Paolo Sarpi

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Paolo Sarpi

Paolo Sarpi (1552 – 1623), religioso, teologo, storico e scienziato italiano.

Citazioni di Paolo Sarpi[modifica]

  • Può di più un generale che cento Papi.[1]

Istoria del Concilio Tridentino[modifica]

Incipit[modifica]

Il proponimento mio è di scrivere l'istoria del concilio tridentino, perché, quantonque molti celebri istorici del secol nostro nelli loro scritti n'abbiano toccato qualche particolar successo, e Giovanni Sleidano, diligentissimo autore, abbia con esquisita diligenza narrate le cause antecedenti, nondimeno, poste tutte queste cose insieme, non sarebbono bastanti ad un'intiera narrazione.

Citazioni[modifica]

  • Nell'istesso regno di Boemia erano li seguaci di Giovanni Hus che si chiamavano calistini overo sub utraque, li quali, fuori che in questo particolare che nella santissima communione ministravano al popolo il calice, nelle altre cose non erano molto differenti dalla dottrina della Chiesa Romana. Ma né questi venivano in considerazione, così per il loro picciol numero, come perché mancavano di erudizione, né si vedeva che desiderassero communicar la loro dottrina, né che altri fossero desiderosi d'intenderla. (da Libro primo [1500 - agosto 1544], Volume primo, p. 9)
  • Questo modo di cavar danari fu messo in uso doppo il 1100. Imperoché, avendo papa Urbano II concessa indulgenza plenaria e remissione di tutti i peccati a chi andava nella milizia di Terra Santa per conquistar e liberar il sepolcro di Cristo dalle mani di maomettani, fu seguitato per più centenara d'anni dalli successori, avendo alcuni d'essi, (come sempre si aggionge alle nuove invenzioni) aggiontovi la medesima indulgenza a quelli che mantenevano un soldato, non potendo essi o non volendo personalmente andare nella milizia; e poi, col progresso, concesso le medesime indulgenze e remissioni anco per far la guerra a quelli che, se ben cristiani, non erano obedienti alla Chiesa romana; e per lo più erano fatte abondantissime essazzioni di danari sotto li pretesti detti di sopra. Li quali però erano applicati, o tutti, o la maggior parte, ad altri usi. (da Libro primo [1500 - agosto 1544], Volume primo, p. 11)
  • Seguendo questi essempii Leone, così consegliato dal cardinal Santi Quattro, mandò un'indulgenza e remissione de peccati per tutte le regioni di cristiani, concedendola a chi contribuisse danari et estendendola anco a morti: per i quali, quando fatta l'esborsazione, voleva che fossero liberati dalle pene del purgatorio; aggiongendo anco facoltà di mangiar ova e latticini ne' giorni di digiuno, di eleggersi confessore et altre tali abilità. (da Libro primo [1500 - agosto 1544], Volume primo, p. 11)
  • Si aggionse la cattiva vita delli questori, i quali nelle taverne et altrove, in giuochi et altre cose più da tacere, spendevano quello che il popolo risparmiava dal suo vivere necessario per acquistare le indulgenze. Dalle quali cose eccitato Martino Lutero, frate dell'ordine degli eremitani, li portò a parlar contra essi questori; prima riprendendo solamente i nuovi eccessivi abusi, poi, provocato da loro, incominciò a studiare la materia, volendo vedere i fondamenti e le radici dell'indulgenza; li quali essaminati, passando dagli abusi nuovi alli vecchi e dalla fabbrica alli fondamenti, diede fuora 95 conclusioni in questa materia, le quali furono proposte da esser disputate in Vitemberga; né comparendo alcuno contra di lui, se ben viste e lette, non furono da alcuno oppugnate in conferenza vocale, ma ben frate Giovanni Thecel, dell'ordine di san Domenico, ne propose altre contrarie a quelle in Francfort di Brandburg. (daLibro primo [1500 - agosto 1544], Volume primo, pp. 13-14)
