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Educazione siberiana (romanzo)

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Educazione siberiana, romanzo di Nicolai Lilin del 2009.

Lo so che non andrebbe fatto, ma ho la tentazione d'iniziare dalla fine.
Ad esempio, da quel giorno in cui correvamo tra le stanze di un edificio distrutto sparando al nemico da distanza così ravvicinata che potevamo quasi toccarlo con la mano.
Eravamo sfiniti. I paracadutisti si davano i turni, noi sabotatori invece non dormivamo da tre giorni. Andavamo avanti come le onde dell'acqua, per non dare al nemico la possibilità di riposare, di eseguire le manovre, di organizzarsi contro di noi. Combattevamo sempre, sempre.
Quel giorno sono finito all'ultimo piano dell'edificio con Scarpa, per cercare di eliminare l'ultimo mitra pesante. Abbiamo lanciato due bombe a mano.
Nella polvere che scendeva dal tetto non si vedeva niente, e ci siamo trovati davanti quattro nemici che come noi giravano come gattini ciechi nella nuvola grigia, sporca, che puzzava di macerie e di esplosivo bruciato.
Da così vicino, lì in Cecenia, non avevo mai sparato a nessuno.
Intanto al primo piano il nostro Capitano aveva preso un prigioniero e steso otto nemici, tutto da solo.

