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I racconti di Canterbury

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Xilografia dell'edizione del 1491/1492

I racconti di Canterbury (inglese medio: Tales of Caunterbury), raccolta di 24 racconti scritti da Geoffrey Chaucer nel XIV secolo.

Incipit de I racconti di Canterbury, dal manoscritto di Hengwrt

Originale

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Whan that Aprille with his shoures sote
The droghte of Marche hath perced to the rote,
And bathed every veyne in swich licour,
Of which vertu engendred is the flour;
Whan Zephirus eek with his swete breeth
Inspired hath in every holt and heeth
The tendre croppes, and the yonge sonne
Hath in the Ram his halfe cours-y-ronne
And smale fowles maken melodye,
That slepen al the night with open yë,
(So priketh hem nature in hir corages):
Than longen folk to goon on pilgrimages
(And palmers for to seken straunge strondes)
To ferne halwes, couthe in sondry londes;
And specially, from every shires ende
Of Engelond, to Caunterbury they wende,
The holy blisful martir for to seke,
That hem hath holpen, whan that they were seke.

[Geoffrey Chaucer, Chaucer Complete Works, a cura di Walter W. Skeat, Londra, Oxford University Press, 1987, ISBN 0-19-254119-6.]

Cino Chiarini

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Quando le dolci pioggie di Aprile hanno spento l’arsura di Marzo, rinfrescando ogni vena della terra con quel succo meraviglioso che ha la virtù di dare la vita ai fiori; quando zeffiro sfiora col molle soffio i teneri germogli in ogni bosco e in ogni pianura, e il giovane sole ha percorso la metà del suo cammino in Ariete; quando gli uccelletti si abbandonano ai loro canti, e dormono tutta la notte con gli occhi aperti (così vivamente li punge il risveglio della natura), la gente prova, allora, un vago desiderio di mettersi in moto; e i pellegrini vanno in cerca di straniere piagge, per visitare i santi miracolosi di qualche lontana contrada[1]. E in gran numero, specialmente, si recano dalle estreme campagne d’Inghilterra a Canterbury, per ringraziare il martire benedetto di quel luogo, che fece loro la grazia, quando erano malati.
[Geoffrey Chaucer, Dalle Novelle di Canterbury, traduzione di Cino Chiarini, Zanichelli, Bologna, 1897.]

Cesare Foligno

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Quando aprile con le dolci pioggette ha penetrata fino alle radici l'arsura di marzo e adacquata ogni vena dell'umore della cui virtù s'ingenerano i fiori: quando zefiro pure col molle suo soffio ingemma i teneri germogli in ogni bosco e brughiera, e il giovane sole ha percorso il suo mezzo tragitto in Ariete e fan melodia gli uccelletti che dormon la notte con occhi socchiusi, tanto li punge in cuore natura, allor brama la gente d'andar pellegrina e i palmieri di cercare strani lidi dei margini estremi d'ogni contea d'Inghilterra s'avviano verso Canterbury per visitare il santo martire benedetto che li soccorse durante le loro infermità.
[Geoffrey Chaucer, I racconti di Canterbury, a cura di Cino Chiarini e Cesare Foligno, Sansoni, Firenze, 1955.]

Ermanno Barisone

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Quando Aprile con le sue dolci piogge ha penetrato fino alla radice la siccità di Marzo, impregnando ogni vena di quell'umore che la virtù di dar ai fiori, quando anche Zeffiro col suo dolce flauto ha rianimato per ogni bosco e ogni brughiera i teneri germogli, e il nuovo sole ha percorso metà del suo cammino in Ariete, e cantando melodiosi gli uccelletti che dormono tutta la notte ad occhi aperti la gente è allora presa dal desiderio di mettersi in pellegrinaggio e d'andare per contrade forestiere alla ricerca di lontani santuari variamente noti, e fin dalle più remote parti d'ogni contea d'Inghilterra molti si recano specialmente a Canterbury, a visitare quel santo martire benedetto che li ha soccorsi quand'erano malati.
[Geoffrey Chaucer, I racconti di Canterbury, a cura di Ermanno Barisone, UTET, Torino, 1981.]

Citazioni

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Frammento I

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Prologo generale

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  • O perché, come vorrebbe S. Agostino, fare i calli alle mani lavorando dalla mattina alla sera? Se tutti dovessero fare così, dove andrebbe a finire il mondo? Lasciamo pure a S. Agostino, se gli preme, il diritto di lavorare. (1897, p. 11)
    • Perché avrebbe dovuto studiare e diventar matto logorandosi sempre sui libri nel chiostro o sfaticar con le mani e travagliare come Agostino prescrive? come si servirebbe il mondo? Si tenga Agostino la fatica per sé. (1955, pp. 42-43)
  • [...] c'è della gente che ha il cuore così duro, che non sa tirare una lacrima neppure se è ferita a sangue. Quindi fa molto meglio chi senza tanti piagnistei e senza tanti paternostri, lascia guadagnare qualche cosa ai poveri frati. (1897, p. 14)
    • Poiché molti son sì induriti di cuore da non piangere anche se forte lor dolga. Perciò in luogo di lagrime e preghiere debbon gli uomini dar denaro ai poveri frati. (1955, p. 43)
  • Se l'oro fa la ruggine, che cosa farà mai il ferro? Se un prete, al quale noi ci affidiamo, è il primo a dare il cattivo esempio, che cosa dovrà fare un povero ignorante?... È una cosa vergognosa, se uno ci pensa bene, vedere un cattivo pastore in mezzo a delle buone pecore. Perciò è dovere di ogni buon prete insegnare con l'esempio al suo gregge, come bisogna vivere in questo mondo. (1897, pp. 27-28)
    • [...] «che se l'oro arrugginisca, che cosa farebbe il ferro?». Ché se un sacerdote, nel quale fidiamo, sia gramo, meraviglia non è che uomo volgare intristisca; che se un sacerdote vi ponga mente, vergogna è pastore corrotto e pecora pura; e ben potrebbe un sacerdote dare esempio con la sua purità di come abbia a vivere il suo gregge [...]. (1955, pp. 48-49)
  • [...] chi racconta, deve cercare, fin dove gli è possibile, di riferire scrupolosamente quello che ha sentito, senza badare a come deve parlare. Altrimenti finisce per non dire la verità, ed è costretto quindi a inventare o a lambiccarsi il cervello dietro alla metafora. Quand'anche si trattasse di raccontar qualche cosa che si riferisse, faccio per dire, a un fratello, siamo sempre lì: non bisogna badare a una parola piuttosto che a un'altra. Guardate un po' Cristo: nella sacra scrittura egli parla apertis verbis, e dice sempre le cose come sono; eppure nessuno ci ha trovato mai nulla di male. E Platone, signori miei, che cosa dice a questo proposito? Dice, a chi lo sa leggere, che le parole debbono essere parenti dei fatti. (1897, p. 39)
    • [...] chi riferisce il racconto di un altro deve ripetere, quanto possa da vicino ciascuna sua parola, tale essendo il suo compito, anco se quegli grossamente parlasse o in maniera sboccata; ché, diversamente, sarebbe costretto a raccontare la storia non veracemente, o a inventare qualche parte o inserire parole da quello non usate; non può trattenersene, fosse pur suo fratello; e tanto vale che usi questa parola come quella. Nei Libri Santi Gesù stesso senza reticenza alcuna ha parlato, e ben sapete che non è in essi grossolanità; e anche Platone dice, a quei che sanno leggerlo, «che le parole debbon esser connaturali alle cose». (1955, p. 53)
  • [...] il viaggio non offre, davvero, nulla di bello e di divertente, a chi abbia intenzione di starsene sul suo cavallo come un pezzo di marmo. (1897, p. 41)
    • [...] non c'è agio davvero né allegria nel cavalcare per via muti come pietre [...]. (1955, p. 54)

