. (I; p. 3)
  • Con la guerra divenne legittimo chiudersi in sé, vivere alla giornata, non rimpiangere piú le occasioni perdute. Ma si direbbe che la guerra io l’attendessi da tempo e ci contassi, una guerra cosí insolita e vasta che, con poca fatica, si poteva accucciarsi e lasciarla infuriare, sul cielo delle città, rincasando in collina. Adesso accadevano cose che il semplice vivere senza lagnarsi, senza quasi parlarne, mi pareva un contegno. Quella specie di sordo rancore in cui s’era conchiusa la mia gioventú, trovò con la guerra una tana e un orizzonte. (I; p. 4)
  • Dietro ai coltivi e alle strade, dietro alle case umane, sotto i piedi, l'antico indifferente cuore della terra covava nel buio, viveva in burroni, in radici, in cose occulte, in paure d'infanzia. Cominciavo a quei tempi a compiacermi in ricordi d'infanzia. Si direbbe che sotto ai rancori e alle incertezze, sotto alla voglia di star solo, mi scoprivo ragazzo per avere un compagno, un collega, un figliolo. Rivedevo questo paese dov'ero vissuto. Eravamo noi soli, il ragazzo e me stesso. Rivivevo le scoperte selvatiche d'allora. Soffrivo sí ma col piglio scontroso di chi non riconosce né ama il prossimo. E discorrevo discorrevo, mi tenevo compagnia. Eravamo noi due soli. (I; p. 5)
  • Per qualche mese studiai molto e mi fingevo un avvenire. Quell’ombra di dubbio nell’aria, quella febbre di tutti, la minaccia, la guerra vicina, rendevano piú vive le giornate e piú futili i rischi. Ci si poteva abbandonare e poi riprendere; nulla accadeva e tutto aveva sapore. Domani, chi sa. (II)
  • [Corrado a Cate] Se non lo fossimo, dovremmo rivoltarci, tirare le bombe, rischiare la pelle. Chi lascia fare e s’accontenta, è già un fascista. (IV)
  • [Corrado a Cate] Si passano insieme dei mesi, degli anni, poi succede. Si perde un appuntamento, si cambia casa, e uno che vedevi tutti i giorni non sai nemmeno piú chi sia. (IV)
  • Il coraggio di starsene soli come se gli altri non ci fossero e pensare soltanto alla cosa che fai. Non spaventarsi se la gente se ne infischia. Bisogna aspettare degli anni, bisogna morire. Poi dopo morto, se hai fortuna, diventi qualcuno. (VIII; pp. 45-46)
  • Inutile piangere. Si nasce e si muore da soli... (Corrado: VIII; p. 46)
  • Per molti giorni non discesi a Torino; mi accontentavo dei giornali e della nuova libertà di ascoltare e inveire. Da ogni parte forivano voci, pettegolezzi, speranze. Lassú nelle ville nessuno pensava a una cosa: il vecchio mondo non l'avevano schiacciato gli avversari, s'era ucciso da sé. Ma c'è qualcuno che si uccida per sparire davvero? (IX; p. 47)
  • Quella guerra in cui vivevo rifugiato, convinto di averla accettata, di essermene fatta una pace scontrosa, inferociva, mordeva piú a fondo, giungeva ai nervi e nel cervello. (XIII; p. 68)
  • Nelle parole c'è qualcosa d'impudico. (XIII; p. 69)
  • Conta quello che si fa, non che si dice. (Cate, citando Fonso: XV; p. 82)
  • È religione anche non credere in niente. (Corrado: XV; p. 82)
  • Oggi ancora mi chiedo perché quei tedeschi non mi aspettarono alla villa mandando qualcuno a cercarmi a Torino. Devo a questo se sono ancora libero, se sono quassú. Perché la salvezza sia toccata a me e non a Gallo, non a Tono, non a Cate, non so. Forse perché devo soffrire dell'altro? Perché sono il piú inutile e non merito nulla, nemmeno un castigo? Perch'ero entrato quella volta in chiesa? L'esperienza del pericolo rende vigliacchi ogni giorno di piú. Rende sciocchi, e sono al punto che esser vivo per caso, quando tanti migliori di me sono morti, non mi soddisfa e non mi basta. A volte, dopo avere ascoltato l'inutile radio, guardando dal vetro le vigne deserte penso che vivere per caso non è vivere. E mi chiedo se sono davvero scampato. (XVI; pp. 87-88)
  • Ma ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l'ha sparso. Guardare certi morti è umiliante. Non sono piú faccenda altrui; non ci si sente capitati sul posto per caso. Si ha l'impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi, tenga noialtri inchiodati a vederli, a riempircene gli occhi. Non è paura, non è la solita viltà. Ci si sente umiliati perché si capisce – si tocca con gli occhi – che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione. (XXIII; p. 122)