Citazioni

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  • Beh, a partire dalla mia nascita, io forse per abitudine ho continuato a procurare vari dispiaceri e togliere parecchie possibilità di vita allegra ai miei genitori (anzi, a mia mamma, perché mio padre in realtà se ne fregava di tutto, faceva la sua vita da criminale, rapinava banche e stava tanto tempo in galera). Non mi ricordo nemmeno quante ne ho combinate, da piccolo. Ma è naturale, sono cresciuto in un quartiere malfamato, proprio nel posto dove negli anni Trenta si sono sistemati i criminali espulsi dalla Siberia. La mia vita era lì, a Bender, con i criminali, e il nostro criminalissimo quartiere era come una grande famiglia. (p. 9)
  • Le armi a casa nostra, come in tutte le case siberiane, erano tenute in posti ben precisi. Le pistole chiamate «proprie», cioè quelle che i criminali siberiani portano sempre con sé, quelle che usano ogni giorno, vengono postate nell'«angolo rosso», dove sono appese le icone di famiglia, le foto dei parenti morti e di tutti coloro che stanno scontando una condanna in prigione. Sotto le icone e le foto c'è una specie di mensola, coperta con un pezzo di stoffa rosso, sulla quale di solito ci sono una decina di crocefissi siberiani. Quando un criminale entra in casa va subito nell'angolo rosso, si toglie la pistola e la posa sulla mensola, dopo si fa il segno della croce e mette un crocefisso sopra la pistola. Questa è un'antica tradizione che assicura che nelle case siberiane le armi non vengano utilizzate: se questo avvenisse, in quella casa non si potrebbe più vivere. Il crocefisso è una specie di sigillo, che si rimuove solo quando il criminale esce di casa. (p. 10)
  • Nella comunità siberiana s'impara a uccidere da piccoli. La nostra filosofia di vita ha un rapporto stretto con la morte, ai bambini viene insegnato che il rischio e la morte sono cose legate all'esistenza, e quindi togliere la vita a qualcuno o morire è una cosa normale, se c'è un motivo valido. Insegnare a morire è impossibile, perché una volta fatto l'affare non c'e ritorno, e dall'aldilà non ha ancora telefonato nessuno per raccontare come si sta. Però insegnare a convivere con la minaccia della morte, a «tentare» il destino, non è difficile. Molte fiabe siberiane parlano dello scontro mortale tra criminali e rappresentanti del governo, dei rischi che si corrono ogni giorno con dignità e onestà, della fortuna di quelli che alla fine hanno preso il bottino e sono rimasti vivi, e della «buona memoria» per quelli che sono morti senza mollare gli amici in difficoltà. Attraverso queste fiabe i bambini percepiscono i valori che danno senso alla vita dei criminali siberiani: rispetto, coraggio, amicizia, dedizione. Verso i cinque-sei anni i bambini siberiani dimostrano una determinazione e una serietà invidiabili anche per gli adulti di altre comunità. È su basi così solide che si costruisce l'educazione a uccidere, ad agire fisicamente contro un essere vivente. (p. 20)
  • Verso i dieci anni il bambino è a tutti gli effetti inserito nel clan dei minori, che collabora attivamente con i criminali della comunità siberiana. Lì ha la possibilità di affrontare per la prima volta tante diverse situazioni della vita criminale. I più grandi insegnano ai più piccoli come comportarsi; tra le risse e i conflitti e la gestione dei rapporti con i minori delle altre comunità, ogni ragazzo si fa le ossa. (p. 21)
  • Spesso a tredici-quattordici anni i minori siberiani hanno già precedenti penali e quindi esperienza del carcere minorile: un'esperienza che è molto importante, anzi fondamentale, per la formazione del carattere e della visione del mondo individuale. A quest'età molti siberiani hanno già alle spalle traffici criminali, un omicidio o almeno un tentato omicidio. E tutti sono capaci di comunicare all'interno della comunità criminale, di seguire, trasmettere e salvaguardare le basi e i principî della legge criminale siberiana. (p. 21)
  • La picca, così viene chiamata la storica arma dei criminali siberiani, è un coltello a scatto con una lama lunga e sottile, ed è legato a molte usanze e cerimonie tradizionali della nostra comunità criminale.
    Una picca non si può comprare o avere per propria volontà, si deve meritare.
    Ogni criminale giovane può ricevere in regalo una picca da un criminale adulto, purché non sia un parente.
    Una volta regalata, la picca diventa una specie di personale simbolo di culto, come la croce nella comunità cristiana.
    La picca ha anche poteri magici: moltissimi.
    Quando qualcuno è malato e soprattutto soffre, gli mettono sotto il materasso una picca aperta, con la lama di fuori, così secondo le credenze la lama taglia il dolore e lo assorbe come una spugna. Inoltre, quando un nemico viene colpito da quella lama, il dolore raccolto sgorga dentro la ferita, facendolo soffrire ancora di più.
    Il cordone ombelicale dei neonati viene tagliato con una picca, che prima però è stata lasciata aperta per una notte nel posto dove dormono i gatti.
    A suggellare patti importanti fra due persone – tregue, amicizie o fratellanze – i criminali s'incidono la mano con la stessa picca, che poi viene conservata da una terza persona, una specie di testimone del loro patto: chi tradirà la tregua verrà ammazzato con quella picca.
    Quando un criminale muore, la sua picca viene rotta da qualcuno dei suoi amici: una parte, la lama, si mette nella tomba, di solito sotto la testa del morto, il manico invece lo conservano i parenti stretti. Quando è necessari comunicare con il morto, chiedergli un consiglio o un miracolo, i parenti tirano fuori il manico e lo mettono nell'angolo rosso, sotto le icone. Così il morto diventa una specie di ponte diretto tra i vivi e Dio in persona.
    Una picca conserva i suoi poteri solo se si trova nelle mani di un criminale siberiano che la usa rispettando le regole della comunità criminale; se una persona indegna si appropria di una picca non sua, quella gli porterà sfortuna: da qui il nostro modo di dire «rovinare qualcosa come la picca rovina un cattivo padrone».
    Quando un criminale è in pericolo, la sua picca lo può avvertire in molti modi: la lama scatta improvvisamente da sola, o diventa calda, o vibra; qualcuno ritiene che sia persino in grado di emettere un fischio.
    Se una picca si rompe, significa che da qualche parte c'è un morto che non trova pace e allora si fanno offerte alle icone o si ricordano nelle preghiere parenti e amici morti, si visitano i cimiteri, si i morti parlando di loro in famiglia, raccontando di loro soprattutto ai bambini.
    Per tutte queste ragioni, alla parola «picca» mi si sono accesi gli occhi. Possederne una significa essere premiati dagli adulti, avere qualcosa che ti lega per sempre al loro mondo. (pp. 28-29)
  • Nonno Kuzja mi ha insegnato le vecchie regole di comportamento criminale, che nei tempi moderni aveva visto cambiare sotto i suoi occhi. Era preoccupato, perché diceva che tutto comincia sempre dalle piccole cose che sembrano poco importanti, e alla fine si arriva alla totale perdita della propria identità. (p. 32)
  • Nonno Kuzja odiava tutto ciò che era americano perché, come tutti i criminali siberiani, si opponeva a quello che rappresentava il potere nel mondo. Quando sentiva parlare di gente fuggita in America, di tanti ebrei che negli anni Ottanta avevano fatto una grandiosa fuga dall'Urss, diceva stupito:
    – Ma come mai vanno tutti in America dicendo che cercano la libertà? I nostri antenati si sono rifugiati nel bosco, in Siberia, mica sono andati in America. E poi perché fuggire dal regime sovietico per finire in quello americano? Sarebbe come se un uccello scappato dalla gabbia andasse volontariamente a vivere in un'altra gabbia...
    Per questi motivi, a Fiume Basso era vietato usare qualsiasi cosa americana. Le macchine americane, che circolavano liberamente per tutta la città, non potevano entrare nel nostro quartiere, e così erano banditi i capi di abbigliamento, gli elettrodomestici o qualsiasi altro oggetto «made in Usa». Per me personalmente quest'aspetto era abbastanza doloroso, dato che io avevo un debole per i jeans: mi piacevano, ma non li potevo mettere. Ascoltavo di nascosto la musica americana, mi piaceva il blues, il rock e il metal, ma rischiavo di grosso a tenere in casa i dischi e le cassette; quando mio padre faceva ispezione nei miei nascondigli e li trovava scatenava un inferno, mi picchiava e mi obbligava a rompere tutte le registrazioni con le mie mani davanti a lui e al nonno, e poi per una settimana di seguito ogni sera dovevo suonare con la fisarmonica per un'ora a lui e agli altri membri della famiglia le melodie russe, e cantare le canzoni popolari o criminali russe.
    Io non ero affascinato dalla politica americana, solo dalla musica e dai libri di qualche scrittore. Una volta, scegliendo il momento giusto, ho provato a spiegarlo a nonno Kuzja: speravo che lui con i suoi poteri potesse intercedere per me e ottenere il permesso di farmi ascoltare la musica e leggere i libri americani senza dovermi nascondere dai miei famigliari. Mi ha guardato come se l'avessi tradito e ha detto:
    – Figliolo, lo sai perché quando c'è la peste la gente brucia tutto ciò che apparteneva ai malati?
    Io ho fatto un gesto negativo con la testa. Ma già immaginavo dove voleva andare a parare.
    Lui ha fatto un triste sospiro e ha concluso:
    –Il contagio, Nicolai, il contagio. (pp. 36-37)
  • Da giovane nonno Kuzja aveva fatto parte di una banda di Urca guidata da un famoso criminale che si chiamava «Croce», un uomo di vecchia fede siberiana che si era opposto prima al potere dello zar e dopo a quello dei comunisti. In Siberia – mi spiegava nonno Kuzja – nessun criminale ha mai sotenunto una forza politica, vivevano tutti seguendo solamente le loro leggi e combattendo qualsiasi potere governativo. La Siberia ha da sempre fatto gola ai russi perché è una terra molto ricca di risorse naturali: oltre agli animali da pelliccia, che in Russia erano considerato un tesoro nazionale, la Siberia aveva tanto oro, diamanti, carbone; più tardi hanno scoperto pure petrolio e gas. Tutti i governi hanno tentato di sfruttare il più possibile la regione, naturalmente senza fare i conti con la popolazione. I russi arrivavano, diceva nonno Kuzja, costruivano le loro città in mezzo al bosco, scavano la terra, e si portavano via i tesori con i treni e le navi.
    I criminali siberiani, che erano rapinatori esperti i cui avi avevano assaltato per centinaia di anni le carovane mercantili provenienti dalla Cina e dall'India, non avevano avuto nessuna difficoltà ad assaltare anche quelle russe.
    In quegli anni tra gli Urca siberiani esisteva una filosofia, un modo per intendere la realtà, che si chiamava «Grande patto». Era una specie di piano generale che permetteva a tutti i criminali di esercitare una resistenza attiva contro il governo rapinando in continuazione i treni e i vari mezzi di trasporto. Secondo la vecchia legge criminale, una banda non poteva compiere più di una rapina ogni sei mesi: così si teneva alta la qualità dell'attività criminale, perché è chiaro che se un gruppo ha solo una possibilità per rapinare una carovana, deve prepararsi bene e andare sul sicuro, evitando mosse sbagliate. La gente ci teneva a organizzare bene il colpo, altrimenti doveva stare mezzo anno senza mangiare. Il Grande patto ha eliminato questa regola, consentendo alle bande di compiere rapine in continuazione, perché lo scopo non era quello di arricchirsi, ma di cacciare fuori dalla Siberia gli invasori russi. Vecchi criminali si sono uniti ai nuovi, formando bande molto grandi. Le più famose erano quelle di Angelo, di Tigre e di Taiga. (pp. 55-56)