Il racconto del cavaliere

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Il cavaliere, dal manoscritto d'Ellesmere
  • Ora siam miserelle come ben si vede; e ne sian grazie a Fortuna e alla sua ruota ingannatrice che a nessuno stato assicura il benessere. (1955, p. 57)
  • Maggio non lascia poltrire la gente nel letto: ogni animo gentile lo sente, e balza improvviso dal sonno appena questi grida: "levati e fa il tuo dovere". (1897, pp. 56-57)
    • [...] maggio non vuole pigrizia la notte, la stagione pungendo ogni cuore gentile e facendolo sobbalzare dal sonno e ordinando: «Levati e osserva la cerimonia!» (1955, p. 60)
  • Se è la prigionia che ti fa soffrire in questo modo, sopportala con rassegnazione, per l'amore di Dio, poiché non c'è rimedio. Il destino ci ha riserbato questa sventura: certo deve essere stato un maligno influsso di Saturno o di qualche costellazione. Invano abbiamo cercato di scongiurare il pericolo: il cielo era disposto così fin dal giorno della nostra nascita; bisogna rassegnarsi, non c'è questione. (1897, p. 58)
    • Per amor di Dio tollera la nostra prigionia con pazienza, perché non può esser diversamente; la fortuna ci ha data questa avversità. Qualche infausto aspetto e influsso di Saturno, per via di qualche costellazione, questo ci causa a malgrado dei nostri scongiuri; tale era la posizione dei cieli alla nostra nascita, e sopportare dobbiamo, a dirla breve e chiaro. (1955, p. 60)
  • Amore è la legge più potente che un povero mortale abbia mai dettato. E infatti tutti i giorni, e da gente in qualunque condizione, noi vediamo infrangere per amore le leggi più assolute e giuramenti come il nostro. Un uomo è costretto ad amare per forza, malgrado della sua volontà. Egli non può liberarsi, ed è pronto ad incontrare anche la morte, sia colei che egli ama, indifferentemente, una fanciulla, una vedova o magari una donna maritata. (1897, pp. 61-62)
    • A mio giudizio amore è più gran legge che alcun uomo terreno possa dettare. Onde il diritto positivo e simili decreti sono tutto giorno violati da amore in qual che si voglia stato. L'uomo è costretto ad amare a dispetto della ragione, né può sfuggirvi anco ne andasse la vita, sia ella fanciulla, vedova oppure moglie [...]. (1955, p. 62)
  • La sola vista di colei che io servo senza sperare di essere mai degno della sua grazia, mi avrebbe abbastanza ricompensato. (1897, pp. 64-65)
    • [...] la sola vista di colei che io servo, anco se mai ne meritassi la grazia, a me compiutamente sarebbe stata bastevole. (1955, p. 63)
  • Ma perché tutti gli uomini si lamentano tanto della divina provvidenza e della sorte, che spesso e volentieri concede loro, o in un modo o in un altro, più di quello che essi stessi possano immaginare? Uno, per esempio, desidera le ricchezze, e non sa che saranno la sua morte o la sua rovina. Un altro che è in prigione, vuole uscirne ad ogni costo, e in casa sua trova la morte per mano dei servi. I mali di questo genere che da un momento all'altro ci possono capitare addosso sono tanti, che noi stessi non sappiamo che cosa augurarci nel mondo. Noi camminiamo su questa terra come l'uomo che è ubriaco fradicio: egli sa di avere una casa, ma non sa infilare la strada che lo meni dritto al portone; e su quella che ha trovato scivola maledettamente ad ogni passo. Nello stesso preciso camminiamo noi in questa valle di lacrime.
    Noi ci arrabattiamo dietro la felicità, ma il più delle volte sbagliamo la strada; questa è a verità. (1897, p. 66)
    • Ahimè perché si lamentan tanto comunemente le genti della Provvidenza di Dio o della fortuna, che bene spesso in molte guise concede loro assai più che essi stessi non designassero? V'è chi desidera d'aver ricchezza che gli cagiona uccisione o grande infermità; e altri volentieri se ne vorrebbe uscir di prigionia che poi a casa sua viene ucciso dalla sua masnada. Innumerevoli sono i mali in queste contingenze, e non intendiamo di quali cose noi preghiamo quaggiù. Siam nella condizione di chi è come topo briaco. L'uomo sa bene d'avere una casa, ma non conosce la dritta via per andarvi; una via che è per lui sdrucciolevole; e per certo non ci comportiam noi diversamente in questo mondo; attentamente perseguiamo la felicità, ma spesso scegliamo male la via in verità. (1955, pp. 63-64)
  • O Dei crudeli, che governate il mondo con la forza della vostra parola immortale, e scrivete sopra una tavola di diamante i vostri decreti e la vostra eterna concessione, questo genere umano pel quale voi avete fatto tanto, in sostanza che cosa vale più della pecora che giace per terra nella stalla? Anche l'uomo viene ucciso come un'altra bestia qualunque, è arrestato e imprigionato, passa da una sciagura all'altra, spesso essendo, per Dio, anche innocente.
    Che cosa è, dunque, questo governo superiore che tutto vede, e lascia soffrire chi è senza colpa ed innocente? Ma un'altra cosa, mi fa sentire più amaramente le mie pene; ed è che l'uomo, per amore di Dio, debba essere costretto a rinunziare alla sua volontà, mentre una bestia qualunque può soddisfare tutti i suoi desideri. Senza contare, poi, che la bestia quando è morta riposa in pace; mentre l'uomo deve piangere e soffrire anche nell'altro mondo, come se non ne avesse abbastanza in questo. È proprio così. (1897, pp. 68-69)
    • Dei crudeli che questo mondo governate con la possanza del vostro eterno decreto e le vostre decisioni e promesse scrivete su tavola d'adamante, che più sono gli uomini tenuti da voi che non le pecore accovacciate nei chiusi? Ucciso vien l'uomo come un altro animale, dimora in carcere e in prigione, e soffre infermità e grandi disgrazie, e bene spesso senza sua colpa, perdio. Quale regola è in questa prescienza che tormenta l'innocente senza colpa? E ancora s'aggrava il mio carico, perché l'uomo è costretto, per amor di Dio, ad ubbidirlo contrariando alla propria volontà, mentre un animale può tutta compire la sua voglia; e, morto che sia, non ha pena, mentre l'uomo dopo la morte deve piangere e lamentare anche abbia avuta nel mondo cure e dolori; e coì ben può essere senza dubbio. (1955, pp. 64-65)
  • O innamorati, che cosa risponderete a questa domanda: chi vi pare più disgraziato, Arcita o Palemone? Questi vede tutti i giorni la sua donna, ma è condannato a passare tutta la vita in prigione; quegli è padrone di andare, a piedi ed a cavallo, dove gli pare, ma non potrà mai più rivedere la donna sua. (1897, p. 70)
    • E pongo a voi amanti la domanda, chi dei due ha la peggio Arcita o Palemone? Può bensì l'uno veder la sua donna ogni giorno, ma sempre deve restare in prigione; e può l'altro muovere o cavalcare dove gli piaccia, ma non mai più la sua donna vedere. (1955, p. 65)
  • Non ci sarà paura di morte che mi impedisca di rivedere la donna mia, colei che io amo e servo. (1897, p. 72)
    • [...] né tema di morte mi tratterrà dal vedere la mia donna che amo e servo; alla presenza sua neppure curo di morire. (1955, p. 66)
  • Maggio, con tutti i tuoi fiori e le tue foglie, ben venuto sii tu, fresco e ridente Maggio; io spero di trovare in questo luogo un po' di verde. (1897, p. 77)
    • Ben vieni, tu maggio fresco e chiaro con tutti i tuoi fiori e il tuo verde; di verde anch'io spero un poco di cogliere. (1955, p. 68)
  • [...] ha ragione chi va cauto, perché gli uomini si incontrano tutto il giorno, su questa terra, senza bisogno di convegni. (1897, p. 77)
    • [...] onde ben s'addice all'uomo di studiare il proprio diportamento, perché sempre ha incontri in tempo inatteso. (1955, p. 68)
  • [...] l'incostante Venere rende mutabile, a un suo comando, l'animo dei sudditi, come il giorno a lei sacro. Infatti il venerdì ora c'è il sole, ora piove a catinelle: raramente è uguale agli altri giorni della settimana. (1897, p. 78)
    • E come, a dir vero, di venerdì or fa sole e or piove a dirotto, così può Venere capricciosa aduggiare il cuore de' suoi fedeli; e come è instabile il suo giorno, così anch'essa; e di raro è il venerdì uniforme tutte le settimane. (1955, p. 69)
  • [...] amore, per darmi il colpo di grazia, ha trafitto così profondamente il mio povero cuore di cavaliere col suo cocente dardo, che il cielo, senza dubbio, doveva avere destinato la mia morte prima ch'io venissi al mondo. (1897, p. 79)
    • [...] così fattamente m'ha trafitto del suo dardo infiammato amore nel cuore leale e doglioso, che ne venne segnata la mia morte prima della mia camicia. (1955, p. 69)
  • O Emilia, tu mi uccidi con gli occhi tuoi; tu sei la causa della mia morte. Di tutto il resto non mi importa nulla: purché io possa fare qualche cosa per piacerti. (1897, p. 79)
    • Emilia, con i tuoi occhi m'uccidi, tu sei la causa per cui io muoio. A tutto il rimanente delle mie cure non dò valore più che a gramigna, pur ch'io cosa potessi fare alcuna che ti fosse in piacere. (1955, p. 69)
  • Pazzo che non sei altro: pensa che l'amore è libero; ed io amerò la tua donna a dispetto di tutta la tua forza. (1897, p. 81)
    • [...] pon bene mente, insensato, che tu sei veramente, che libero è amore! E io voglio amarla a mal grado d'ogni tuo potere. (1955, p. 70)
  • O Cupido, re spietato e assoluto! È proprio vero, come si suol dire, che amore e impero non vogliono sapere di società. E nessuno lo sa meglio di Arcita e Palemone. (1897, p. 82)
    • Oh, Cupido fuor d'ogni senso di carità! o sovrano che non vuoi aver compagno! Molto giustamente si dice che amore e signoria non ammetton consorti; e ben così trovarono Arcita e Palemone! (1955, p. 70)
  • Avresti detto, vedendoli combattere che Palemone avesse la ferocia di un leone, e Arcita la fierezza d'una tigre: infuriati come due orsi che hanno la bocca biancheggiante di spuma, menavano tutti e due orribili colpi, immersi nel sangue fino al collo del piede. (1897, p. 83)
    • Tu avresti potuto credere che Palemone nel combattere fosse leone furioso; e quanto tigre crudele era Arcita. Come selvaggi cignali si diedero a colpirsi folli d'ira così da sbavar bianco come spuma e, combattendo, fino alle caviglie erano immersi nel loro sangue. (1955, p. 71)
  • Il destino, ministro di tutte le cose, il quale distribuisce in questo mondo la provvidenza divina, è così potente, che quando gli uomini hanno giurato che una cosa non può accadere se non in un dato modo, un bel giorno accade proprio alla rovescia; e te la do in mille anni, se un'altra volta sola si ripete in quel modo lì. I nostri desideri, di qualunque genere siano: guerra, pace, odio, amore, tutti senza dubbio, sono guidati dalla mente di Dio. (1897, pp. 83-84)
    • Il destino, ministro generale, che mette in atto nel mondo tutto quanto la provvidenza di Dio ha preveduto, è così possente, che avesse anche il mondo giurato il contrario d'alcuna cosa, affermando o negando, pure un giorno avverrà quel che non ricorrebbe per mille anni. Perché indubbiamente i nostri desideri quaggiù, sian di guerra, di pace, d'odio o d'amore, tutti son regolati dalla vista di lassù. (1955, p. 71)
  • Guai a quel sovrano che è senza pietà, ed è un leone tanto con l'uomo pentito e sommesso, quanto con l'uomo superbo e ribelle! Guai a quel sovrano che ad ogni costo vuole mantenere ciò che in un momento di rabbia ha minacciato! Ha poco criterio chi in un caso simile non sa distinguere, e mette sulla stessa bilancia l'orgoglio e l'umiltà. (Teseo; 1897, p. 88)
    • Vergogna sia a un signore che pietà alcuna non vuol provare, ma si rende in atti e parole un leone verso chi si sta pentito e temente, non meno che verso un superbo sprezzante che vuol persistere in quanto ha iniziato; poca discrezione avrebbe quel principe che distinguere non sa, e alla stessa stregua misura orgoglio e umiltà. (1955, p. 73)
  • Benedicite! Che signore grande e potente è Amore! Tutto vince la sua potenza, e potrebbe, davvero, essere chiamato un Dio pei suoi miracoli. Il cuore degli uomini è in mano sua. (Teseo; 1897, p. 88)
    • [...] il dio d'amore, ah! benedicite qual possente e grande signore non è mai! Nessun ostacolo regge contro la sua possa, e un dio veramente per i suoi miracoli si conosce, perché a sua guisa d'ogni cuore può fare quel che gli piace decidere. (1955, p. 73)
  • Chi più matto, in questo mondo, di un uomo innamorato? (Teseo; 1897, p. 88)
    • [...] chi mai può esser folle se non quegli che ama? (1955, p. 73)
  • Io stesso ci sono cascato, a suo tempo, ed ho servito [l'amore] come gli altri. E perché, appunto, so per prova le pene dell'amore, e, preso più d'una volta nei suoi lacci, conosco quale strazio sia per quel disgraziato che ci casca [...]. (Teseo; 1897, p. 89)
    • [...] a mio tempo, d'amore fui servo io pure. Onde, essendo esperto delle pene d'amore e sapendo di quali strette crudeli possa affliggere l'uomo, come quello che preso fui spesso ne' suoi lacci, interamente ogni vostra trasgressione vi perdono [...]. (1955, p. 74)
  • [...] il sapere, l'oro, la bellezza, l'astuzia, la forza e il coraggio, non possono cospirare e lottare, anche tutti insieme, contro Venere sola, la quale è padrona del mondo. (1897, p. 95)
    • Onde potete vedere che non Saggezza o Ricchezza, non Bellezza o Astuzia, Forza o Ardimento possono con Venere entrare in lizza, perché a suo piacere il mondo può ella così guidare. (1955, p. 76)
  • È proprio vero che la vecchiaia ha molte risorse: i vecchi hanno sempre senno ed esperienza. Si può vincere un vecchio con le gambe, ma con la testa no. (1897, p. 116)
    • Rettamente si dice, gran vantaggio ha l'età, essendo nei vecchi così saggezza come esperienza, e potendo essi nella corsa essere vinti non nel consiglio. (1955, p. 85)
  • Sotto l'influenza mia la gente affoga là nel grigio mare, per me s'apre agli uomini la buia prigione, e li strangola il capestro; sono opera mia il grido e la ribellione delle plebi, il rancore e il nascosto veneficio. Quando mi trovo nella costellazione del leone, io vendico e correggo tutti i torti. Pel mio influsso rovinano gli alti castelli, cadono le torri e le mura sulla testa del minatore e del falegname; per opera mia morì Sansone sotto il peso della colonna, e nacquero sempre le tristi malattie, i turpi tradimenti, e le congiure. Il mio apparire è foriero di pestilenza. (Saturno; 1897, pp. 116-117)
    • [...] per me si annega nel mare torbido, per me si è rinchiusi nel carcere oscuro, per me si è strozzati e per la gola impiccati, per me mormorano e si ribellano i ribaldi, per me si mormora e segretamente avvelena; e, quando la mia stanza è nel segno del leone, imprendo vendetta e aperto castigo; per me rovinano gli alti castelli, precipitano le torri e le mura sul minatore o sul carpentiere; Sansone uccisi io che scassò le colonne; per me si soffrono gelidi mali, oscuri tradimenti, annosi complotti; dal mio sguardo s'ingera pestilenza [...]. (1955, p. 86)
  • Una tigre della valle di Galafa, cui il cacciatore avesse rubato il tigrotto, non si scaglierebbe con la ferocia con cui la gelosia spinge Arcita contro Palemone; non c'è leone in Belmaria che stimolato dal cacciatore o acciecato dalla fame, si inferocisca ed abbia sete di sangue, quanto Palemone desidera uccidere il suo avversario. (1897, p. 124)
  • Il mondo non è che una stazione di passaggio piena di dolori, e noi siamo dei poveri pellegrini che giriamo di qua e di là aspettando la morte che è la fine dei nostri guai. (Egeo; 1897, p. 134)
    • [...] non è questo mondo che un luogo di passaggio pieno di dolori, e noi siam pellegrini che vi passiamo su e in giù; la morte è fine di ogni lutto terreno. (1955, p. 93)
    • Il mondo non è altro che un viaggio di dolori. (2019, p. 70)
  • L'alto fattore del supremo principio, quando inventò la prima volta la bella catena d'amore, ebbe un nobile ed alto intendimento, e sapeva quel che si faceva, mosso da un fine ben determinato. Egli univa insieme, con la bella catena dell'amore, il fuoco, l'aria, l'acqua e la terra, con legami che non era possibile infrangere. Questo principe e fattore di tutte le cose ha fissato i giorni che ogni creatura viva deve rimanere in questa valle di lacrime, ed oltre quel dato numero di giorni a nessuno è dato passeggiarvi più. E non c'è bisogno di citare in proposito qualche autorità, perché ormai tutti lo sappiamo per esperienza: io non faccio altro che manifestare la mia opinione. L'ordinamento di tutte le cose dimostra chiaramente che v'è una mente direttiva immutabile ed eterna: e basta avere un dito di cervello per capire che in questo mondo ogni piccola parte deriva da un tutto. Poiché la natura non ha avuto origine da parti e frazioni di una cosa, ma da una cosa perfetta e una, che a mano a mano allontanandosi dalla perfezione è scesa giù fino a divenire corruttibile. E perciò egli, il fattore supremo, con la sua saggia previdenza ha creato questo meraviglioso ordinamento, in modo che l'evoluzione e il progresso delle cose di deve effettuare per mezzo di successive trasformazioni, che conducono alla fine e non alla eternità. E di questo ognuno si può persuadere con gli occhi suoi. (Teseo; 1897, pp. 140-141)
    • Il primo motore della causa in cielo quando egli primamente formò la catena d'amore grande effetto produsse ed ebbe alta mira; ben conobbe perché e a che cosa intendesse, però che con quella leggiadra catena d'amore legò il fuoco l'aria, l'acqua e la terra con saldi vincoli perché non possano sfuggire. Quello stesso signore e quello stesso motore [...] ha assegnato un certo numero di giorni e certa durata in questo misero mondo quaggiù a tutto ciò che in questo luogo è generato, e quel giorno nessuno può sorpassare sebbene la durata possa all'incontro essere abbreviata; di che è superfluo allegare alcuna autorità dimostrandolo la stessa esperienza, se no nche mi piace di chiarire il mio pensiero. Possono quindi gli uomini da quell'ordine discernere che fermo ed eterno è quel motore, e ben posson conoscere, se non siano stolti, che ogni parte proviene da suo tutto; perché natura non ha preso cominciamento da parte o porzione alcuna di una cosa, ma da cosa che perfetta è e stabile digradando così fino a divenir corruttibile. Onde con la sua saggia provvidenza così bellamente ha disposto il suo ordine in modo che le specie delle cose e i loro progressi abbiano a perdurare per via di successione e non siano eterni, che non è menzogna; il che puoi comprendere e vedere a prima vista. (1955, p. 96)
  • Così il vasto fiume improvvisamente si secca, e le grandi città cadono e spariscono, perché tutto, come vedete, finisce nel mondo. (Teseo; 1897, p. 141)
    • [...] e talora il largo fiume diviene asciutto, e veggiamo grandi città mutarsi e vanire; da che potete scorgere che tutte queste cose hanno fine. (1955, p. 96)
  • [...] tutti, il re come il suo paggio, devono morire dentro uno dei due limiti della vita umana, vale a dire la gioventù e la vecchiaia. Chi muore nel suo letto, chi in mezzo al mare, chi in mezzo alla vasta campagna; ma non c'è rimedio: tutto finisce per la stessa strada, tutto muore. (Teseo; 1897, pp. 141-142)
    • [...] in gioventù o in età avanzata, siano re o siano paggi; e alcuni nel lor letto, altri nell'alto mare o nei vasti campi come possiam vedere. E nulla giova, tutto va per quella medesima via. Di conseguenza posso affermare che ogni cosa deve morire. (1955, p. 96)
  • [...] è da savi, mi sembra, fare di necessità virtù, e mettersi l'animo in pace, una volta che tutti, senza eccezione, dobbiamo finire nello stesso modo. Chi se ne lamenta è un pazzo, perché pretende di ribellarsi a colui che è guida di tutto. Certamente per un uomo è bello morire nella grandezza della sua fama e nel vigore degli anni, con la sicurezza di lasciare un nome onorato. Egli muore senza aver mai recato disonore, all'amico e a se stesso, cosicché l'amico dovrebbe rallegrarsi della sua morte, preferendo che egli sia spirato nel fiore della sua gloria, piuttosto che vederlo morire quando questo è già appassito dal tempo; poiché allora il suo valore è presto dimenticato. Quindi per lasciare un bel nome è meglio morire all'apogeo della gloria; e chi non la pensa così si ostina ad essere uno sciocco. (Teseo; 1897, pp. 142-143)
    • Onde è a mio parere saggezza, di far di necessità virtù e di accettare volentieri quel che evitare non possiamo e particolarmente quel che a noi tutti è imposto, e commette follia chi così d'alcuna cosa rimormora, ribellandosi a colui che può tutto guidare; e per certo di maggiore onore è all'uomo il morire nel fiore della propria eccellenza quando è sicuro della propria rinomanza, né a sé o ad amico ha recato vergogna; e più dovrebbe il suo amico allegrarsi della sua morte quando onorato manda l'ultimo respiro, che non quando la sua rinomanza è resa pallida dall'età, tutto essendo scordato il suo servizio cavalleresco. Onde, per quanto concerne fama degna, meglio è morire allora quando la rinomanza è migliore. L'opporsi a tutto ciò è caparbietà. (1955, p. 97)
  • Prima che ci lasciamo, noi dobbiamo fare di due dolori una sola e completa gioia che duri eterna. (Teseo; 1897, p. 143)
    • [...] là dove è maggiore il dolore appunto vogliam cominciare e primamente por riparo. (1955, p. 97)
  • [...] la pietà gentile vincere dovrebbe il diritto. (Teseo; 1955, p. 98)

Il racconto del mugnaio

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Il mugnaio, dal manoscritto d'Ellesmere
  • [...] io faccio una dichiarazione: che, cioè, io sono briaco; me ne accorgo dalla voce; e però, se parlo o dico male, pigliatevela con la birra di Southwark, ve ne prego; poich'io vi racconterò la storia e la vita di un legnaiolo e di sua moglie, e come un chierico lo scornasse. (1955, p. 100)
  • [...] colui che non ha moglie, non è becco. Ma non per questo dico che tu lo sia; delle ottime mogli ce ne sono molte: ce ne son sempre mille buone per una cattiva; tu stesso lo sai bene, se non vai pazzo. (1955, p. 100)
  • Un marito non deve essere curioso dei segreti di Dio, né di quelli di sua moglie. (1955, p. 100)
  • L'uomo deve sposare secondo la sua condizione, poiché gioventù e vecchiaia sono spesso in guerra fra loro. (1955, p. 102)
  • [...] uno studente avrebbe speso male il suo tempo, se non fosse capace di farla a un legnaiolo. (1955, p. 103)
  • L'uomo non dovrebbe mai saper nulla dei segreti di Dio: benedetto sia sempre l'ignorante, il quale non conosce altro che il suo Credo! (1955, pp. 106-107)
  • Non hai sentito parlare [...] del grande dolore di Noè, e di tutti i suoi compagni, prima ch'egli riuscisse a far entrare sua moglie nella barca? Ci scommetto che in quel momento avrebbe dato via tutte le sue pecore nere, purché lei avesse potuto avere una barca per sé sola. (1955, p. 108)
  • Uno può morire per il solo effetto della immaginazione, così profondamente può restarne impressionato. (1955, p. 110)
  • In fede mia qualche soddisfazione l'avrò, poiché oggi è tutto il giorno che mi prude la bocca, e questo, almeno, è un segno che significa baci. (1955, p. 111)
  • «Almeno, giacché non posso avere di meglio, dammi un bacio: te lo chiedo per amor di Gesù e mio». «Se te lo do, te ne anderai per la tua via?» disse lei. «Sì, certamente, amor mio», rispose Assalone. «Allora preparati, ch'io vengo subito». E sotto voce disse a Nicola: «ora sta' zitto, ché riderai a crepapelle». Assalone si mise in ginocchio, e disse: «ormai sono un signore per tutti i conti, poiché io spero che dopo questo, verrà qualche altra cosa! – Amor mio, la tua grazia, il tuo favore, mio dolce uccellino!» Lei aprì la finestra, in fretta, e disse: «tieni, via e sbrigati, che non ti abbiano a vedere i vicini». Assalone si asciugò per bene la bocca, e lei (la notte era buia e nera come la pece, o come il carbone) mise alla finestra il sedere, ed Assalone non fece né più né meno: baciò saporitamente le sue chiappe nude, prima di accorgersene. Ma subito si tirò indietro, e pensò che di certo ci doveva essere qualche sbaglio: poiché sapeva bene che le donne non hanno la barba, e invece egli avea sentito una cosa tutta ruvida dal lungo pelo. (1955, pp. 112-113)

Il racconto del fattore

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Il fattore, dal manoscritto d'Ellesmere
  • [...] io son vecchio, e non mi piace scherzare alla mia età. Il tempo dell'erba è finito, per me: ora c'è il fieno. Questa vetta bianca porta scritti i miei vecchi anni; anche il mio cuore è ammuffito come i miei capelli, se pure non faccio come fanno le nespole: poiché questo frutto più sta, e più si fa cattivo, finché finisce per marcire fra i rifiuti o sulla paglia. Ho paura che noi vecchi facciamo proprio così: finché non siamo marci, non possiamo essere maturi. Noi siamo sempre pronti a saltare finché il mondo ci suona il flauto, poiché nella nostra volontà c'è sempre fitto questo chiodo: di aver il capo bianco e la coda verde, come il porro; poiché sebbene il nostro vigore se ne sia andato, la nostra volontà ha sempre desiderio di folleggiare allo stesso modo. E quando non possiamo fare, allora vogliamo parlare. Sotto la nostra vecchia cenere è sempre adunato il fuoco. (1955, p. 117)
  • Noi vecchi abbiamo quattro carboni accesi, che vi nominerò: millanteria, menzogna, collera e cupidigia; queste quattro faville sono proprie della vecchiaia. Le nostre vecchie membra hanno un bell'esser deboli: la volontà non vuol venir meno, questo è certo. Ed io, ancora, ho sempre un dente di puledro, nonostante che molti anni siano passati, da quando la cannella della mia vita cominciò a buttare. Poiché, certamente, appena io fui nato, la morte girò subito la cannella della vita, e la fece scorrere; e fin da allora la cannella ha buttato tanto, che la botte è quasi vuota. Il fiume della vita, in me, ormai è sceso al capo delle doghe. La lingua, sciocca, può ben sonare le campane di una follia che è passata da lungo tempo: pei vecchi, salvo il rambimbimento, non c'è più nulla. (1955, p. 117)
  • [...] i gelosi son sempre gente pericolosa: o almeno vorrebbero che le loro mogli pensassero sempre così. (1955, p. 119)
  • [...] ebbene, un mugnaio può fare la barba a uno studente, nonosante tutta la sua sapienza [...]. (1955, p. 122)
  • La mia casa è ristretta, ma voi ne sapete tanto, che coi vostri argomenti riuscirete a render largo un miglio uno spazio di venti piedi. Vediamo dunque, se lo spazio che c'è basta: altrimenti fatelo più grande voi, com'è mestier vostro, con i vostri ragionamenti. (1955, p. 122)
  • Con le mani vuote non si può richiamare il falcone [...]. (1955, p. 123)
  • [...] se uno è stato danneggiato in una cosa, si rifarà in un'altra. (1955, p. 124)
  • [...] l'inganno va a casa dell'ingannatore. (1955, p. 127)

Il racconto del cuoco

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  • Ben disse Salomone nella lingua sua: non qualunque uomo hai da prendere in casa; perché il dare ospitalità la notte è pericoloso. E ben dovrebbe un uomo considerare chi si conduce tra' suoi familiari. (1955, p. 128)
  • [...] tra scherzi e giochi gran verità si posson dire. (1955, p. 129)
  • [...] scherzo vero, malo scherzo, come dicono i Fiamminghi [...]. (1955, p. 129)
  • [...] di sicuro quel maestro in sua bottega la paga, anche se non prenda parte alla musica, che abbia un apprendista festaiolo, alla caccia sempre di dadi, di chiasso e d'amanti; perché il furto e il chiasso son collegati, e anche sonare la cetra e la ribeba. (1955, p. 130)
  • Il chiasso e l'onestà, tra gente di povero stato, son sempre in briga come ognun può vedere. (1955, p. 130)

Frammento II

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Il racconto del sergente della legge

