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C. S. Lewis

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Monumento a Clive Staples Lewis, Belfast

Clive Staples Lewis, noto con l'abbreviazione C. S. Lewis (1898 – 1963), scrittore irlandese.

Citazioni di Clive Staples Lewis

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  • Credo che nella vita di tutti gli uomini in certi periodi, e nella vita di molti uomini in tutti i periodi fra la prima infanzia e l'estrema vecchiaia, uno degli elementi più dominanti sia il desiderio di far parte della cerchia locale e il terrore di esser lasciati fuori. […] Di tutte le passioni, la passione per la Cerchia esclusiva è quella che maggiormente può spingere un uomo che non è malvagio a fare cose malvagie.[1]
  • Il Valore del mito consiste nel fatto che prende tutte le cose che conosci e restituisce loro la ricchezza del significato che è stato nascosto dal velo della familiarità.
The Value of myth is that it takes all the things you know and restores to them the rich significance which has been hidden by the veil of familiarity.[2]
  • La vittoria della vivisezione segna un grande passo in avanti per il trionfo dell'utilitarismo spietato, amorale, sul vecchio mondo della legge etica; un trionfo di cui noi stessi, come gli animali, siamo già le vittime, e di cui Dachau e Hiroshima segnano i risultati più recenti.
The victory of vivisection marks a great advance in the triumph of ruthless, non-moral utilitarianism over the old world of ethical law; a triumph in which we, as well as animals, are already the victims, and of which Dachau and Hiroshima mark the more recent achievements.[3]
  • Mirate al Cielo e avrete la terra «per soprammercato»; mirate alla terra e non avrete né l'uno né l'altra.[4]
  • Noi non ci accontentiamo di vedere la bellezza, anche se il Cielo sa che gran dono sia questo. Noi vogliamo qualcos'altro, che è difficile descrivere a parole: vogliamo sentirci uniti alla bellezza che vediamo, trapassarla, riceverla dentro di noi, immergerci in essa, diventarne parte. Ecco perché abbiamo popolato l'aria, la terra e l'acqua di dei e dee, ninfe ed elfi che, dato che a noi non è possibile, possano almeno loro, queste proiezioni di noi stessi, godere ritrovando in se stessi quella bellezza, quella grazia, e quel potere di cui la Natura è immagine. Ecco perché i poeti ci narrano tante meravigliose menzogne. Essi parlano come se il Vento dell'Occidente potesse davvero soffiare dentro un'anima umana: ma non è vero. Ci dicono che "la Bellezza nata da un sussurro" passerà in un volto umano: ma non lo farà. Non per ora. E se prendiamo sul serio l'immagine della Scrittura, se crediamo che Dio un giorno ci darà davvero la Stella del Mattino e ci farà indossare lo splendore del sole, allora possiamo credere che gli antichi miti, come la poesia moderna, pur così falsi nel loro significato storico, siano tanto vicini alla verità quanto la profezia. In questo momento noi ci troviamo all'esterno del mondo, dalla parte sbagliata della porta. Possiamo percepire la freschezza e la purezza del mattino, senza però che queste ci possano rendere freschi puri come loro. Non possiamo penetrare lo splendore che vediamo. Ma tutte le foglie del Nuovo Testamento sussurrano frusciando che non sarà sempre così. Un giorno, a Dio piacendo, riusciremo ad entrare. Quando le anime umane saranno diventate così perfette nella loro obbedienza volontaria da uguagliare le creature inanimate nella loro obbedienza senza vita, allora potranno riscoprirsi della medesima gloria della natura, anzi, di quella Gloria ben più grande di cui la natura non è che un primo abbozzo. La Natura è mortale: noi le sopravviveremo. Quando tutti i soli e tutte le nebulose saranno tramontati, ognuno di voi sarà ancora vivo. La Natura non è che un'immagine, un simbolo, ma è il simbolo che la Scrittura mi invita ad usare. Siamo invitati ad entrare attraverso la Natura, oltrepassandola, fino a raggiungere quello splendore che essa è in grado di riflettere solo in parte. E una volta dentro, oltrepassata la Natura, potremo mangiare dell'albero della vita.[5]
  • [La salvezza o la dannazione, essere accolti o banditi da Dio nel giorno del giudizio finale] Ogni giorno camminiamo sul filo del rasoio fra queste due incredibili possibilità. È evidente, dunque, che la nostra perenne nostalgia, il desiderio di unirci a quella parte dell'universo dalla quale ora ci sentiamo separati, di trovarci finalmente all'interno di quella porta che abbiamo sempre potuto vedere solo dall'esterno, non è semplicemente una fantasia nevrotica, ma al contrario è il più sincero sintomo della nostra vera condizione. E venire finalmente ammessi all'interno significherebbe gloria e onore per noi, al di là di ogni nostro merito, e significherebbe nello stesso tempo il rimarginarsi di quella vecchia ferita.[6]
  • Ora so, Signore, perché tu non dai risposte. Tu stesso sei la risposta. Davanti al tuo volto ogni domanda muore sulle labbra. Quale altra risposta sarebbe soddisfacente? Parole, soltanto parole; da far scendere in campo contro altre parole.[7]
  • Mai aver paura. Vi sono solo due specie di individui, in fondo: coloro che dicono a Dio "Voglio essere fatto tuo", e coloro a cui Dio dice "Vuoi essere fatto tuo"; tutti quelli che si trovano all'Inferno scelgono quest'ultima. Senza questa libera scelta non potrebbe esservi Inferno. Nessuna anima che seriamente e costantemente desideri la gioia potrà mai perderla.[8]

Diario di un dolore

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Nessuno mi aveva mai detto che il dolore assomiglia tanto alla paura. Non che io abbia paura: la somiglianza è fisica. Gli stessi sobbalzi dello stomaco, la stessa irrequietezza, gli sbadigli. Inghiotto in continuazione.
Altre volte è come un'ubriacatura leggera, o come quando si batte la testa e ci si sente rintronati. Tra me e il mondo c'è una sorta di coltre invisibile. Fatico a capire il senso di quello che mi dicono gli altri. O forse, fatico a trovare la voglia di capire. È così poco interessante. Però voglio avere gente intorno. Ho il terrore dei momenti in cui la casa è vuota. Ma vorrei che parlassero fra loro e non a me.

Citazioni

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  • Una risposta, fin troppo facile, è che Dio sembra assente nel momento del nostro maggior bisogno appunto perché non esiste. Ma allora perché sembra così presente quando noi, per dirla con franchezza, non Lo cerchiamo? (p. 13)
  • Qualche volta penso che la vergogna, la pura e semplice vergogna goffa e assurda, non sia da meno dei nostri vizi nell'impedire le buone azioni e una felicità schietta. (p. 15)
  • Ogni infelicità è in parte, per così dire, l'ombra o il riflesso di se stessa: non è soltanto il proprio soffrire, ma è anche il dover pensare continuamente al proprio soffrire. (p. 16)
  • Il fato (o che altro è) gode a produrre un grande talento e a renderlo poi vano. Beethoven diventò sordo. Uno scherzo meschino, ai nostri occhi: la beffa di un idiota malevolo. (p. 23)
  • A volte è difficile non dire: «Che Dio perdoni Dio». A volte è difficile dire anche questo. Ma se la nostra fede è vera, Egli non l'ha fatto. Egli Lo ha crocifisso. (p. 34)
  • La realtà, guardata fissamente, è insopportabile. (p. 34)
  • Qualcuno, mi pare, ha detto: «Dio geometrizza sempre». E se la verità fosse: «Dio viviseziona sempre»? (p. 36)
  • È razionale credere in un Dio cattivo? O comunque, in un Dio tanto cattivo? Il Sadico Cosmico, l'idiota malevolo?
  • Il pensiero non è mai statico; il dolore fisico spesso lo è. (p. 49)
  • Che cosa vogliono dire quelli che proclamano: «Non ho paura di Dio, perché so che è buono»? Non sono mai stati da un dentista? (p. 52)
  • È nostra arroganza definire «maschili» la schiettezza, la lealtà e la cavalleria quando la vediamo in una donna; è loro arroganza descrivere come «femminili» la sensibilità, il tatto o la dolcezza in un uomo. (p. 58)
  • Dicono: «Il codardo muore molte volte». Anche la persona amata. L'aquila di Prometeo non trovava a ogni pasto un fegato nuovo da straziare?
  • La lode è il modo dell'amore che ha sempre in sé un elemento di gioia. (p. 70)
  • Può un mortale fare domande che Dio trova senza risposta? Facilissimo, direi. Ogni domanda senza senso non ha risposta.