  • Dopo il 1992, quando le forze militari della Moldavia hanno cercato di occupare il territorio della Transnistria, la nostra città è stata abbandonata da tutti, siamo rimasti soli con noi stessi, come in realtà eravamo da sempre. Tutti i criminali armati hanno opposto resistenza ai militari moldavi, e dopo tre mesi di battaglie li hanno cacciati via.
    Quando il pericolo dello scontro diretto era ormai passato, la Madre Russia ci ha mandato i cosiddetti «aiuti»: la quattordicesima armata, guidata dal carismatico generale Lebed'. Quelli, una volta arrivati nella nostra città che era ormai libera da qualche giorno, hanno applicato la politica della gestione militare: coprifuoco, perquisizioni in casa, arresti ed eliminazione della gente scomoda. In quel periodo molto spesso il fiume portava a riva i corpi delle persone fucilate, le mani legate dietro la schiena con il filo di ferro e sul corpo segni di torture. Io stesso ho ripescato personalmente quattro cadaveri di persone giustiziate, quindi posso confermare con tutta la mia giovane autorità che le fucilazioni da parte dei militari russi erano una realtà molto praticata in Transnistria. (p. 61)
  • I siberiani hanno rinunciato a qualsiasi contatto con il resto della società, e verso il 1998 erano completamente isolati, non collaboravano con nessuno e non sostenevano nessuno. (p. 61)
  • Nonno Kuzja era stato tra i primi siberiani ad arrivare in Transnistria. Raccontava quel trasferimento con dolore, e si vedeva che dentro di lui aveva tanti sentimenti bui, legati a quel tempo. [...] Nella Russia di adesso non si sa quasi niente dell'esilio dei siberiani in Transnistria, qualcuno ricorda i tempi della collettivizzazione comunista, quando per il Paese passavano i treni pieni di povera gente che veniva spostata da una parte all'altra per ragioni note solo al governo.
    Nonno Kuzja diceva che i comunisti avevano pensato di separare gli Urca dalle loro famiglie in modo da far morire la nostra comunità, invece, per ironia del destino, forse l'avevano salvata.
    Dalla Transnistria tanti giovani sono andati in Siberia, per partecipare a modo loro alla guerra contro i comunisti: rapinavano i treni, le navi, i magazzini militari e creavano tante difficoltà ai comunisti. Sistematicamente tornavano in Transnistria a leccarsi le ferite, o per stare un po' con la famiglia e gli amici. Nonostante tutto, questa terra è diventata una seconda patria a cui i criminali siberiani hanno legato le loro vite. (pp. 63-66)
  • Ogni comunità ha una sua tradizione del tatuaggio, simbologia e schemi diversi, secondo i quali i segni vengono posizionati sul corpo e alla fine letti e tradotti. La più antica cultura del tatuaggio è quella siberiana, perché sono stati proprio gli antenati dei criminali siberiani a tramandare la tradizione di tatuare i simboli in maniera codificata, nascosta. Poi questa cultura è stata copiata da altre comunità e si è diffusa nelle prigioni di tutto il Paese, trasformando i significati principali dei tatuaggi e il modo in cui vengono eseguiti e tradotti. I tatuaggi della casta criminale più potente in Russia, chiamata Seme nero, sono interamente copiati dalla tradizione degli Urca, ma hanno significati diversi. Le immagini possono essere uguali, ma solo una persona capace di leggere un corpo può «raccontare» con precisione quello che nascondono e spiegare perché sono diverse.
    A differenza delle altre comunità, i siberiani fanno tatuaggi solamente a mano, usando vari tipi di baccette. I tatuaggi fatti con le macchinette o in altri modi non vengono considerati degni.
    La tradizione del tatuaggio degli Urca siberiani ha un processo lungo quanto la vita di un criminale. Si cominciano a tatuare alcuni segni all'età di dodici anni, e solo dopo essere passati attraverso varie esperienze e periodi della vita queste cose si possono raccontare con i tatuaggi, codificati e nascosti in un quadro che negli anni diventa sempre più completo. Ecco perché nella comunità criminale siberiana non esistono persone giovani che hanno tatuaggi grandi e completi come nelle altre comunità; in Siberia la schiena e il petto vengono tatuati per ultimi, quando il criminale raggiunge i quaranta-cinquanta anni, e lo schema principale somiglia alla struttura di una spirale che partendo dalle estremità, cioè dalle mani e dai piedi, arriva al centro del corpo.
    Per leggere i corpi con tatuaggi così complessi bisogna avere molta esperienza e conoscere perfettamente la tradizione del tatuaggio; per questo nella comunità criminale siberiana la figura del tatuatore ha un posto speciale: è come un sacerdote autorizzato da tutti gli altri a operare in nome loro. (pp. 73-74)
  • Nella comunità siberiana tutti i beni materiali, specialmente i soldi, vengono disprezzati: per questo non vengono neanche nominati. Se i siberiani parlano di soldi, li chiamano «quelli» o «spazzatura», «cavolfiore», «limoni», oppure dicono solo le cifre, pronunciano i numeri. I siberiani non tengono i soldi in casa perché si dice che portano male in famiglia, distruggono la felicità e «spaventano» la fortuna. Li tengono vicino a casa, in giardino, in qualche nascondiglio particolare, magari in una costruzione per animali domestici. (p. 83)
  • I tatuatori non compiono crimini e non partecipano a nessun affare criminale: questo si spiega in due modi, perché dedicano tutto il loro tempo al lavoro e perché all'epoca dell'Urss tatuare era ritenuto un crimine in sé, e per questa attività si andava in galera. (p. 83)
  • Nel '92 in Transnistria c'è stata una guerra. Dopo la caduta dell'Urss, la Transnistria è rimasta fuori dalla federazione russa e non apparteneva più a nessuno. I Paesi più vicini come la Moldavia e l'Ucraina avevano delle mire su di lei. Ma gli ucraini avevano già le loro difficoltà, per via dell'alto tasso di corruzione nel governo e nelle strutture dirigenti. I moldavi, nonostante la situazione disastrosa del Paese – assoluta povertà se non miseria di un popolo prevalentemente contadino – hanno fatto un patto con i rumeni, e usando la forza militare hanno cercato di occupare il territorio transnistriano. Secondo l'accordo, la Transnistria sarebbe stata divisa in maniera particolare: il governo moldavo avrebbe controllato il territorio, lasciando agli industriali rumeni il compito di gestire le numerose fabbriche dove si producevano gli armamenti, costruite dai russi ai tempi dell'Urss e dopo rimaste completamente sotto il controllo dei criminali, che avevano trasformato il territorio transnistriano in un vero e proprio supermercato di armi.
    Così i moldavi senza nessun preavviso sono passati all'azione: i loro carri armati sono entrati nelle città di Bender e Dubăsari, che si trovano sulla parte destra del fiume Dnestr', ai confini con la Moldavia. Il 22 giugno a Bender, e cioè nella nostra città, è penetrata una divisione di carri armati moldavi che ha fatto copertura a dieci brigate militari, tra cui una di fanteria, una di fanteria speciale e due gruppi di militari rumeni. Gli abitanti di Bender hanno formato delle squadre di difesa, tanto di armi ne avevano in abbondanza. È scoppiata una breve ma molto sanguinosa guerra che è durata un'estate, dopo di che i criminali della Transnistria hanno buttato i militari fuori dalla loro terra. Poi, hanno cominciato a occupare il territorio moldavo. A quel punto l'Ucraina, per paura che i criminali vincendo la guerra portassero disordine pure sul loro territorio, ha chiesto alla Russia d'intervenire. La Russia, riconoscendo gli abitanti della Transnistria come suoi cittadini, si è presentata con un'armata per «assistere al processo di pace». Ha instaurato un regime militare, ha rinforzato i distretti di polizia, ha dichiarato la Transnistria «zona di estremo pericolo». I militari russi pattugliavano le strade con macchine blindate, imponevano il coprifuoco dalle otto di sera alle sette di mattina. Tanta gente ha cominciato a sparire nel nulla, nel fiume venivano trovati i corpi dei morti torturati. Un periodo che mio nonno chiamava «ritorno agli anni Trenta», e che è durato per molto tempo. Mio zio Sergeij è stato ammazzato dalle guardie in galera, molte persone per salvarsi hanno dovuto abbandonare la loro terra e rifugiarsi in diverse parti del mondo. (pp. 97-98)
  • Quando arrivavano i poliziotti, di solito gli bloccavamo la strada, ci mettevamo seduti o sdraiati davanti alle loro macchine costringendoli a fermarsi. Quelli uscivano e ci spostavano a calci nel sedere o tirandoci per le orecchie, noi facevamo la lotta con loro. Di solito sceglievamo il più giovane e ci buttavamo addosso a lui in tanti, qualcuno lo picchiava, qualcuno si attaccava a un braccio mordendolo, un altro si aggrappava alla schiena e gli portava via il cappello, un altro ancora gli strappava i bottoni della divisa o gli tirava fuori la pistola dalla fondina. Andavamo avanti così finché lo sbirro non andava in esaurimento, o finché i suoi colleghi non cominciavano a picchiare sul serio. (pp. 101-102)
  • Un messaggio a voce si chiama «soffietto». Quando un criminale adulto vuole fare un soffietto chiama un minorenne qualsiasi, anche suo figlio, e gli dice il contenuto del messaggio in lingua criminale fenja, che proviene dall'antica lingua degli antenati dei criminali siberiani, il popolo degli Efei. I messaggi detti a voce sono sempre corti e hanno un significato concreto, vengono usati nei rapporti quotidiani, per questioni poco complicate. (p. 103)
  • I nostri vecchi ci avevano insegnato bene.
    Come prima cosa, bisognava rispettare tutti gli esseri viventi, categoria in cui non rientravano i poliziotti, la gente legata al governo, i bancari, gli usurai e tutti coloro che avevano tra la le mani il potere del denaro e sfruttavano le persone semplici.
    Poi bisognava credere in Dio e in Suo Figlio Gesù, e amare e rispettare gli altri modi di credere in Dio diversi dal nostro. Ma la Chiesa e la religione non dovevano mai essere considerate una struttura. Mio nonno diceva che Dio non ha creato i preti, ma solamente uomini liberi, e che comunque esistono anche preti buoni: in quel caso non è peccato andare nei lughi dove loro svolgono la loro attività, ma è senz'altro peccato pensare che davanti a Dio i preti abbiano più potere di altri uomini.
    Infine, non dovevamo fare agli altri quello che non volevamo fosse fatto a noi: ma se un giorno eravamo obbligati a farlo, doveva esserci un buon motivo.
    Uno dei vecchi con cui parlavo tanto di queste cose, voglio dire della nostra filosofia di vita e della nostra primitiva ignoranza, diceva che secondo lui il nostro mondo era pieno di persone che seguivano strade sbagliate, e che dopo aver fatto un passo falso si allontanavano sempre più dalla retta via. Lui era dell'idea che in molti casi era inutile cercare di farli ritornare sulla strada giusta, perché erano troppo lontani, e l'unica cosa che rimaneva da fare era sospendere la loro esistenza, «toglierli dalla strada».
    – Uno che è ricco e potente, – diceva il vecchio, – camminando sulla sua strada sbagliata rovina tante vite, mette nei guai tante persone che in qualche maniera dipendono da lui. L'unico modo per far tornare tutto al suo posto è ucciderlo, e così distruggere il potere che ha costruito sul denaro.