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Il sergente della legge, dal manoscritto d'Ellesmere
  • Signori miei, il tempo non ci aspetta mica: giorno e notte si consuma, e se la svigna mentre noi tranquillamente dormiamo, o quando, desti, non sappiamo approfittarne: egli fa come il fiume che scende dal monte alla pianura senza tornar mai indietro. Non per nulla Seneca, e con lui molti altri filosofi, rimpiange più la perdita del tempo che quella dell'oro dello scrigno; poiché le ricchezze si possono in qualche modo ricuperare, ma la perdita del tempo è irreparabile. Il tempo non ritorna davvero indietro, come non ritorna a Malkins la verginità, una volta che la sua lascivia glie l'ha fatta perdere. (1897, p. 150)
    • [...] giorno e notte il tempo si consuma, e se la svigna o mentre noi tranquillamente dormiamo, o quando, desti, non sappiamo approfittarne: egli fa come il fiume che scende dal monte alla pianura senza volgersi mai indietro. Non per nulla Seneca, e con lui molti altri filosofi, rimpiange più la perdita del tempo che quella dell'oro dello scrigno; poiché le ricchezze si possono ricuperare, ma la perdita del tempo è irreparabile. Il tempo non ritorna davvero indietro, come non ritorna a Tilde la verginità, una volta che la sua lascivia glie l'ha fatta perdere. (1955, pp. 131-132)
  • [...] la legge che taluno ad altri prescrive deve essere da lui stesso osservata [...]. (1955, p. 132)
  • O miseria, male pieno di pericoli, sinonimo di sete, freddo, e fame; tu ti vergogni in cuor tuo di domandare aiuto, e se anche non lo chiedi, invano tenti di nascondere le piaghe delle tue ferite: esse sono così dolose, che per forza devi mostrarle altrui. Il bisogno, tuo malgrado, ti costringe a rubare, ad accettare, oa prendere a credenza il pane. (1897, p. 157)
    • O miseria, male odioso, afflitto da sete, freddo, e fame; tu ti vergogni in cuor tuo di domandare aiuto, e se anche non lo chiedi, così sei pigiata dal bisogno che esso rivela le tue nascoste ferite. Il bisogno, tuo malgrado, ti costringe a rubare, ad accettare, o a prendere a credenza il cibo. (1955, p. 133)
  • [...] meglio la morte della miseria. Il tuo vicino, se sei povero, sarà il primo a guardarti dall'alto in basso: pel povero non c'è rispetto. (1897, p. 158)
    • [...] meglio la morte della miseria. Il tuo vicino stesso se sei povero ti disprezzerà: pel povero non c'è rispetto. (1955, p. 133)
  • [...] nelle stelle (e Dio sa se è vero) c'è scritto a chiare note (per chi vi sa leggere) il destino di ogni uomo. (1897, p. 161)
    • [...] nelle stelle (e Dio sa se è vero) c'è scritto meglio che in uno specchio (per chi sa leggere) la fine di ogni uomo, senza dubbio. (1955, p. 135)
  • Molti anni prima che avvenisse, era scritta nelle stelle la morte di Ettore, di Achille, di Pompeo, di Cesare anzi che fosser nati; la guerra di Tebe, la morte di Ercole, di Sansone, di Turno, e di Socrate. Ma gli uomini hanno un'intelligenza così corta, che nessuno vi sa leggere chiaro. (1955, p. 135)
  • Io, disgraziata donna, non mi curo di morire: noi donne siamo nate per essere schiave e per fare penitenza sotto il dominio dell'uomo. (1955, p. 137)
  • [...] o Satana maledetto, dal giorno che fosti cacciato dal nostro regno, ben ritrovasti subito la via di tornare fra noi per mezzo della donna. [...] Quando non vuoi comparire, ahimé, tu ti servi, pei tuoi malvagi fini, della donna. (1897, p. 169)
    • [...] o Satana maledetto, dal giorno che fosti cacciato dal nostro regno, ben sai la via per giungere alla donna. [...] Quando non vuoi comparire, ahimè, tu ti servi, pei tuoi malvagi fini, della donna. (1955, p. 139)
  • O improvviso e inaspettato dolore, tu succedi a ogni mondana gioia, che deve essere sempre bagnata dal pianto. Ogni nostra felicità ha per fine le lacrime. Non dimenticate mai questo consiglio pel vostro bene: ogni volta che vi pare d'essere felici, abbiate sempre davanti agli occhi il dolore e la sventura, che non tarderanno a raggiungervi. (1897, pp. 171-172)
  • O improvviso dolore, tu succedi a ogni mondana gioia, sempre bagnata dal pianto. Ogni nostra felicità ha per fine il travaglio mondano. Non dimenticare mai questo consiglio pel vostro bene: ogni volta che vi pare d'essere felici, tenete a mente l'inatteso lutto e dolore che susseguono. (1955, p. 140)
  • Cristo il quale è il rimedio a tutti i mali, spesso con mezzi che solo i Sapienti conoscono, fa delle cose per un fine che la mente nostra non arriva a comprendere, cosicché noi, per l'ignoranza nostra, non possiamo farci un'idea di quanto sia savia la sua provvidenza. (1897, p. 174)
    • Cristo il quale è il rimedio a tutti i mali, spesso con mezzi che i sapienti conoscono, fa delle cose per un fine oscuro alla mente nostra, cosicché noi, per l'ignoranza nostra, non conosciamo quanto sia savia la sua provvidenza. (1955, p. 141)
  • È vero che il candore di una sposa è una cosa santa: ma, come si fa? Vien la notte in cui essa deve piegare la testa davanti a certe piccole necessità, che piacciono a chi le ha dato l'anello di sposa; e allora non c'è rimedio: per un poco bisogna mettere da una parte la santità. (1897, p. 185)
    • [...] anche siano le mogli in tutto sante debbon la notte piegare la testa davanti a certe piccole necessità, che piacciono a chi loro ha dato l'anello di sposa; e allora non c'è rimedio: per un poco bisogna mettere da una parte la sanità. (1955, p. 146)
  • Quando c'è l'ubriachezza, non ci sono più segreti davvero. (1897, p. 188; 1955, p. 148)
  • O sozzo desiderio della lussuria, ecco quale è la tua fine: tu non solo consumi la mente dell'uomo, ma ne distruggi anche il corpo. L'effetto dell'opera tua, o per meglio dire, della tua cieca libidine, è triste: quanti uomini non soltanto per aver compiuto, ma per aver mirato a questo peccato sono stati uccisi, od hanno fatto una brutta fine! (1955, p. 151)
  • Chi mai è vissuto, un giorno solo, in una felicità così completa, che per un momento non gli abbia turbato l'animo o la coscienza o l'ira, o un desiderio o un altro stimolo qualunque come l'invidia, l'orgoglio, una passione, o una offesa? (1897, p. 203; 1955, p. 155)

Frammento III

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Il racconto della donna di Bath

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La donna di Bath, dal manoscritto d'Ellesmere
  • [...] «Il Signore ci ha ordinato crescite et multiplicamini», un dolce testo che assai bene comprendo: e altrettanto bene so ch'Ei disse dover mio marito lasciare il padre e la madre e prender me; ma nessun motto fece di numero, di bigamia o di ottogamia. Perché debbono le genti dirne villania? (1955, p. 159)
  • [...] ponete mente al savio re Don Salomone, il quale io reputo di mogli ne avesse più di una; e così volesse Iddio che fosse lecito a me d'aver refrigerio metà delle volte ch'egli ebbe (quanta grazia di Dio egli ebbe per tante mogli, quanta a nessun uomo è concessa che sia vivo al mondo); sa il cielo se quel nobile re non corse, come io credo, più giostre gagliarde la prima notte con ciascuna di loro, così era ben disposto. Sian dunque grazie a Dio che cinque ne ho menati! e benvenuto il sesto qualunque volta mai fosse, ché in fede mia per nessun conto vo' serbar castità. (1955, p. 159)
  • Che mi fa se la gente parli scandalosamente di Lamech infame e della sua bigamia? Ben so che Abramo fu un santo uomo e così Giacobbe, a quanto m'è noto, e ciascun d'essi di mogli n'ebbe più che un paio, e così molti altri santi. (1955, p. 159)
  • Quando mai s'è veduto, in qual che sia tempo, che Iddio proibisse le nozze in chiare parole? Ditemelo di grazia. E dove mai ha comandato verginità? So quanto voi che non v'è incertezza, quando l'apostolo parla di verginità. Disse che di ciò non aveva precetto alcuno. Verginità a una donna si può consigliare, ma consiglio non è comandamento, e Iddio lo lasciò in nostro arbitrio, poiché, se Egli avesse ordinata la verginità, avrebbe in atto condannato il matrimonio; e inoltre, se non se ne gittasse il seme, le vergini d'onde mai nascerebbero? (1955, pp. 159-60)
  • Grande perfezione è la verginità, e così sono la devozione e la continenza; ma Gesù, che è fontana di perfezione, non prescrisse che ciascuno andasse e vendesse ogni proprio bene per darlo ai poveri, e in quella guisa seguisse Lui e i Suoi passi. Egli parlò a coloro che volessero vivere perfettamente, e, signori miei, con vostra licenza, io non sono tra quelli. Io voglio dedicare il fiore degli anni miei agli atti e ai frutti del matrimonio. (1955, pp. 160-161)
  • [...] a che scopo furono fatti gli organi di generazione? e con quale intendimento venne l'individuo creato? State pur certi che non vennero fatti invano. Argomenti chi vuole e discorra per lungo e per largo, che vennero fatti per passare l'orina, e che le nostre due coserelle segrete servono anche per distinguere maschio da femmina e a nessun altro oggetto; vorreste negarlo? Ben chiarisce esperienza che non è così, onde con buona pace del chierico, io affermo che vennero fatti per una cosa e per l'altra; voglio dire tanto per funzione quanto per agio di genitura, là dove non dispiace a Dio. Perché, se a lui spiacesse, starebbe scritto nei libri che l'uomo ha da concedere il debito alla moglie? e con che pagherebbe lo scotto, se non usasse il suo bravo istrumento? (1955, p. 161)
  • [...] nello stato che Dio ci ha assegnato, io voglio perseverare, ché non son puntigliosa, e voglio usare del mio istrumento quale moglie non meno generosamente ce il nostro Fattore ce lo donasse. Se io sia scontrosa il Signore mi mandi tristizia, ché il mio uomo l'avrà sera e mattina, quando a lui piaccia di farsi innanzi a pagare il debito suo.
    E voglio un marito che, senza sotterfugi, mi sia debitore e schiavo, e porti la tribolazione nella sua carne mentre che io sia sua moglie, perché, mentre che viva, io e non lui ho diritto sul suo corpo stesso. Così m'insegna l'apostolo, quando comanda ai nostri mariti di amarci assai. E questa sentenza tutta mia piace. (1955, p. 161)
  • Negli antichi tempi di re Arturo, di cui parlano i Britanni a grande onore, tutto questo paese era pieno di magie. La regina degli elfi, con sua gaia compagnia, bene spesso danzava in questo e quel verde praticello. Sì fatta era l'antica fama secondo ch'io leggo, perché io parlo di molti secoli addietro. Ma ora nessun uomo può più vedere degli elfi, perché la gran carità e le preghiere di frati mendicanti regionali e d'altri santi ordini, che frugano ogni terra e ogni corrente più fitti delle falene in una spera di sole, benedicendo sale, camere, cucine, salotti, città, borghi, castelli, altre torri, villaggi, fienili, stalle, latterie, fanno sì che più non vi sian magie. Perché là dove usarono muovere gli elfi, se ne va ora il cercatore regionale stesso a nona e a terza, e recita i suoi mattutini e le sue cose sante, mentre si aggira entro i suoi confini. E le femmine se ne possono ire securamente di su e di giù; e sotto nessun arbusto e sotto nessun albero non v'è altro incubo che lui, e quello non farà loro disonore. (1955, pp. 175-176)
  • [...] in verità non c'è nessuna di noi che, se altri ci gratti sul vivo, non tiri calci perché ci dice il vero; fatene esperimento e troverete che così avviene, perché mai siamo dentro tanto viziose da non voler esser tenute savie e monde di peccato. (1955, p. 177)
  • [...] generalmente le donne bramano d'aver signoria così sul loro marito come sul suo amore e d'aver dominio sopra di lui. (1955, p. 179)
  • Osserva chi sempre è più virtuoso, più segreto e più aperto, e più intende a compiere i nobili fatti che può, e quello giudica il più gran nobiluomo. Gesù volle che da Lui ripetessimo la nostra gentilezza e non dai nostri maggiori per le loro ricchezze; perché, se pur ci diedero tutta la loro eredità, onde pretendiamo di essere di alto paraggio, nondimeno in nessun modo posson legare a nessuno di noi il loro viver virtuoso, per cui furon detti uomini gentili e c'invitarono a seguirli in quel cammino. (1955, pp. 180-181)
  • Onde potete vedere come la gentilezza non è legata alle possessioni, perché le genti non ne compiono sempre l'operazione, come, nel suo genere, fa il tuoco; perché Dio sa che spesso si trova il figlio di gran nobile far cosa villana e di vergogna. E chi crede aver pregio di tal gentilezza, per esser nato di casa gentile e aver avuto nobili e virtuosi maggiori, e mai non compia egli stesso nobili fatti, né imiti i propri nobili maggiori che son morti, non è nobile, anche sia duca o conte, perché le azioni colpevoli di villano lo fanno del volgo. Perché gentilezza non è pur la fama de' tuoi maggiori, per loro gran bontà, che è cosa separata dalla tua persona; da Dio soltanto procede la tua gentilezza, onde muove la stessa gentilezza dalla grazia, e non è cosa che ci sia legata con le nostre terre. (1955, pp. 181-182)
  • Chi stia contento della propria povertà, quello io giudico ricco, anche non possedesse una sola camicia. Povera creatura è all'incontro chi desidera, perché vorrebbe avere quel che non è in suo potere; ma chi nulla possiede e non desidera nulla, quello è ricco, anche se voi lo giudichiate solamente un servo. (1955, p. 182)
  • La povertà è un bene odioso e, a mio giudizio, gran causa d'industria; e anche correttrice di sapienza a chi con pazienza la sopporti. Benché sembri infelicità, la povertà è un possesso che nessuno ti contende, e bene spesso povertà, quando uomo è umiliato, fa che conosca Iddio e anche se medesimo. Secondo io penso, povertà è una lente attraverso la quale discernere i propri veri amici. (1955, p. 182)
  • [...] gli anni e il lordume [...] son guardie potenti alla castità. (1955, p. 183)

Il racconto del frate

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  • Un apparitore sempre corre su e giù con ordini di comparsa per fornicazione, ed è battuto alla porta d'ogni terra. (1955, p. 185)
  • [...] non è al mondo veltro da caccia che distingua damma ferita dalla sana, come questo apparitore sapeva scoprire uno scostumato cauteloso, un adultero o un drudo, e, poiché quello era il fiore di tutte le sue rendite, vi poneva intera la sua mente. (1955, p. 187)
  • Dio sa che non tralascio mai di prendere, se non sia cosa troppo grave o scottante. Di quel ch'io posso chiusamente acciuffare in segreto non mi faccio coscienza nessuna; non fosse per le mie estorsioni, non potrei campare la vita; né di sì fatti inganni mi voglio confessare; pietà e coscienza non conosco; io maledico ciascuno di questi confessatori. (1955, p. 189)
  • Disponete l'animo a resister al nemico, che vi vorrebbe rendere suoi servi e schiavi. Non vi può tentare oltre le vostre forze, perché Cristo ci vuol essere campione e cavaliere. E pregate che questi apparitori si pentano dei loro malefizi prima che il nemico li acciuffi. (1955, p. 194)

Il racconto dell'apparitore

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L'apparitore, dal manoscritto d'Ellesmere
  • [...] poco sono diversi diavoli e frati; e, perdio, avete spesso sentito narrare come un frate fosse in ispirito rapito in visione all'inferno, e come un angelo di su e di giù lo menasse a mostrargli le pene che v'erano e nessun frate scorgesse in tutto quel luogo, mentre d'altre genti assai ne vide in dolore. E così parlò all'angelo il frate: «Or, messere, – egli disse – hanno i frati tal grazia, che nessuno di essi venga quaggiù?»
    «Ben sì – fece l'angelo – ven sono più milioni». E giù lo menò a Satanasso. «Or – disse – Satanasso ha tal coda che è più larga che vela di caravella». «Oh, tu, Satanasso, – gridò – leva la coda, mostra di retro il foro e fa che il frate veda dove in questo luogo hanno lor nido i frati!»
    E anzi che fossero proceduti duecento passi, appunto come dall'arnia sciamano le api, così dal mal foro del demonio vennero cacciati in branco di frati ben ventimila, e per l'inferno volarono attorno, e di nuovo ritornarono rapidi quanto potevano muovere, e ciascun d'essi s'insinuò nel mal foro di quello. La coda sbatté giù di nuovo e tutto fermo si stette.
    Quando a sazietà ebbe il frate mirato i tormenti di quel tristo luogo, si destò, avendo Iddio, per sua grazia, restituita l'anima entro al suo corpo. Nondimeno per paura ancora tutto tremava, tanto gli era in mente fisso il culo del demonio ch'era suo proprio retaggio per istirpe. (1955, pp. 195-196)
  • È gran cosa il glossare per certo, perché la lettera uccide, secondo dicono i dotti. (1955, p. 198)
  • Chi vuol pregare, digiunar deve in purità e ingrassar l'anima e magro rendere il corpo. (1955, p. 200)
  • [...] noi mendicanti, noi frati fedeli, a povertà siamo sposati e continenza, a carità, umiltà e astinenza, a persecuzione per la nostra dirittura, a lagrime, misericordia e purità; quindi ben potete vedere che le nostre preci, quelle, dico, di noi mendicanti, di noi frati, più accette sono all'alto Signore delle vostre con il vostro banchettare. (1955, p. 200)
  • [...] l'uomo venne primamente cacciato dal paradiso per la sua gola, e certamente in paradiso l'uomo fu casto. (1955, p. 200)
  • Chi segue i Vangeli di Cristo e la sua traccia, se non noi, i quali umili siamo e casti e poveri, i quali in opera la parola di Dio mettiamo e non pur l'ascoltiamo? Onde, come il falco su sale al sommo dell'aria, così le preci di frati caritevoli, casti ed attivi s'elevano ad ambo gli orecchi di Dio. (1955, p. 201)
  • Così Gesù m'aiuti, se in questi pochi anni io non ho speso di lire assai in diverse maniere di frati, senza provarne giovamento alcuno. E in verità quasi i miei beni ho impegnati – e addio al mio oro, preso che tutto se n'è ito. (1955, p. 201)
  • A che monta un quattrino diviso in dodici parti? Vedi, ogni cosa che sia una in se stessa è più possente che non dispersa. (1955, p. 201)
  • Sicuramente serpe non v'è sì crudele quando alcuno ne calpesti la coda, né così malvagia, come è donna cui l'ira prenda; vendetta è allora ogni suo desiderio. (1955, p. 202)
  • Che l'ira provochi l'omicidio ogni volgare magistrato e chiunque può dire; l'ira è in verità l'agente della superbia, e tanti lutti potrei narrare dell'ira che fino a domani ne durerebbe il racconto. (1955, p. 202)
  • Gran danno è ed anco gran pietà che in alto grado sia posto uomo iroso. (1955, p. 202)