  • Queste cose così incerte allora e che non avevano altro fondamento che la bolla di Clemente VI fatta per il giubileo del 1350, non parevano bastanti per oppugnar la dottrina di Martino Lutero, risolvere le sue ragioni e convincerlo [...]. Questo diede occasione a Martino di passar dalle indulgenze all'autorità del pontefice, la qual essendo dagli altri predicata per suprema dalla Chiesa, da lui era sottoposta al concilio generale legitimamente celebrato, del quale diceva esservi bisogno in quella instante et urgente necessità; e continuando il calore della disputa, quanto più la potestà papale era dagli altri inalzata, tanto più da lui abbassata. [..] E per l'istessa ragione fu anco messa a campo la materia della remissione de peccati e della penitenza e del purgatorio, valendosi di tutti questi luoghi i romani per prova delle indulgenze. (da Libro primo [1500 - agosto 1544], Volume primo, pp. 15-16)
  • Dopo molte dispute, nelle quali i teologi attribuivano a sé soli la decisione, trattandosi di cosa di fede, et i giureconsulti se l'appropriavano quanto alla forma di giudicio, fu proposto composizione tra loro, distinguendo il negozio in tre parti: la dottrina, i libri e la persona. Della dottrina, concessero i canonisti che si condannasse senza citazione; della persona, persistevano in sostenere che fosse necessaria; però non potendo vincer gli altri, che insistevano con maggior acrimonia e si coprivano col scudo della religione, trovarono temperamento che a Martino fosse fatto un precetto con termine conveniente, che così si risolverebbe in citazione. Delli libri fu più che fare, volendo i teologi ceh insieme con la dottrina fossero dannati assolutamente, et i canonisti che si ponessero dal canto della persona e si comprendessero sotto il termine. Non potendosi accordar in questo, fu fatto l'uno e l'altro: prima dannati al presente, e poi dato il termine di abbruciarli. (da Libro primo [1500 - agosto 1544], Volume primo, pp. 21-22)
  • Primieramente quelli che avevano abbracciate le opinioni di Lutero volevano il concilio con condizione che in quello tutto fosse deciso e regolato con la Scrittura, escluse tutte le constituzioni pontificie e le dottrine scolastiche, perché così tenevano certo non solo di difender la loro, ma anco che ella sola dovess'essere approvata. Ma un concilio che procedesse come era fatto per 800 anni inanzi non lo volevano, e si lasciavano intendere di non rimettersi a quel giudicio. (da Libro primo [1500 - agosto 1544], Volume primo, p. 34)
  • Lorenzo Puccio, fiorentino, cardinale di Santi Quattro, che fu datario di papa Leone e ministro diligente per ritrovar danari, come s'è già detto, et ora era sommo penitenziero, col parer universale riferì al pontefice ch'era stimata irreuscibile la proposta, e che quando fosse tentata, in luogo di rimediare alli presenti mali, n'averebbe suscitati di molto maggiori. Che le pene canoniche erano andate in disuso perché, mancato il fervor antico, non si potevano più sopportare; però, volendo ritornarle, era necessario prima ritornare l'istesso zelo e carità nella Chiesa. Che il presente secolo non era simile alli passati, ne' quali tutte le deliberazioni della Chiesa erano ricevute senza pensarci più oltre, là dove al presente ogni uno vuol farsi giudice et essaminare le ragioni. (da Libro primo [1500 - agosto 1544], Volume primo, pp. 40-41)
  • Ma Enrico, subito veduta la sentenza, disse importare poco, perché il papa sarebbe vescovo di Roma, et egli unico padrone del suo regno; che l'avrebbe fatta al modo antico della Chiesa orientale, non restando d'essere buon cristiano,, né lasciando introdurre nel regno l'eresia luterana o altra; e cosí esseguí. (da Libro primo [1500 - agosto 1544], Volume primo, p. 118)
  • Il Vergerio ritornato in Germania fece l'ambasciata del pontefice a Ferdinando, prima, e poi a qualonque de' protestanti che andava a trovar quel re per gli occorrenti negozii; e finalmente fece un viaggio per trattar anco con gli altri. Da nissuno d'essi ebbe altra risposta, salvo che averebbono consultato insieme nel convento che dovevano ridurre nel fine dell'anno, e di commun consenso deliberata la risposta. La proposizione del noncio conteneva che quell'era il tempo del concilio tanto desiderato, avendo il pontefice trattato con Cesare e con tutti i re per ridurlo seriamente, e non come altre volte, in apparenza; et acciò non si differisca più, aveva risoluto d'elegger per luogo Mantova, conforme a quello che già due anni era stato risoluto con l'imperatore. La qual città essendo di un feudatario imperiale e vicina ai confini di Cesare e de' Veneziani, potevano tenerla per sicura; senza che il pontefice e Cesare averebbono data ogni maggior cauzione. (da Libro primo [1500 - agosto 1544], Volume primo, pp. 125-126)