Explicit[modifica]

Io non credo che possa finire. Ora che ho visto cos'è guerra, cos'è guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: – E dei caduti che facciamo? perché sono morti? – Io non saprei cosa rispondere. Non adesso, almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero.

La letteratura americana[modifica]

  • Perché questo è l'ostacolo, la crosta da rompere: la solitudine dell'uomo – di noi e degli altri. (da Ritorno all'uomo[9]; p. 198)
  • La vita di ogni artista e di ogni uomo è come quella dei popoli un incessante sforzo per ridurre a chiarezza i suoi miti. (da Del mito, del simbolo e d'altro[10]; p. 274)

La luna e i falò[modifica]

Incipit[modifica]

C'è una ragione perché sono tornato in questo paese, qui e non invece a Canelli, a Barbaresco o in Alba. Qui non ci sono nato, è quasi certo; dove son nato non lo so; non c'è da queste parti una casa né un pezzo di terra né delle ossa ch'io possa dire «Ecco cos'ero prima di nascere». Non so se vengo dalla collina o dalla valle, dai boschi o da una casa di balconi. La ragazza che mi ha lasciato sugli scalini del duomo di Alba, magari non veniva neanche dalla campagna, magari era la figlia dei padroni di un palazzo, oppure mi ci hanno portato in un cavagno da vendemmia due povere donne da Monticello, da Neive o perché no da Cravanzana. Chi può dire di che carne sono fatto? Ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono, ma è per questo che uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più che un comune giro di stagione.

Citazioni[modifica]

  • Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti. (I)
  • Non era un paese che uno potesse rassegnarsi, posare la testa e dire agli altri: "Per male che vada mi conoscete. Per male che vada lasciatemi vivere". Era questo che faceva paura. (III)
  • I veri acciacchi dell'età sono i rimorsi. (VIII)
  • – Che cos'è questa valle per una famiglia che viene dal mare, che non sappia niente della luna e dei falò? Bisogna averci fatto le ossa, averla nelle ossa come il vino e la polenta, allora la conosci senza bisogno di parlarne. (X)
  • Nuto, che non se n'era mai andato veramente, voleva ancora capire il mondo, cambiare le cose, rompere le stagioni. O forse no, credeva sempre nella luna. Ma io, che non credevo nella luna, sapevo che tutto sommato soltanto le stagioni contano, e le stagioni sono quelle che ti hanno fatto le ossa, che hai mangiato quand'eri ragazzo. (X)
  • Sembrava che tutta la pianura fosse un campo di battaglia, o un cortile. C'era una luce rossastra, scesi fuori intirizzito e scassato; tra le nuvole basse era spuntata una fetta di luna che pareva una ferita di coltello e insanguinava la pianura. Rimasi a guardarla un pezzo. Mi fece davvero spavento. (XI)
  • E quando aveva detto una cosa finiva: 'Se sbaglio, correggimi'. Fu così che cominciai a capire che non si parla solamente per parlare, per dire 'ho fatto questo' 'ho fatto quello' 'ho mangiato e bevuto', ma si parla per farsi un'idea, per capire come va questo mondo. (XVII)
  • L'ignorante non si conosce mica dal lavoro che fa ma da come lo fa. (XVII)
  • Gli diceva che sono soltanto i cani che abbaiano e saltano addosso ai cani forestieri e che il padrone aizza un cane per interesse, per restare padrone, ma se i cani non fossero bestie si metterebbero d'accordo e abbaierebbero addosso al padrone. (XVIII)
  • A un certo punto i due sigari ci cadevano ai piedi, nella neve, e allora là sopra si sentiva sussurrare, agitarsi, qualche sospiro più forte. Alzando gli occhi non si vedeva che la vite secca e tante stelline fredde in cielo. (XXIII)
  • Magari è meglio così, meglio che tutto se ne vada in un falò d'erbe secche e che la gente ricominci. (XXVI)
  • Gli ignoranti saranno sempre ignoranti, perché la forza è nelle mani di chi ha interesse che la gente non capisca, nelle mani del governo, dei neri, dei capitalisti... (XXVI)
  • Capii che Nuto aveva davvero ragione quando diceva che vivere in un buco o in un palazzo è lo stesso, che il sangue è rosso dappertutto, e tutti vogliono esser ricchi, innamorati, far fortuna. (XXIX)