I quattro amori

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Molti della mia generazione rammenteranno di essere stati rimproverati, da piccoli, per aver detto di «amare» le fragole; infatti taluni considerano un vanto che l'inglese possegga due distinti verbi-«amare» e «piacere» -mentre il francese è costretto a servirsi di un unico verbo, aimer, per entrambi i significati. Ma il francese ha dalla sua molte altre lingue, senza contare che anche l'inglese corrente, a volte, imita quest'uso. A chiunque capita di dire ogni giorno, per quanto corretto e ligio egli possa essere, di «amare» un cibo, un gioco, un passatempo; ed effettivamente esiste un'innegabile continuità tra i nostri piaceri più elementari e i nostri affetti verso le persone.

Citazioni

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  • Gli affetti umani possono essere gloriose immagini dell'amore divino; niente di meno, ma anche niente di più; solo affinità che derivano dalla somiglianza e che, per un verso, possono favorire, ma per un altro impedire, un'affinità che sia invece il risultato di un avvicinamento. A volte, essi possono non avere nulla a che vedere con questa affinità, né in un altro. (dall'introduzione, p. 21)
  • La mente umana è in genere molto più incline a lodare e a criticare che non a descrivere e a definire; essa mira a fare di ogni distinzione una discriminazione in termini di valore. (p. 25)
  • I capi scellerati cercheranno, con la propaganda, di incoraggiare i lati più demoniaci dei nostri sentimenti, in modo da assicurarsi la nostra acquiescenza di fronte alle loro nefandezze. I buoni governanti faranno il contrario. Questo è uno dei motivi per cui noi privati cittadini dovremmo sempre tenere sotto controllo la salute del nostro amor di patria. (p. 29)
  • Chi non ama i propri compaesani o concittadini – che vede e conosce – non ha molte probabilità di arrivare a provare amore per l'«Uomo», che non ha mai visto né conosciuto. (p. 38)
  • L'ultima cosa al mondo che dovremmo desiderare è che tutti si uniformassero alle nostre abitudini e caratteristiche; questa terra non sarebbe più la nostra patria se cessasse di distinguersi dalle altre. (p. 39)
  • La vera storia di ogni paese è fatta anche di azioni mediocri, e persino ignominiose. A voler considerare le azioni eroiche come tipiche, finiremmo col farci un quadro falsato della storia, che si presterà facilmente a essere demolito da una rigorosa critica storica. (p. 40)
  • Le storie migliori sono quelle che vengono tramandate, e accettate per quello che sono. (p. 40)
  • Neanche per un istante metterei mai in discussione che è all'affetto che siamo debitori dei nove decimi della felicità salda e duratura di cui ci è dato godere nell'arco della nostra esistenza terrena. (p. 73)
  • Le persone egoiste e nevrotiche possono distorcere qualunque cosa, persino l'affetto, e farlo diventare causa di infelicità o di sfruttamento. (p. 73)
  • Sono pochi i moderni che conferiscono un certo valore all'amicizia, per non dire poi di quanti a volte giungono addirittura a negarle la qualifica di affetto. (p. 77)
  • Nessuna poesia o romanzo, dopo In Memoriam [di Alfred Tennyson], ne ha più cantato le lodi [dell'amicizia]. Tristano e Isotta, Antonio e Cleopatra, Romeo e Giulietta, trovano ancora innumerevoli corrispettivi in letteratura; lo stesso non si può dire di David e Gionata, Oreste e Pilade, Rolando e Oliviero, Amis e Amile. (p. 77)
  • L'amicizia è – ma non in senso peggiorativo – il meno naturale degli affetti, il meno istintivo, organico, biologico, gregario e indispensabile. (p. 77)
  • [L'amicizia] Unica tra tutti gli affetti, essa sembra innalzare l'uomo al livello degli dèi, o degli angeli. (p. 79)
  • Chi non riesce a concepire l'amicizia come un affetto reale, ma la considera soltanto un travestimento, o una rielaborazione, dell'eros, fa nascere in noi il sospetto che non abbia mai avuto un amico. (p. 81)
  • L'amicizia è il meno geloso degli affetti. (p. 82)
  • Il marchio della perfetta amicizia non è il fatto di essere pronti a prestare aiuto nel momento del bisogno, ma il fatto che, una volta dato questo aiuto, nulla cambia. (p. 92)
  • Amare significa, in ogni caso, essere vulnerabili. Qualunque sia la cosa che vi è cara, il vostro cuore prima o poi avrà a soffrire per causa sua, e magari anche a spezzarsi. Se volete avere la certezza che esso rimanga intatto, non donatelo a nessuno, nemmeno a un animale. Proteggetelo avvolgendolo con cura con passatempi e piccoli lussi; evitate ogni tipo di coinvolgimento; chiudetelo col lucchetto nello scrigno, o nella bara, del vostro egoismo. Ma in quello scrigno (al sicuro, nel buio, immobile, sotto vuoto) esso cambierà: non si spezzerà; diventerà infrangibile, impenetrabile, irredimibile. (p. 111)
  • L'unico luogo, a parte il cielo, dove [il tuo cuore] può essere perfettamente salvo da tutti i pericoli e perturbazioni dell'amore è l'inferno. (p. 111)

Le lettere di Berlicche

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  • Gli esseri umani sono anfibi – mezzo spirito e mezzo animale [...]. Come spiriti essi appartengono al mondo dell'eternità, ma come animali sono abitatori del tempo.
  • Il coraggio, non è semplicemente una delle virtù, ma la forma di ogni virtù quando giunge alla prova, vale a dire, nel punto della più alta realtà.
  • La gratitudine guarda al passato e l'amore al presente; il timore, l'avarizia, la lussuria e l'ambizione guardano avanti.
  • [Il futuro] Qualcosa che ciascuno raggiunge alla velocità di sessanta minuti all'ora, qualunque cosa faccia, chiunque egli sia.