Frammento IV

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Il racconto del chierico

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Il chierico, dal manoscritto d'Ellesmere
  • [...] il tempo non aspetta nessuno, e fugge via per chi dorme, per chi veglia, per chi viaggia, e per chi cavalca. (1897, pp. 215-216; 1955, p. 212)
    • Anche quando dormiamo o siamo svegli, vaghiamo e cavalchiamo, fugge il tempo e non aspetta nessun uomo. (2019, p. 71)
  • [...] a me sembra cosa molto crudele, tormentare, senza ragione, una povera moglie, con angosce e paure. (1897, p. 231; 1955, p. 219)
  • Vi ho detto [...] e sempre ve lo ripeterò, che io non voglio, e non vorrò mai, che ciò che a voi piace: io non mi risento, se per ordine vostro mi vengono uccisi i figliuoli. Rinunzio volentieri alla gioia che avrei avuto dalle mie due creaturine: come ho sofferto per averle, soffrirò per perderle.
    Voi siete il signor mio; fate quello che vi piace, e non vi curate di me: con le mie povere vesti io ho lasciato a casa la mia volontà e la mia libertà; perciò potete fare quello che volete, sicuro che vi obbedirò.
    Se io potessi leggervi nell'animo, vorrei soddisfare ogni vostro desiderio prima che voi parlaste: quando poi so che cosa desiderate, immaginatevi se faccio di tutto per contentarvi. Quando sapessi che vi fosse cara la mia morte, morirei ben volentieri, per farvi piacere.
    L'amore che ho per voi è più potente della morte. (Griselda; 1897, p. 240)
    • Vi ho detto [...] e sempre ve lo ripeterò, che io non voglio, non vorrò mai, se non ciò che a voi piace: io non mi risento affatto, se per ordine vostro mi vengono uccisi i figlioli. Altro non ho avuto dalle mie creaturine se non prima infermità e in seguito dolore e pena. Voi siete il signor mio; fate quello che vi piace, e non vi curate di me: con le mie povere vesti io ho lasciato a casa mia la mia volontà e la mia libertà con le mie vesti; perciò potete fare quello che volete, sicuro che vi obbedirò. Se io potessi leggervi nell'animo, vorrei soddisfare ogni vostro desiderio prima che a voi piacesse di parlarne: quando poi so che cosa desiderate, immaginatevi se faccio di tutto per contentarvi. Quando sapessi che vi fosse cara la mia morte, morirei ben volentieri, per farvi piacere. La stessa morte non regge al confronto con l'amore che ho per voi. (1955, pp. 222-223)
  • Ditemi voi, donne, per favore, se queste prove non sarebbero state sufficienti! Che cosa avrebbe potuto ancora immaginare la rigida ostinazione di un marito, per provare la virtù e la pazienza di sua moglie? Ma c'è, purtroppo, certa gente, che quando si fica in capo un'idea, non se la leva più, a nessun costo: così appunto, si era ostinato Gualtieri nel proponimento fatto, di tentare la pazienza e la costanza della moglie. (1897, p. 242; 1955, p. 223)
  • Di guisa che sembrava che avessero un sol volere in due; piacendo a lei tutto quello che piaceva a Gualtieri. E di ciò sia lodato il Signore: giacché così doveva essere per il bene di tutti. Pareva che i suoi affini non fosser suoi; non aveva altra volontà che quella del marito. (1897, pp. 242-243)
    • Di guisa che sembrava che avessero un sol volere in due, piacendo a lei tutto quello che piaceva a Gualtieri. E di ciò sia lodato il Signore: giacché così doveva essere per il bene di tutti. Si manteneva tranquilla, perché per nessun turbamento terreno, quanto a lei, una moglie nulla dovrebbe volere, se non come vuole il marito. (1955, pp. 223-224)
  • Signor mio, io lo sapevo benissimo, e sempre lo pensavo, che la mia povertà non poteva stare accanto alla vostra ricchezza; e non mi sono mai creduta degna di essere, non dico la moglie vostra, ma neppure la vostra cameriera. (Griselda; 1897, p. 247; 1955, p. 225)
  • [...] per amor vostro non mi sarebbe grave neppur la morte: e non sarà mai che io mi penta, in alcun modo, di avervi dato, con me stessa, tutto il mio cuore. (Griselda; 1897, p. 249; 1955, p. 226)
  • [Su Griselda] [...] in mezzo alla nobiltà e alle ricchezze si mostrò sempre umilissima: ghiottonerie, raffinatezze, lusso, maginificenza, non seppe mai che cosa fossero. E fu sempre buona, paziente, modesta, rispettosa, e sempre sottoposta e obbediente al marito. (1897, pp. 251-252)
    • [...] in mezzo alla nobiltà e alle ricchezze il suo animo fu sempre umilissimo: ghiottonerie, raffinatezze, lusso, magnificenza, non seppe mai che cosa fossero. E fu sempre buona, paziente, modesta, rispettosa, e sempre sottoposta, e obbediente al marito. (1955, pp. 227-228)
  • [...] per quanto ai dotti piaciano poco le donne, non c'è uomo che abbia la pazienza di una donna; ed è un caso proprio raro, trovare uno che abbia solo la metà della costanza femminile. (1897, p. 252)
    • [...] per quanto i dotti poco lodino le donne, non c'è uomo che abbia la pazienza di una donna; ed è un caso proprio raro, trovare uno che abbia solo la metà della costanza femminile, se non sia occorso di recente. (1955, p. 228)
  • O popolo irrequieto, incostante e sempre infido, scontento e volubile come una banderuola, sempre amante del torbido e del nuovo! Tu fai come la luna che cresce e cala: sempre largo di applausi che non valgono un soldo; il tuo giudizio è falso, la tua costanza non regge alla prova, ed è un gran pazzo chi si affida a te. (1897, p. 255)
    • O popolo irrequieto, incostante e sempre infido, scontento e volubile come una banderuola, sempre amante del torbido e del nuovo! Tu fai come la luna che cresce e cala: sempre largo di applausi che non valgono un genovesino; il tuo giudizio è falso, la tua costanza non regge alla prova, ed è un gran pazzo chi si affida a te. (1955, p. 229)
  • [...] se Griselda ebbe tanta pazienza con un uomo, tanto più noi uomini dobbiamo sopportare in pace quello che ci viene da Dio. Il quale ha tutto il diritto di sperimentare ciò che ha creato [...]. (1897, p. 262)
    • [...] se Griselda ebbe tanta pazienza con un uomo, tanto più noi uomini dobbiamo sopportare in pace quello che ci viene da Dio, perché è ben ragionevole di sperimentare ciò che ha creato [...]. (1955, p. 232)
  • [...] sarebbe ben difficile, oggi, trovare in tutta una città due o tre donne che avessero la pazienza di Griselda; poiché l'oro del quale esse rilucono, è di così cattiva lega, che messo alla prova si spezzerebbe subito in due parti. (1897, p. 262)
    • [...] sarebbe ben difficile, oggi, trovare in tutta una città due o tre donne che avessero la pazienza di Griselda; poiché l'oro del quale esse son fatte, è di così cattiva lega con rame, che, anco se la moneta sia bella alla vista, messo alla prova si spezzerebbe subito in due parti piuttosto che piegarsi. (1955, p. 232)
  • Griselda è morta, e con lei anche la sua pazienza: l'una e l'altra giacciono sepolte in Italia: perciò, lo dico a tutti, a nessun marito venga in mente di sperimentare la pazienza di sua moglie, nella speranza di trovarla una Griselda: ché certamente resterbbe deluso. (1897, p. 263)
    • Griselda è morta, e con lei la sua pazienza: l'una e l'altra giacciono sepolte in Italia; perciò, lo dico a tutti, a nessun marito venga in mente di sperimentare la pazienza di sua moglie, nella speranza di trovarla una Griselda: ché certamente resterebbe deluso. (1955, p. 233)
  • Se la vostra condizione è tale da rendervi forti al pari di un cammello, difendetevi, e non sopportate offese. Se siete deboli per sostenere la battaglia, mostrate i denti come una tigre delle India: e strepitate, ve lo consiglio, come un buratto. (1897, p. 264)
    • Voi arci-mogli, poiché siete forti come un grosso cammello, difendetevi, e non sopportate offese dagli uomini: e voi che siete deboli per sostenere la battaglia, mostrate i denti come una tigre delle Indie, e stepitate, ve lo consiglio, come un buratto. (1955, p. 233)
  • Se siete belle, mostratevi in società, e fate sfoggio dei vostri abbigliamenti; chi è brutta, sia di manica larga, e cerchi di farsi delle amicizie. Non vi abbandoni mai il buon umore: lasciate che il marito si secchi, pianga, si arrabbi, e brontoli a piacer suo. (1897, p. 264)
    • Se sei bella, mostrati in società, e fa' sfoggio dei tuoi abbigliamenti; se sei brutta, sii di manica larga, e cerca di farti delle amicizie. Sii sempre allegra, e leggera come una foglia di tiglio, e lascia che lui si strugga, pianga, si torca le mani, e si lamenti! (1955, p. 233)

Il racconto del mercante

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Il mercante, dal manoscritto d'Ellesmere
  • Io ho una moglie, la peggiore ch'esser possa: se il diavolo stesso si fosse ammogliato con lei, vi giuro che lei se lo sarebbe messo sotto. (1955, p. 235)
  • Noi ammogliati viviamo nel dolore e nell'affanno [...]. (1955, p. 235)
  • [...] io sono ammogliato da due mesi soltanto, per Dio! eppure, credo che uno il quale fosse rimasto per tutta la vita senza moglie, quando anche fosse ferito al cuore dagli uomini, non potrebbe in alcun modo raccontare di sé tanto dolore, quanto io ora potrei dirne qui di me, per causa della malvagità di mia moglie. (1955, pp. 235-236)
  • [...] del mio proprio dolore, per la pena che n'ha il cuore mio, non posso dirvene di più. (1955, p. 236)
  • [...] il prender moglie è una cosa stupenda, specialmente se l'uomo la piglia quando è vecchio e coi capelli bianchi; poiché allora la moglie è il frutto delle sue ricchezze. Perciò l'uomo dovrebbe prendere, da vecchio, una moglie giovane e bella, per avere da lei un erede, e passare la sua vita in mezzo alla gioia e al sollazzo; mentre gli scapoli gridano «ohimè!» tutte le volte che trovano qualche guaio in amore, il quale non è altro che una vanità fanciullesca. E in verità è giusto che sia così, che gli scapoli abbiano a soffrire spesso pene e guai: essi fabbricano sopra un terreno fragile, e trovano fragilità, dove si aspettano di trovare fermezza. Gli scapoli vivono come uccelli o come animali, liberi e senza alcuna responsabilità: mentre un uomo ammogliato, nella sua condizione, mena una vita beata e regolata, legato al giogo del matrimonio, e però ha sempre il cuore pieno di gioia e felicità. Infatti chi è obbediente all'uomo quanto una moglie? chi gli è così fedele? e chi ha tanta premura di conservarlo, malato o sano ch'egli sia, quanta ne ha la sua compagna? Nella gioia come nel dolore essa non lo abbandona mai: e non si stanca di amarlo e di servirlo, neanche se egli è costretto a restare nel letto fino al giorno in cui muore. (1955, pp. 236-237)
  • La moglie è, veramente, un dono di Dio: tutti gli altri beni del mondo, come poderi, rendite, praterie, terreni pubblici, mobili, son certo tutti doni della fortuna, che passano come un'ombra sul muro. Indubbiamente, se debbo dir le cose come sono, la moglie è un bene che dura, e che ti resta in casa, forse anche più di quello che, per avventura, desideri. (1955, p. 237)
  • Come potrebbe alcuno che abbia moglie incorrere in avversità? Certo, io non lo saprei dire. La gioia che c'è fra loro due, nessuna lingua la può dire, e nessun cuore la può immaginare. Se lui è povero, lei lo aiuta a lavorare; se no, ha cura dei beni ch'egli possiede, e non butta via un centesimo. Tutto ciò che piace al marito, piace anche a lei, e tutte le volte che lui dice «sì», non c'è caso che lei dica di «no» una volta sola. (1955, p. 238)
  • [...] io non voglio, in nessuna maniera, una moglie vecchia. Essa non dovrà aver passato, in modo assoluto, i venti anni, poiché, per il gusto mio, ci vuole pesce vecchio e carne giovane. Un luccio grosso è meglio di un luccetto piccolo, ma una vitellina è meglio di un manzo vecchio. Una donna di trenta anni non la voglio: è tutta gamba di fava e paglia. Ed anche queste vedovelle mature (lo sa Dio!) la sanno così lunga la storia della barca di Wade, e sanno essere così noiose, a loro talento, che io, insieme con loro, non ci vivrei in pace. Le molte scuole fanno i valenti dotti; ed una donna che è stata a molte scuole è un mezzo dotto: ora, è certo che una sposina giovane si può guidare come si vuole, e si piega nelle nostre mani come la cera al fuoco. Perciò, ve lo dico chiaro e tondo in una parola: di una moglie vecchia non ne voglio sapere per questa ragione. (1955, p. 240)
  • Ma, per quel Dio stesso che è unico e solo, perché pensate così bene di Salomone? forse perché egli fece un tempio, che doveva essere la casa di Dio? forse perché era ricco e glorioso? Ha innalzato un tempio, anche a falsi dei! Poteva fare una cosa, che fosse più empia? Per quanto cerchiate di dare una mano di intonaco al suo nome, egli è stato un libertino e un idolatra, e nella sua vecchiaia rinnegò perfino Dio. (Proserpina; 1955, p. 258)
  • A tutte le offese che voi altri uomini scrivete delle donne, non dò peso alcuno: ma io sono una donna, e debbo parlare, di necessità, altrimenti dovrei gonfiare della bile, finché mi si spezzasse il cuore. Poiché egli ha detto che noi siamo delle chiacchierone, io, che possa conservare intatte le trecce sulla testa, non finirò mai di dire corna, senza riguardo alcuno, di chi ha voluto farci oltraggio. (Proserpina; 1955, p. 258)

Frammento V

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Il racconto dello scudiero

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  • Cambiscane ebbe nome questo nobile re, il quale al suo tempo sì grande ebbe fama, che non v'era in alcuna terra signore così eccellente in ogni cosa, e nulla gli faceva difetto che a re appartenesse. La legge osservata che aveva giurato della setta nella quale era nato; ed era inoltre ardito, saggio e ricco, misericordioso e giusto e sempre conforme al vero dire, benigno ed onorevole, costante nel suo cuore come un polo, giovane, fresco, forte, ardente nelle armi quanto altro giovane della sua casa. Bello era della persona e bene avventurato, e sì bene sempre si tenne in reale stato che in nessuna altra parte era uomo sì fatto. (1955, pp. 262-263)
  • Che tosto si desti pietà in gentil cuore che similmente si sente tocco dalla punta del dolore, è ad ogni ora dimostrato, come può vedersi, sia nella pratica e sia negli scritti; perché il gentil cuore gentilezza mostra. (1955, pp. 271-272)
  • Onde lungo cucchiaio si provveda chi con un nemico debba mangiare. (1955, p. 274)
  • [...] sono gli uomini inclini a cose nuove quanto gli uccelli che sono nutriti in gabbia. Perché, anco tu notte e giorno ti prenda cura di essi, impagli le loro gabbie così che siano soffici e morbide come seta e dia loro zucchero, miele, pane e latte; nondimeno subito che sia sollevato lo sportello, giù rovesceranno le lor tazze con le zampe e al bosco n'anderanno a cibarsi di vermi; tanto son amanti di novità nel loro cibo, e di natura amano cose nuove; nessuna gentilezza di sangue può trattenerli! (1955, p. 274)

Il racconto dell'allodiere

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  • Amore non vuole essere forzato da soggezione: quando questa sopravviene, il Dio ha subito pronte le sue ali, e arrivederci se ne va! L'amore è una cosa che vuole essere libera come uno spirito; le donne desiderano, per natura, la libertà, e non amano essere soggette come schiave, e lo stesso fanno gli uomini, se debbo dire la verità. In fatto d'amore, chi ha più pazienza, è quello che ha i maggiori vantaggi. La pazienza è, certo, una grande virtù, poiché, come ci insegnano i saggi, essa riesce a conquistare ciò che il rigore non potrebbe mai ottenere. L'uomo non può, per ogni parola, fare rimproveri o trovare da lamentarsi. Imparate ad esser tolleranti, altrimenti (così io possa proseguire il mio cammino!), o per amore o per forza un giorno dovrete impararlo. Poiché in questo mondo, certamente, non c'è nessuno al quale non accada, una volta, di fare o dire qualche sbaglio. L'ira, l'infermità, l'influsso delle stelle, il vino, il dolore, o il cambiamento di umore, assai spesso ci fanno commettere o dire qualche errore. L'uomo non può essere vendicato di ogni torto che gli vien fatto; chiunque ha doti di governo, deve sapersi moderare secondo le circostanze. (1955, pp. 278-279)
  • O regina Teuta, la tua castità, come moglie, potrebbe essere uno specchio per tutte le mogli. (1955, p. 293)
  • La lealtà è ciò che di più alto possa rispettare l'uomo! (1955, p. 293)
  • [...] anche uno scudiero può fare un atto di cortesia, senza dubbio, come quello che può esser fatto da un cavaliere. (1955, p. 295)