Explicit[modifica]

[...] gli chiesi se Santa era sepolta lì. – Non c'è caso che un giorno la trovino? Hanno trovato quei due... Nuto s'era seduto sul muretto e mi guardò col suo occhio testardo. Scosse il capo. – No, Santa no, – disse, – non la trovano. Una donna come lei non si poteva coprirla di terra e lasciarla così. Faceva ancora gola a troppi. Ci pensò Baracca. Fece tagliare tanto sarmento nella vigna e la coprimmo fin che bastò. Poi ci versammo la benzina e demmo fuoco. A mezzogiorno era tutta cenere. L'altr'anno c'era ancora il segno, come il letto di un falò.

La spiaggia[modifica]

Incipit[modifica]

Da parecchio tempo eravamo intesi con l'amico Doro che sarei stato ospite suo. A Doro volevo un gran bene, e quando lui per sposarsi andò a stare a Genova ci feci una mezza malattia. Quando gli scrissi per rifiutare di assistere alle nozze, ricevetti una risposta asciutta e baldanzosa dove mi spiegava che, se i soldi non devono neanche servire a stabilirsi nella città che piace alla moglie, allora non si capisce più a che cosa devano servire. Poi, un bel giorno, di passaggio a Genova, mi presentai a casa sua e facemmo la pace. Mi riuscì molto simpatica la moglie, una monella che mi disse graziosamente di chiamarla Clelia e ci lasciò soli quel tanto ch'era giusto, e quando alla sera ci ricomparve innanzi per uscire con noi, era diventata un'incantevole signora cui, se non fossi stato io, avrei baciato la mano.

Citazioni[modifica]

  • Avevamo allora l'età che si ascolta parlare l'amico come se parlassimo noi, che si vive a due quella vita in comune che ancora oggi, io, che sono scapolo, credo riescano a vivere certe coppie di sposi. (II)
  • Che ti credi? Che io faccia il ritorno alle origini? Quello che importa ce l'ho nel sangue e nessuno me lo toglie. Sono qui per bere un po' del mio vino e cantare una volta con chi so io. Mi prendo uno svago e basta. (II)
  • Non mescolare vino e donne, Doro. (II)
  • Ecco, fa come gli altri anche lei. Ma non capisce che non possiamo litigare? Noi ci vogliamo bene. Se potessi odiarlo come odio me, allora sì lo maltratterei. Ma nessuno di noi due lo merita. Capisce? (III)
  • Che cosa non sonnecchia sotto la scorza di noialtri. Bisognerebbe avere il coraggio di svegliarsi e trovare se stessi. O almeno parlarne. Si parla troppo poco a questo mondo. (IV)
  • Ma ti ricordi quante parole si facevano da ragazzi. Si parlava così per dire. Sapevamo benissimo ch'eran solo discorsi, eppure il gusto ce lo siamo cavato. (IV)
  • Bisogna capire la vita. Capirla quando si è giovani. (IV)
  • Sarebbe facile, se fosse vero, capire la gente. (IV)
  • A tutti quanti, a tutti i matti che sforzano il cervello e che non sanno quand'è tempo di smettere. (IV)
  • Nulla è volgare di per sé, ma siamo noi che facciamo la volgarità secondo che parliamo o pensiamo. (VI)
  • Tutti gli anni sono stupidi. È una volta passati, che diventano interessanti. (IX)
  • Niente è più inabitabile di un posto dove siamo stati felici. (XI)

Lavorare stanca[modifica]

Incipit[modifica]

Traversare una strada per scappare di casa
lo fa solo un ragazzo, ma quest'uomo che gira
tutto il giorno le strade, non è più un ragazzo
e non scappa di casa.[11]

Citazioni[modifica]

  • L'uomo è come una bestia, che vorrebbe far niente.
  • Lavorare stanca.[12]
  • Siamo nati per girovagare su quelle colline, | senza donne, e le mani tenercele dietro la schiena.