Sorpreso dalla gioia

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  • Sin dai primissimi anni fui conscio del netto contrasto che correva tra il temperamento sereno ed ilare di mia madre e gli alti e bassi della vita emotiva di mio padre: e ciò generò in me, prima ancora che fossi in grado di riconoscerli, una certa diffidenza o un rifiuto delle emozioni come qualcosa di spiacevole, di imbarazzante, e addirittura di pericoloso. (pp. 9-10)
  • Avevo imparato a rappresentare il movimento—i miei personaggi davano realmente l'idea di essere in corsa od in lotta—e la prospettiva è discreta. Ma in nessuno dei disegni, miei o di mio fratello, si nota una sola linea tracciata in obbedienza a un'idea, per quanto acerba della bellezza. [...] Questa assenza di bellezza, adesso che ci penso, è caratteristica della nostra infanzia. Nessuno dei quadri appesi alle pareti della casa paterna attrasse mai la nostra attenzione: e, del resto, nessuno la meritava. Non vedemmo mai un bell'edificio, e neppure ci passò per la mente che un edificio potesse essere bello. Le mie prime esperienze estetiche, ammesso che fossero tali, non ebbero nulla a che fare col bello; erano già incurabilmente romantiche, non formali. (p. 11)
  • Il terrore di certi sogni è anteriore a qualsiasi altro ricordo. Si tratta di un fenomeno molto comune a quell'età, eppure ancora oggi trovo strano che una infanzia ricca di tenerezza e di sollecitudine spesso ospiti in sé una finestra aperta su qualcosa che somiglia molto da vicino all'Inferno. I miei incubi erano di due tipi: quelli degli spettri e quelli degli insetti. I secondi erano di gran lunga i peggiori; ancora oggi, preferirei imbattermi in uno spettro anziché in una tarantola. (p. 12)
  • A spingermi a scrivere fu l'estrema goffaggine manuale che mi ha sempre afflitto, e che attribuisco a un difetto fisico che io e mio fratello abbiamo ereditato da nostro padre; il nostro pollice ha una sola falange. [...] Ma, indipendentemente dalla causa, la natura mi ha inflitto dalla nascita la più assoluta inettitudine manuale. (p. 15)
  • Per chi è ancora disposto a leggermi, mi limiterò a evidenziare quello che tutte e tre le esperienze hanno in comune, e cioè un desiderio inappagato che è esso stesso più desiderabile di qualsiasi appagamento. Io lo chiamo gioia, che è qui un termine tecnico e va nettamente distinto dalla felicità così come dal piacere. La gioia (nel senso che io le attribuisco) ha in realtà in comune con essi una caratteristica, e una sola; il fatto che chiunque l'abbia provata vorrà provarla nuovamente. A parte questo, e solo in base alla sua natura, potremmo anche considerarla una infelicità o un dolore di genere particolare. Ma di un genere che desideriamo. Dubito che chiunque l'abbia sperimentata la scambierebbe mai, ammesso che fosse in suo potere, con tutti i piaceri del mondo. Ma, mentre il piacere lo è spesso, la gioia non è mai in nostro potere. (pp. 18-19)
  • I bambini non soffrono (credo) meno degli adulti, ma in maniera diversa. Per noi ragazzi il vero lutto era cominciato prima che nostra madre [malata di cancro] morisse. La perdemmo nello stesso momento in cui veniva sottratta alla nostra vita per essere consegnata alle infermiere e al delirio e alla morfina e la nostra esistenza si trasformava in qualcosa di oscuro e minaccioso, e la casa si riempiva di strani odori e di rumori notturni e di sinistri discorsi pronunciati a bassa voce. [...] Si dice che un dolore comune leghi più strettamente le persone; io dubito che questo avvenga quando le persone in questione sono di età molto diversa. La mia esperienza mi dice che il dolore e il terrore dei grandi esercitano sui bambini un effetto completamente paralizzante e alienante. (p. 19)
  • Mi portarono nella stanza dove mia madre giaceva morta; come dicevano, «per vederla»; in realtà, come seppi subito, «per vederlo». Non c'era nulla di quello che un adulto chiamerebbe devastazione, tranne la totale devastazione che è la morte stessa. Il mio dolore fu soffocato dal terrore. Ancora oggi non capisco cosa intendano col dire che i cadaveri sono belli. In confronto al più amabile dei morti, il più brutto uomo vivente è un angelo di bellezza. (p. 20)
  • Con la morte di mia madre ogni certezza di felicità, tranquillità e sicurezza scomparvero dalla mia vita. Avrei conosciuto molti divertimenti, molti piaceri, molte trafitture di Gioia; ma l'antica sicurezza era svanita per sempre. Ora mi sentivo come un'isola sperduta nell'oceano; il grande continente era sprofondato come Atlantide. (p. 21)
  • Nessun inglese capirebbe le mie prime impressioni dell'Inghilterra. Quando sbarcammo [...] mi ritrovai in un mondo al quale reagii con immediata ostilità. In verità, non c'è nulla di più squallido degli acquitrini del Lancashire nelle primissime ore del giorno; mi ricordarono le rive dello Stige. Negli strani accenti inglesi che mi circondavano, le mie orecchie coglievano voci di demoni. Ma il paesaggio inglese tra Fleetwood e Euston fu peggio. Ancora oggi, dopo molti anni, è, ai miei occhi, un itinerario che si snoda lungo il paesaggio più piatto ed ostile dell'isola. E per un bambino che aveva sempre vissuto sul mare e in vista di alte montagne aveva lo stesso aspetto che suppongo abbia la Russia per un bambino inglese. Piatte e interminabili, miglia e miglia di terra senza volto mi precludevano il mare, imprigionandomi, soffocandomi! Era tutto fuori posto; steccati di legno anziché muri e siepi, fattorie di mattoni rossi anziché bianche villette, campi troppo vasti, fienili dalla forma strana. Ha ragione il Kalevala quando dice che in casa dello straniero il pavimento è pieno di nodi. Oggi la frattura è ricomposta; ma in quel momento concepii per l'Inghilterra un odio che mi ci vollero anni per sanare. (pp. 24-25)
  • [Descrivendo Oldie, preside e proprietario della scuola di Belsen, dove Lewis trascorse alcuni mesi della sua giovinezza] Era un omaccio barbuto dalle labbra piene come la statua di un re assiro, dalla forza immensa, fisicamente sporco. Oggi parlano tutti di sadismo, ma io mi chiedo se la sua crudeltà non contenesse elementi erotici. Allora mi parve di capire, e oggi mi è perfettamente chiaro, quello che tutti i suoi capri espiatori avevano in comune. Si trattava di ragazzi al di sotto di un certo ceto sociale, ragazzi dall'accento plebeo. Il povero P. [...] veniva continuamente battuto, mi sembra di capire oggi, per una sola trasgressione: era figlio di un dentista. Ho visto Oldie farlo chinare a una estremità dell'aula e quindi prendere la rincorsa per tutta la stanza a ogni colpo; ma P. era abituato alle innumerevoli sferzate, e non un gemito gli sfuggiva finché, verso la fine della tortura, non emetteva un verso che non aveva quasi nulla di umano. Quello strano grido o lamento, le facce grigie di tutti gli altri ragazzi, il loro mortale silenzio, sono tra i ricordi di cui farei volentieri a meno. (p. 26)
  • Se i genitori sapessero sempre, o il più delle volte, quanto realmente avviene nelle scuole dei loro figli, la storia dell'educazione sarebbe molto diversa. (p. 28)
  • [...] mentre l'amicizia è stata per me la principale fonte di felicità, le conoscenze o la vita di società hanno sempre significato poco per me, e non ho mai capito perché un uomo dovrebbe desiderare di conoscere più gente di quanta possa farsene amica. Di qui, anche, il mio scarso interesse, forse colpevolmente scarso, per le grandi cause e i grandi movimenti collettivi. La curiosità suscitata in me da una battaglia (nella storia come nella realtà) è inversamente proporzionale al numero dei combattenti. (p. 30)
  • Quando il ragazzo passa dalla letteratura infantile ai racconti scolastici peggiora, non migliora. (p. 31)
  • Che il comune interesse per la fantascienza sia roba da psicoanalisti è nato dal fatto che tutti coloro che non la amano ne sono spesso disgustati. La repulsione degli uni ha la stessa forza grossolana dell'interesse affascinato degli altri, ed è altrettanto illusoria. (p. 32)
  • In tutta serietà io ritengo che la vita della fede mi sia resa più facile da questi ricordi. Pensare, nei giorni della felicità e della fiducia, che moriremo e marciremo, o pensare che un giorno tutto l'universo scivolerà via per divenire solo un ricordo [...], ci riesce facile, quando abbiamo già avuto modo di vedercela con questo genere di cose. Abbiamo imparato a non giudicare il presente in base alle sole apparenze. (pp. 32-33)
  • Quanto alla più giovane, G., posso solo dire ch'era la donna più bella che avessi mai visto, perfetta nelle forme e nell'incarnato e nella voce e in ogni movimento... Ma come si può descrivere la bellezza? Il lettore sorriderà a quest'eco remota di un amoretto precoce, ma si sbaglia. Esistono bellezze così poco ambigue che, per svelarle, quel genere di lente non occorre; sono visibili persino agli occhi disattesi e imparziali d'un fanciullo. (p. 39)
  • Per me questi balli costituivano un tormento, in cui la solita timidezza entrava solo in parte. Era la falsa posizione (di cui mi rendevo perfettamente conto) a torturarmi; sapere di essere considerato ancora un fanciullo, e tuttavia essere costretto a prendere parte ad un avvenimento fatto essenzialmente per i grandi, sentire che tutti gli adulti presenti si comportano con ironica gentilezza fingendo di trattarti per quello che non sei. [...] Anche gli adulti, immagino, troverebbero insopportabile una festa senza l'attrazione del sesso e dell'alcool; e pretendere che un ragazzino che non può né flirtare né bere si diverta a piroettare su un pavimento di marmo fino alle prime ore del mattino, è cosa che supera le mie capacità di comprensione. (p. 40)