Frammento VI

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Il racconto del medico

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Il medico, dal manoscritto d'Ellesmere
  • [Su Verginia] Chiara era questa fanciulla di bellezza tanto eccellente da superare ogni altro essere che alcuno mai vedesse: perché natura l'aveva con sovrana diligenza formata di tal perfezione quasi volesse dire: «ecco, così poss'io natura dar forma e colore ad una creatura quando a me piace; e chi può imitarmi?
    Non Pigmalione per quanto mai egli fucini, martelli, incida o colori; benché ben oso dire che invano s'affaccenderebbero Apelle o Zeusi a incidere, colorare, fucinare o martellare, se tanto presumessero da volere imitarmi. Perché Colui che del formare è maestro, fatto mi ha suo vicario generale nel formare e colorare le creature terrene a mio piacere; e ogni cosa in mia cura sta sotto la luna, che cresce e cala, e nulla chiedo per la mia fatica; d'una mente siamo il mio Signore ed io; ed io l'ho fatta ad adorazione del mio Signore. E così faccio di tutte l'altre creature mie, qual che sia il colore che hanno o la forma». (1955, pp. 297-298)
  • [Su Verginia] Due hanni sopra ai dodici aveva questa fanciulla della quale natura tanto si dilettava. Perché appunto come è in poter suo di colorare di bianco un giglio e di rosso una rosa, giustamente con tali colori ella dipinse questa nobile creatura nelle sue agili membra, anzi che nascesse, propriamente là dove tali colori debbono trovarsi; e Febo le abbondanti le sue trecce tinse dei raggi del suo calore ardente. E se era la sua beltà eccellente, la sua virtù mille volte era maggiore. Niuna qualità in lei mancava, che secondo discrezione meriti lode. Casta era di corpo e di spirito onde nella sua verginità ella fioriva, in tutta umiltà ed astinenza, in tutta temperanza e pazienza, e non senza un tanto di contegno e di adornamento. Discreta era sempre nel rispondere; e anco fosse, oserei dire, come Pallade savia e il suo parlare donnescamente pieno e fecondo, artifiziosi vocaboli non usava per savia apparire: ma secondo suo grado parlava e qual più quale meno ogni sua parola a virtù conduceva e a gentilezza. Vereconda era di verginale verecondia, ferma di cuore e operosa sempre per fuggire pigra indolenza. Nessuno dominio aveva Bacco sulla sua bocca, perché la giovinezza e il vino accendono Venere, come se olio o grasso si gettino nel fuoco. E per sua propria virtuosa disposizione, fuor d'ogni comando, spesse volte si fingeva ammalata per evitare le compagnie tra le quali di leggeri potesse trattarsi di vanità, quali fossero feste, veglie e danze che danno occasione a corteggiare. Tali adunamenti rendono le giovani anzi tempo mature e ardite, come ognun può vedere, il che gran pericolo è, e sempre è stato in passato. Perché assai presto possono apprendere arte d'ardimento quando a donna sian cresciute. (1955, p. 298)
  • E voi che maestre siete fatte in vecchiezza, e figlie di signori avete in governo, non fate mal viso alle mie parole; pensate che due sole ragioni v'han date in governo le figliuole di signori: o che abbiate onestà sempre osservata, o che per fragilità essendo cadute, e ben conosciuta l'antica danza, del tutto abbiate abbandonato questo mal costume e per sempre; onde, per amor di Gesù, mai non vi stancate d'insegnar loro virtù. Un ladro di cacciagione che abbia finalmente lasciato il suo vizio e tutta l'arte sua antica, guarda la foresta meglio d'ogni altro. Dunque guardatele voi bene, perché, volendolo, sapete; osservate di non consentir loro alcun vizio, perché per vostra mala intenzione non siate dannate; chi così faccia fellone è certamente. E ponete mente a quanto son per dire: peste suprema d'ogni tradimento è se alcuno tradisce l'innocenza. (1955, pp. 298-299)
  • E voi pure che siete padri e madri, se figliuoli avete e siano uno o due, vostro è l'ufficio di sorvegliarli, mentre che siano sotto il vostro governo: guardate che per l'esempio della vostra vita o per negligenza nel correggerli essi non periscano; perché ben posso io dire che caro paghereste il loro perire. Quando il pastore sia molle e negligente, molte pecore e molti agnelli può il lupo dilaniare. (1955, p. 299)
  • [Su Verginia] La fanciulla, della quale vi voglio narrare, così si governava, che non aveva d'uopo di maestra, perché nella sua condotta le altre fanciulle potevano, come in un libro, ritrovare ogni parola e ogni atto buono che appartenga a virtuosa vergine; tanto era prudente e di buon volere. Onde la fama largamente si sparse e della sua beltà e del suo buon volere per ogni parte, così che per quella terra tutti la lodavano quanti amavano virtù, fuor che gl'invidi che del bene altrui s'appenano e dell'altrui tistizia e malanni son lieti; (e questa descrizione fa il dottore). (1955, p. 299)
  • Figlia, [...] Virginia di nome: due son le vie che ti bisogna patire, o morte od infamia; in mala ora son nato! perché mai hai meritato in alcun modo di spada morire o di coltello; oh cara figlia, causa che mia vita finisca, che con tanto diletto ho cresciuto, che mai non sei stata fuori del mio ricordo! Oh, figlia che sei l'ultimo mio dolore ed anche l'ultima gioia di mia vita, oh gemma di castità, con pazienza accetta la tua morte, perché è questa la mia decisione. A ragione d'amore e non di odio, morta tu devi essere; deve la mia mano misericordiosa mozzarti il capo. Ahimè, che mai t'abbia Appio veduta! (Verginio; 1955, pp. 301-302)
  • Dammi agio [...] che io piccolo spazio lamenti la mia morte; poiché, perdio, diede grazia Iefte a sua figlia di lamentare prima che la trafiggesse, ahimè! E Dio sa che in nulla essa fallì se non che prima corse a incontrare suo padre, e a dargli solennemente il benvenuto. (Verginia; 1955, p. 302)
  • Benedetto sia Iddio che vergine io morrò. Dammi morte anzi che io abbia vergogna; e fa di tua figlia il tuo volere in nome d'Iddio! (Verginia; 1955, p. 302)
  • Guardatevi perché nessuno sa chi Dio voglia colpire e in qual misura né in qual maniera il verme della coscienza possa per mala vita rabbrividire, qualunque così segreta cosa sia, che nessuno ne sa se non esso e Dio. Perché rozzo uomo sia o erudito, mai non sa quanto presto sia per essere in timore. Onde vi ammonisco che a questo consiglio v'atteniate, abbandonate il peccato, anzi che questo v'abbandoni. (1955, p. 303)

Il racconto dell'indulgenziere

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L'indulgenziere, dal manoscritto d'Ellesmere
  • La mia predica non tratta che del maledetto peccato dell'avarizia, per indurre i fedeli ad essere liberali col prossimo, e prima di tutto con me. Poiché il mio scopo non è quello di salvare gli uomini dal pericolo, ma quello di far quattrini. Che cosa me ne importa a me, se quando sono morti l'animaccia loro se ne va al diavolo!
    Certo le mie prediche hanno spesso un fine che non è troppo santo: alcune, per esempio, sono fatte per dare nel gusto alla gente, per lusingarla e approfittarne a forza d'ipocrisia; altre per vanagloria, ed altre in fine per odio. Poiché quando non posso vendicarmi con altre armi, di chi ha offeso me e i miei confratelli, adopera la lingua, nelle mie prediche gli affibbio certe bottate che arrivano fino all'osso. State sicuri che non può sfuggire ad una pubblica diffamazione. Senza nominare alcuno io so toccare certi tasti, che tutti capiscono subito di chi parlo. Così sono solito pagare chi ci dà noia; e santamente sputo il veleno che ho in corpo, senza compromettermi. Insomma, ve lo ripeto, le mie prediche sono tutte figlie della cupudigia, e perciò il mio tema è sempre quello: radix malorum est cupiditas.
    Io predico come vedete, contro l'avidità, cioè contro il peccato che tutti i giorni commetto. Ma per quanto grande peccatore mi sia, posso distogliere gli altri dalla colpa, e farli pentire amaramente di averla commessa. S'intende che non ne ho nessun merito, perché io non parlo che per cupidigia. (1897, pp. 276-277)
    • La mia predica non tratta che dell'avarizia e di simili malvagità, per indurre i fedeli ad essere liberali de' lor soldi e appunto verso di me. Poiché il mio scopo non è che far quattrini, e non di correggere peccati anche se le loro anime vadano raminghe in malora.
      Certo le prediche muovono spesso da mala intenzione: alcune, per esempio, sono fatte per dare nel gusto alla gente, per lusingarla e approfittarne a forza d'ipocrisia; altre per vanagloria, ed altre in fine per odio. Poiché, quando non oso combattere in altro modo, chi ha fatto torto a me o a miei confratelli, allora lo pungo con la lingua aspramente, nelle mie prediche così che non può sfuggire ad una pubblica diffamazione: pur senza che dica il nome tutti capiscono subito di chi parlo da indizi e altri particolari. Così ripago sotto colore di santità, per apparir santo e verace, chi ci dà noia; e sputo il veleno. Insomma, voglio spiegare il mio scopo, le me, le mie prediche sono tutte della cupidigia, e perciò il mio tema è sempre quello: radix malorum est cupiditas.
      Io predico, come vedete, contro l'avidità, cioè contro il peccato che tutti i giorni commetto. Ma per quanto grande peccatore mi sia, posso distogliere gli altri dalla colpa, e farli pentire amaramente. Ma non è quello il mio scopo principale, perché io non parlo che per cupidigia. (1955, pp. 306-307)
  • Credevate che io mi volessi condannare, proprio da me, alla miseria, mentre posso guadagnarmi da vivere onestamente insegnando agli altri? No, no, non mi è passato mai neppur per la contraccassa del cervello. Io predico, e domando qualche cosa qua e là dove vado, perché per campare non ho voglia di adoperare le mani, e di mettermi a far canestri. Non vado mica attorno per nulla, come facevano gli Apostoli: vogliono essere quattrini, lana, cacio, e grano, anche dal più povero servo, e dalla vedova più miserabile di tutto il villaggio. Né debbo sapere se i suoi figliuoli muoiono dalla fame. Dovunque vado voglio trovare del buon vino, e una donnetta che mi tenga allegro. (1897, pp. 278-279)
    • Credevate che io mi volessi condannare alla miseria, mentre posso guadagnarmi oro e argento insegnando agli altri? No, no, non ci ho pensato mai davvero, perché io predico, e domando l'elemosina nei vari paesi perché non ho voglia di adoperare le mani e di mettermi a far canestri. Non mendico per nulla, non voglio imitare alcuno degli Apostoli: vogliono essere quattrini, lana, cacio, e grano, anche dal più povero servo, e dalla vedova più miserabile di tutto il villaggio, anche se i suoi figliuoli muoiono dalla fame. Voglio bere il succo della vite, e avere una bella ragazza in ogni terra. (1955, pp. 307-308)
  • [...] la lussuria è sempre compagna della crapula e del vino, come ci insegna anche la sacra scrittura. (1897, p. 280)
    • [...] la lussuria è sempre compagna della crapula e m'è testimonio la sacra scrittura che dal vino e dall'ubriacchezza viene lussuria. (1955, p. 308)
  • O maledetta gola, tu fosti la prima causa della nostra rovina, tu fosti l'origine della nostra dannazione, finché Cristo ci riscattò col suo sangue. Guardate un po', per farla corta, come ci costò salata la maledetta colpa di Adamo, per causa della quale tutto il mondo fu corrotto. (1897, p. 281)
    • O maledetta gola, prima causa della nostra rovina, origine della nostra dannazione, finché Cristo ci ebbe redenti col suo sangue. Guardate un po', per farla corta, come ci costò salata la maledetta colpa, per causa della quale tutto il mondo fu corrotto per la gola. (1955, p. 309)
  • Il padre nostro Adamo fu cacciato insieme con sua moglie dal paradiso, e costretto a lavorare e a soffrire, proprio per la gola che lo vinse. Perché fino al giorno in cui restò digiuno, egli rimase in paradiso; e ne fu cacciato, per andare in mezzo ai guai e alle pene, solo quando assaggiò il frutto proibito di quel tale albero. O ingordigia, non senza ragione gli uomini dovrebbero lamentarsi di te!
    Se essi sapessero di uanti mali sono cagione l'intemperanza e la crapula, a tavola misurerebbero un po' di più l'appetito. Ma purtroppo il gozzo e il palato li spingono a girare da un capo all'altro del mondo, per terra, per mare, per aria, in cerca di un boccone ghiotto e di una bevanda squisita. (1897, pp. 281-282)
    • Il padre nostro Adamo fu cacciato insieme con sua moglie del paradiso, per quel vizio, e costretto a lavorare e a soffrire. Perché fino al giorno in cui restò digiuno, egli rimase in paradiso, come trovo, e ne fu cacciato, per andare in mezzo ai guai e alle pene, solo quando assaggiò quel frutto proibito di quel tale albero. O ingordigia, non senza ragione gli uomini dovrebbero lamentarsi di te!
      Se essi sapessero di quanti mali sono cagione l'intemperanza e la crapula, a tavola misurerebbero un po' più l'appetito. Ma purtroppo, il breve piacere della gola e il tenero palato li spingo a travagliare a Est, a Ovest, a Sud, a Nord, per mare, per aria, in cerca di ghiotti bocconi e bevande. (1955, p. 309)
  • O ventre, o pancia, tu sei un fetido sacco pieno di sterco e di putridume. Da ogni tua parte non si sprigiona che un rumore schifoso. Quanta fatica e quanto denaro ci vuole per trovare il tuo fondo! Povero cuoco, quanto deve affaccendarsi a pestare, spremere, tritare, per ridurre e trasformare la sostanza che deve saziare il tuo ingordo appetito! A forza di colpi fa uscire il midollo dai duri ossi (poiché il cuoco non butta via nulla), e con quell'unto fa sì che il boccone sgusci dolcemente giù per la strozza. E per stuzzicarti sempre più l'appetito, bisogna che cacci nella salsa spezie, odori, e radici di ogni genere, che la rendono piccante. Ma chi va in cerca di tante leccornie, è lo stesso che sia morto, poiché vive nel vizio. (1897, pp. 282-283)
    • O ventre, o pancia, tu sei un fetido sacco pieno di sterco e di putridume. Da ogni tuo termine non si sprigiona che un rumore schifoso. Quanta fatica e quanto denaro ci vogliono per provvedere a te. Come pestano i cuochi, spremono, tritano, e riducono e trasformano la sostanza in accidente a saziare il tuo ingordo appetito! A forza di colpi fanno uscire il midollo dai duri ossi (poiché i cuochi non buttan via nulla), con quell'unto fanno sì che il molle boccone sgusci dolcemente giù per la strozza. E per stuzzicare sempre più l'appetito, cacciano nella salsa spezie, foglie, cortecce, odori e radici, che la rendono piccante. Ma chi va in cerca di tante leccornie, è morto, mentre vive in tali vizi. (1955, pp. 309-310)
  • O briacone, la tua faccia è stravolta, il tuo respiro è affannoso, sei un essere che fa schifo. Dal tuo naso, rosso come un peperone, ronfa un suono che par tu voglia dire: Sansone, Sansone. Mentre Dio sa se Sansone bevve mai una goccia di vino. Tu traballi, e cadi per terra come un maiale ferito. Non hai più la lingua per parlare, ed hai perduto il pudore, poiché l'ubriachezza è la sepoltura dell'intelletto e dell'onestà. Chi si fa schiavo del vino perde assolutamente il giudizio [...]. (1897, p. 283)
    • O briacone, la tua faccia è stravolta, il tuo fiato acre, sei schifoso ad abbracciare. Dal tuo naso, ronfa un suono che par tu voglia dire: Sansone, Sansone. Mentre Dio sa se Sansone bevve mai vino. Tu cadi per terra come un maiale trafitto, perduta la lingua, l'onesta decenza, poiché la ubriachezza è la sepoltura dell'intelletto e della discrezione. Chi si fa schiavo del vino non può prender consiglio, non c'è rimedio [...]. (1955, p. 310)
  • Sapete voi come finì Attila il famoso conquistatore? Morì in modo vergognoso e turpe, soffocato da un travaso di sangue mentre era ubriaco. Un capitano, veramente, avrebbe dovuto essere più sobrio. (1897, pp. 284-285)
    • Vedete come morì Attila il famoso conquistatore versando, in modo vergognoso e turpe nel sonno, sangue dal naso mentre era ubriaco. Un capitano avrebbe dovuto essere sobrio. (1955, p. 310)
  • Il giuoco è il vero padre della menzogna e dell'inganno; insegna il turpiloquio e a bestemmiare Cristo. Spinge all'omicidio, e fa perdere denari e tempo: senza contare, poi, che l'essere tenuto per un volgare giocatore è cosa riprovevole e disonorante. E quanto più uno è di elevata condizione, tanto più sciagurato diventa agli occhi di tutti. Un principe il quale ha il vizio del giuoco, perde, nell'opinione pubblica, il suo prestigio di regnante e di uomo politico. (1897, p. 285)
    • Il giuoco è il padre della menzogna e dell'inganno, del maledetto turpiloquio e della bestemmia di Cristo. Dell'omicidio, e anche dello sperpero di denari e tempo: e l'essere tenuto per un volgare giocatore è cosa riprovevole e disonorante. E quanto più uno è di elevata condizione, tanto più sciagurato è ritenuto. Un principe il quale ha il vizio del giuoco, perde, nell'opinione pubblica, il suo prestigio di regnante e di uomo politico. (1955, pp. 310-311)
  • [...] vi consiglio a non voler fare del male a un povero vecchio quale sono io, come voi non vorreste fosse fatto a voi un giorno, se vi sarà dato di campare tanto. (1897, p. 292)
    • [...] vi consiglio a non voler fare del male a un vecchio, come voi non vorreste fosse fatto a voi un giorno in vecchiezza, se vi sarà dato di campare tanto [...]. (1955, p. 314)
  • Mi vorresti proprio far baciare le tue bracche vecchie, spacciandole per reliquie di un santo mentre portano ancora, bella tonda, l'impronta del tuo c...? Per la croce trovata da S. Elisabetta, altro che reliquie e santuari: vorrei avere nelle mie mani i tuoi c.......i! Tagliateli, che ti aiuterò a portarli via, e li faremo conservare come reliquie nello sterco di maiale. (1897, p. 301)
    • Mi vorresti far baciare le tue brache vecchie, spacciandole per reliquie di un santo, mentre portano ancora l'impronta del tuo deretano. Per la croce trovata da sant'Elena, altro che reliquie e cose sacre; vorrei avere nelle mie mani i tuoi corbelli! Togliamoli, che ti aiuterò a portarli via, e li faremo conservare come reliquie nello sterco di maiale. (1955, p. 318)