  • Ma il Vergerio nel principio dell'anno 1536 tornò al pontefice per riferire la sua legazione. Riportò in somma che i protestanti non erano per ricever alcun concilio, se non libero, in luogo opportuno, tra i confini dell'Imperio, fondandosi sopra la promessa di Cesare, e che di Lutero e degli altri suoi complici non vi era speranza alcuna, né si poteva pensar ad altro che opprimergli con la guerra. Ebbe il Vergerio per suo premio il vescovato di Capo d'Istria, sua patria, e dal pontefice fu mandato a Napoli per fare la medesima relazione all'imperatore, il qual, ottenuta la vittoria in Africa, era passato in quel regno per ordinare le cose di quello. Et udita la relazione del noncio, passò Cesare a Roma. (da Libro primo [1500 - agosto 1544], Volume primo, pp. 131-132)
  • Dieci giorni dopo li legati, gionse a Trento don Diego di Mendozza, ambasciatore cesareo appresso la republica di Venezia, per intervenire al concilio con amplissimo mandato datogli il 20 febraro da Bruselles, e fu ricevuto da' legati con l'assistenza del cardinale Madruccio e di tre vescovi, che tanti sino allora erano arrivati, quali, per essere stati i primi, è bene non tralasciare i loro nomi: e furono Tomaso Campeggio vescovo di Feltre, nepote del cardinale, Tomaso di San Felicio, vescovo della Cava, fra' Cornelio Musso franciscano, vescovo di Bitonto, il più eloquente predicatore di quei tempi. Quattro giorni dopo fece don Diego la sua proposta in scritto: conteneva la buona disposizione della Maestà Cesarea circa la celebrazione del concilio e l'ordine dato ai prelati di Spagna per ritrovarsi, quali pensava che oramai fossero in camino; fece scusa di non essere venuto prima per le indisposizioni; ricercò che s'incominciassero le azzioni conciliari e la riforma de' costumi, come due anni prima in quel luogo medesimo era stato proposto da monsignore Gravela e da lui. (da Libro primo [1500 - agosto 1544], Volume primo, pp. 195-196)
  • Venne finalmente il 13 di decembre, quando in Roma il papa publicò una bolla di giubileo, dove narrava aver intimato il concilio per sanare le piaghe causate nella Chiesa dagli empi eretici. Perilché essortava ogniuno ad aiutare i padri congregati in esso con le loro preghiere appresso Dio; il che per fare più efficacemente e fruttuosamente, dovessero confessarsi e digiunare tre dì, e ne' medesimi intervenire alle processioni e poi ricevere il santissimo sacramento, concedendo perdono di tutti i peccati a chi cosí facesse. E l'istesso giorno in Trento i legati con tutti i prelati, che erano in numero 25 in abito pontificale, accompagnati da' teologi, dal clero e dal popolo forestiero e della città, fecero una solenne processione dalla chiesa della Trinità alla catedrale. (da Libro secondo [settembre 1544 - marzo 1547], Volume primo, p. 225-226)
  • Il re Filippo di Spagna fu primo dar forma più conveniente, facendo del 1558 una legge che il catalogo de' libri proibiti dall'Inquisizione di Spagna si stampasse. Al qual essempio anco Paolo IV in Roma ordinò che da quell'officio fosse composto e stampato un Indice, come fu esseguito nel 1559, nel quale furono fatti molti passi più inanzi che per lo passato, e gettati fondamenti per mantener et aggrandir l'autorità della corte romana molto maggiormente, col privar gl'uomini di quella cognizione che è necessaria per difendergli dalle usurpazioni. Sino a quel tempo si stava tra i termini de' libri de eretici, né era libro vietato, se non di autore dannato. (da Libro sesto [1 gennaio - 17 settembre 1562], Volume secondo, p. 765)
