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Ermenegildo Pistelli

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Lapide di Ermenegildo Pistelli posta sulla sua casa natale a Camaiore

Ermenegildo Pistelli (1862 – 1927), presbitero, filologo classico, glottologo e papirologo italiano.

Profili e caratteri

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  • Suo scolare, e collega di tanti scolari suoi, posso dir qualcosa del Villari professore per conoscenza diretta. So che gli è stato fatto qualche appunto, non sempre ingiusto. Dicono per esempio, che non d'ogni periodo storico mostrava sicura conoscenza positiva (ma chi mai l'avrà, d'ogni periodo storico?), che oscillava tra una storia molto particolare e una teoria generalissima di storiografia e filosofia della storia, che si ripeteva d'anno in anno e qualche volta anche di lezione in lezione. Senza negare che ci sia del vero in queste e simili osservazioni, risponderò che trovare professori, di storia o d'altro, che non abbiano quei difetti del Villari, è cosa tanto facile, quanto è rara e difficile trovarne che abbiano le sue grandi qualità. (pp. 69-70)
  • Immaginiamo che parlando [Villari] del metodo storico (è uno dei suoi temi favoriti) gli venga fatto di ricordare quella tale accademia che propose un premio alla più completa monografia sul cammello: «un francese andò a studiarlo al giardino pubblico; un inglese fece i suoi bauli e partì per quelle regioni orientali dove il cammello vive libero; un tedesco se lo levò dalla propria coscienza». Gli scolari ridono al gesto vivace che il maestro fa come per levarsi un cammello di sullo stomaco, e ride il Villari stesso; ma bisogna aver avuto la fortuna di udirlo, per farsi un'idea della evidenza davvero mirabile con la quale egli riesce, per tacer d'altro, a studiare ed esporre i misteri di quella filosofia che si leva dalla propria coscienza anche i cammelli; e tutto questo per incidenza, senza darsi aria, senza spaventare gli alunni col proporre loro gravi problemi metafisici annebbiati dal solito formulario. (p. 71)
  • Il Tasso, più che d'invidia e persecuzioni, fu vittima del temperamento, della malinconia e degli scrupoli: il Neri, spirito gaio ed equilibrato, aveva per massima e regola le parole che ripeteva così spesso: «Non voglio scrupoli, non voglio malinconie». (p. 87)
  • Il Neri chiede la forza a Dio, passa le notti meditando nelle catacombe, prolunga le estasi quando dice la messa. Ma, quanto alle estasi, ha il buon senso di non pretendere che vi partecipi anche il cherico che gli serve la messa, e quando vuole restar solo con Dio dice ai ragazzo: – Va' pure, e torna tra una mezz' ora. – E poi, fuor di chiesa e di sagrestia, vive per il popolo e col popolo, per la società e tra la società. La folla non gli fa paura: l'ama e la cerca. E cerca di riunire quanti più può, d'ogni età e d'ogni condizione, a fare del bene insieme, tanto da venire in sospetto come «autore di nuove dottrine e di nuove sette». (p. 89)
  • Ognuno che giudichi gli scrittori senza gli occhiali da miope della ipercritica, senza commuoversi alle declamazioni di chi badando al suono delle parole non cura la verità delle cose, senza dimenticare i tempi in che scrissero e la mira che si prefissero, senza spezzarne in frantumi l'unità della figura, senza lasciarsi fuorviare da preconcetti settari, riconoscerà nel Tosti, oltreché un insigne scrittore, un gran cristiano e un gran cittadino. (p. 112)
  • [...] la ricchezza della lingua, la solennità del periodare, l'eloquenza di molte pagine, insomma il lungo e accurato studio della forma, son doti innegabili del Tosti, eppure non bastano a farne uno scrittore nel senso più alto della parola. La ricchezza c'è, ma frammista a scorie e vecchiumi; la solenne eloquenza ha la sua efficacia nelle narrazioni più drammatiche, ma altre volte è faticosa ed enfatica. Dove vorresti che il racconto procedesse snello e semplice, capiti a ogni piè sospinto in quel periodare prolisso, in quelle forme viete che ti fermano e ti impacciano. (p. 119)
  • [Luigi Tosti] A chi si lasciasse ingannare dalla struttura un po' antiquata e dalla forma, come dicevo, accademica de' suoi lavori, senza cercare di penetrarne lo spirito, sfuggirebbe quella che a me sembra la sua qualità essenziale, voglio dire una modernità di pensiero e di intenti, che, tenuto conto dei tempi e della condizione dello scrittore, è addirittura straordinaria. È un appassionato cultore della storia medievale, è innamorato delle vecchie glorie italiane, è fedele sempre fino allo scrupolo alla parola e allo spirito della Chiesa, ma tutto questo non impedisce che egli sia un fervidissimo amante d'ogni progresso buono e d'ogni ragionevole libertà. (p. 120)