Frammento VII

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Il racconto del marinaio

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  • [...] guai a colui che deve pagare per tutti! E questi è il povero marito, al quale toccan sempre le spese; egli ci deve provvedere gli abiti, e pel suo decoro ci deve far vestire con lusso: noi, poi con quegli abiti indosso balliamo allegramente. E se, per avventura, egli non sopporta una spesa di quel genere, pensando che è denaro sprecato e perduto, allora c'è un altro che deve pagarci le spese o prestarci del danaro, e la cosa è pericolosa. (1955, p. 319)
  • Per quanto ne capisco io, una moglie non deve dire altro che bene del proprio marito; però questo tanto vi dirò. Lui (mi guardi Dio se è vero!) non è proprio buono a nulla: non vale, per nessun conto, quanto una mosca. Tuttavia quel che mi dà più noia, è la sua spilorceria; e voi sapete bene che le donne, per natura, desiderano, come me, sei cose nei loro mariti. Li vorrebbero, cioè, coraggiosi, saggi, ricchi, generosi, obbedienti alla moglie, e in gamba a letto. Ma, per quel Dio che per noi versò sangue, io, per vestirmi in modo da fare onore a lui, domenica debbo pagare, immancabilmente, cento franchi, se no son perduta. (1955, p. 323)
  • [...] tu non puoi immaginarti neppure da lontano il da fare difficile che abbiam noi; poiché, Dio mi salvi se è vero (e per quel signore che si chiama san'Ivo), appena dieci, su dodici di noi commercianti, riusciamo a mantenerci sempre in prospere condizioni per tutta la vita. Se no, possiamo far pure buona cera a cattivo gioco, e tirare avanti alla meglio nella nostra condizione, menando vita privata finché siam morti; a meno che non facciamo vista di intraprendere un pellegrinaggio, e prendiamo il largo. E però io ho molta necessità di stare all'erta in questo difficile mondo. A noi che stiamo in commercio bisogna aver sempre paura della sorte e della fortuna. (1955, p. 324)
  • Voi sapete abbastanza bene come sta la cosa per i mercanti: il denaro è il loro aratro. (1955, p. 325)
  • Non date mai più albergo ai monaci. (1955, p. 329)

Il racconto della madre priora

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  • Allora gli Ebrei si misero d'accordo per fare sparire il piccolo innocente dal mondo, e assoldarono un assassino che abitava in un vicolo nascosto. Infatti il Giudeo maledetto, un giorno che il fanciullo passava di là, lo afferrò e tenutolo fermo, gli segò la gola, e lo buttò dentro un pozzo.
    Dico che lo gettarono in un cesso dove quegli Ebrei vuotarono i loro visceri. O razza maledetta! O Erodi novelli! Quale sarà il frutto del vostro malvagio talento? L'assassinio non si nasconde di certo, senza fallo e veramente la gloria di Dio si diffonderà: il sangue grida sul vostro capo vendetta. (1955, p. 333)

Il racconto intorno a sir Thopas

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  • Maria santa, benedicite, ma che è mai questo amore che mi opprime l'animo e mi fa soffrire così? Io ho sognato tutta la notte che una regine delle fate sarà la mia bella e dormirà, un giorno, nel mio letto. (1897, p. 312)
    • Maria santa, benedicite, ma che è mai questo amore che mi opprime l'animo e mi fa soffrire così? Io ho sognato tutta la notte che una regine delle fate sarà la mia bella e dormirà un giorno sotto il mio mantello. (1955, p. 338)
  • Io voglio amare, davvero, una regina delle fate, poiché in tutto il mondo non c'è una dama degna di essere la compagna della mia vita. (1897, p. 312)
    • Io voglio amare, davvero, una regina delle fate, poiché in tutto il mondo non c'è una donna degna di essere la mia compagna. (1955, p. 338)

Il racconto intorno a Malibeo

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  • [...] il tuo grosso verseggiare non vale una merda! Altro non fai che gettare il tempo. Messere, in una parola, basta con i tui versi! (1955, p. 342)
  • [...] voi sapete che ogni Evangelista che ci narra il martirio di Gesù Cristo non tutto narra a modo del suo compagno. Nondimeno i loro racconti son tutti veri, e tutti si accordano nel senso se pur vi siano discrepanze nel modo del racconto, perché alcuno dice più, altri dice meno là dove descrivono la sua compassionevole passione – dico di Marco e Matteo, di Luca e Giovanni – il senso generale è senza dubbio tutto uno. (1955, p. 342)
  • Ben so certamente che temperato piangere non è affatto proibito a chi soffra tra la gente in lutto; all'incontro il piangere gli è piuttosto concesso. [...] Ma quantunque temperato pianto sia concesso, il piangere smoderato è per certo proibito. (1955, pp. 343-344)
  • [...] molti son gli uomini che gridano "guerra, guerra!" che ben poco sanno a che la guerra possa ammontare. All'inizio la guerra ha così grande e così larga entrata, che ogni creatura può entrarvi quando gli piace, e trovar facilmente la guerra: ma non è certo facile di sapere qual che ne sia per essere la fine; perché in verità, una volta che la guerra sia cominciata, molti son i bimbi ancora non nati di madre, che per quella giovani morranno, o in lutto vivranno e morranno in miseria. (1955, p. 347)
  • [...] tanto giova il parlare davanti a gente a cui il discorso sia noioso, quanto il cantare davanti a chi pianga. (1955, p. 347)
  • [...] sebbene sia vero che molte son le donne malvage, e vili i loro consigli e di nessun valore, nondimeno molte femmine hanno gli uomini trovato buone e assai discrete e sagge nel loro consiglio. Vedi Giacobbe il quale per buon consiglio di Rebecca, sua madre, ottenne la benedizione di Isacco, suo padre, e la signoria su tutti i fratelli. Giuditta, con suo savio consiglio, liberò la città di Betulia, dove ella abitava, dalle mani di Oloferne, che l'aveva stretta d'assedio e la minacciava di rovina. Abigail liberò il marito Nabal da re Davide che lo voleva morto, e con il suo acume e savio consiglio moderò l'ira del re. Ester grandemente avanzò per il suo savio consiglio il popolo di Dio durante il regno di re Assuero. E sì fatte gran bontà in ben consigliare molti uomini posson narrare di femmine buone. Ed ancora, quando nostro Signore ebbe creato Adamo, nostro primo padre, parlò in questa guisa: "Non è bene che l'uomo sia solo; gli faremo una compagna a lui somigliante". D'onde potete vedere che se le femmine non fossero buone, e buoni i loro consigli e giovevoli, nostro Signore Iddio mai le avrebbe create o dette compagne dell'uomo, ma piuttosto sua confusione. (1955, p. 351)
  • [...] ben sapete che sempre più si troverà più gran numero di stolti che di uomini savi, e che di conseguenza i consigli che si prendono da folle e moltitudini di gente quando si abbia maggior rispetto al numero che non alla saggezza delle genti, in tali adunanze la prevalenza, ben vedete, appartiene agli stolti. (1955, p. 359)

Il racconto del monaco

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Il monaco, dal manoscritto d'Ellesmere
  • Prego Dio che mal abbia colui che primo ti recò a vita religiosa! Saresti stato buon gallo di pollaio; che se tu avessi licenza quanto hai possa nel soddisfare la tua voglia lussuriosa, avresti messo al mondo ben molte creature. Ahimè, perché indossi così ampia cappa? Dio mi dia tristizia, che s'io fossi papa, non tu solo, ma ogni maschio poderoso, anco fosse rasato ben alto sulla zucca, moglie dovrebbe avere, perché il mondo è perduto; i religiosi hanno raccolto tutti il meglio da macinare e noi laici siam da poco; le deboli piante dan polloni miserelli; onde viene che i nostri discendenti son sottili così e tanto deboli che mal possono generare; quindi poi le mogli nostre voglion far saggio di gente religiosa, perché meglio sapete pagarle con la moneta di Venere che noi – Dio sa – non possiamo; non son fioini tosati i vostri! (1955, pp. 387-388)
  • Oh Lucifero, tra gli angeli tutti risplendente! Ora Satana sei e non puoi strapparti dalla miseria in cui sei caduto. (1955, p. 389)
  • Non ebbe mai alcun uomo al mondo così alto grado come Adamo, fin ch'egli per suo mal governo non fu cacciato dalla sua prosperità alla fatica, all'inferno e alla mala sorte. (1955, p. 389)
  • [Su Sansone] In quanto a forza mai non fu a lui uomo pari e neppure in ardire; ma alle mogli sue rivelò il proprio segreto, d'onde poi per miseria egli uccise se stesso [...]. (1955, p. 389)
  • [Su Eracle] Né mai fu creatura dal principio del mondo che tanti mostri uccidesse quanti egli ne uccise; e il suo nome corse per quanto il mondo è vasto, sia per la sua forza e sia per la sua gran bontà; e ogni regno andò a visitare; tanto era forte che nessun uomo lo poteva impedire [...]. (1955, p. 391)
  • Vedete chi può mai porre in fortuna alcuna fiducia? Perché chi viva in questo mondo affollato, prima ch'ei se n'avveda, bene spesso è posto ben giù. Ed è veramente savio chi conosce se stesso. Bene è guardarsi; che quando a fortuna piace ingannare, allora ella attende ad abbatterlo in tal maniera ch'egli meno supporrebbe. (1955, p. 391)
  • [Su Baldassar] [...] per l'esempio del padre non si seppe guardare, perché di cuore fu superbo e d'arredi, e anche adorò gli idoli. L'assicurava nel suo orgoglio il grande stato, ma la fortuna l'abbatté e lì giacque e d'un subito il suo regno fu partito. (1955, p. 392)
  • [...] quando fortuna voglia alcuno abbandonare, via da lui porta il suo regno e le ricchezze sue, ed anco gli amici, i maggiori e i minori; perché chi dalla fortuna abbia gli amici, ben creda che li trasforma in nemici la mala sorte; che è proverbio questo ben vero e generale. (1955, p. 393)
  • Zenobia, regina di Palmira, quanto nobile fu descritta dai Persiani, altrettanto fu in armi ardente e valorosa, sì che uomo nessuno la superò in ardimento e in lignaggio o in lacuna altra degnità. (1955, p. 394)
  • [Su Zenobia] [...] sì nobile creatura, e saggia ancora e misuratamente generosa, sì diligente in guerra ed anco cortese, tale era che nessuno in guerra più di lei poteva durare per quanto alcuno ne cercasse nel mondo intero. (1955, p. 395)
  • [Su Zenobia] Claudio imperatore di Roma, né il romano Galieno prima di lui, mai avrebbero osato esser così arditi, e né alcun Armeno od Egiziano, né Siriano od Arabo avrebbe osato combattere con lei in campo, per tema ch'ella con sue mani li trucidasse o che non sua masnada li cacciasse in fuga. (1955, p. 395)
  • [Su Zenobia] Ahi, fortuna! Colei che un tempo era stata a re paurosa e ad imperatori, ora dalle genti è con stupore mirata, ahimè! Colei che con l'elmo era stata in duri assalti e con la forza aveva conquistato forti torri e città, ora è costretta a portare una cuffia di vetro; colei che scettro aveva portato pieno di fiori, la rocca dovrà reggere per guadagnarsi la vita. (1955, p. 396)
  • O nobile e degno Pietro, gloria di Spagna cui tenne fortuna in così alta maestà, ben dovrebbe dagli uomini esser pianta la tua miserevole morte! Dalla patria ti costrinse tuo fratello a fuggire, e più tardi per astuzia, durante un assedio, fosti tradito e menato alla sua tenda dove di sua mano ti trafisse succedendo al tuo trono e ai tuoi beni. In campo di neve aquila nera invischiata sul ramo color di bracia, preparò tutta questa maledizione e peccato. (1955, p. 396)
  • O degno Pietro, re di Cipro, cui pure Alessandro vinse con gran maestria! Molti pagani portasti a rovina a cui i tuoi vassalli avevano invidia e per nessuna altra causa che cavalleria. E quelli a mattina nel tuo letto ti uccisero. Così può governare e regger sua ruota la fortuna e di letizia menar gli uomini a lutto. (1955, pp. 396-397)
  • Gran Bernabò Visconti di Milano, dio di delitti e flagello di Lombardia, perché dovrò tacere la tua disavventura poiché a così alto stato eri pervenuto? Il figlio di tuo fratello a te due volte congiunto, perché nipote t'era e genero, dentro la sua prigione ti fece morire; ma il come e il perché fossi ucciso niuno ha saputo. (1955, p. 397)
  • Il languire del conte Ugolino da Pisa per pietà non è lingua che possa discorrere. (1955, p. 397)
  • [Su Nerone] Né mai imperatore fu più di lui raffinato nel vestire, pomposo e superbo. Qualsiasi veste egli avesse un giorno portata, egli poi mai più volle vedere. Molte reti di fili d'oro ebbe intessute per pescare nel Tevere quando gli gradisse lo svago. Legge, per suo decreto, era ogni suo piacere, perché fortuna, come amica, gli volesse ubbidire. (1955, p. 398)
  • Quando alla potenza s'aggiunge la crudeltà, ahimè ben profondo penetra il veleno! (1955, p. 399)
  • Ora avvenne che la fortuna più a lungo non sofferisse d'indulgere alla gran superbia di Nerone; perché, fosse egli pur forte, più forte era essa. E pensava così: «Per dio, troppo semplice sono a collocare in alto stato un uomo ricolmo di vizi, e a chiamarlo imperatore. Voglio, per dirlo, strapparlo fuor del suo seggio, e quando meno se l'attende, d'improvviso deve precipitare». (1955, p. 399)
  • Mai non fu duce agli ordini d'un re che più regni soggiogasse, né più forte in campo in ogni bisogna al suo tempo, né di maggior riputazione e più fastoso in sua alta presunzione che non Oloferne, cui la fortuna così amorosamente basciò, traendolo in alto e in basso finché il capo gli fu mozzo pria che se n'avvedesse. (1955, p. 400)
  • [Su Antioco IV] Tanto la fortuna l'aveva esaltato in sua superbia, che veramente ei credette di poter da ogni parte attingere le stelle, e pesare ciascun monte sulle bilance, e costringere tutte le invasioni del mare. E in particolare odio ebbe la gente del Signore; questa volle uccidere tra pene e tormenti temendo che Iddio abbattesse il suo orgoglio. (1955, p. 401)
  • Così nota è la storia d'Alessandro che ogni uomo giunto a discrezione qualcosa ha sentito o tutto della sua ventura. Come, in conclusione, per la sua forza e per la sua rinomanza ebbe tutto il vasto mondo debellato, questo fu lieto a lui di mandare per pace. Ovunque egli andasse fino agli ultimi termini del mondo piegò la superbia d'uomini e d'animali. (1955, p. 402)
  • [Su Alessandro Magno] [...] non si potrebbe far paragone tra lui e altri conquistatori; perché per timore di lui tutto il mondo tremava, di lui che era fior di cavalleria e libertà: erede l'aveva fatto la fortuna del proprio onore e, fuor che il vino e le femmine, nulla poteva temperare gli alti propositi delle sue armi e dei suoi travagli; tanto era pieno di coraggio leonino. (1955, p. 402)
  • [Su Alessandro Magno] Chi mi darà lagrime a pianger la morte di quella gentilezza e di quell'ardire che tutto il mondo tennero in dominio? Tuttavia a lui parve che non potesse bastare, tanto il suo spirito era ricolmo d'alte imprese! Ahimè, chi mi darà aiuto ad accusare la falsa fortuna e il veleno a recare in dispregio che insieme di tutto questo cordoglio io accuso? (1955, p. 402)
  • [...] la fortuna sempre con colpi inattesi assale i regni che sono stati orgogliosi; perché quando uom se ne fida, allora gli vien meno, e il volto suo bello si copre d'una nube. (1955, p. 404)

Il racconto del cappellano delle monache

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Il cappellano delle monache, dal manoscritto d'Ellesmere
  • [...] è gran turbamento, ahimè, l'apprendere il subito precipitare di uomini che erano stati in dovizia e grand'agio; ed è di gioia all'incontro e di gran sollievo quando uomo, già in povera condizione, sale su e cresce in fortuna, e vi si mantiene in prospero stato. (1955, p. 405)
  • [...] se uom non abbia alcuno che l'ascolti, punto gli giova il dire il proprio avviso. (1955, p. 406)
  • Che monta se il tuo cavallo non sia meno misero che scarno? Pur che ti serva, non te ne importi una fava; cura soltanto che il tuo cuore sia sempre mai lieto. (1955, p. 406)
  • Dio sa, che nulla è nei sogni se non vanità. I sogni sono generati da troppo cibo, e a volte da vapori e complessioni, quando gli umori sovrabbondino in alcuna creatura. (1955, pp. 408-409)
  • [...] hanno i sogni significazione tanto di gioia quanto di travaglio che la gente sopporta in questa vita presente. Di che non fa d'uopo argomento; poiché la prova si dimostra nel fatto. (1955, p. 410)
  • Oh beato Iddio, verace e pieno di giustizia, ecco come sempre riveli gli assassini! L'omicidio, così ogni giorno vediamo, non può non scoprirsi! L'omicidio è così odioso e abominevole a Dio, così giusto e ragionevole, il quale mai non soffre che rimanga celato; anche se attenda un anno, o due o tre, l'omicidio si discopre, è la mia conclusione. (1955, p. 411)
  • Spesso son dannosi i consigli delle femmine: fu di femmina consiglio quel che primamente ci portò al dolore, e costrinse Adamo ad andarsene dal paradiso, quantunque vi fosse lietissimamente e a suo grand'agio. Ma, per che non sappia a cui possa spiacere se io biasimi il consiglio delle femmine, passatevi sopra, perch'io per giuoco l'ho detto. (1955, p. 415)
  • [...] naturalmente un animale desidera di fuggire dal suo nemico se mai lo vegga, anche se mai prima l'abbia con i suoi occhi veduto. (1955, pp. 415-416)
  • Ahimè! voi signori, molti sono i falsi adulatori in casa vostra, e molti i destri mentitori i quali meglio in fede mia vi soddisfano che non chi francamente vi dica il vero. (1955, p. 416)
  • [...] chi gli occhi chiuda, quando dovrebbe guardare, e di sua volontà, voglia Dio che mai abbia bene! (1955, p. 418)
  • [...] gli mandi Dio il malanno se così indiscretamente si governi da ciarlare, quando dovrebbe osservare il silenzio. (1955, pp. 418-419)

Frammento VIII

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Il racconto della seconda monaca