  • Questo indice fu diviso in tre parti: la prima contiene i nomi di quelli, l'opere de' quali tutte, di qualunque argomento siano (eziandio profano), sono vietate; et in questo numero sono riposti non solo quelli che hanno professato dottrina contraria alla romana, ma molti ancora sempre vissuti e morti nella communione di quella. Nella seconda parte si contengono nomi de' libri che particolarmente sono dannati, non proibiti gl'altri dagli stessi autori. Nella terza, alcuni scritti senza nome, oltra che, con una regola generale, sono vietati tutti quelli che non portano il nome degli autori scritti dopo il 1519 e sono dannati molti autori e libri che per 300, 200 e 100 anni erano stati per mano di tutti i letterati della romana Chiesa, sapendo e non contraddicendo i pontefici romani per tanto tempo, e de' moderni ancora furono proibiti di quelli che erano stampati in Italia, eziandio in Roma con approbazione dell'Inquisizione, et anco approbati dal papa medesimo per i suoi brevi, come le annotazioni d'Erasmo sopra il Testamento nuovo, che da Leon X, dopo averle lette, furono approbate con un suo breve, sotto il dato in Roma 1518, 10 settembre. (da Libro sesto [1 gennaio - 17 settembre 1562], Volume secondo, pp. 765-766)
  • Si ruppe la guerra quasi per tutte le provincie di Francia tra l'una parte e l'altra, et in quell'estate furono sino 14 esserciti formati tutti in un tempo in diverse parti del regno. Combattevano anco figliuoli contra padri, fratelli contra fratelli, e sino femine dall'una parte e l'altra presero le armi per mantener la loro religione. [...] Che dove gl'ugonotti restarono vincitori, erano abbattute le immagini, destrutti gl'altari et espilate le chiese e gl'ornamenti d'oro et argento fusi per batter moneta con che pagar soldati. li catolici, dove vincevano, abbrugiavano le Bibie volgari, rebattezavano li fanciulli, costringevano a rifar di nuovo li matrimoni fatti secondo le ceremonie riformate, e più di tutti era miserevole la condizione de' chierici e de' ministri riformati, de' quali, quando capitavano in mano degl'avversarii, era fatto straccio crudele et inumano; et in termini di giustizia anco si facevano essecuzioni grandi, massime dalla parte catolica. (da Libro settimo [18 settembre 1562 - 15 maggio 1563], Volume secondo, pp. 1023-1024)
  • Nel luglio il parlamento di Parigi fece un arresto che fosse lecito uccidere tutti gli ugonotti; il quale per publico ordine si leggeva ogni dominica in ciascuna parochia. Aggionsero poi un altro, decchiarando ribelli, nimici publici, notati d'infamia con tutta la loro posterità e confiscati li beni di tutti quelli che avevano preso le armi in Orliens, eccettuando Condé, sotto pretesto che fosse tenuto da loro per forza. E con tutto che molte trattazioni passassero tra l'una parte e l'altra, essendosi eziandio abboccati insieme la regina madre del re et il prencipe de Condé, l'ambizione de' grandi impedì ogni componimento, sì che non fu possibile trovar modo come acquetare il moto. (da Libro settimo [18 settembre 1562 - 15 maggio 1563], Volume secondo, p. 1024)
  • Il pontefice, vedute le risposte dagl'ambasciatori date a' capitoli da' legati proposti, tanto più si confermò che bisognava metter fine al concilio, altrimente qualche gran scandalo sarebbe seguito, et aveva per leggieri gl'incovenienti preveduti e dubitava di qualche maggior impreveduto; ma vedendo la difficoltà di metter fine senza terminar le cose perché il concilio era congregato, se i i prencipi non se ne contentavano, deliberò di far ufficio di questo con tutti. Scrisse di ciò a' noncii suoi in Germania, Francia e Spagna, ne parlò con tutti gl'ambasciatori residenti appresso di sé et anco con quei de' prencipi d'Italia; et usava questo concetto: che a chi l'avesse aiutato a finir il concilio, sarebbe più obbligato che se avessero fatto assistenza con le armi in qualche gran bisogno. (da Libro ottavo [17 maggio 1563 - 12 marzo 1565], Volume secondo, p. 1190)