    Io ribattevo:
    – E se anche l'omicidio di questa persona fosse un passo falso? Non sarebbe meglio evitare di avere contatti con lui e basta?
    Il vecchio mi guardava stupito, e rispondeva con tale convinzione che mi girava la testa:
    – Ragazzo, chi ti credi di essere, Gesù Cristo? Soltanto Lui può fare miracoli, noi dobbiamo solo servire Nostro Signore... E quale servizio migliore di togliere dalla faccia del mondo i figli di Satana?
    Era troppo buono, quel vecchio. (pp. 110-111)
  • Le nostre bottigliette partivano in una maniera spettacolare, mi sembrava di sentirle fischiare come pallottole: quando le vedevo attraversare il muro del distretto – e sentivo le piccole esplosioni seguite dalle grida degli sbirri e dai primi segni di fumo nero, che come fantastici draghi si alzavano in aria – mi veniva da piangere tanto ero contento e felice. (p. 133)
  • Il Seme nero nel mondo fuorilegge era una casta giovane ma potente, che aveva saputo far leva sulla filosofia del sacrificio personale. Apparivano come uomini puri e perfetti, che dedicavano la vita al benessere della gente in prigione. Avevano il culto della prigione: la chiamavano familiarmente «casa», «chiesa» o «madre», ed erano felici di finirci dentro anche per tutta la vita, mentre tutte le altre caste, tra cui anche quella degli Urca siberiani, disprezzavano la prigione e sopportavano la detenzione come si sopporta una disgrazia.
    Grazie all'arruolamento nelle sue file di cani e porci, il Seme nero era diventata la casta più numerosa nel mondo fuorilegge russo: ma per una persona saggia e buona che potevi incontrare fra di loro, ti toccava conoscerne altre venti ignoranti e sadiche, che si davano arie e facevano i prepotenti in ogni situazione. Per questo molti rifiutavano di condividere le loro idee.
    Poi c'era un'altra particolarissima casta: il Seme rosso, gente che collaborava con gli sbirri e che credeva nelle balle raccontate dalle amministrazioni delle prigioni, come il «recupero della personalità». Venivano chiamati «cornuti», «rossi», «compagni», sucha, padla – nomi molto dispregiativi nella comunità criminale.
    Tutti quelli che si trovavano in mezzo erano detti Seme grigio: cioè, neutrali. Erano contro gli sbirri e condividevano le regole della vita criminale, ma non avevano le responsabilità e soprattutto la filosofia di Seme nero, non volevano certo stare tutta la vita in prigione.
    Quelli di Seme nero erano obbligati a rinnegare i parenti, non potevano avere né casa né famiglia. Come tutti gli altri criminali avevano il culto della madre, ma molti di loro non rispettavano le loro madri, anzi le trattavano male. Quante povere donne ho conosciuto con dei figli che, mentre stavano dentro, si dicevano l'un l'altro in maniera teatrale che l'unica cosa che gli mancava davvero era la mamma, mamma di qua e mamma di là, tante belle parole, e poi quando uscivano si presentavano a casa solamente per sfruttarla, a volte derubarla, perché così dice la loro regola: «Ogni Blatnyj – cioè ogni membro di Seme nero – deve portare via tutto dalla propria casa, solo così dimostra di essere onesto fino in fondo...» Una pazzia, madri e padri derubati, minacciati e a volte persino uccisi. Una vita corta e violenta, come la definivano loro stessi: «Vino, carte, donne e poi caschi pure il mondo...», senza nessun impegno morale o sociale. Tutta la loro esistenza si trasforma in uno spettacolo continuo in cui devono mostrare sempre e solo i lati negativi e primitivi della loro natura. (pp. 140-141)
  • Gli Urca e i cosacchi erano da sempre in sintonia, andavano d'accordo: entrambi rispettavano le vecchie tradizioni, amavano la patria e la loro terra e credevano nell'indipendenza da qualsiasi forma di potere. Entrambi sono stati perseguitati da vari governi russi in epoche diverse, per la loro voglia di libertà. Solo che gli Urca erano più estremisti, e avevano una particolare struttura gerarchica. I cosacchi invece si definivano un esercito libero e quindi avevano una struttura paramilitare; in tempo di pace si occupavano per lo più di allevamento di bestiame. (p. 163)
  • Quando avevamo una decina d'anni, siamo andati al cinema a vedere un film che si chiamava Lo scudo e la spada. Il protagonista, un agente segreto sovietico, si esibiva in varie scene d'azione, sparando ai nemici capitalisti con la sua silenziosa pistola e facendo un sacco d'acrobazie. Quello rischiava la vita come se stesse facendo una cosa normale, di routine, per combattere l'ingiustizia nei Paesi della Nato. Era una specie di risposta nostrana ai tanti film americani e inglesi sulla guerra fredda, dove di solito i sovietici apparivano come stupide e incapaci scimmie che giocavano con la bomba atomica e volevano distruggere il mondo. Noi, nonostante il divieto dei nostri vecchi, eravamo andati a vederlo nell'unico cinema della città (non c'era ancora il secondo cinema, destinato a durare pochissimo, distrutto nella guerra del '92: proprio lì dentro si piazzeranno i militari rumeni, e i nostri padri per ucciderli faranno saltare in aria di notte tutto il complesso, insieme al ristorante e alla gelateria). Bene, in quel film a un certo punto il protagonista saltava dal tetto di un palazzo altissimo usando un grande ombrello al posto del paracadute, per poi atterrare comodamente e senza danni. In poche parole, faceva quello che ha sempre fatto Mary Poppins. (pp. 167-168)
  • [...] da noi un «gallo», cioè un omosessuale, è un reietto: se non lo ammazzano gli tolgono la possibilità di ogni contatto con la gente, ma soprattutto gli vietano di toccare oggetti di culto come la croce, il coltello, le icone. (p. 169)
  • Dopo i magazzini alimentari cominciavano finalmente le prime case del quartiere Ferrovia. Un quartiere che apparteneva al Seme nero, dove c'erano regole diverse dalle nostre. Dovevamo comportarci bene, altrimenti potevamo anche non uscirne vivi.
    I ragazzi di lì erano molto crudeli, cercavano di guadagnarsi il rispetto degli altri con la violenza più estrema. Il potere tra i minorenni aveva un valore simbolico, alcuni potevano comandare su altri, ma nessuno di loro veniva considerato dai criminali adulti. Così, è chiaro, i ragazzi non vedevano l'ora di crescere, e per farlo più in fretta molti diventavano perfetti imbecilli, sadici e ingiusti. Nelle loro mani le regole criminali venivano deformate fino a diventare assurde, perdevano di senso, ridotte a puri pretesti. Ad esempio, loro non portavano niente di rosso, lo definivano il colore dei comunisti: se qualcuno si metteva qualcosa di rosso quelli di Seme nero potevano arrivare a torturarlo. Ovvio, nessuno di quelli nati lì, sapendo questa regola, metteva mai qualcosa di rosso, ma se ce l'avevi con uno bastava nascondergli in tasca un fazzoletto rosso e gridare forte che era un comunista. Il malcapitato veniva subito perquisito, e se il fazzoletto saltava fuori nessuno più ascoltava le sue ragioni, per tutti era già una persona fuori dal mondo. (p. 171)
  • [...] portare gli occhiali per i siberiani è come sedersi volontariamente su una sedia a rotelle, è un segno di debolezza, una sconfitta personale. Anche se non vedi bene non devi mai metterti gli occhiali, per conservare la tua dignità e il tuo aspetto sano. (p. 184)
  • Passando sopra il corpo del nemico e stringendo il suo coltello nella mano sinistra, sono andato incontro a Geka, che da terra cercava di evitare i colpi di un bastone impugnato da un ragazzo robusto. Geka si appoggiava sul braccio destro e con quello sinistro cercava di parare il parabile. Ho sorpreso il suo aggressore alle spalle e gli ho affondato la lama della picca nella coscia.
    La lama del mio coltello era bella lunga ed entrava bene dentro la carne, era l'ideale per disattivare le persone, perché penetrava senza problemi nei muscoli fino a toccare le ossa. (p. 190)
  • Noi siberiani avevamo fatto amicizia con la famiglia armena. Gli armeni li conoscevamo da sempre, tra le nostre comunità esisteva un buon rapporto e ci somigliavamo in molte cose. Avevamo fatto un patto con loro: nel caso scoppiasse un grosso casino ci saremmo sostenuti a vicenda. Così il potere delle nostre comunità era aumentato.
    Festeggiavamo i compleanni e altre feste insieme, a volte ci dividevamo persino i pacchi che arrivavano da casa. Se a qualcuno serviva urgentemente qualcosa, che so, una medicina o dell'inchiostro per tatuaggi, ci aiutavamo senza fare tanti discorsi.
    Eravamo buoni amici con gli armeni, ma anche con i bielorussi, brava gente, e pure con i ragazzi che venivano dal Don, della comunità dei cosacchi: erano un po' militareschi ma avevano un gran cuore, ed erano tutti molto coraggiosi.
    Invece avevamo grane con gli ucraini: alcuni di loro erano nazionalisti e odiavano i russi, e per qualche strano motivo anche tutti quelli che non condividevano questo sentimento finivano per sostenerli. Con gli ucraini poi le cose sono decisamente peggiorate dopo che un siberiano di un'altra cella ha ammazzato uno dei loro. Insomma, tra le nostre comunità è nato un vero odio.
    Ci tenevamo lontani dalla gente della Georgia, erano tutti sostenitori di Seme nero. Ognuno di loro voleva a tutti i costi diventare un'autorità, inventava mille modi per farsi rispettare dagli altri, faceva una specie di campagna elettorale criminale per guadagnare voti. I georgiani che ho conosciuto lì non sapevano niente della vera amicizia o della fratellanza, vivevano insieme odiandosi l'un l'altro e cercando di fregare tutti, renderli loro schiavi, sfruttando le leggi criminali e trasformandole come faceva comodo a loro. Solo così avevano qualche speranza di diventare capi, e di essere rispettati dai criminali adulti della casta Seme nero. (pp. 219-220)
  • Secondo la tradizione siberiana, l'omosessualità è una malattia infettiva molto grave, perché distrugge l'anima umana; noi quindi siamo cresciuti nel completo odio verso gli omosessuali. Questa malattia, che da noi non ha un nome preciso e si chiama solamente «male di carne», si trasmette attraverso lo sguardo, quindi un criminale siberiano non guarderà mai negli occhi un omosessuale. Nelle prigioni per gli adulti, nei posti dove la maggioranza dei detenuti è di fede ortodossa siberiana, gli omosessuali vengono costretti a suicidarsi, perché non possono condividere gli stessi spazi con gli altri. Come dice il proverbio siberiano: «I malati di carne non dormono sotto le icone».
    Io non ho mai capito fino in fondo la questione dell'odio verso gli omosessuali, ma siccome sono stato educato così, stavo col branco. Con il passare degli anni ho avuto tanti amici omosessuali, persone con cui collaboravo, facevo affari, e ho avuto un buon rapporto con molti di loro, mi erano simpatici, mi piacevano come persone. Eppure fino a oggi non sono riuscito a farmi passare la brutta abitudine di dire finocchio o frocio a qualcuno quando lo voglio insultare, anche se subito dopo mi pento, anzi mi vergogno. È l'educazione siberiana che parla per me. (pp. 220-221)