Paesi tuoi[modifica]

Incipit[modifica]

Cominciò a lavorarmi sulla porta. Io gli avevo detto che non era la prima volta che uscivo di là e che un uomo come lui doveva provare anche quello, ma ecco che si mette a ridere facendo il malizioso come fossimo uomo e donna in un prato, e si butta sotto braccio il fagotto e mi dice: – Bisognerebbe non avere mio padre –. Che gli scappasse da ridere me l'aspettavo, perché un goffo come quello non esce di là dentro senza fare matterie, ma era un ridere con malizia, di quelli che si fanno per aprire un discorso. – Stasera mangerai la gallina con tuo padre, – gli dico guardando la strada. – La prima volta che si esce dal giudiziario, a casa ti fanno la festa di nozze –. Lui mi veniva dietro e mi stava attaccato come se il carrettino dei gelati che passava a tutta corsa minacciasse noi due pedoni. Non aveva mai traversato un corso, si vede, o mi stava già lavorando. Mi ricordo che né io né lui ci voltammo a guardare le Carceri.

Citazioni[modifica]

  • Non fidarti delle donne quando ammettono il male.
  • Quando le donne parlano ridendo è come un uomo che vi prende da parte per darvi un consiglio.
  • Uno di campagna è come un ubriaco. È troppo stupido per lasciarsela fare.

Racconti[modifica]

  • Una volta, quando veniva l'estate, andavamo in barca. La si prendeva al ponte, ci si metteva in mutandine, e si arrivava fino ai boschi. Ci stavamo tutto il pomeriggio. (da La famiglia; p. 288)
  • C'è qualcosa nei miei ricordi d'infanzia che non tollera la tenerezza carnale di una donna – sia pure Clara. In quelle estati che hanno ormai nel ricordo un colore unico, sonnecchiano istanti che una sensazione o una parola riaccendono improvvisi, e subito comincia lo smarrimento della distanza, l'incredulità di ritrovare tanta gioia in un tempo scomparso e quasi abolito. (da Fine d'agosto; p. 329)
  • Solo ciò che è trascorso o mutato o scomparso ci rivela il suo volto reale. (da Terra d'esilio)

Vita attraverso le lettere[modifica]

  • Ma alla fin fine, se lo debbo dire, io penso che a dischiudermi la vita sono stati in gran parte i libri. Non le grammatiche o i vocabolari ma tutte le opere in cui vive qualche sentimento. (Lettera ad Augusto Monti, Reaglie, agosto 1926, p. 8)
  • La vita non è forse più bella perché da un momento all'altro si può perderla? (p. 39)
  • Non so più dove cacciare gli occhi per trovare un me stesso che sia un po' meno misero. (p. 39)
  • Per vivere bisogna aver forza e capire, scegliere. (p. 39)
  • È triste, è triste: vai a sapere che cosa sono e cosa sarò. (p. 41)
  • Con qualunque persona io parli, insomma, ho bisogno di farmi una faccia speciale adatta a una qualche particolare debolezza di detta persona, con evidente pregiudizio di quella che potrebbe essere la mia faccia vera. Sono così anche riuscito a non saper più quale sia questa mia faccia. Che magari non c'è neanche. (p. 61)
  • La paura di innamorarsi non è forse già un po' d'amore? (p. 88)
  • C'è qualcosa di più assurdo dell'amore? Se lo godiamo fino all'ultimo, subito ce ne stanchiamo, disgustiamo; se lo teniamo alto per ricordarlo senza rimorsi, un giorno rimpiangeremo la nostra sciocchezza e viltà di non aver osato. (p. 107)
  • Non va bene esagerare in beneficenza, perché a un certo punto non si guadagna più che l'odio del beneficiato. (p. 129)

Walt Whitman[modifica]