  • [...] mi colpisce la curiosa mescolanza di giustizia e ingiustizia nelle nostre vite. Chi ci rinfaccia i nostri veri difetti di solito non lo fa mai nelle occasioni giuste. A me si rimproverava d'essere un vanitoso, e non c'è dubbio che lo fossi; ma il rimprovero colpiva di regola qualcosa in cui la vanità non c'entrava per nulla. Gli adulti accusano spesso un fanciullo di vanità senza fermarsi a considerare in che cosa i fanciulli in generale, o quel fanciullo in particolare, siano indiziabili di vanità. (p. 41)
  • Mi innamorai del poema [Sohrab e Rustum di Matthew Arnold] a prima vista e da allora ho continuato ad amarlo. Come, nel primo verso, l'umida nebbia si levava dall'Oxus, così dall'intero poema si levò, avviluppandomi tutto, una squisita, argentea freschezza, una deliziosa sensazione di distacco e di calma, una cupa tristezza. (p. 44)
  • Francamente, non importa da che parte vi affacciate per la prima volta nella poesia europea. Solo tenete le orecchie aperte e la bocca tappata e alla fine tutto vi ricondurrà a tutto: ogni parte ad ogni parte splende.[9] (p. 44)
  • Abbastanza stranamente, è in quest'epoca, e non durante la prima infanzia, che ricordo di aver conosciuto la delizia delle fiabe, e di essere rimasto profondamente ammaliato dai Nani, i vecchi nani dal cappuccio fosforescente e dalla barba di neve di quei giorni in cui Arthur Rackham non li aveva ancora sublimati, e Walt Disney volgarizzati. (p. 45)
  • È importante acquisire presto nella vita la capacità di leggere dovunque ci si trovi. (pp. 47-48)
  • Nessuno tentava mai di spiegare in che senso il cristianesimo completasse il paganesimo, o il paganesimo prefigurasse il cristianesimo. Il punto di vista preconcetto sembrava essere che le religioni erano normalmente una semplice accozzaglia di sciocchezze, ma che la nostra, per fortuna eccezionale, era l'unica vera. Le altre religioni non venivano nemmeno spiegate, alla maniera del cristianesimo primitivo, come opera di demoni. Ma l'impressione che ne ricavai fu che la religione in genere, per quanto assolutamente falsa, fosse un prodotto della natura, una sorta di endemica sciocchezza in cui l'umanità tendeva a incespicare. Al centro di un migliaio di simili religioni si ergeva la nostra, la mille e unesima, etichettata come Vera. Ma su quali basi potevo credere a questa eccezione, quando, generalmente parlando, somigliava più o meno a tutte le altre? Perché trattarla diversamente? O, per lo meno, che bisogno avevo io di continuare a trattarla diversamente? (pp. 51-52)
  • Era l'epoca del «knut»: delle cravatte «larghe» con la spilla, delle giacche cortissime e dei pantaloni portati alti a fare mostra di calze strabilianti, e delle scarpe di cuoio grezzo dalle stringhe immensamente larghe. [...] Difficile immaginare più penose ambizioni in un quattordicenne zotico e troppo cresciuto con uno scellino in tasca la settimana; tanto più che io sono di quelli che la natura ha condannato, qualunque cosa comprino od indossino, ad avere l'aria d'essere appena usciti da una bottega di rigattiere. Ancora oggi non riesco a ricordare senza imbarazzo la mia mania di portare calzoni ben stirati e (sordida abitudine) di impiastricciarmi d'olio i capelli. Nella mia vita era entrato un nuovo elemento: la volgarità. Finora avevo commesso quasi tutti i peccati e le follie alla mia portata, ma non ero mai stato pacchiano. (pp. 54-55)
  • Quello che provavo per la maestra di ballo era puro desiderio; la prosa, e non la poesia della carne. Il mio non era affatto il sentimento del cavaliere che si vota a una dama, ma quello di un turco che guarda una circassa che non può permettersi di comprare. Sapevo benissimo quello che volevo. Di solito, si ritiene che esperienze del genere diano luogo a un senso di colpa, ma nel mio caso non fu così. E posso anche aggiungere che, fatta eccezione per una qualche trasgressione morale che coinvolgeva anche il codice d'onore o provocava conseguenze tali da suscitare la mia compassione, il senso di colpa era cosa che allora quasi non conoscevo. Per acquisire delle inibizioni mi ci volle lo stesso tempo che, si dice, altri impiegano per liberarsene. Ecco perché mi trovo spesso in contraddizione con il mondo moderno: ho vissuto da pagano convertito tra puritani apostati. (p. 56)
  • Non credo molto nel Rinascimento così come viene di solito descritto dagli storici. Più mi sprofondo nelle documentazioni, e meno trovo tracce di quell'estasi primaverile che si suppone abbia travolto l'Europa del XV secolo. Mi viene persino il sospetto che l'entusiasmo degli storici in materia abbia origine diversa, che ciascuno sia portato a ricordare e a proiettare il proprio rinascimento personale; quel meraviglioso risveglio che sopravviene nella maggior parte di noi quando la pubertà è completa. Ed è giusto chiamarla rinascita e non nascita, risveglio e non sveglia, perché per molti di noi, oltre che una cosa nuova, rappresenta anche il recupero di cose possedute da bambini e perdute da ragazzi. (p. 57)
  • La gioia si distingue non solo dal piacere in generale, ma anche dal piacere estetico. Deve dare la fitta, lo spasmo, l'inconsolabile nostalgia. (p. 58)
  • La «musica» era una cosa, la «la musica wagneriana» un'altra, e non c'era nulla che le ravvicinasse; non si trattava di un nuovo piacere ma di un piacere di nuovo genere, ammesso che «piacere» sia la parola giusta, anziché turbamento, estasi, sbigottimento, «un conflitto di sensazioni senza nome». (p. 60)
  • Nel libro di devozioni ci è prescritto di «ringraziare Dio per la Sua grande gloria», come se gli dovessimo grazie più perché necessariamente quello che è, che per altri particolari benefici; ed è proprio quello che facciamo, e conoscere Dio è conoscere ciò. (p. 61)
  • [Parlando delle abitudini di pederastia della scuola privata di Wyvern] Le donnine[10] svolgevano una funzione importante nel fare della scuola (secondo il suo scopo dichiarato) una preparazione alla vita pubblica. Non erano come schiavi, perché i loro favori venivano (quasi sempre) sollecitati, mai estorti con la forza. Né erano esattamente come prostitute, perché i loro legami erano spesso fissi e, lungi dall'essere esclusivamente basati sui sensi, erano altamente sentimentalizzati. E neppure venivano pagate (in denaro, intendo) per i loro servigi; anche se, naturalmente, fruivano largamente dell'adulazione, dell'influenza sotterranea, del favore e dei privilegi di cui le amanti dei grandi hanno sempre goduto in seno alla società adulta. Ecco dove saltava fuori la Preparazione alla Vita Pubblica. (p. 68)
  • La mia innata goffaggine, aggiunta alla mancanza di allenamento di cui [la scuola di] Belsen era responsabile, mi aveva tolto per sempre ogni possibilità di giocare abbastanza bene da divertire me stesso, per non parlare degli altri giocatori. Accettavo gli sport (come molti ragazzi) come uno dei mali inevitabili della vita, paragonabile alla tassa sul reddito e al dentista. (p. 70)
  • Nessun sostenitore delle scuole private mi crederà quando dico che ero stanco. Ma lo ero: stanco come un cane, come una rozza, stanco (quasi) come un ragazzo di fabbrica [...] Nonostante fossi grande e grosso, mi sentivo esausto. Il lavoro di classe andava quasi oltre le mie forze. Avevo allora anche dei problemi con i denti, e passai molte notti di insopportabile dolore. Mai, tranne che in trincea (e neanche lì sempre) ricordo di aver provato lo stesso dolore e la stessa continua stanchezza di Wyvern. Oh le giornate inesorabili, l'orrore del risveglio, l'interminabile deserto delle ore che ti separano dall'ora del sonno! E ricordate che [...] una giornata di scuola non lascia quasi tempo libero a un ragazzo che non ama gli sport. Per lui, passare dalla classe al campo di gioco significa semplicemente passare da un lavoro di un certo interesse ad un altro di nessun interesse, in cui se si fallisce si viene puniti più severamente, e (ciò che è peggio) per il quale si deve fingere interesse. (p. 74)
  • La verità è che, ai miei tempi, gli sport organizzati e obbligatori avevano quasi completamente bandito dalla vita scolastica l'elemento giocoso. Non c'era tempo per giocare (nel senso vero e proprio della parola). La rivalità era troppo accesa, il premio troppo allettante, l'«inferno dell'insuccesso» troppo duro. (p. 75)
  • Nel momento in cui il buon gusto prende coscienza di sé, parte della sua bontà va perduta. Anche allora, però, non è necessario scendere il gradino successivo e disprezzare i «filistei» che non lo condividono. (p. 79)
  • Negli ultimi trent'anni, l'Inghilterra è stata invasa da un'intellighenzia amara, brutale, scettica, irriverente e cinica. Molti dei suoi membri hanno studiato in scuole private, e pochissimi, ritengo, le hanno apprezzate. Coloro che difendono le scuole diranno naturalmente che questi vanesi rappresentano i casi che il sistema non è riuscito a curare; che i calci, le beffe, le imposizioni, le bastonature e le umiliazioni ricevute non erano sufficienti. Ma non è altrettanto possibile che essi siano il prodotto del sistema? Che al loro arrivo nella scuola non fossero ancora pedanti, e che lo siano diventati durante il primo anno, esattamente come me? Si tratterebbe, in effetti, di un risultato più che naturale. Quando non spezza lo spirito, una volta per tutte, l'oppressione non tende forse naturalmente a produrre per ritorsione, orgoglio o disprezzo? Degli schiaffi e delle fatiche ci si ripaga di solito raddoppiando la stima che abbiamo per noi stessi. Di solito, nessuno è più arrogante di uno schiavo liberato da poco. (p. 81)