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  • Ad evitare la ministra e nutrice dei vizi, che è chiamata oziosità, quella guardiana della porta delle delizie, e ad opprimerla con il suo contrario, vale a dire con la legittima operosità, dovremmo intendere con ogni possa, onde il nemico per l'ozio non ci acchiappi, perché colui che con i mille lacci della sua astuzia sempre attende a coglierci; se scopra mai uomo in ozio, di leggeri può acchiapparlo nella sua trappola; finché uomo non sia preso per la cucuzza neppur s'accorge che il nemico l'ha in sua mano: ben dovremmo lavorare e resistere all'ozio. E anche se gli uomini mai temano di morire, pure scorgono per ragione, fuor di dubbio, che l'ozio è marcia ignavia, d'onde mai deriva alcun bene o vantaggio, veggono che l'ignavia li tiene in un laccio pur per dormire, e per mangiare e bere, e divorare tutto quel che altri faticando produce. (1955, pp. 420-421)
  • [Sulla Santissima Trinità] Giusto come l'uomo ha tre intelligenze: memoria, ingegno e anco intelletto, così in un solo essere divino ben possono consistere tre persone. (1955, p. 427)
  • [...] il potere d'ogni uomo mortale non è per certo che quale viscica piena di vento; così che con la punta d'un ago, quand'essa è gonfia, tutto interamente può essere abbassato il suo vanto. (1955, p. 429)

Il racconto del famiglio del canonico

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Il famiglio del canonico, dal manoscritto d'Ellesemere
  • [...] quand'un uomo possiede una mente troppo fine, bene spesso gli avviene di farne mal uso. (1955, p. 435)
  • [Sull'alchimia] Non sono avvezzo a mirarmi allo specchio, ma a dura fatica e ad apprender l'arte di moltiplicare; sempre armeggiamo e scrutiamo nel nostro fuoco, e nondimeno sempre ci fallisce il desiderio e ci vengon meno i nostri risultati. A molta gente siam larghi d'illusioni, e oro prendiamo a prestito, fosse una libbra o due, o magari dieci o dodici o somme molto maggiori e diamo loro a intendere, per lo meno che d'una libbra due ne possiamo fare. Ma è falso, pure abbiamo sempre speranza di farlo e andiamo ingegnandoci di riuscirvi; ma quella scienza ci sfugge innanzi così da lungi, che anco avessimo giurato di raggiungerla, non sappiamo; tanto presto ci scivolò via che par volerci alla fine ridurre mendichi. (1955, pp. 435-436)
  • [Sull'alchimia] Quando si giungeva là dove esercitare la nostra arte elusiva, apparivamo a meraviglia sapienti; così dottorali i nostri termini e così rari. E io soffiavo nel fuoco finché il cuore n'era indebolito. A che dirvi pure ciascuna dose delle materie che adoperavamo, poniamo cinque once o sei d'argento o qualche altra misura? o perché intramettermi di farvi il nome di orpimento, ossa bruciate, di ferro in squame che vengon triturati in polvere ben fine, e insieme posti in un vaso di terra con aggiuntovi sale e anche pepe prima ancora delle polveri delle quali ho detto già, e ben coperti con una lastra di vetro, e di molte altre cose che vi appartenevano? del saldare il vaso e il vetro così che nulla del vapore uscisse; del fuoco lento o anche vivace che s'accendeva, o della diligenza e travaglio nel sublimare i nostri materiali, nell'amalgamare o calcinare l'argento vivo, detto mercurio crudo? In onta ad ogni nostra astuzia mai potemmo riuscire. Del nostro orpimento e sublimato di mercurio, e anche del litargirio trito sul porfido, di ciascuno una certa quantità, a nulla serviva – vana era la nostra fatica. Neppure gli spiriti nostri in ascensione o le materie che giacevano giù fisse meglio potevano giovarci per nulla nell'operazione; perché tutto il lavoro e travaglio nostro era perduto, e con esso tutta la spesa, per venti diavoli, che noi per quella facevamo, era pure sprecata. (1955, pp. 437-438)
  • [Sull'alchimia] Chiunque sia che tal dannata arte voglia esercitare, non avrà beni che gli bastino, perché tutto che vi spenda intorno, certo perderà, di ciò non ho dubbio. E chiunque dia ascolto a tale pazzia, si faccia avanti e apprenda a moltiplicare; e qual che sia uomo che abbia qualcosa nella cassetta, si faccia avanti e divenga un filosofo. È quella forse arte che di leggeri s'apprenda? Che no, che no, lo sa Iddio, sia egli monaco o frate, canonico o prete o qualsivoglia altra creatura, anche ponzi sui libri tanto il giorno quanto la notte allo studio di questa balorda scienza sfuggente, tutto è vano e perdio, e molto più, per un ignorante l'apprendere queste sottigliezze... via, neppur ne parliamo, perch'esser non potrebbe. Sappia di lettere o non ne sappia, sarà in efetto tutta una cosa, perché se Dio mi salvi, sia l'un sia l'altro faranno in alchimia ugual profitto, quando avrano fatto lor potere, quanto a dire che entrambi falliranno. (1955, p. 439)
  • Diligentemente ciascuno di noi cercava la pietra filosofale, detta elisir, perché, se l'avessimo raggiunta, allora saremmo stati sicuri abbastanza. Ma dinanzi a Dio in cielo dichiaro: a dispetto d'ogni nostra arte, e quando bene tutto avessimo fatto e ogni nostra astuzia, essa non volle venirci alla mano. Eppur molto del nostro ci ha fatto spendere e per dolore quasi ci fece ammattire, ma quella bella speranza sempre ci si insinuava dentro, sempre illudendoci, benché aspro il rovello, d'essere alla fine di essa poi riassestati; tali illusioni e speranze sono acute e gravose; e ben v'ammonisco, quella pietra è ancora a cercare. Quel «tempo futuro» per quella fiducia molti ha indotto a partirsi da tutto quello che mai possedessero; pur di quell'arte mai si possono stancare, una cosa per loro agrodolce, a quanto pare, perché, se possedessero un solo lenzuolo in cui avvolgersi la notte e una cappa in cui andar girando il giorno, avrebbero fatto mercato per ispendere intorno a quest'arte; né cessare sapevano finché nulla fosse loro rimasto. E dovunque mai se ne fossero, iti, riconosciuti potevano essere dalla gente per quel loro odore di zolfo, davvero per ogni maniera putivano come capre; così fiero e caprigno il loro sentore, che fosse uomo anche un miglio lontano, l'avrebbe quel sentore appestato, credetemi. Onde chi ponesse mente all'odore e al povero arnese, questa gente potrebbe riconoscere. E se alcuno chiedesse loro segretamente perché siano così miseramente vestiti, subito gli sussurrebbero all'orecchio dicendo che, se mai fossero discoperti, la gente li ucciderebbe per via della loro scienza. Vedete come costoro rivelano l'ingenuità! (1955, pp. 439-440)
  • [...] ci guardi Iddio che tutta una brigata abbia biasimo per la follia d'un solo. [...] voi ben sapete che tra i dodici apostoli di Cristo non fu traditore che Giuda soltanto, onde perché mai dovrebbero gli altri esser biasimati che furon senza colpa? E a voi lo stesso dico, se non questo solo, qualora mi diate orecchio: se alcun Giuda fosse nel vostro convento, di buon'ora cacciatelo, io vi consiglio, se danno o vergogna vi causino timore [...]. (1955, p. 442)
  • Considerate ora, messeri, come in ciascuna condizione tale dissidio vi sia tra gli uomini e l'oro che quasi di questo non ve n'è. E tanti ne accecò quest'arte d'alchimia, ch'io la giudico essere in buona fede la maggior causa di tale pochezza. Così nebulosamente discorrono i filosofi di quest'arte, che gli uomini, per quanto senno ai dì nostri abbiano, non la possono giungere. Ben possono ciangottare come le piche, e significare con i loro termini la loro voglia e la pena loro, ma il loro scopo mai non possono attingere. Se alcunché egli possegga, un uomo facilmente può apprendere a moltiplicare e così ridurre in nulla il suo avere! (1955, p. 450)
  • Vedete, tanto profitto è in questo allegro giuoco, che la letizia d'un uomo può volgere in rimpianto ed anco borse vuotare grosse e pese e far sì che acquistino maledizioni da quelli cui dianzi avevano prestato del loro. Oh, vergogna, vergogna, non possono quelli che, ahimè, sono stati scottati, fuggire il calore del fuoco? A voi che l'usate consiglio di lasciarla a ciò che tutto il vostro non perdiate; e tardi è meglio che mai; e il mai non succedere troppo lontano termine sarebbe. Per quanto intorno vi aggiriate mai non la troverete, arditi foste come il cieco Baiardo che rotola innanzi e pericolo alcuno non cura. Tanto è ardito chi cozza contro una pietra, quanto chi l'aggira lungo la via. E questa è la sorte, io dico, di quanti si danno a moltiplicare. Che se i vostri occhi non riescano giustamente a vedere, curate che la mente non manchi della sua vista. Perché, quanto pur intorno vi guardiate e fissiate, non di una mica fareste guadagno in quel traffico, ma tutto dilapidereste che potete prendere o toccare. Moderate il fuoco che troppo presto non bruci; non più v'immischiate in quell'arte, io dico, perché, ove lo faceste, nudi rimarreste d'ogni vostra prosperità. (1955, pp. 450-451)

Frammento IX

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Il racconto dello spenditore

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Lo spenditore, dal manoscritto d'Ellesmere
  • Chiudi la bocca, orsù, per la razza di tuo padre! Il diavolo d'inferno ci metta il suo piede! Quel tuo fiato maledetto tutti ci appesta. A te vergogna, puzzolente maiale, vergogna! [insulto] (1955, p. 454)
    • Ehi, chiudi quella bocca, per la stirpe di tuo padre! Ci sta dentro un piede del demonio dell'inferno! C'infetti tutti quanti con quel tuo dannato fiato! Puh, fetente porco! Puh, ti venga un accidente! [insulto] (1981)
  • Ben veggo esser necessario che ovunque n'andiamo di che ben bere portiamo con noi; perché ne saranno rancore e disagio volti in armonia e buon amore, e molti torti saranno placati. (1955, p. 455)
  • [Su Febo] Suonare sapeva qualunque istrumento, e cantare così che era una melodia l'ascoltare il chiaro accento della sua voce. Certamente Amfione, re di Tebe, che cantando murò quella città, mai non seppe cantare sì bene; e senza dubbio il più grazioso uomo era che mai sia o fosse da quando è il mondo. Che necessità è di descrivere le fattezze sue, poi che nel mondo nessun uomo mai visse così bello? Ed era inoltre pien di cortesia, d'onore e di pregio perfetto.
    Questo Febo, tra i giovani fiore così di liberalità, come di cavalleria, a suo diporto e anche per la vittoria su Pitone come la storia narra, usava recare un arco nella mano. (1955, p. 456)
  • Certo è che una buona moglie, in opere pura ed in pensiero, mai in alcun modo dovrebbe essere guardata; ed è davvero ogni fatica vana a guardare mala femmina, perché non si può; e credo sia in tutto stolto di sprecare fatica a guardare le mogli; lo scrissero antichi dotti nelle vite loro. (1955, p. 456)
  • [...] sa Iddio che nessuno può tener fermo così da impedire alcuna cosa che natura ha di sua volontà disposta in creatura umana. Prendi quale tu voglia uccello e mettilo in gabbia, e sforzati con ogni modo e ingegno delicatamente di nutrirlo con cibo e bevanda, con i bocconi più fini di cui tu sappia pensare, e governarlo anche tanto pulitamente quanto tu possa; e quantunque la sua gabbia dorata sia senza modo gaia, ventimila volte più cara sarebbe all'uccello una foresta, che selvaggia è e fredda, e ivi andarsene a cibar vermi in quella miseria. Onde sempre questo uccello farà tutto in suo potere per fuggir dalla gabbia, se gli riesca; sempre l'uccello appetisce la propria libertà.
    Prendiamo un gatto e ben nutriamolo di latte e tenere carni, e un giaciglio gli si faccia di seta, e fate che scorga presso al muro un topolino; e subito a scorno avrà il latte e la carne e ogni cosa ed ogni buon boccone che nella casa sia, così grande è il suo appetito di mangiare un topo. Vedete come qui il desiderio abbia signoria e l'appetito via cacci discrezione.
    Pure la lupa è per natura ribalda, e sceglierà il lupo più tonto che le avvenga di trovare o quello di minor nome si prenderà nel tempo che voglia la punga d'avere un maschio.
    Son tutti esempi che dico per gli uomini che sono infedeli e in nessuna maniera per le femmine. Perché gli uomini hanno un lascivo appetito di prendersi lor piacere con femmine più basse che le donne loro, quanto si voglia esse siano belle e fedeli e accoglienti. La carne, col malanno suo, tanto è studiosa di novità che mai non possiamo trovar piacere che si accordi con la virtù. (1955, pp. 456-457)
  • Ruvido qual sono, io dico che non c'è veramente divario tra una moglie d'alto stato, se sia del suo corpo disonesta, e una misera femminuccia, se non se questo, – ove così sia, che ambedue operino male – che quella nobile e di più alto stato vien detta la "sua donna" in linguaggio d'amore, e l'altra perché povera femmina vien chiamata "la sua ganza" o la "sua druda"; e Iddio sa, fratello mio caro, che gli uomini stendono l'una bassa così quanto si giace l'altra. (1955, pp. 547-548)
  • Ad Alessandro questo motto fu detto, che, essendo il tiranno di maggiore potenza, in quanto per la forza della sua compagnia del tutto uccida, e arda case e abitazioni e tutto spiani, ecco che per ciò vien chiamato capitano; e perché il bandito soltanto ha piccola masnada, e non può compiere così gran danno come quello, né tanta sventura recare al paese, un bandito vien chiamato o un ladro. (1955, p. 458)
  • Si guardi ciascuno dall impetuosità, né senza forte testimonianza alcuna cosa creda! Non colpir troppo presto, prima che tu sappia il perché, e bene consigliati e sobriamente, prima che tu faccia uccisione nella tua ira, per sospetto. Ahimè, che ira furiosa migliaia di persone ha compiutamente perdute, e immerse nel fango. (Febo; 1955, p. 459)
  • [Rivolto al corvo] Cantavi un tempo come un usignolo; ora, falso ladrone, perderai il tuo canto, e insieme ciascuna delle tue penne bianche, né mai in tua vita più non parlerai. Così conviene vendicarsi d'un traditore; tu e i tuoi discendenti sempre sarete neri, né mai più dolce suono farete, ma sempre gracchierete per pioggia e mal tempo, in segno che per tua colpa la mia donna è uccisa. (Febo; 1955, p. 459)
  • [...] mai in vostra vita non die ad alcuno che un altr'uomo ha sevito la sua donna; mortalmente per certo ve n'odierebbe. (1955, p. 459)
  • [...] trattieni la lingua e tienti l'amico; una mala lingua è peggio d'un nemico; figlio mio, da un nemico posson gli uomini aver benedizione; figlio mio, nella sua infinita bontà Dio la lingua ha murata con i denti e pur con le labbra, onde l'uomo dovrebbe considerare quanto dice. Figlio mio, bene spesso, come insegnano i dotti, molti per troppo parlare furon rovinati; ma nessuno, a dir largamente, fu sfatto per poco e considerato parlare. Figlio mio, in ogni tempo dovrai infrenare la lingua, se non quando tu compia la tua penitenza parlando di Dio onorandolo in preghiera. Se tu voglia apprendere, figlio, la prima virtù è di ben osservare e infrenare la lingua. Così apprendono i bimbi mentre son piccoli. Gran danno proviene, figlio mio, come mi fu detto e insegnato, da troppo e sconsigliatamente dire, quando meno sarebbe stato bastevole. In lungo discorso mai non manca peccato. Sai a che serve una lingua impetuosa? Giusto come una spada taglia e spezza un braccio in due tronconi, figlio mio caro, giusto così taglia in due parti un'amicizia la lingua. (1955, p. 460)
  • Non parlare, figlio mio, ma accenna del capo; infingiti sordo, se un ciarlone tu senta che parli di materia perigliosa. (1955, p. 460)
  • Figlio mio, se tu malvagia parola non abbia pronunciata, niuna cagione per te di temere d'averti a pentire; ma ben oso dire che chi ha mal parlato in nessun modo può richiamar la propria parola. Quel che è detto è detto; e via se ne va, anche se alcuno si penta, ne goda o gli spiaccia; e vassallo diviene a chi ha fatto un racconto, di che poi mal gliene incoglie. Abbia cura, figlio mio, di non essere primo annunziatore di nuove, siano esse false o vere. (1955, p. 460)

Frammento X

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Il racconto del parroco

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  • Tre sono le specie di penitenza: l'una è solenne, l'altra comune e la terza segreta. La penitenza solenne è di due modi, come l'esser cacciato di chiesa in Quaresima per l'avere ucciso bambini e tal'altra cosa simile. Altra cosa è quando alcuno abbia pubblicamente peccato, del qual peccato la fama corra apertamente per la contrada; e allora la santa Chiesa con suo giudizio costringe colui a compiere pubblica penitenza. La penitenza comune è quella che i sacerdoti infliggono in certi casi, come sarebbe d'andar nudi e scalzi in pellegrinaggio. La penitenza segreta è quella che gli uomini compiono sempre per peccati segreti, di cui sono in segreto assolti e ricevono in segreto penitenza. (1955, p. 464)
  • Di quattro maniere è l'umiltà di cuore: e l'una è quando alcuno nulla si ritiene valere in cospetto a Dio del cielo; e un'altra è quando egli nesun altro disprezzi; la terza è quando non cura che altri lo tenga di nessun valore; e la quarta quando egli non si rammarichi della propria umiliazione. Anche l'umiltà di bocca si ritrova in quattro cose: in temperato parlare, in umiltà di parlare, e quando riconosca con la sua stessa bocca d'esser quale egli si ritiene nel suo cuore; l'ultima è quando lodi le qualità di altro uomo e per nulla le sminuisca. Di quattro maniere è pure l'umiltà nelle opere: la prima è quando alcuno ponga altri davanti a sé; la seconda sta nello scegliere il più basso luogo tra tutti; la terza è in lietamente accogliere il buon consiglio; la quarta di starsene lieto alla decisione del sovrano o di chi sia in più alto grado; e questa è certamente grande opera d'umiltà. (1955, p. 491)
    • L'umiltà di cuore è di quattro specie: una è quando l'uomo si considera un nulla di fronte a Dio del cielo; l'altra, quando non disprezza nessun altro uomo; la terza è quando non si preoccupa anche se altri non lo tiene in nessun conto; la quarta è quando non gli dispiace umiliarsi. Anche l'umiltà di parola sta in quattro cose: nel parlar moderato, nella semplicità di parola, quando ciò che si dice con le labbra corrisponda a ciò che si pensa dentro il cuore, e infine quando si lodino le qualità d'un altro senza sminuirle. Anche l'umiltà di opere è in quattro modi: il primo è quando si pongano gli altri prima di sé; il secondo sta nello scegliere sempre il posto più basso, il terzo nell'accettare lietamente un buon consiglio; il quarto è di rallegrarsi sempre per la decisione dei propri superiori, di chi cioè sta più alto di grado. (1981)
  • Vedete come il fuoco di piccole radure ch'era quasi spento sotto le ceneri si riaccenda quando è tocco dallo zolfo; appunto così sempre si riaccende l'ira quando è tocca da superbia che si sta coperta nel cuore dell'uomo. Perché di certo non può nascer fuoco dal nulla, se già non fosse per natura nelle cose, come il fuoco è tratto dall'acciaio fuor della selce. E appunto così come spesso la superbia è materia dell'ira, è questa nutrita e allevata dal rancore. (1955, p. 496)
    • Guardate come il fuoco di pochi tizzoni, quasi morti sotto la cenere, si riaccenda appena siano toccati dallo zolfo: appunto così si riaccende l'ira, appena è toccata dalla superbia che si nasconde nel cuore dell'uomo. Perché il fuoco non può certamente nascere da nulla, a meno che non sia già dall'inizio per natura in qualcosa, come dall'inizio il fuoco nella selce che s'estrae con l'acciaio. E come la superbia è spesso motivo d'ira, così il rancore ne fa da nutrice e da custode. (1981)