  • Troppo sovente, mi pare, l'immagine di Walt Whitman che i commentatori hanno dinanzi agli occhi è quella del vecchio barbuto e secolare, intento a contemplare la farfalla o a comprendere nelle occhiaie mansuete la serenità finale di ogni gioia e miseria dell'universo.[13] (p. 127)
  • Si direbbe che Walt Whitman pensi per versi, che cioè in lui ogni pensiero, ogni lampo, si crei una forma conchiusa in cui consista e non s'adagi in un ritmo preesistente o soggetto ad altre leggi. Gli alti e bassi della «musica» whitmaniana sono gli alti e bassi del suo pensiero fantastico. Non quindi frammenti: non è più frammentaria una poesia che si semplifica fino a mostrarsi fondata e creata dal verso, dal periodo chiusa in ciascuna unità metrica.[13] (p. 138)
  • [...] qualche volta l'immagine richiede da Walt Whitman parecchi versetti, qualche volta un pensiero si lega logicamente a un altro, ma resta il fatto definitivo della vigorosa affermazione di ciascun verso, finito, pronunciato come fosse la sintesi di tutto il libro e insieme il più ingenuo e nuovo e fresco particolare della sezione. Ora questo si spiega soltanto con la natura di quei pensieri e fantasmi whitmaniani che informano i versi.[13] (p. 138)
  • Ogni pensiero è veramente pensato all'istante, il verso fatto della baldanza e diversità della mente in azione, che si vede nell'atto di pensarlo, ed esprime questa sua coscienza. Walt Whitman canta la gioia di scoprire pensieri.[13] (p. 147)

Incipit di alcune opere[modifica]

Feria d'agosto[modifica]

Chi fossero i miei compagni di quelle giornate, non ricordo. Vivevano in una casa del paese, mi pare, di fronte a noi, dei ragazzi scamiciati – due – forse fratelli. Uno si chiamava Pale, da Pasquale, e può darsi che attribuisca il suo nome all'altro. Ma erano tanti i ragazzi che conoscevo di qua e di là.
Questo Pale – lungo lungo, con una bocca da cavallo – quando suo padre gliene dava un fracco scappava da casa a mancava per due o tre giorni; sicché, quando ricompariva, il padre era già all'agguato con la cinghia e tornava a spellarlo, e lui scappava un'altra volta e sua madre lo chiamava a gran voce, maledicendolo, da quella finestra scrostata che guardava sui prati, sui boschi del fiume, verso lo sbocco della valle.

Notte di festa[modifica]

Sbalzato per strane vicende di lavoro proprio in fondo all'Italia, mi sentivo assai solo e consideravo quello sporco paesello un po' come un castigo, ― quale attende, una volta almeno nella vita, ciascuno di noi ―, un po' come un buon ritiro dove raccogliermi e fare bizzarre esperienze.[14]

Citazioni su Cesare Pavese[modifica]