Scritti filosofici e teologici[modifica]

Incipit[modifica]

Sappiamo certo e l'essere e la causa di quelle cose di far le quali abbiamo perfetta cognizione; di quelle, che solo conosciamo per esperienza, sappiam l'essere, ma non la causa; conghietturandola poi, cerchiamo solamente quella ch'è possibile, ma tra molte cause, che troviamo possibili, non possiamo certificarci qual sia la vera: il che si vede avvenir nelle descrizioni delle teorie celesti, ed avverrebbe a chi vedesse di prima faccia un orologio.

Citazioni[modifica]

  • Il senso del tatto non è uno solo. Manifestasi ciò dai membri che servono alla generazione, i quali hanno un modo particolare di sentire, e dalla bocca del ventricolo, che ne ha un altro diverso. Di più questa ha un oggetto particolare, una particolar dilettazione, particolar molestia e quegli un'altra ne hanno. (§ 92; p. 27)
  • Quello che Aristotele dice dei sogni, cioè talvolta esser causa di altre sintomi, è vero in tutte le divinazioni, perché colui che crede alla divinazione, per quella fede si muove a far cose, delle quali causa ella diviene. Ma dei segni, come li sogni ippocratici, niuno è mai. (§ 268; p. 63)
  • Se uno vedesse un sol colore, senza distanza né varietà di sito, tanto sarebbe il vedere quant'esser cieco. Non possiamo noi immaginar una figura senza colore, nondimeno un cieco nato se l'immagina; onde si conchiude che, se fossimo assuefatti a metterc'innanzi la specie d'un corpo, come la riceviamo dal tatto, e come dal vedere, non sarebbe la medesima in quanto corpo ancora. (§ 389; p. 86)

Incipit di alcune opere[modifica]

Discorso dell'origine, forma, leggi, ed vso dell'Vfficio dell'Inquisitione nella Citta, e Dominio di Venetia[modifica]

Eseguendo colla debita riverenza il commandamento fattomi dà V. Serenità, di ridur insieme, ed ordinare tutta la materia spettante all'Officio dell'Inquisizione contro l'Heresia, hò ritrovato il tutto essere stato cosi ben regolato ne' tempi passati, dalli Consegli della Serenissima Republica, ch'al presente non vi è altro bisogno, se non por insieme ciò che in diverse occasioni è stato determinato, ponendo ad effetto quanto deliberò l'Eccellentissimo Consiglio de i Dieci, e Gionta, del 1550. 22 Novembre. c. 8. cio è, Che in tutto il Dominio Veneto si procedi uniformemente, e conforme à ciò che si osserva in quest'Inclita Città: com'anco fu concordato trà'l sommo Pontefice Giulio III. e la Serenissima Republica del 1551. c. 18. e. 19.

Historia particolare delle cose passate trà il Sommo Pontefice Paolo V. E la Serenissima Republica di Venetia[modifica]

Paolo V. dalli primi anni della sua pueritia fu dedito e nodrito in quelli studij che non hanno altro per scopo se non l'acquistare la Monarchia spirituale e temporale di tutto il mondo al Pontefice Romano, e avanzando l'ordine clericale sottrarlo dalla potestà e giurisdittione di tutti li Prencipi, inalzandolo anco sopra li Rè, e sottomettendogli i secolari in ogni genere di servigi e commodi.

Citazioni su Paolo Sarpi[modifica]

  • A quel massimo degli umani intelletti, Paolo Sarpi, ragionevolmente parve lo straordinario ingegno una prontissima passività a ricevere e riprodurre in sè anco le minime impressioni degli oggetti o sensibili o intelligibili, e però non altro che una straordinaria e male invidiata malattia, la quale i moderni fisiologi nel moderno linguaggio chiamerebbero lenta encefalite. (Pietro Giordani)[2]
  • Il nome di Frà Paolo è popolare in tutta l'Europa, e ciò non pertanto non abbiamo che assai imperfette notizie intorno alla sua vita. Gli articoli che la riguardano inseriti nelle raccolte biografiche sono zeppi di errori, né mi ha fatto meraviglia di leggere nella Biografia Universale stampata recentemente a Venezia, nella patria del Sarpi, spacciate sul conto suo le più grosse falsità del mondo: non mi ha fatto meraviglia, ripeto, perché la riputazione di questo grand'uomo essendo stata lungamente in mano ad un ordine di persone che lo avea sacro ad un odio fanatico, ove a loro sottratto non lo avesse il secolo che sempre va innanzi e approva tutto che egli fece e scrisse, Frà Paolo sarebbe tra quelli che giacciono oppressi dalle superstizioni della loro età, e dalla ingiustizia de' giudizi del mondo. (Aurelio Bianchi-Giovini)
  • Uomo enciclopedico, nato non solo all'onor dell'Italia ma della umanità. (Giovanni Battista Della Porta)

Note[modifica]

  1. Citato da Giuseppe Zanardelli nella Tornata del 17 maggio 1873 della Camera dei Deputati (Regno d'Italia).
  2. Citato in Federico De Roberto, Il genio e l'ingegno, in "Il colore del tempo", R. Sandron, Milano-Palermo, 1900.

Bibliografia[modifica]

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