Commiato dell'autore

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  • Prego ora tutti quanti ascoltino questo trattarello o lo leggano, che se alcuna cosa vi sia in esso che loro piaccia, di essa ne ringrazino nostro Signore Gesù Cristo da cui ogni senno e ogni bontà provengono. E se vi sia alcuna cosa che loro dispiaccia, io pure li prego che l'attribuiscano a difetto della mia ignoranza, e non alla mia volontà che bene avrebbe desiderato dir meglio, se avesse saputo. (1955, p. 538)
  • [...] ringrazio nostro Signore Gesù Cristo e la Sua Madre beata, e tutti i santi del cielo, supplicandoli che d'ora innanzi fino al termine della mia vita mi mandino la grazia di lamentare le mie colpe e d'intendere alla salute dell'anima mia, concedendomi la grazia di verace penitenza, di confessione e soddisfazione da compiersi in questa vita presente per la benigna grazia di Colui che è re dei re e sacerdote sopra tutti i sacerdoti, che ci ha redenti con il prezioso sangue del suo cuore, così che io possa esser uno di loro che saranno salvi il giorno del Giudizio. (1955, p. 539)

Originale

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Here is ended the book of the Tales of Caunterbury, compiled by Geffrey Chaucer, of whos soule Jesu Crist have mercy. Amen.
[Geoffrey Chaucer, Chaucer Complete Works, a cura di Walter W. Skeat, Londra, Oxford University Press, 1987, ISBN 0-19-254119-6.]

Cesare Foligno

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Qui finisce il Libro dei Racconti di Canterbury composto da Geoffrey Chaucer della cui anima Gesù Cristo abbia misericordia. Amen.
[Geoffrey Chaucer, I racconti di Canterbury, a cura di Cino Chiarini e Cesare Foligno, Sansoni, Firenze, 1955.]

Citazioni su I racconti di Canterbury

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  • [Chaucer] deve essere stato un uomo dotato di una natura onnicomprensiva perché, come è stato giustamente osservato, ha racchiuso nel novero dei Racconti di Canterbury tutte le maniere e gli umori del suo paese ai suoi dì. Non c'è carattere di cui non abbia trattato. I pellegrini si distinguono perfettamente l'uno dall'altro, non solo per le diverse mentalità, bensì per le fisionomie e la persona. I tratti con cui li descrive il poeta avrebbero potuto essere quelli di Battista Porta. La materia dei loro racconti e il modo in cui narrano sono in così perfetta corrispondenza con i differenti generi di educazione che hanno ricevuto, gli umori e i linguaggi, che sarebbe impossibile mettere il racconto dell'uno in bocca dell'altro. Perfino i personaggi più sobri ed austeri sono suddivisi a seconda del grado di gravità delle loro parole e i loro discorsi si confanno all'età, alla professione, alla cultura [...] Ci sono personaggi viziosi e virtuosi; vi sono i colti e gli "illetterati", come li chiama Chaucer. Perfino l'oscenità dei personaggi volgari ha una sua differenziazione: il Fattore, il Mugnaio e il Cuoco sono persone diverse e distinguibili non meno di quanto lo sia l'affettata Madre Priora dalla sboccata Comare di Bath dai denti radi. Ma basta con tutto questo: il gioco è così seducente, che non so più raccapezzarmi per operare una scelta. Non mi resta che riconoscere, come dice il proverbio, che qui c'è ogni bene di Dio. (John Dryden)
  • È mio propostio stampare, se Dio lo vuole, il Libro dei Racconti di Canterbury, nel quale trovo molte nobili storie d'ogni grado e condizione... (William Caxton)
  • I Canterbury Tales di Chaucer sono durati attraverso i secoli, mentre i prolissi poemi e racconti medievali sono finiti nei musei. (Ezra Pound)
  • I caratteri dei pellegrini di Chaucer sono i caratteri comuni ad ogni epoca e ad ogni paese; un'epoca tramonta e un'altra ne sorge, differente agli occhi dei mortali, eppure identica ad occhi immortali; per questo scorgiamo un perpetuarsi delle stesse caratteristiche negli animali, nelle piante, nei minerali e negli uomini. L'accidente è sempre mutevole, la sostanza non conosce mutamento o decadenza. Certi nomi o titoli dei personaggi chauceriani, quali sono descritti nei Racconti di Canterbury, sono diventati inattuali, ma i caratteri in sé rimangono immutabili e di conseguenza rappresentano i tratti fisiognomici e i profili della vita umana universale, oltre la quale la Natura non conosce sosta. I nomi cambiano, non le cose. Ho conosciuto un gran numero di persone che sarebbero state monaci nell'età monastica e che oggi, in età di deismo, son tutte deisti. Se Newton classificò le stelle, Linneo le piante, Chaucer classificò le classi dell'uomo. (William Blake)
  • Non credo che il piano generale dei Canterbury Tales risultasse dalla giustapposizione d'una cornice – una compagnia di narratori – a un insieme di racconti già esistenti, ma che gradualmente si venisse formando nella mente del Chaucer mentr'egli considerava i suoi racconti, più o meno eterogenei, come unità ciascuna dotata d'una sua atmosfera, colorata d'una differente esperienza; mentre egli contrastava questi racconti drammaticamente, come voci diverse. Io credo che una simile proiezione dello spirito di ciascuna novella in un personaggio concreto sia il nucleo del capolavoro chauceriano, l'improvvisa intuizione del suo genio drammatico che recava ordine e armonia dov'era un caos d'elementi discordi. Se egli avesse realmente preso l'idea dal Decameron, avrebbe rappresentato i narratori come persone appartenenti alla stessa classe sociale, con uniformità di stile e di gusto, come i personaggi dei narratori del Boccaccio, che sono poco più di ombre. Successivamente possiamo immaginarci il Chaucer nell'atto di far convergere i vari caratteri insieme. In quale occasione individui appartenenti a differenti strati sociali [...] potevano aver modo di trovarsi insieme? È a questo punto che può essere intervenuto l'influsso di Dante. (Mario Praz)

Citazioni in ordine temporale.

  • I Racconti di Canterbury [...] non hanno [...] una perfetta coerenza architettonica: li leggiamo, oggi, in dieci frammenti di varia lunghezza, preceduti da un Prologo generale, e tra di loro slegati. Un pellegrino, il Cuoco, non termina il suo racconto; la narrazione di alcuni è interrotta da altri o dall'Oste; mentre alla compagnia itinerante s'aggiungono ad un certo punto un Canonico e il suo Famiglio, che racconterà poi non solo una storia ma anche le proprie esperienze di apprendista in alchimia. [...] La filologia e la critica hanno tentato in ogni modo di dar ragione di queste smagliature, ma conviene invece accettarle per quel che sono, leggendo i Racconti a partire proprio dalle finzioni che in essi agiscono e che li rendono così complessi.
  • I Racconti di Canterbury sono [...] un libro. Epperò sono anche racconti che probabilmente venivano letti volta per volta in pubblico ad alta voce: e questo ne spiega alcune caratteristiche, anche tecniche, come la ripetizione, l'uso di formule, la domanda diretta all'uditorio, i richiami all'attenzione e alle transizioni narrative.
  • Quel che colpisce di più il lettore moderno è certamente la finzione "drammatica" dei Racconti di Canterbury. Essa è presente, ad esempio, nel Decameron del Boccaccio e nelle Mille e una notte. Ma Chaucer ne sviluppa lo spessore e la gratuità con un impulso vigorosissimo.
  • Chaucer crea un universo, provvisorio e instabile forse, ma sterminato e travolgente, mescolando, sovrapponendo e superando "alto" e "basso", pietà religiosa e umanità laica, tragedia pathos e commedia, cortesia e filosofia. Questa, che Dryden, alla fine del Seicento, chiamava la God's plenty, l'abbondanza divina, è la qualità che ancora oggi più colpisce il lettore dei Racconti di Canterbury: essa compare qui, come fosse un miracolo, per la prima volta nella letteratura inglese – e nei successivi sei secoli una volta soltanto, con Shakespeare, riapparirà all'interno dell'opera di un solo scrittore.
  • Chaucer riconosce i suoi debiti nei confronti dei modelli classici, di quelli francesi e di quelli italiani, ma è sempre ambiguo verso di loro, e mentre proclama la sua ammirazione, si discosta anche molto da quei modelli.
  • Chaucer gioca quasi a rimpiattino con i suoi modelli: è grato per quello che gli suggeriscono, prova forse un po' di "angoscia dell'influenza", e poi va per la sua strada. Qualche volta, gioca persino in contropiede, come i calciatori della Nazionale italiana. Dichiara, "adesso vi racconto la storia di Enea", e poi mette assieme Virgilio, che considera Enea un eroe, e Ovidio, il quale presenta Enea solo come traditore di Didone.
  • Chaucer non è mai riuscito a completare il disegno originale, forse perché ne era costituzionalmente incapace. I "Racconti di Canterbury" non hanno l'architettura perfetta della Divina Commedia, del Decameron, del Canzoniere. Ma anche in questo Chaucer è "moderno". L’unica sua cattedrale perfetta è il "Troilo e Criseida".

Citazioni in ordine temporale.

  • Ci sono almeno tre condizioni di fondo nelle quali vanno inquadrate le storie che costituiscono i Racconti di Canterbury: il rigoglio della primavera, la sosta conviviale di un gruppo di pellegrini sulla via del santuario, la tenzone per il miglior racconto che verrà narrato durante il viaggio. Condizioni che sono altrettante facce del pellegrinaggio, pratica rituale per la salute dell'anima e non meno per la conoscenza degli uomini e delle cose. Il pellegrinaggio è naturalmente un'ottima e non nuova occasione narrativa e soprattutto un'eccellente cornice. Spetta a Chaucer avere perfettamente integrato i materiali dell'incorniciatura con quelli propriamente narrativi e avere affidato al pellegrinaggio-pretesto l'inesausta funzione provocatoria della parola, così che le singole storie non costituiscono solo una somma di differenze verbali, veicolanti disparità di censo, di mentalità e di costumi, bensì una molteplicità di voci ed un intreccio dialogico nel quale quelle differenze si affrontano e si scontrano.
  • Le varie storie rispondono da un lato ad un'interna funzione provocatoria che illumina aspetti differenti di una medesima realtà, palesando una visione delle cose duttile e antidogmatica; dall'altro questa indagine generale acquista verosimiglianza e spessore psicologico allorché tocca le corde più segrete dei personaggi. E tuttavia non si esaurisce l'inventiva di questa opera sostenendo che il racconto rivela l'intima natura del narratore d'occasione, perché ci sono clamorose eccezioni che hanno proprio la funzione di sorprendere le aspettative del lettore. La stessa tecnica narrativa, la lingua e il verso nella loro organizzazione retorica, metrica e stilistica sono relativi, mutevoli, tutt'altro che fissi. Chi non s'aspetterebbe dal monaco gaudente, che ostenta i segni dell'eros, o dall'indulgenziere mellifluo e corrotto altrettanti racconti di lussuria e di perversione? Di fatto le loro novelle rispondono ad una morale fosca e mortuaria. Specie l'indulgenziere rovescia il principio della confessione, consapevole o meno, o dell'apologia, per instaurare il primato della maschera delle pubbliche virtù sui vizi privati. Proprio in questa dislocazione estrema della moralità esemplare, messa in bocca ai personaggi più equivoci, si realizza l'intima fusione della cornice con la novella e il più alto grado della ironia chauceriana.
  • I Racconti di Canterbury forniscono oggi uno dei più grandi esempi di letteratura «polifonica» in tutte le implicazioni del termine: dalla dialogicità continua, antidogmatica e aliena dal concetto puramente assertivo di cultura, alla intertestualità che attiva un continuo ed inesausto dialogo con altri e precedenti linguaggi, all'ironia in cui il dialogo si fa promotore della dinamica di rovesciamento. In fondo ha un significato che una delle più grandi opere del mondo occidentale, fra medioevo e rinascimento, sia nata dal pretesto del pellegrinaggio come antica via del sapere e modello di democratico incontro, per quanto occasionale e circoscritto.

Citazioni in ordine temporale.

  • Ritrovate gli echi del Decameron, del Roman de la Rose, della Divina Commedia, del Petrarca, e delle antiche favole dove gli animali parlano, gli dèi pagani scherzano, gl'imperatori romani e orientali prendono aspetti leggendari, e un cristianesimo primitivo, di martiri e di scolastici dissertatori fiorisce, in uno colla satira della vita ecclesiastica, le grasse facezie della borghesia trecentesca.
  • La raccolta è giunta a noi incompleta, e per di più, di alcune novelle, rimangon solo frammenti. Ma le corde toccate dall'autore, ci consentono di lodarne la varietà dell'ingegno, la potenza, grazia, festevolezza dello stile.
  • Chaucer è una enciclopedia dei più diversi gusti del suo tempo, che in parecchi luoghi, avremmo il diritto di trovar arcaici o stravaganti.

Citazioni in ordine temporale.

  • Modellata sul Decameron, dal quale trasse anche numerosi spunti, l'opera presenta una serie di racconti affidati a vari narratori: ma a differenza della raccolta italiana, qui i pezzi sono quasi tutti in versi e non in prosa, e risentono fortemente della personalità di chi li propone.
  • Quanto abbiamo è comunque monumentale, anzi è il monumento della lingua inglese ancora nella sua infanzia: da poco era stata adottata al posto del francese, negli atti ufficiali. Quasi privo di punti di riferimento, Chaucer dovette adattarsela, emulando Dante, che conosceva e ammirava (e che cita due volte nel poema): ma collocandosi all'inizio di una evoluzione durante la quale si verificarono modifiche profonde, sarebbe parso arcaico già all'età di Shakespeare, quando la pronuncia era così cambiata da far sembrare la metrica dei Tales zoppicante o peggio. Oggi il capolavoro è per ogni inglese di cultura media ostico alla lettura, ma soprattutto impossibile all'ascolto, ed è un gran peccato, in quanto l'opera fu certo concepita per essere detta a alta voce, quasi cantata.
  • Si tratta [...] di un libro indispensabile, non tanto per le storie che racconta, quasi tutte derivative, ma per il ricco mondo evocato dall'insieme di queste e dei ritratti di chi narra.

Citazioni in ordine temporale.

  • Questo libro non ha mai avuto grande circolazione in Italia, anche se il film di Pasolini, violentemente privo di gioia, ne aveva reso noto il nome. Per certi versi può apparire un libro non agevole: in realtà è solo inconsueto: la struttura frammentaria – il libro non venne mai portato a conclusione – non è consueta ai lettori di Dante e Boccaccio; ma nemmeno è consueta quella fantasia articolata, bizzarra, felice e sottile che ne rende la lettura una letizia innocentemente impudica.
  • Pellegrinaggio, pelleggrini vuol dire un moto continuo e disordinato, tappe in locande, vuol dire cibi, bevande, vino e birra; vuol dire porre il proprio corpo in costante contatto con l'aria, i venti, i profumi; e vuol dire anche eseguire uno dei grandi, arcaici gesti sacri, un omaggio all'unità del mondo; e dunque, il procedere dei pellegrini è insieme documento dell'ilare e un poco indiscreto disordine della vita, e della compatta e amorosa unità del mondo: qualcosa che solo un'anima, una fantasia intensamente medievali potevano concepire. In questo modo, anche la struttura frammentaria acquista senso, fa parte di quel «disordine», di quella discontinuità delle cose che un pelleggrinaggio insieme svela e riconduce a unità.
  • I pellegrini [...] esistono: non nel senso che rappresentano l'umanità, ma che sono i fantasmi vivi e vitali che, insieme, narrano e sono la narrazione. I pellegrini di Chaucer sono segni, luoghi araldici messi, come le lance e i pennoni cavallereschi, a guardia di diversi luoghi del mondo: il mondo dell'amore, dell'infinita, labirintica storia delle frodi e delle generosità amorose, delle magiche imprese, delle moralità pedagogiche e sacre, dei miracoli, dei vizi e delle virtù [...].
  • Durante il pellegrinaggio, la grazia della Priora si allea al Frate beffardo, al Mercante, allo Scudiero, alla gran donna di Bath: perché il pellegrinaggio è il simbolo del mondo, delle sue ombre e «cose salde».

Note

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  1. Leggo: to ferne halwes (invece che to serve halwes col Tyrwhitt), secondo la lezione ristabilita dal Wright ed accettata dall’Hertzberg, dal Bell e da altri.

Bibliografia

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  • AA.VV., Il libro della letteratura, traduzione di Daniele Ballarini, Gribaudo, 2019. ISBN 9788858024416
  • (EN) Geoffrey Chaucer, Chaucer Complete Works, a cura di Walter W. Skeat, Londra, Oxford University Press, 1987, ISBN 0-19-254119-6
  • Geoffrey Chaucer, Dalle Novelle di Canterbury, traduzione di Cino Chiarini, Zanichelli, Bologna, 1897.
  • Geoffrey Chaucer, I racconti di Canterbury, a cura di Cino Chiarini e Cesare Foligno, Sansoni, Firenze, 1955.
  • Geoffrey Chaucer, I racconti di Canterbury, a cura di Ermanno Barisone, UTET, Torino, 1981.

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