  • E Cesare, perduto nella pioggia, | sta aspettando da sei ore il suo amore, ballerina. (Francesco De Gregori)
  • Il centro poetico dell'opera di Pavese, tolti di mezzo gli equivoci e le giustificazioni di comodo, è nella lotta tra il desiderio di comunicare e l'esigenza di non uscire, tra la conquista della realtà e il chiudersi mitologico. (Francesco Grisi)
  • Il suo coinvolgimento nella cospirazione antifascista era stato accidentale. La gerenza della nuova serie einaudiana della «Cultura» era stata affidata a lui perché non era politicamente sospetto. E per questo motivo si era servita del suo recapito a Torino la donna amata [Tina Pizzardo], che della cospirazione era partecipe e bene esperta. Arrestato, Pavese fu ascritto all'albo d'onore del confino, perché neppure quei cosiddetti giudici l'avevano considerato meritevole di più grave pena. Dal confino, era tornato più solo e diverso di quanto fosse prima, più vulnerabile, e però con una maggiore urgenza di scrivere, di assolvere il suo proprio compito. Bisognava lasciarlo tranquillo. (Carlo Dionisotti)
  • In fondo, si potrebbe riconoscere qui il vero problema dell'opera pavesiana: dapprima l'intuizione della realtà lascia lo scrittore ammirato, sorpreso, desideroso di vivere in maniera sana e forte; successivamente l'elaborazione interiore però vela di ombre e di incertezze, di dubbi e di fragilità questa intuizione iniziale. (Antonio Spadaro)
  • Lungi dall'essere il musone che hanno descritto, era invece un compagno ilare, allegro, con uno humour molto inglese, molto raffinato. Potrei dire: un "burbero allegro". Fu lui a farmi conoscere la letteratura americana, soprattutto Fitzgerald. Una cosa strana, ci davamo sempre del "lei". Non mi chieda perché, faceva parte di un certo aplomb torinese. Lui veniva ogni giorno alle 14, puntuale come un orologio, a casa nostra per il caffè. Abitavamo vicini all'Einaudi. In un certo senso ci aveva adottato. Diceva sempre che la famiglia uno non se la può scegliere "...e voi siete la mia famiglia", diceva. (Alda Grimaldi)
  • Pavese è riuscito a condensare in una sintesi narrativa tutti gli elementi della propria personalità spirituale facendo dimenticare l'impegno dello scrittore nella naturalezza della creazione, come in questo suo ultimo libro [La luna e i falò]. (Piero Jahier)
  • Pavese sembra incapace di riconoscere che la condizione aurorale dell'infanzia non è solamente terra a cui far ritorno per capire la realtà e luogo in cui trovare rifugio, ma condizione stessa dell'esperienza del mistero del reale, possibilità di una conoscenza intesa come «prima volta» e non sempre e soltanto «seconda». (Antonio Spadaro)
  • Pavese voleva che lo leggessi [Addio alle armi] per farmi capire la differenza tra la letteratura inglese e quella americana. Gli altri libri che mi lasciò quella sera con questa intenzione furono l'Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, l'Autobiografia di Sherwood Anderson e i Fili d'erba di Walt Whitman. (Fernanda Pivano)
  • «Perché non tento mai un altro genere?» si chiedeva Cesare Pavese nel 1935. Era poeta, ma la tentazione della prosa cominciava a incalzare i suoi pensieri. Scriveva queste parole in una specie di diario che sarebbe diventato Il mestiere di vivere; ma quello che è più rilevante è che questa domanda se la faceva nella sua stanza di Brancaleone Calabro, paese dove era stato spedito al confino per l’accusa di antifascismo. Ed evidentemente era proprio quella esperienza che premeva per trovare forma di racconto, visto che in seguito Il carcere, una trasfigurazione di questo periodo, sarà il primo testo in prosa compiuto che Pavese realizzerà. Nel 1938. (Francesco Piccolo)
  • Quando Cesare Pavese vinse [il Premio Strega] nel 1950 con La bella estate, raccontarono che era già molto depresso. Si sarebbe ucciso pochi mesi dopo. Ma la cosa che poi si seppe è che scrisse alla Bellonci perché Giulio Einaudi, il suo editore, aveva trattenuto il premio che allora era di cinquecentomila lire. (Antonio Debenedetti)
  • Quella sera aveva inghiottito la sua polvere assassina; nessuno di noi gliela aveva tolta dalle mani. Ci ha perdonato, ci ha chiesto perdono. Di che cosa, Pavese? Che cosa le avevo fatto, che cosa mi aveva fatto, che cosa ci aveva fatto dopo aver aiutato decine di scrittori a farsi conoscere, con quel suo viso tragico che aveva dimenticato il sorriso, quella sua vita segreta che non aveva svelato a nessuno, quella sua infinita conoscenza del mondo che non le è bastata per sopportarlo. (Fernanda Pivano)
  • Tu sei padronissimo di scrivermi la solita lettera cinica arcigna desesperada e angolosa. (Bianca Garufi)

Franco Antonicelli[modifica]

  • Credo sarebbe fargli torto, ricordando Cesare Pavese, dire soltanto del narratore e del poeta, come (lasciando da parte quelli che hanno parlato dell'uomo per farne argomento di scandalo) quasi tutti quelli che si sono di lui occupati hanno fatto fino ad ora. Pavese merita molto di più. Pavese è stato ciò che oggi in Italia è più unico che raro: un intellettuale cosciente dei propri compiti verso la società.
  • Mi pare di avere capito questo, tornando molte volte a leggere Pavese: che la sua opera non è finita perché la sua vita si è spezzata, ma si è conchiusa la sua vita perché era compiuta la sua opera.
  • Ora mi trovo a pensare alla morte di Pavese. Posso trovare sconfortante, per me, che egli abbia voluto astenersi dal durare a vivere proprio nei momenti più tragici e impegnativi della nostra lotta nel mondo.