  • [Parlando della pederastia diffusa nelle scuole private britanniche di inizio Novecento] Sull'argomento c'è molta ipocrisia. Per la gente, di solito, non esiste male peggiore di questo. Ma perché? Perché chi di noi non condivide il vizio avverte per esso una certa repulsione, la stessa, per esempio, che noi avvertiamo per la necrofilia? La cosa ha, secondo me, scarsa importanza morale. Perché genera una perversione permanente? Ma esistono pochissime prove in proposito. [...] Per ragioni di cristianesimo, allora? Ma quanti di coloro che tuonano sull'argomento sono realmente cristiani? [...] Noi condanniamo questo vizio non perché sia il peggiore, ma perché, dal punto di vista degli adulti, è il più ignominioso e innominabile, e la legge, inglese, tra l'altro, lo considera un crimine. Il mondo ci apre solo le porte dell'inferno; la sodomia, invece, può aprirci quelle della prigione e creare scandalo, e farci perdere l'impiego. Cosa che il mondo, per essere giusti, non fa che raramente. (p. 82)
  • Allora, un ragazzo dedito agli studi classici ufficialmente non faceva quasi altro. Trovo la cosa indovinata; il più grande servizio che oggi si possa rendere all'istruzione è di ridurre il numero della materie. Nessuno ha il tempo di far bene molte cose prima di vent'anni, e costringendo un ragazzo a essere mediocre in una decina di materie ne distruggiamo le possibilità forse per sempre. (pp. 84-85)
  • È vero che quando la vita di un pessimista si trova in pericolo egli si comporta come tutti gli altri; il suo istinto di conservazione è più forte della sua convinzione che non valga la pena di vivere. Ma che cosa prova che la convinzione sia falsa o erronea? Che un uomo dichiari che il whisky gli fa male non viene invalidato dal fatto che con la bottiglia a portata di mano il suo desiderio è più forte della ragione e le soccombe. Avendo gustato una volta la vita, siamo soggetti all'istinto di conservazione. Alla vita, in altre parole, ci si assuefà come alla cocaina. E allora? Se per me la creazione continua a essere una grande ingiustizia, quest'istinto non fa che rendere l'ingiustizia ancora più grave. Se non è bello essere costretti a bere la pozione, il fatto che la pozione si riveli una droga non rimette a posto le cose. Non è questa la risposta al pessimismo. (pp. 86-87)
  • Una volta, quando frequentavo la scuola di Oldie e avevo appena cominciato a vivere da cristiano, misi giù un elenco di regole di condotta e me lo cacciai in tasca. Il primo giorno di vacanza, notando che le mie tasche straripavano di ogni sorta di carta e che la mia giacca rischiava di sformarsi, mio padre trasse fuori tutto il malloppo e cominciò a scorrerlo. Da ragazzo qual ero, avrei preferito morire piuttosto che mostrargli la mia lista di buoni propositi. Cercai di strappargliela e di buttarla nel fuoco. Credo che nessuno di noi fosse da biasimare; ma da quel momento in poi, fino al giorno in cui morì, non entrai in casa senza prima frugarmi le tasche per toglierne tutto ciò che desideravo rimanesse un segreto. (p. 90)
  • Per mio padre era assiomatico (in teoria) che nulla si diceva o si faceva per un motivo ovvio. Perciò egli, che nella vita reale era il più leale e impulsivo degli uomini, e la vittima ideale di malvagi o impostori, diventava un autentico Machiavelli una volta che, corrugate le sopracciglia, si metteva ad analizzare la condotta di gente che non aveva mai visto in faccia, secondo la spettrale e labirintosa operazione che chiamava «leggere tra le righe». (p. 91)
  • Mi sentirei un verme se rimproverassi a mio padre, sempre così solo, di desiderare l'amicizia dei suoi figli; o se quel poco che gli davo in cambio non pesasse ancora oggi sulla mia coscienza. Ma «una sensazione è una sensazione»[11]. Era straordinariamente stancante. (p. 94)
  • Non vorrei mi si accusasse di credere (o incoraggiare il lettore a credere) che questa invincibile ripugnanza a toccare una mazza o una palla non fosse una sfortuna. Non che, in realtà, io attribuissi agli sport quelle virtù morali e quasi mistiche che gli insegnanti rivendicano loro; ho l'impressione che spingano tra l'altro all'ambizione, all'invidia, e ad amare i sentimenti di parte. Eppure non amarli è una sfortuna, perché vi escludono dalla compagnia di molte persone eccellenti che non è possibile avvicinare in altro modo. Una sfortuna, non un vizio; perché non dipende dalla nostra volontà. Avevo cercato di amare gli sport senza riuscirci. Quell'istinto non faceva parte della mia natura; tra me e gli sport correva, come dice il proverbio, la stessa inimicizia che tra cani e gatti. (p. 96)
  • Come scienziato non avrei mai fatto molta strada, perché tutte le scienze celano un'insidia: il leone Matematica. Anche in matematica affrontavo con piacere tutto ciò che comportava il semplice ragionamento (come la geometria piana); ma quando si trattava di passare ai calcoli ero spacciato. Afferravo i principî, ma le mie risposte erano sempre sbagliate. Anche se non sarei mai diventato uno scienziato, possedevo però istinto scientifico e immaginazione, e amavo il ragionamento. (p. 102)
  • Coloro per i quali la parola greca vive solo nel momento in cui le danno la caccia sul vocabolario, e quindi per essere sostituita non stanno affatto leggendo il greco; stanno solo risolvendo un indovinello. (p. 105)
  • Andare a spasso e conversare sono due grandi piaceri, ma è un errore associarli. Le nostre voci cancellano suoni e silenzi del mondo esterno; e poiché alla conversazione si accompagnano quasi inevitabilmente le sigarette, allora addio natura, per lo meno per quanto riguarda uno dei nostri sensi. Il compagno ideale di passeggiata [...] dovrebbe condividere il vostro amore per la campagna al punto che un'occhiata, una sosta, o al massimo un colpetto bastino ad assicurarvi che il vostro piacere è convidiso. (p. 105)
  • Egoistica, non egocentrica: perché in una vita del genere la mia mente si sarebbe indirizzata a migliaia di cose, mai a me stesso. La distinzione non è di poco conto. Uno degli uomini più felici e dei compagni più piacevoli che abbia mai conosciuto era intensamente egoista. D'altra parte, ho conosciuto persone capaci di autentico sacrificio le cui vite rappresentano nondimeno un tormento per loro e per gli altri, perché autoconsiderazione e autocommiserazione ne occupavano tutti i pensieri. A lungo andare, l'una o l'altra finiscono per distruggere l'anima. All'uomo che mi serve ma parla di se stesso, e la cui stessa bontà è un continuo rimprovero, una continua richiesta di pietà, gratitudine e ammirazione, preferirò sempre l'uomo che prende il meglio di ogni cosa (anche a mie spese) e poi parla d'altro. (p. 106)
  • A Dickens guardavo con un senso d'orrore; troppo a lungo m'ero soffermato sulle illustrazioni prima d'imparare a leggere. Ancora oggi le trovo orribili. Anche nel suo caso, come in quello di Walt Disney, a tradire realmente il segreto non è la bruttezza dei brutti personaggi, ma le melense pupattole che reclamano la nostra simpatia (non che Walt Disney non sia molto superiore agli illustratori di Dickens). (pp. 112-113)
  • La cosa più vera e orribile che si possa dire dei moderni mezzi di locomozione è che «annullano lo spazio». È vero. Annullano uno dei più bei doni che ci siano stati fatti. Si tratta di una volgare inflazione che sminuisce il valore delle distanze, sicché un ragazzo d'oggi può percorrere cento miglia con minor senso di liberazione e di pellegrinaggio e d'avventura di quanto provasse suo nonno facendone dieci. Naturalmente, se un uomo odia lo spazio e vuole annichilirlo è un altro paio di maniche. Ma allora perché non rinchiudersi direttamente nella bara? Lì lo spazio è sufficientemente ristretto. (p. 116)
  • Anche in tempo di pace credo abbia torto chi dice che gli scolari vanno incoraggiati a leggere i giornali. Quasi tutto quello che un ragazzo di tredici anni vi legge, prima dei vent'anni risulterà falso nell'enfasi e nell'interpretazione, se non anche nei fatti, e avrà perso molta della sua importanza. Perciò dovrà disimparare gran parte di ciò che ricorda; e, intanto, avrà probabilmente acquisito un incurabile gusto per la volgarità e il sensazionalismo e la fatale abitudine di saltare da un paragrafo all'altro per sapere che in California un'attrice ha divorziato, in Francia un treno ha deragliato, e in Nuova Zelanda sono nati quattro gemelli. (pp. 117-118)
  • Con la crudeltà dei giovani, mi lasciavo irritare da certi aspetti di mio padre che, in altri uomini anziani, ho sempre considerato amabili debolezze. (p. 118)
  • Io credo che tutte le cose, a loro modo, rispecchino la verità celeste, immaginazione compresa. «Rispecchiare» è la parola adeguata. Questa vita inferiore dell'immaginazione non è né l'inizio né un passo verso la vita superiore dello spirito, ma semplicemente la sua immagine. (pp. 124-125)
  • Solo quando tutta la vostra attenzione e il vostro desiderio si trovano accentrati su qualcos'altro [...] solo allora il «brivido» arriva. È un sottoprodotto. La sua stessa esistenza presuppone che non è quello ciò che desiderate, ma qualcosa di diverso e di esteriore. Se grazie a un'ascesi distorta o all'uso di una droga potesse essere prodotto interiormente, si vedrebbe subito che non vale nulla. Portate via l'oggetto: che cosa resta, in definitiva? Un turbinio di immagini, una sensazione di leggerezza al diaframma, un'astrazione momentanea. E chi potrebbe volerlo? (p. 125)
  • I due emisferi della mia mente si trovavano in reciso conflitto. Da una parte, un arcipelago di poesia e di miti; dall'altra, uno sfrenato e vuoto «razionalismo». Quasi tutto quello che amavo lo consideravo immaginario; e quasi tutto quello che consideravo reale lo trovavo tetro e insignificante. (pp. 126-127)
  • Per un simile codardo l'universo materialistico aveva un'enorme attrattiva: vi offriva responsabilità limitate. In esso non c'era sciagura irrimediabile che potesse colpirvi. Con la morte finiva tutto. E se le sciagure rimediabili si rivelavano superiori alla vostra capacità di sopportarle, era sempre possibile suicidarsi. L'orrore dell'universo cristiano era che non aveva porte contrassegnate dalla scritta Uscita. (p. 127)