  • Una delle singolarità che più colpiscono leggendo il Tosti è quel suo continuo studio di riavvicinare, di paragonare, di confrontare quello che sembra più lontano ed opposto; e da questa singolarità è fatta anche più manifesta l'indole sua come scrittore e come uomo. Ogni carattere fiero, ogni cuore buono, ogni alta intelligenza lo attira; e se accade che quei caratteri, quei cuori, quelle intelligenze si siano trovati in conflitto, egli ne soffre visibilmente e si affanna a metter tutti nella miglior luce possibile. (p. 122)
  • A confessione di tutti, cattolici o no, nessuno nella letteratura italiana del nostro secolo ha stampato più vasta orma di Alessandro Manzoni. In tutte le opere sue rifulge il sentimento Cristiano più puro e si affermano i principi cattolici apertamente. Cantò i Misteri della religione, ne difese con potente dialettica la morale, e questa morale seguì nella pratica di una lunga vita intemerata. Pure, quel partito lo ha per lungo tempo reietto o negletto. Da prima ne calunniarono le intenzioni e nel romanzo cercarono (come essi dicevano) i germi deleteri del liberalismo ed osarono contrapporgli altri romanzi, utili forse in qualche modo come repertori di lingua, ma che non faranno mai né pensare né battere il cuore. Né, tanti anni dopo morto, si son chetati ancora: non gridano più, ma non si danno per vinti. In un periodico, che è insieme loro espressione ed ispirazione, pochi anni fa leggemmo che «soltanto pochi illusi credettero che il Manzoni si fosse convertito davvero». (p. 149)
  • Il Rosmini voleva che trionfasse il principio nazionale Italiano: voleva, dopo l'indipendenza, l'unità per confederazione, ma voleva anche salvi gli stati del Pontefice. Perciò disapprovava la politica vaticana che comprometteva tutto insieme e la riuscita della guerra e la confederazione unitaria e il potere temporale; e, all'occasione, non si trattenne «di biasimare acremente l'incoerenza del Governo Pontificio, che faceva o lasciava fare degli atti favorevoli all'indipendenza d'Italia, e contemporaneamente faceva degli altri atti avversi e contrari ai primi: ciò che non solo dimostrava la sua debolezza, ma l'accresceva, disgustando entrambe le parti fra cui ardeva la lotta»[1]. (pp. 161-162)
  • Chi voglia persuadersi che il Manzoni non è un «rassegnato» e che i Promessi Sposi non sono troppo passatisti, basta che li rilegga con l'attenzione che è dovuta a un libro difficile. Nessuno prende in mano la Divina Commedia sicuro di sé. Forse, se è un conferenziere di grido, si darà quell'aria spregiudicata che piace alle signore e coprirà di eleganti ironie le teste calve dei «dantisti» e dei «commentatori», come se lui non avesse bisogno dell'aiuto di codesti pedanti. Ma quando sono soli con se stessi, allora anche i conferenzieri e gli artisti e i poeti si degnano di studiare i commentatori poiché sanno quanto é facile farsi mettere in sacco da Dante. Coi Promessi Sposi invece tutti fanno a confidenza. In una divisione a orecchio da quasi tutti accettata, é oramai convenuto che la Divina Commedia è tra i libri difficili e i Promessi Sposi tra i facili. È un pregiudizio. (pp. 183-184)
  • Era il primo giorno di scuola del primo anno che insegnavo latino al Liceo delle Scuole Pie. Una signora piccola, un curva, con aria e abito quasi monacali, mi presentò il suo Giulio [Bechi], un bel ragazzo tra i quindici e i sedici anni, biondo, dagli occhi sereni, il sorriso buono. Mi disse: – Ha voglia di studiare, non è cattivo, glie lo raccomando. – Poi, quand'ero per entrare in classe, mi richiamò a aggiunse: – Preghi Dio che non debba fare il soldato. – Io guardai il ragazzo, così sereno e mite, e risposi; – Non sarebbe mica una disgrazia, sa? Ma non mi pare tipo... – Invece, avevo torto io. Era nato soldato. Studiò il latino e il greco con passione, sempre il primo della classe; era «presidente dell'oratorio» e la domenica intonava a gran voce l'Ufizio della Madonna; conservò quella sua aria mite, direi verginale, ma sempre col proposito di diventare un bravo soldato. Era forse un istinto disceso per li rami. (p. 205)
  • [Giulio Bechi] [...] ogni suo scritto, chi sapeva vederne lo scopo, era di soldato e per i soldati, era per l'esercito, per educare e riformare. Hanno notato che de' suoi volumi è primo per bellezza quello che è primo per tempo: Caccia grossa, quel libro ancora così vivo e fresco, che gli diede nome e fece scandalo per la sincerità, sicché quei bravi Sardi, troppo ombrosi, se ne offesero, e l'autore n'ebbe in premio qualche settimana di fortezza. Un piccolo capolavoro, sì; al quale aggiungerei alcuni dei Racconti d'un fantaccino, e alcuni dei Racconti del bivacco, se volessi ora parlare dello scrittore. (p. 208)