Note[modifica]

  1. Da La lezione di stile di Robert L. Stevenson, in l'Unità, 27 giugno 1950, p. 3.
  2. Dalla Prefazione a Charles Dickens, David Copperfield, Einaudi, 2014. ISBN 9788858415375.
  3. Parole d'addio riportate sulla prima pagina di una copia dei Dialoghi con Leucò, ritrovata su un tavolino accanto al suo corpo senza vita. Il 27 agosto 1950 Pavese si suicidò con una dose eccessiva di barbiturici in una camera al terzo piano dell'Hotel Roma in piazza Carlo Felice, a Torino.
  4. Dalla lettera a Mario Sturani, 4 novembre 1924, in Lettere 1924-1944, a cura di Lorenzo Mondo, Einaudi, Torino, 19662, p. 4.
  5. Da La terra e la morte, in Poesie del disamore, Einaudi, Torino.
  6. Da Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. Citato in Dizionario delle citazioni, a cura di Italo Sordi, BUR, 1992. ISBN 88-17-14603-X
  7. Erroneamente attribuita anche a Catherine Deneuve.
  8. Nove giorni dopo Pavese si suicidò.
  9. Articolo pubblicato su L'Unità di Torino, 20 maggio 1945.
  10. Da Feria d'agosto, Einaudi, Torino, 1946, pp. 209-218.
  11. Esiste anche la poesia Lavorare stanca [1], sempre di Pavese, il cui incipit è: «I due, stesi sull'erba, vestiti, si guardano in faccia | tra gli steli sottili: la donna gli morde i capelli | e poi morde nell'erba. Sorride scomposta, tra l'erba». Cfr. Attorno a Lavorare stanca 1931–1940, in Le poesie, Einaudi, Torino, 1998. ISBN 978-88-06-17386-9.
  12. È anche il titolo di una poesia presente nella raccolta eponima.
  13. a b c d Da Interpretazione della poesia di Walt Whitman, saggio pubblicato su La Cultura, luglio-settembre 1933; l'opera corrisponde alla tesi con cui Pavese si laureò nel 1930 presso la Facoltà di Lettere dell'Università di Torino.
  14. Citato in Giacomo Papi, Federica Presutto, Riccardo Renzi, Antonio Stella, Incipit, Skira, 2018. ISBN 9788857238937

Bibliografia[modifica]

  • Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò, Einaudi, Torino, 1999. ISBN 978-88-06-15160-7
  • Cesare Pavese, Feria d'agosto, Einaudi, Torino, 1960.
  • Cesare Pavese, Il carcere, Einaudi, Torino, 1961.
  • Cesare Pavese, Il compagno, in I romanzi, Einaudi, Torino, 1961.
  • Cesare Pavese, Il diavolo sulle colline, in La bella estate, Einaudi, Torino.
  • Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, a cura di Marziano Guglielminetti e Laura Nay, Einaudi, Torino, 1990.
  • Cesare Pavese, Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950, Einaudi, Torino, 1967.
  • Cesare Pavese, La bella estate, Einaudi, Torino.
  • Cesare Pavese, La casa in collina, Einaudi, Torino, 1990. ISBN 88-06-11829-3
  • Cesare Pavese, La letteratura americana e altri saggi, Einaudi, Torino, 1990. ISBN 88-06-11860-9
  • Cesare Pavese, La luna e i falò, in I romanzi, Einaudi, Torino, 1961.
  • Cesare Pavese, La spiaggia, Einaudi, Torino.
  • Cesare Pavese, Lavorare stanca, in Le poesie, Einaudi, Torino, 1998. ISBN 978-88-06-17386-9
  • Cesare Pavese, Paesi tuoi, Einaudi, Torino, 2013. ISBN 9788858409503
  • Cesare Pavese, Racconti, Einaudi, Torino, 1960.
  • Cesare Pavese, Vita attraverso le lettere, a cura di Lorenzo Mondo, Einaudi, Torino, 1966.
  • Cesare Pavese, Walt Whitman, in La letteratura americana e altri saggi, Einaudi, Torino, 1990. ISBN 88-06-11860-9

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