  • Molto sepsso anche alcune guardie violentavano i minorenni, di solito succedeva nelle docce. La doccia si poteva fare una volta alla settimana se ti trovavi in regime comune, mentre in regime speciale, dov'ero io, una volta al mese. Noi ci arrangiavamo con le bottiglie di plastica, facendo la doccia sopra il gabinetto, dato che avevamo sempre acqua calda in abbondanza. Quando andavamo nel blocco delle docce sembrava un'operazione militare: camminavamo tutti vicini, se avevamo deboli e malati li mettevamo in mezzo e li tenevamo sempre sotto controllo, ci muovevamo come un plotone di soldati. (p. 221)
  • Con quel ragazzo che solo un momento prima volevo massacrare di botte, siamo passati da una cabina all'altra, nascondendoci, avvicinandoci sempre di più al posto da dove arrivava quel suono. Ho sentito male per il panorama che si è aperto davanti ai nostri occhi: un grosso guardiano di mezza età con i pantaloni abbassati, la testa in alto e gli occhi chiusi, stava letteralmente inculando un ragazzo piccolo e magro, che piangeva piano e non tentava neanche di scappare dalla presa del violentatore, che lo teneva fermo con una mano sul collo e l'altra sul fianco.
    Il rumore che avevamo sentito era quello del mazzo di chiavi agganciato alla cintura dei pantaloni calati dello sbirro pedofilo: le chiavi sfregavano a terra a ogni suo movimento. (p. 222)
  • C'era uno sbirro vecchio e schifoso: aveva fatto per tutta la vita la guardia nelle carceri per adulti, e dopo aver studiato psichiatria infantile aveva chiesto trasferimento nel carcere minorile. Aveva molto potere nella nostra prigione, anche se era un semplice guardiano faceva concorrenza al direttore, perché era legato a persone che gestivano una nuova attività arrivata dall'estero con la democrazia, come una forma di vita libera. Queste persone erano produttori di film porno pedofili e costringevano i minorenni a prostituirsi, ad avere rapporti sessuali con stranieri, gente che arrivava dall'Europa e dagli Usa, gente che aveva tanti soldi e quindi ragazzi venivano prelevati a una cert'ora dalle celle e tornavano il giorno dopo con borse piene di cibo e di cazzate varie, tipo riviste patinate, matite da disegno e altre cose che nessuno in carcere si sognava. Ai compagni di cella era proibito toccarli e maltrattarli, erano intoccabili, nessuno osava muovere un dito contro di loro, perché tutti sapevano: quei ragazzi erano le puttane del vecchio guardiano. Lui lo chiamavamo «Coccodrillo Žena», come il personaggio di un cartone animato sovietico. Le puttane invece le chiamavamo con nomi di donne. (pp. 222-223)
  • Sono cresciuto con i malati mentali e ho imparato da loro molte cose, così sono arrivato alla conclusione che hanno dentro una purezza naturale, qualcosa che non si può sentire se non si è liberati completamente dal peso terrestre. (p. 237)
  • Tra il Seme nero e noi esisteva da sempre una specie di tensione, loro si definivano i padroni del mondo criminale ed erano molto presenti sia in galera che fuori, ma le basi della loro tradizione criminale, gran parte delle regole e persino i tatuaggi, erano copiati da noi Urca.
    La loro casta era cresciuta all'inizio del secolo, sfruttando un momento di grande debolezza sociale del Paese, pieno di gente disperata, vagabondi e criminali di basso livello contenti di andare in galera solamente per avere la possibilità di mangiare gratis e dormire sotto un tetto. A poco a poco erano diventati una comunità potente, però con tanti difetti, come riconoscevano persino molte autorità di Seme nero. (p. 254)
  • L'insulto viene considerato da tutte le comunità un errore tipico della gente debole e poco intelligente, priva di dignità criminale. Per noi siberiani ogni tipo di insulto è un reato, in altre comunità si fanno anche delle distinzioni, ma in generale un insulto è la via più diretta per la lama del coltello. (p. 275)
  • L'insulto è approvato se ti è scappato per ragioni personali e in forma non grave: se ad esempio ha chiamato «stronzo» uno che ha fatto un danno alla tua proprietà. Se invece hai offeso il nome di sua madre, molto facilmente ti faranno saltare sulla lama.
    Sono perdonati gli insulti fatti in stato di furia o di disperazione, quando qualcuno è accecato da un forte dolore, tipo se gli muore la madre o il padre o un amico molto vicino. In questo caso non si parla neanche di giustizia, si dice «era fuori di sé» e la cosa finisce lì.
    L'insulto però non è approvato quando si litiga per motivi di gioco d'azzardo o affari criminali, o per amore, o per relazioni d'amicizia: in quei casi l'uso di parolacce e frasi offensive può portare alla morte sicura.
    Ma l'insulto più grave in assoluto è quello chiamato baklanka, quando viene offeso un gruppo o una comunità intera. Non ci sono spiegazioni che tengano: ti meriti la morte o l'abbassamento, cioè il trasferimento definitivo nella comunità dei contagiati, come quelli che vivevano nel quartiere Bam.
    Così fin da piccoli noi abbiamo imparato a «filtrare le parole», ad avere sempre il controllo di quello che ci usciva di bocca, per non commettere, neanche involontariamente, un errore. Perché secondo la regola siberiana, la parola volata via non può più tornare indietro. (pp. 275-276)
  • Gli ucraini bevevano tanto, come tutto il resto della popolazione sovietica, certo, ma loro in maniera particolarmente smodata, senza il filtro della tradizione e senza l'ombra di una moralità. In Siberia l'alcol si beve seguendo regole ragionevoli per non danneggiare in modo irreparabile la propria salute: per questo la vodka siberiana è fatta solamente di grano, ed è purificata dal latte, che trattiene i residui della lavorazione, in modo che il prodotto finale abbia una purezza perfetta. Inoltre la vodka dev'essere bevuta solamente mangiando (in Siberia si mangia tanto e i piatti sono molto conditi, perché si bruciano parecchi grassi per resistere al freddo e conservare le vitamine durante l'inverno): se si mangiano i piatti giusti, si può arrivare a consumare un litro di vodka a persona senza problemi. Invece in Ucraina bevono vodka di diverse qualità, estraggono l'alcol dalle patate o dalla zucca, e le sostanze zuccherine rendono subito ubriachi. I siberiani non si ubriacano mai troppo, non svengono e non vomitano, gli ucraini invece si ubriacano fino a perdere i sensi, e ci mettono anche due giorni a riprendersi da una sbornia. (pp. 284-285)
  • I figli maschi degli ucraini infatti avevano una brutta reputazione di mammoni, e di persone incapaci di fare qualcosa di utile per sé o per gli altri. A Bender nessuno si fidava di loro perché avevano l'abitudine di raccontare un sacco di bugie per farsi belli, ma lo facevano con tale goffagine che nessuno poteva cascarci: ci limitavamo a trattarli come dei poveri scemi. Alcuni di loro hanno persino tentato di prosperare inventandosi delle leggi inesistenti: ad esempio che un fratello poteva costringere la sorella a prostituirsi. Lo sfruttamento della prostituzione era da sempre considerato un reato indegno di un criminale: la gente processata per quel tipo di crimine veniva ammazzata in galera; spesso anche anche in libertà, a dire il vero, ma era raro che uscissero vivi dalla prigione. Gli ucraini non capivano nemmeno questo fatto, giravano per i quartieri della città cercando inutilmente di entrare nei locali: tutte le porte per loro erano sempre chiuse, dato che i soldi che volevano spendere erano guadagnati in maniera indegna. Loro tiravano avanti senza chiedersi niente, creando un distacco sempre più profondo tra la loro comunità e il resto della città. (p. 285)
  • Prugna ha ucciso tante persone; la sparo grossa, ma credo che forse si è salvato proprio per questo. Forse in quel modo, nonostante il gravissimo trauma infantile, è riuscito a restare sano di mente dando sfogo alla sua rabbia.
    È stato in tante galere e ha vissuto tanto tempo anche da uomo libero, facendo sempre l'esecutore criminale. Ha sposato una brava donna, ha avuto tre figli e due figlie. Sulla mano destra, dove gli avevano rotto le dita, portava tatuato un teschi con il cappello da poliziotto. Sulla fronte una scritta, «Az vozdam», che in antica lingua russa significa «Mi vendicherò».
    Non so se si è vendicato, ma non ha fatto altro che uccidere poliziotti. Aveva una collezione sterminata di distintivi degli agenti di polizia e delle forze dell'ordine che aveva fatto fuori in tutta la sua carriera: li teneva su un grande comò, nell'angolo rosso di casa sua, sotto le icone, dove c'era anche la foto della sua famiglia con una candela sempre accesa davanti.
    L'ho vista coi miei occhi, quella collezione. Era impressionante. Tantissimi distintivi di tutte le epoche, dagli anni Cinquanta fino alla metà degli anni Ottanta, alcuni sporchi di sangue, altri bucati dalle pallottole. C'erano proprio tutti: poliziotti dei distretti delle varie città della Russia, gruppi speciali di lotta contro la criminalità organizzata, agenti del Kgb, polizia penitenziaria, agenti della Procura.
    Prugna diceva che erano più di dodicimila, e che non sempre però era riuscito a recuperarli. (pp. 302-303)
  • Io sparavo senza pensarci tanto sopra, così com'ero abituato, con la tecnica macedone, chiamata così perché gli antichi macedoni sapevano usare bene due spade contemporaneamente. Non prendevo la mira, sparavo dentro la macchina, nei posti dove c'erano le persone, e le vedevo morire, muoversi nelle loro ultime convulsioni, perdere la vita. (p. 317)
  • Si diceva che dietro tutta la faccenda del complotto ci fossero i poliziotti, interessati a indebolire la comunità criminale della nostra città. Sarebbero riusciti a farlo poi cinque anni dopo, mettendo tanti giovani criminali contro i vecchi, e innescando una guerra sanguinosa che ha dato inizio alla fine della nostra comunità, che infatti oggi non esiste più nella forma in cui esisteva ai tempi di questa storia. (p. 320)
  • Nonno Kuzja è morto di vecchiaia tre anni dopo, e la sua morte – insieme ad altri avvenimenti – ha provocato un terremoto nella comunità siberiana. Molti criminali di vecchia fede, scontenti del regime militare e poliziesco instauratosi nel Paese, hanno lasciato la Transnistria e sono tornati in Siberia, oppure sono immigrati in luoghi lontani. (p. 320)
  • Quando ho compiuto diciotto anni, ero fuori dal mio Paese. Studiavo educazione fisica in una scuola sportiva, stavo cercando di crearmi un futuro diverso, fuori dalla comunità criminale. [...] Il consumismo russo post-sovietico era una cosa impressionante, per uno come me. La gente si lasciava affogare nei detersivi di marca e nei dentifrici, tutti bevevano per forza solo bevande provenienti dall'estero e le donne si spalmavano addosso una quantità industriale di creme francesi, pubblicizzate ogni giorno in televisione, credendo che le avrebbero fatte diventare come le modelle degli spot. (pp. 325-326)
  • Facevo yoga, ero magro e flessibile, gli esercizi mi riuscivano bene e tutti erano contenti di me. Un mio maestro di lotta mi aveva consigliato di provare a seguire le lezioni di yoga che teneva un insegnante in Ucraina, uno che aveva studiato molti anni in India. E così andavo spesso in Ucraina per dei corsi di perfezionamento, e ogni anno d'estate insieme a un gruppo della mia sezione sportiva andavo per un mese e mezzo in India.
    A diciotto anni stavo per ottenere il diploma da istruttore di yoga, ma non mi piaceva come erano gestite le cose nella mia scuola, spesso litigavo con l'insegnante, che mi diceva che ero un ribelle e non mi buttava fuori solo perché tanti ragazzi erano dalla mia parte. [...] Sognavo di aprire una mia scuola sportiva e di insegnare yoga alla gente della mia città. (p. 326)