Explicit di Per la Firenze di Dante

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La grandezza unica di Dante non ha bisogno che s'abbassino gli altri per esaltar lui: resta sempre il primo, più alto di tutti. Tanto meno è lecito umiliare in faccia a lui la sua Firenze, che fu il suo amore più fervido. Lecito invece è affermare che l'unica creazione di Dio degna d'esser paragonata a Dante fu ed è proprio la sua Firenze. Nessun'altra città del mondo era altrettanto degna d'un figliuolo come Dante.

Citazioni su Ermenegildo Pistelli

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  • Ha voluto che sulla sua tomba si scrivesse soltanto: «Ermenegildo Pistelli (Omero Redi), delle Scuole Pie, professore nell'Università di Firenze»; ha desiderato cioè sopravvivere nella memoria col suo pseudonimo di scrittore, come scrittore, come artista puro.
  • Il Pistelli nel suo epitafio ha voluto che si facesse menzione anche del suo ufficio ecclesiastico, della sua vocazione di scolopio, cioè di frate maestro; non ha rinnegato neppure in morte l'abito che non aveva mai voluto smettere in vita, neppure quando, dovendo recarsi per iscavi e ricerche di papiri in Egitto, tra i beduini del deserto, mentre infieriva la guerra libica, persone prudenti e benevole lo ammonivano che mostrarsi prete cattolico aumentava per lui il pericolo che correva laggiù qualunque Italiano.
  • Il Pistelli nella freschezza della compagnia dei ragazzi si tuffava, attratto da affinità istintive, così come con amici cari si lasciava volentieri andare a «fare il chiasso» (non ha mai detto altrimenti che così), a giocare a dama e a domino (a domino era invincibile); e pretto istinto, non abito di riflessione, regolava in tali casi il suo contegno. La riflessione veniva, se mai, più tardi, e si combinava con l'istinto e con altre facoltà altrettanto profonde: ne usciva l'opera d'arte. L'istinto, o meglio l'amore paterno per i bambini, egli, frate scolopio, ha sentito profondo, come spesso anime affettuose, alle quali ragioni religiose o sociali o di qualsiasi genere abbiano negato la paternità. Mortalmente malato, ha voluto che i bambini delle scuole di Firenze, le quali sino al giorno innanzi dipendevano da lui assessore, pregassero per lui; li ha desiderati (e forse il desiderio non è stato adempiuto nel modo ch'egli avrebbe voluto) intorno al suo feretro.

Note

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  1. [Rosmini,]Commentario (Paravia, 1881), p. 13. [N.d.A.]

Bibliografia

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Altri progetti

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