  • Tra tutti i poeti che lessi in questo periodo [...] ce n'era uno che si distingueva dagli altri. Questa poeta era Yeats. Dovetti leggerlo a lungo prima di scoprire la differenza, e forse non l'avrei mai scoperta se non avessi letto anche le sue prose: cose come Rosa Alchemica e Per Amica Silentia Lunae. La differenza era che Yeats credeva. I suoi «immortali» non erano semplicemente frutto della fantasia o del desiderio. Egli credeva realmente che esistesse un mondo di esseri più o meno simili a loro, e che fosse possibile il contatto tra quel mondo ed il nostro. Per dirla in parole povere, credeva seriamente nella Magia. La sua fama di poeta ha in un certo senso oscurato questa parentesi nell'opinione che il pubblico ha di lui, ma sulla cosa non ci sono dubbi, come appresi quando lo conobbi alcuni anni dopo. (p. 129)
  • Quello che mi piace dell'esperienza è che si tratta di una cosa così onesta. Potete fare un mucchio di svolte sbagliate; ma tenete gli occhi aperti e non vi sarà permesso di spingervi troppo lontano prima che appaia il cartello giusto. Potete aver ingannato voi stessi, ma l'esperienza non sta cercando di ingannarvi. L'universo risponde il vero quando lo interrogate onestamente. (p. 131)
  • Tutte le città mostrano sempre alla ferrovia il loro volto peggiore. (p. 136)
  • Mi sorprende il fatto di non aver detestato maggiormente l'Esercito. Era, naturalmente odioso. Ma la parola «naturalmente» ne stemperava il fiele. Ecco in che cosa differiva da[lla scuola di] Wyvern. Non ci si aspettava che ti piacesse. Nessuno pretendeva che ti piacesse. Nessuno fingeva che gli piacesse. Tutti davano per scontato che l'intera faccenda fosse un'odiosa necessità, un'orribile interruzione della vita razionale. La differenza stava tutta lì. È più facile sopportare le tribolazioni vere e proprie che le tribolazioni reclamizzate come un piacere. Le prime favoriscono la camaraderie, e anche (quand'è intensa) una specie d'amore tra compagni di sofferenza; le altre reciproca diffidenza, cinismo mascherato e rancore. (p. 139)
  • Apprezzare un autore è altrettanto involontario e improbabile che innamorarsi. (p. 140)
  • [Parlando di Gilbert Keith Chesterton] Il suo umorismo era del tipo che più mi piace: non delle battute sparse nelle pagine come uvette in una torta, e ancora meno (cosa che non potrei sopportare) un tono generale di frivolezza e di giocosità, ma l'umorismo che non è assolutamente inscindibile dall'argomento ma ne costituisce anzi (per dirla con Aristotele) il «fiore» della dialettica. [...] Nei riguardi dei critici che considerano Chesterton frivolo o «paradossale», devo faticare molto per provare anche solo pietà; la simpatia è fuori discussione. (pp. 140-141)
  • E la distinzione tra fingere di essere migliori di quello che si è e cominciare a essere davvero migliori è più sottile di quanto i segugi morali possano concepire. (p. 142)
  • [Descrivendo la sua esperienza in trincea durante la prima guerra mondiale] Imparai a conoscere, a compatire e a rispettare l'uomo comune. [...] Ma, per il resto, la guerra—con la paura, il freddo, l'odore degli esplosivi, gli uomini orribilmente maciullati che ancora si muovevano come scarafaggi mezzo schiacciati, i cadaveri seduti o in piedi, il paesaggio di terra brulla senza un filo d'erba, gli stivali indossati notte e giorno fino a che non sembravano essersi incollato ai piedi—altro non è che un raro e pallido ricordo. È troppo estraneo al resto delle mie esperienze e spesso ho la sensazione che sia accaduto a un altro. In un certo senso, non è neppure importante. Di tutto ciò che seguì, oggi per me conta più l'impressione del primo proiettile che sentii fischiare: così lontano da me che «sibilò» come il proiettile di un giornalista o di un poeta del tempo di pace. In quel momento non provai nulla che somigliasse neppure da vicino alla paura, e tantomeno all'indifferenza: un piccolo segnale tremolante che diceva: «Ecco la Guerra. Ecco la cosa di cui scriveva Omero». (p. 144)
  • Uno [dei ricordi di guerra] è il momento successivo al mio ferimento, quando scopersi (o credetti di scoprire) che non respiravo più e conclusi di essere morto. Non sentii paura, e nemmeno coraggio. Non sembrava esserci posto per nessuna delle due emozioni. La frase «Ecco un uomo che muore» mi si presentò alla mente con la stessa aridità, banalità e piattezza di una frase da libro di testo. Non era neppure interessante. Il frutto di questa esperienza fu che quando, anni dopo, lessi la distinzione che Kant fa tra noumeno e fenomeno, per me fu più che un'astrazione. L'avevo provata; avevo sperimentato che c'era un «Io» pienamente conscio i cui rapporti con il «me» dell'introspezione erano vaghi ed effimeri. (p. 145)
  • [Parlando di Henri Bergson] Non abolì i miei vecchi amori, ma me ne diede uno nuovo. Da lui appresi per la prima volta il gusto dell'energia, della fertilità, dell'entusiasmo; le risorse, i trionfi, e anche l'arroganza delle cose che maturano. Fui in grado di apprezzare artisti che, credo, prima per me non avrebbero significato nulla; gente ridondante, dogmatica, fiammeggiante, inaccessibile come Beethoven, Tiziano (nelle sue tele mitologiche), Goethe, Dunbar, Pindaro, Christopher Wren, e gli ancora più gioiosi Salmi. (p. 146)
  • Quando si è abbandonata una volta l'assurda nozione che la realtà sia un'alternativa arbitraria al «nulla», si rinuncia a essere pessimisti (oppure ottimisti). Non ha senso criticare o elogiare il Tutto, né, in verità, il parlarne in alcun modo. (p. 150)
  • C'è in essa una difficoltà e (per me) una rassicurante piattezza tutta tedesca che finisce presto per scoraggiare coloro che vi cercano delle emozioni. Né mi fu dato scorgere effetti deleteri sul carattere di coloro che la abbracciano; anzi ebbi modo una volta di verificarne uno ottimo. (p. 151)
  • Eppure in mezzo c'era un elemento realmente salutare. L'assoluto era «lì», e quel «lì» conteneva la riconciliazione di tutti i contrari, la trascendenza di ogni finitezza, la gloria nascosta che è l'unica cosa perfettamente reale che esista. In pratica, aveva molte delle qualità del cielo. Ma si trattava di n cielo al quale nessuno di noi sarebbe mai arrivato. Perché noi siamo apparenze. Essere «lì» è, per definizione, non essere noi. Tutti coloro che abbracciano una simile filosofia vivono, come i pagani virtuosi di Dante, «nel desiderio senza speranza». O, come Spinoza, essi amano tanto il loro Dio da essere incapaci persino di desiderare che Egli possa ricambiare il loro amore. [...] Ciò che appresi dagli idealisti (e che ancora oggi sostengo fortemente) è questa massima: è più importante che il cielo esista, e non che qualcuno di noi possa raggiungerlo. (p. 154)
  • Ecco un uomo [George Herbert] che mi sembrava eccellesse su tutti gli altri autori nell'illustrare la vera qualità della vita come realmente la viviamo di momento in momento; ma il pover'uomo, anziché farlo direttamente, insisteva nel rimeditarla attraverso ciò ch'io avrei ancora chiamato «la mitologia cristiana». (p. 156)
  • Chi non riesce a elevarsi alla nozione di assoluto si accosterebbe alla verità più credendo in «un Dio» che non credendo affatto. Chi non riesce a comprendere come, in quanto Raziocinanti, partecipiamo di un mondo atemporale e perciò immortale coglierebbe un'ombra simbolica della verità credendo in una vita posteriore alla morte. (p. 157)
  • Alla mia venuta in questo mondo mi avevano (tacitamente) avvertito di non fidarmi mai di un papista e (apertamente) al mio arrivo alla facoltà di inglese di non fidarmi mai di un filologo. Tolkien era l'uno e l'altro. (p. 158)
  • Nell'introspezione si cerca di guardare «dentro se stessi» e di vedere che cosa succede. Ma quasi tutto quello che accadeva un istante prima viene bloccato nel momento stesso in cui ci voltiamo a osservarlo. Sfortunatamente, questo non vuol dire che l'introspezione non trovi nulla. Al contrario, trova esattamente quello che la sospensione di tutte le nostre normali attività si lascia dietro; e ciò che si lascia dietro sono principalmente immagini mentali e sensazioni fisiche. Il grande errore consiste nello scambiare questo semplice sedimento o traccia o sottoprodotto per le attività stesse. (p. 159)
  • Non si può amare, temere o pensare senza saperlo. Anziché la duplice suddivisione in conscio e inconscio, ci occorre una triplice suddivisione: l'inconscio, il goduto, e il contemplato. (p. 160)
  • L'amore erotico non è come il desiderio di cibo; anzi, l'amore per una donna differisce dall'amore per un'altra donna nello stesso modo e nella stessa misura in cui le due donne differiscono l'una dall'altra. (p. 160)
  • Il nostro desiderio intellettuale (curiosità) di conoscere la risposta esatta a una domanda è diverso dal nostro desiderio di scoprire che la risposta esatta è questa e non quell'altra. La forma del desiderio è nel desiderio. È l'oggetto a rendere il desiderio acre o dolce, grossolano o delicato, «elevato» o «volgare». È sempre l'oggetto a rendere il desiderio stesso desiderabile o detestabile. (p. 160)
  • Durante il trimestre della trinità del 1929 mi arresi, ammisi che Dio era Dio e mi inginocchiai per pregare: fui forse, quella sera, il convertito più disperato e riluttante d'Inghilterra. Allora non mi avvidi di quello che oggi è così chiaro e lampante: l'umiltà con cui Dio è pronto ad accogliere un convertito anche a queste condizioni. Per lo meno, il figliol prodigo era tornato a casa con i suoi stessi piedi. Ma chi potrà mai adorare adeguatamente quell'amore che schiude i cancelli del cielo a un prodigo che recalcitra e si dibatte, e ruota intorno gli occhi risentito in cerca di scampo? [...] La durezza di Dio è più mite della dolcezza umana, e le Sue costrizioni sono la nostra liberazione. (p. 166)
  • Chiedetevi perché dovremmo obbedire Dio, e in definitiva la risposta sarà sempre: «Io sono». Conoscere Dio è conoscere che la nostra obbedienza gli è dovuta. Nella sua natura si rivela la sua sovranità de jure. (p. 168)