– Stai tranquillo, Nicolai, qui sei più al sicuro che con loro... Riposati, che tra un paio di giorni ti accompagneranno al treno che ti porta in Russia, nella brigata a cui sei destinato... Ti hanno già detto dove ti mandano?
– Il Colonnello ha detto che mi mandano nei sabotatori... – ho risposto con la voce sfinita.
Lui ha fatto una pausa e poi ha chiesto con agitazione:
– I sabotatori? Cristo Santo, ma che male gli hai fatto? Cos'hai combinato per meritarti questo?
– Ho ricevuto una educazione siberiana, – ho risposto mentre lui chiudeva la porta.

Citazioni su Educazione siberiana

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  • «Ero un criminale, è vero», ha dichiarato Lilin in molte occasioni, anche in pubblici incontri cui abbiamo assistito. «Ma un criminale onesto». E su questo ossimoro si è innescato l'interesse, anche mediatico, verso un libro che non convince del tutto proprio perché vanta troppe pretese.
  • Il romanzo sembra I ragazzi della via Pal in versione splatter, con i coltelli al posto delle fionde e gli sbudellamenti all'ordine del giorno.
  • Un libro che non è una provocazione, non è uno scandalo, è un libro che vale poco. Su questo credo che concordino in tanti. Oltretutto, gli autori di letteratura italiana contemporanea si trovano spesso senza niente da dire, ma con la necessità di dirlo a intervalli regolari, magari anche più di una volta all'anno. E vivono crisi di depressione e afasia. E la depressione la fanno venire ai (pochi) lettori. Chi, alla casa editrice Einaudi, ha deciso di pubblicare (è uscito poco più di un mese fa) il romanzo Educazione siberiana di Nicolai Lilin deve aver pensato a tutto questo.

Citazioni in ordine temporale.

  • "Non hai letto il libro di Nikolai Lilin Educazione siberiana? – mi chiedeva la primavera scorsa un giornalista tedesco mio amico. – Impossibile! È un bestseller mondiale, tradotto in 40 lingue, in Europa l'autore è già definito "il nuovo simbolo della letteratura russa". Ma non sono riuscita a trovare l'opera reclamizzata dal collega in nessuna libreria di Mosca. In russo non è uscita.
  • Sulla copertina si dice che si tratta di un'autobiografia, e che Nikolai Lilin è "erede degli urka siberiani". [...] A giudicare dalla quantità di recensioni positive al libro di Nikolai Lilin apparse nei media europei e americani, nei lettori occidentali non è sorto alcun dubbio sull’attendibilità dei fatti da lui esposti.
  • I recensori non si sono lasciati turbare [...] dal fatto che fino al 1940 Bender si chiamava Tighina ed era parte della Romania, per cui Stalin semplicemente non poteva deportarvi nessuno, tanto più che all'epoca la gente veniva deportata in Siberia e non dalla Siberia.
  • Se si uniscono i dati del libro di Lilin, delle sue interviste sulla stampa occidentali e dei suoi interventi alle fiere librarie, prima dei 23 anni l'autore ha fatto in tempo a: finire due volte in carcere in Transnistria ed essere processato in Russia, militare per tre anni come cecchino in Cecenia e un altro paio d'anni in Israele, Iraq e Afghanistan. A 24 anni ha fatto il pescatore su una nave in Irlanda, poi si è trasferito in Italia, dove si è sposato, ha aperto un salone di tatuaggi, ha scritto un bestseller e per poco non è diventato vittima di un attentato con motivazioni politiche.
  • Ho chiesto a Nikolai Lilin-Veržbickij che cosa pensa dei commenti dei suoi ex amici [sul libro]. Lui ritiene che siano invidiosi: "Si sentono offesi e inferiori. Io sono riuscito ad andarmene e a ottenere qualcosa, e loro no." Però chiacchierando con me – a differenza che nelle interviste ai giornalisti occidentali – ha sottolineato ripetutamente che il suo libro non è un'autobiografia e che a collocarla come tale sono i suoi editori occidentali. Mentre lui non c'entra niente.