Quando ci si è persi nei boschi la vista di un cartello è una gran cosa. Il primo che lo vede grida: «Guardate!». E tutto il gruppo si raccoglie attorno e guarda. Ma una volta che abbiamo ritrovato la strada e ci imbattiamo ormai a ogni miglio in un cartello, non ci fermiamo più a guardare. Lo consideriamo come un incitamento a proseguire e siamo grati all'autorità che lo ha posto. Ma non ci fermiamo a guardarlo, o non molto; non su questa strada, nonostante il palo sia d'argento e la dicitura d'oro. «Presto saremo a Gerusalemme». Non, naturalmente, che io non mi sorprenda spesso ad osservare oggetti posti al margine della strada di anche minore importanza.

Incipit di alcune opere

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Il cavallo e il ragazzo

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Questa è una storia avvenuta nei regni di Narnia, Calormen e le terre di mezzo durante l'età d'oro, quando Peter era Re supremo di Narnia e suo fratello e le due sorelle regnavano con il suo consiglio.
In quel tempo, in una piccola insenatura sul mare nell'estrema regione meridionale di Calormen, vivevano il povero pescatore Arshish e un ragazzo che lo chiamava "padre"; il nome del ragazzo era Shasta. Di buon ora, quasi ogni mattina, Arshish usciva in mare con la barca da pesca, mentre a metà del giorno, dopo aver imbrigliato l'asino e caricato il carretto con il pesce, se ne andava a sud fino al paese, per vendervi la sua mercanzia.

[C.S. Lewis, Il cavallo e il ragazzo, trad. di Chiara Belliti, Mondadori, 2005]

Il leone, la strega e l'armadio

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C'erano una volta quattro bambini che si chiamavano Peter, Susan, Edmund e Lucy. Vivevano a Londra ma, durante la seconda guerra mondiale, furono costretti ad abbandonare la città per via dei bombardamenti aerei. Furono mandati in casa di un vecchio professore che abitava nel cuore della campagna, e poco meno di venti chilometri dalla più vicina stazione ferroviaria e a tre chilometri e mezzo dall'ufficio postale. Il professore non aveva moglie: alla casa badava la signora Macready, la governante, aiutata da tre cameriere che si chiamavano Ivy, Margaret e Betty (ma nella nostra storia c'entrano poco).

[C.S. Lewis, Il leone, la strega e l'armadio, trad. di Fedora Dei, Mondadori, 2005]

Il nipote del mago

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Questa è una storia di tanto tempo fa, quando vostro nonno era ancora bambino, ed è molto importante perché fa vedere come siano cominciati i va' e vieni dalla terra di Narnia.
In quei tempi Sherlock Holmes abitava ancora in Baker Street e i sei ragazzi Bastable cercavano tesori in piena Londra, sulla Lewisham Road. Allora gli insegnanti erano più severi di adesso e se eravate maschi vi costringevano a portare un fastidiosissimo colletto inamidato. Però si mangiava meglio: per quanto riguarda i dolci, non vi dico quanto erano buoni e a buon mercato perché non voglio farvi venire inutilmente l'acquolina in bocca. Sempre a quei tempi, viveva a Londra una ragazzetta che si chiamava Polly Plummer.

[C.S. Lewis, Il nipote del mago, trad. di Chiara Belliti, Mondadori, 2005]

Il principe Caspian

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C'erano una volta quattro bambini che si chiamavano Peter, Susan, Edmund e Lucy. Nel libro intitolato Il leone, la strega e l'armadio si racconta una loro straordinaria avventura: un giorno, infatti, avevano aperto un armadio magico e si erano trovati in un mondo completamente diverso dal nostro. In quel mondo erano diventati re e regine di una terra chiamata Narnia.

[C.S. Lewis, Il principe Caspian, trad. di Chiara Belliti, Mondadori, 2005]

Il viaggio del veliero

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C'era un ragazzo che si chiamava Eustachio Clarence Scrubb, e se lo meritava. I suoi genitori lo chiamavano Eustachio Clarence, i professori solo Scrubb; non so come lo chiamassero gli amici, visto che Eustachio Clarence non ne aveva. Quando si rivolgeva ai genitori, non li chiamava papà e mamma come qualsiasi altro figlio, ma Harold e Alberta. Erano entrambi persone di mondo e alla moda: non fumavano, non bevevano, erano vegetariani e, come se non bastasse, indossavano uno speciale tipo di biancheria intima.

[C.S. Lewis, Il viaggio del veliero, trad. di Chiara Belliti, Mondadori, 2005]

La sedia d'argento

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Era una giornata d'autunno triste e piovigginosa, e Jill Pole piangeva a dirotto dietro la palestra. Piangeva, la poverina, perché erano stati prepotenti con lei.
Ora, dal momento che la storia che sto per raccontarvi non ha niente a che vedere con la scuola, vi darò solo qualche piccola informazione sull'Istituto di Jill: il che, detto fra noi, non è un argomento piacevole.

[C.S. Lewis, La sedia d'argento, trad. di Chiara Belliti, Mondadori, 2005]

L'ultima battaglia

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Negli ultimi tempi di Narnia, nei pressi della grande cascata a ovest della Landa della Lanterna, viveva una scimmia di dimensioni gigantesche. Era così decrepita e incartapecorita che ormai nessuno ricordava più quando fosse comparsa per la prima volta nella regione. Era uno degli esseri più intelligenti e allo stesso tempo più malvagi che si potessero immaginare. Viveva su una grande quercia, in una piccola capanna con il tetto di foglie e le pareti di legno, costruita sulla biforcazione di due rami enormi.

[C.S. Lewis, L'ultima battaglia, trad. di Chiara Belliti, Mondadori, 2005]

Lontano dal pianeta silenzioso

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Le ultime gocce dell'acquazzone temporalesco avevano appena cessato di cadere, quando il viandante si cacciò la carta topografica in tasca, assestò più comodamente il sacco sulle stanche spalle e, abbandonato il riparo di un grande castagno, si spinse in mezzo alla strada. La luce del tramonto, violenta e gialla, si diffondeva da uno squarcio di nuvole a occidente, ma dritto sopra le colline il cielo aveva il colore bruno dell'ardesia.

Perelandra

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Mentre lasciavo la stazione ferroviaria di Worchester e mi disponevo a una camminata di tre miglia per raggiungere il villino di Ransom, riflettevo che nessuno su quella banchina avrebbe potuto indovinare la verità circa l'uomo che mi recavo a visitare.[12]

Questa orribile forza

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«In terzo luogo, il matrimonio è stato stabilito» disse a se stessa Jane Studdock «per mutua assistenza, l'aiuto e il conforto che ciascuno deve dare all'altro».[12]

Note

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  1. Da The Inner Ring, la conferenza commemorativa che tenne nel 1944 agli studenti del King's College dell'Università di Londra; citato in Philip Zimbardo, L'effetto Lucifero, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2008, p. 383
  2. (EN) Da "Tolkien's The Lord of the Rings", in On Stories and Other Essays on Literature, a cura di Walter Hooper, 1982.
  3. (EN) Da Vivisection (1947), in God in the Dock: Essays on Theology and Ethics, Eerdmans, Grand Rapids, 1970, p. 228.
  4. Da Il cristianesimo così com'è.
  5. Citato in Gulisano, p. 182.
  6. Citato in Gulisano, p. 181.
  7. Da A viso scoperto, traduzione di Maria Elena Ruggerini, Jaca Book, Milano, 1983, p. 193. ISBN 88-16-50012-3
  8. Da Il grande divorzio, p. 81.
  9. Riferimento al verso 75 del canto VII dell'Inferno della Divina Commedia di Dante Alighieri: «sì, ch’ogne parte ad ogne parte splende».
  10. Le donnine, nel contesto gerarchico della scuola, erano i ragazzi più giovani, graziosi ed effemminati, che fungevano da sfogo per gli studenti più anziani.
  11. Frase da Lewis attribuita a Samuel Johnson.
  12. a b Citato in Giacomo Papi, Federica Presutto, Riccardo Renzi, Antonio Stella, Incipit, Skira, 2018. ISBN 9788857238937

Bibliografia

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  • Paolo Gulisano, C. S. Lewis: tra fantasy e vangelo, Ancora, Milano, 2005. ISBN 88-514-0321-X
  • Clive Staples Lewis, Diario di un dolore (A Grief Observed), traduzione di Anna Ravano, Adelphi, 1997.
  • Clive Staples Lewis, I quattro amori (The four Loves), traduzione di Maria Elena Ruggerini, Jaca Book, Milano, 1982.
  • C. S. Lewis, Il cristianesimo così com'è, traduzione di Franco Salvatorelli, Adelphi, 2016.
  • Clive Staples Lewis, Il grande divorzio, traduzione di Emilio Carizzoni, Jaca Book, 20094. (Anteprima su Google Libri)
  • Clive Staples Lewis, Le cronache di Narnia, trad. di Giuseppe Lippi et al., Mondadori, Milano, 2005.
  • Clive Staples Lewis, Le lettere di Berlicche, Il brindisi di Berlicche, traduzione di Albero Castelli e Luciana Lain, Jaca Book, Milano, 20075.
  • Clive Staples Lewis, Lontano dal pianeta silenzioso, traduzione di Franca Degli Espinosa, Milano, Oscar Mondadori, 1979.
  • Clive Staples Lewis, Sorpreso dalla gioia. I primi anni della mia vita (Surprised by Joy: The Shape of My Early Life), traduzione di Franco Marano, Jaca Book, Milano, 2012 (1955). ISBN 978-88-16-37129-3

Voci correlate

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