Citazioni in ordine temporale.

  • Volevo raccontare storie che rischiavano di perdersi, che conoscono in pochi, e renderle storie di molti. Le storie della mia gente, distrutta dal capitalismo di oggi, gente che aveva regole sacre, che viveva con dei valori. (3 aprile 2009)
  • Non esiste più nessuna comunità [siberiana]. Sono io, mio fratello, e forse qualcun altro. Il problema è che anche in Siberia non è rimasto niente. Il nucleo di questa comunità è stato deportato in Transnistria e lì non è sopravvissuto. La comunità che descrivo nel libro era composta da 40 famiglie. Si può dire che la tradizione è stata un appoggio, ma in certe situazioni è impossibile per una comunità sradicata sopravvivere. (7 luglio 2009)
  • Io volevo solo raccontare in un romanzo la Russia di mia madre, che ha lavorato tanto e alla fine è dovuta fuggire da casa, in Italia [...]. E il mondo di mio padre, che è vivo per miracolo e non ha più niente. Una delle tante vittime dello sporco gioco di potere che si è svolto in Transnistria. Oggi sta ad Atene, fa mille lavori, il macellaio o il cameriere, è un uomo solo, che ha lasciato alle sue spalle un intero mondo perduto. (13 luglio 2009)
  • C’è chi dice che sono balle, che è tutto inventato, che in Transnistria non è mai stato deportato nessun siberiano. A me non interessa. Io non sono uno storico, non ho fatto ricerche d’archivio. Ho scritto un romanzo, con quello che ho visto e che so. Gli urca non furono deportati? La mia bisnonna, che a 23 anni rimase sola con sette figlioli, ricordava che li avevano portati via tutti insieme col treno fino alla frontiera. Furono costretti ad attraversare il fiume e fu detto loro : "Le armi sono pronte, chi torna indietro è morto". A casa lo raccontava sempre. Ma fuori aveva paura. Quando io ero piccolo, lavorava in ospedale, faceva l’infermiera. E si faceva passare per ebrea, per non dire chi era. Questa è la nostra storia. (13 luglio 2009)
  • Non ho filtrato il ricordo attraverso il mio spirito critico di oggi. Ho voluto riprodurre la realtà così come è arrivata a me, attraverso la mia percezione di bambino, prima, e di ragazzo di sedici, diciotto anni, poi. Piccole storie di uomini e donne che non si trovano nelle enciclopedie. Mia madre, leggendo il libro, ogni tanto diceva: “Nicolai, ma guarda che qui hai sbagliato, la cosa non era esattamente così...”. Io la bloccavo subito : “Mamma, io la ricordo come l’ho scritta”. (13 luglio 2009)
  • Quando i miei amici mi hanno consigliato di cominciare a scrivere, ho preso quel suggerimento con impegno. Mi sono detto: "Se non avrò una fortuna, almeno mi divertirò". Così, per puro divertimento ho scritto "L'educazione siberiana". Per ricordare le cose passate, per rivivere momenti della mia infanzia, che io, nonostante la mia giovane età, spesso vedo molto lontana. Così oggi spesso sento che mi chiamano "lo scrittore". E sorrido, perché penso che nel gergo criminale russo si chiama così chi è molto abile con il coltello. (29 dicembre 2009)
  • [«Chi sono gli urca?»]
    Non lo so esattamente. Mio nonno mi ha detto che era una nazione, sono nato in Transnistria. Sono cresciuto tra queste persone che furono esiliate durante il periodo stalinista, dalla Siberia alla Transnistria. Ho provato a ricreare tutto questo, ma non so se è tutto vero, perché non sono riuscito a trovare un archivio. "Urca" è quasi un insulto oggi in Russia, significa subito criminale comune, di bassa classe. (3 settembre 2010)
  • Non parlo delle ragazze ma non parlo nemmeno della scuola. Ciò non significa che non esistesse, ma non era il mio argomento. E ho scritto ciò che mi è rimasto nella memoria. Non c'erano ragazze, litigavamo tra di noi e pensavamo che se ci fossero state ragazze sarebbe stato ancora peggio, avrebbero seminato discordia. (3 settembre 2010)
  • I miei racconti sono arrivati ​​al direttore dell'associazione letteraria e quando mi ha chiamato alle due del mattino piangeva. Ha detto: le mie storie sono così audaci e lo hanno toccato così tanto che vorrebbe mostrarle a un editore serio. Due settimane dopo ho ricevuto una telefonata dalla più grande casa editrice italiana, Einaudi. (3 ottobre 2011)
  • [«Qui ho tra le mani la versione tedesca del libro, e qui sulla copertina c'è scritto: "Nicolai Lilin, urca siberiano ereditario..."»]
    Purtroppo non ho alcuna influenza su come viene presentato il mio libro. In Italia scrivono la stessa cosa in copertina, perché devono in qualche modo vendere questo libro e in qualche modo farmi conoscere alla gente. Ma questa non è un'autobiografia. Anche se questo libro si basa sulla mia esperienza, su ciò che io stesso ho vissuto. (3 ottobre 2011)
  • [«Ma come poteva Stalin mandare qualcuno a Bendery negli anni '30, se a quel tempo era territorio rumeno?»]
    Non è chiaro cosa ci fosse. Questa parte del libro, che è collegata al reinsediamento... o, diciamo, al "presunto reinsediamento", l'ho scritta o, per meglio dire, ricreata questa storia, utilizzando alcuni ricordi degli anziani. Alcuni furono espulsi, altri fuggirono lì a causa delle persecuzioni dei comunisti. E l'editore ha scritto che questa è un'autobiografia. (3 ottobre 2011)
  • La Siberia [...] era un paradiso, un posto di cui ci raccontavano da piccoli, dove c’erano boschi enormi. Ogni bambino aveva a casa i nonni che raccontavano di questi boschi e dei fiumi. Ma ci sono tante cose che non quadrano tra la mia Siberia immaginaria e quella reale. Nel mio libro parlo solo di una parte, quella dove viveva lo zio di mio padre, a Nord Ovest della Jacuzia. (12 ottobre 2011)
  • Secondo me il successo di Educazione siberiana è legato al fatto che l'ho scritto senza prendere le parti di nessuno, ma semplicemente utilizzando la voce di un ragazzo. Questo raccontare una realtà attraverso i sentimenti, senza tecnicismi, ha aiutato le persone a sentirla sulla propria pelle. E per me questa è una cosa davvero rivoluzionaria. Nella comunicazione letteraria è importante stare dalla parte dei sentimenti e non da quella dei meccanismi, altrimenti diventi scrittore politico. E quando in mezzo c'è la politica sporchi tutto. Io per esempio sono stato sempre colpito da giovane dagli autori di fantascienza americani degli anni Cinquanta, da Asimova Bradbury, perché è attraverso queste letture non dichiaratamente politiche - allora vietate nel mio Paese - che ho scoperto cosa accadeva nel mondo, a cominciare dalla guerra nel Vietnam. Grazie a questi libri, che in Russia si chiamavano "stracci", ed erano vietati, capimmo che il capitalismo non era tutto cattivo e che, di là dalla Cortina di ferro, c'erano persone che condividevano i nostri stessi valori. Su questo ho costruito la mia comunicazione letteraria. Poi, se c'è qualcuno che vede qualcosa di politico in quello che scrivo ben venga, ma il mio primo obiettivo è comunicare. Se vogliamo dire che ogni comunicazione è politica va bene, ma io non voglio assolutamente essere politico. E in questo momento sono anche apartitico. (28 febbraio 2013)
  • Se qualcuno vuole pensare che dietro a chi ha scritto il libro ci sia un ghostwriter, che lo pensi pure. A me importa, piuttosto, che costui abbia comprato il libro. (5 aprile 2013)
  • Io ho scritto un romanzo, non un saggio storico, anche se ho fatto riferimento a un momento epocale della storia. Non è facile, e neanche opportuno, cercare di distinguere la realtà dal romanzo. Chi cerca di esaltare o di negare la verità del mio libro è comunque un "maleducato". Sta a me scrittore affermare se quello che ho scritto è fondato sull’esperienza vissuta o meno. (16 novembre 2013)
  • Xenia è un personaggio reale al 95%, per la quale mi sono ispirato a una persona che ho realmente conosciuto, dalla quale ero molto affascinato e alla quale ero legato sin dall'infanzia. Come tutte le persone prive di stabilità mentale, lei era pura. (11 giugno 2024)

Citazioni in ordine temporale.

  • Se preferiresti Pulp Fiction e Le iene senza il loro ingegnoso umorismo e struttura, allora questo potrebbe essere il libro che fa per te.
  • La modalità narrativa del libro è strana: a volte, sembra che un antropologo descriva le tradizioni di un'etnia siberiana finora sconosciuta che combina la criminalità assolutamente spietata con la puntigliosità religiosa dei Fratelli esclusivi, le loro tradizioni incarnate in un nonno Kuzja che guida il giovane eroe e i suoi amici su quando, chi, come e con quale arma mutilare e uccidere. Altre volte, autore e lettore si crogiolano in una pornografia di violenza.
  • Se queste "memorie" fossero credibili, potrebbero avere un certo valore (e servire come pretesto per invadere la Transnistria come piaga purulenta della criminalità). Ma la credulità crolla nelle prime pagine, e non solo perché la cronologia è un completo disastro. Lo sfondo delle "memorie" (nelle interviste alla televisione italiana Lilin ha cominciato a definire Educazione siberiana una "favola autobiografica") è la deportazione da parte di Stalin negli anni '30 di un gruppo di ladri siberiani intollerabilmente attivi e anticomunisti verso ovest, verso Bender sul fiume Dnestr, dove fiorirono negli anni '90. Di solito, Stalin fucilava queste persone o le mandava 1.600 miglia più vicino al Polo Nord: questa sarebbe l'unica deportazione registrata di Stalin dalla Siberia all'Europa, tanto più incredibile perché Bender fu dal 1918 al 1940 in Romania.
  • I diritti di traduzione di questo libro sono stati venduti in tutto il mondo, ma non in russo, rumeno, ucraino o in qualsiasi lingua che gli abitanti di Bender e Tiraspol possano leggere. Lilin lo spiega come precauzione contro la vendetta per aver rivelato i segreti della lingua, dei tatuaggi e del codice degli urca siberiani. Tesi di dottorato e archivi Internet, invece, raccontano tutto sul simbolismo dei tatuaggi criminali russi, mentre le credenze dei dissidenti ortodossi e dei "ladri nella legge" vengono descritte da oltre un secolo (ma mai prima d'ora confuse come sono in questo libro, dove i revolver usati per uccidere sono conservati sotto le icone).
  • Nicolai Lilin (se questo è il suo vero nome) ha ovviamente incontrato il mondo criminale, ma commette errori grossolani – sostenendo che fenja, il gergo criminale originato dagli ofenja, venditori ambulanti russi, è una lingua aborigena siberiana.
  • Questo libro si legge come il delirio di un vaneggiatore [...]. Il successo di Educazione siberiana implica che l'editoria italiana sprofonda nello stesso pozzo nero della televisione italiana. Si può solo sperare che i lettori britannici non siano così ingenui.

Citazioni in ordine temporale.

  • Per leggere questo libro bisogna prepararsi a dimenticare le categorie di bene e di male così come le percepiamo, lasciar perdere i sentimenti come li abbiamo costruiti dentro la nostra anima. Bisogna star lì leggere e basta.
  • Non ci si aspetti un libro sulla mafia russa, né un trattato sul crimine, né alleanze tra clan, imperi economici, faide e sparatorie. È il contrario. È un romanzo che racconta di un popolo scomparso, di una tradizione guerriera che Nicolai conservava dentro di sé e che non riusciva più a tacere.
  • In Educazione Siberiana ci sono pagine di arresti e retate in cui la polizia non riesce a rivolgere la parola a nessun siberiano. Ogni Urka ha sempre al proprio fianco una donna che faccia da tramite. Lilin racconta che dalle sue parti si dice che chi non ha voglia di lavorare e non ha il coraggio di delinquere fa il poliziotto. Nelle comunità criminali degli Urka, diversamente da quanto accade in Italia, esistono regole talmente forti da fermare il business, vincolare il potere.

Citazioni in ordine temporale.

  • La veridicità degli elementi fondamentali della storia è stata strenuamente difesa da Lilin e accettata da molti critici; eppure molti lettori potrebbero avere la sensazione di essere finiti nell'era hayboriana inventata da Robert Ervin Howard, tra personaggi del calibro di Conan il barbaro e i signori della guerra Vanir.
  • Il libro si presenta come una "scioccante esposizione di uno straordinario mondo criminale", anche se una nota strategicamente posizionata (assente nell'edizione italiana) avverte il lettore che "certi episodi sono ricreazioni fantasiose, e quegli episodi [non specificati] non sono destinati a ritrarre fatti realmente accaduti". Durante un'intervista alla televisione italiana, Lilin ha ripetutamente minacciato un giornalista che metteva in dubbio la sua storia. A rischio di espormi all'ira dell'ultimo discendente dei criminali siberiani, oso dire che gli urca non sono mai esistiti, almeno non come li descrive l'autore.
  • Di fronte a evidenti inesattezze e contraddizioni, Lilin ha ribattuto che queste accuse equivalgono ad accusare Anna Frank di aver calcolato male il numero dei pali elettrici a Bergen-Belsen. Lascio al lettore il giudizio sull'adeguatezza e sulla sensibilità del confronto.
  • Lilin attinge alla vasta letteratura sulla vita carceraria e sul mondo criminale russo per creare una setta la cui presunta origine "siberiana" è fantastica e le cui tradizioni, pratiche e linguaggio provengono da ben note confraternite criminali carcerarie sovietiche e post-sovietiche. [...]. Le furiose reazioni di Lilin a coloro che mettono in dubbio le sue credenziali criminali possono essere meglio spiegate dal fatto che alcuni elementi del libro riflettono la sua esperienza, mentre la maggior parte del resto è ampiamente noto in Russia ai lettori dei racconti polizieschi quasi immaginari di Valerij Karyšev e agli spettatori della serie televisiva carceraria Zona.
  • Bendery è una città piccola, 80 mila abitanti dove tutti si conoscono. Conoscono anche Nicolai (anche se all'epoca portava un altro cognome), si ricordano i suoi genitori e il nonno Boris, «grande persona, ha lavorato fino all'ultimo», dice un coetaneo dello scrittore. Si frequentavano quando erano ventenni, è stato anche a casa sua: «Non c'erano icone, né armi, nessun oggetto "siberiano". Lui era uno curioso, leggeva molto». Nulla di criminale? «Mai sentito che fosse stato in galera, anzi si diceva che a un certo punto si fosse arruolato nella polizia».
  • Che cosa vuol dire siberiana? Tutto e niente. Ha visto sull'atlante quanto è grande la Siberia? E poi non esiste un'etnia siberiana, ma solo delle minoranze autoctone che con questo libro non c'entrano niente.
  • Diciamo che l'infanzia che lui racconta, in un contesto di povertà ed emarginazione, è anche credibile. Così come è probabile che conducesse allo sbocco naturale della prigione. Anche una certa realtà di bande giovanili è possibile. È la parte sulla mafia che non convince. [...] Rappresentanti della mafia russa ne ho conosciuti. Chi è un killer non va certo a raccontarlo in giro.
  • Secondo Lilin, gli Urca sarebbero una minoranza etnica «discendente degli antichi Efei» che viveva di caccia e rapina e che dalla Siberia venne deportata in Transnistria negli anni '30, quando era parte della Romania (sarebbe stata annessa all'Urss nel 1940, nella spartizione dell'Europa tra Stalin e Hitler). Così i comunisti avrebbero popolato «l'impero romeno», come lo chiama lo scrittore, di criminali russi sconfiggendo le cosche locali. «Assurdo», ride Pavel Polian, storico russo che da 25 anni studia le deportazioni di comunismo e nazismo: «Si deportava in Siberia, ma non dalla Siberia, meno che mai in Moldova. E gli Efei non sono mai esistiti».
  • Secondo Lilin l'esistenza stessa degli Urca era un segreto del regime. Una comunità quasi estinta, che aveva lasciato un segno profondo, vincendo da sola la guerra del 1992, quando la Moldova in preda a bollenti spiriti postsovietici ha invaso la provincia separatista. In Educazione siberiana si narra del trionfo dei «siberiani», riusciti a far esplodere uno dei due cinema di Bendery pieno di militari. Marian Bozhesku, ricercatore ucraino autore di Transnistria 1989-1992, lo studio più esaustivo sul conflitto, dice di non averne mai sentito parlare. «Per noi il ricordo della guerra è ancora vivissimo, abbiamo combattuto disperatamente, dire che sono stati i criminali a vincerla è ridicolo», s'indigna Denis Poronok, che ha la stessa età di Lilin, 31 anni, e contesta la «versione di Nicolai»: «Il cinema esploso è una fiaba, e nel '92 a Bendery c'erano quattro sale, non due».

Filmografia

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Bibliografia

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Altri progetti

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