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'''Bruno Migliorini''' (1896 – 1975), linguista, filologo ed esperantista italiano
'''Bruno Migliorini''' (1896 – 1975), linguista, filologo ed esperantista italiano



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Bruno Migliorini

Bruno Migliorini (1896 – 1975), linguista, filologo ed esperantista italiano

Storia della lingua italiana[modifica]

Incipit[modifica]

Nel lungo periodo che va da Augusto a Odoacre il latino parlato subisce notevoli modificazioni. Benché non si abbia ancora minimamente coscienza di un sistema linguistico nuovo contrapposto a quello antico, molti fra gli elementi che costituiranno il sistema italiano sono già nati o nascono in questi secoli.

Citazioni[modifica]

  • L'espansione del latino a spese delle lingue precedenti non è opera di propaganda conscia dei Romani (una politica della lingua si avrà solo in età moderna) ma del prestigio di cui gode la lingua come veicolo di civiltà. (I. La latinità d'Italia in età imperiale, 5. Condizioni sociali. Il Cristianesimo, p. 17)
  • Moltissime parole mutano di significato in conseguenza della rivoluzione spirituale portata dal Cristianesimo e penetrata in pochi secoli in tutti gli strati della popolazione. La massima parte dei vocaboli che si riferiscono alla vita dello spirito ricevono nuovi significati o almeno nuove connotazioni; i concetti morali e religiosi collegati con il pensiero pagano vengono travolti o sconvolti dalla concezione cristiana e dai nuovi rapporti che essa proclama fra il divino e l'umano. (I. La latinità d'Italia in età imperiale, 16. Semantica cristiana, p. 45)
  • Con il 476 comincia la soggezione politica dell'Italia a stirpi straniere, che durerà molti secoli: fatto anche linguisticamente importante. E nel 960 appare il primo documento in cui si scrive consapevolmente in una nuova lingua: siamo ormai intorno al Mille, quando le sparse membra dell'Italia cominciano a ricomporsi in un barlume d'unità. (II. Tra il latino e l'italiano (476-960), 1. Limiti, p. 49)
  • I documenti in cui per la prima volta il volgare appare in piena luce, coscientemente contrapposto al latino, sono i quattro placiti[1] cassinesi. Si tratta di un gruppetto compatto di quattro pergamene di analogo argomento [...] appartenenti allo stesso tempo (il breve periodo dal 960 al 963) e agli stessi luoghi. [...]
    I quattro passi in volgare sono i seguenti:
    (Capua, marzo 960):
    Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte sancti Benedicti.
    (Sessa, marzo 963):
    Sao cco kelle terre, per kelle fini que tebe monstrai, Pergoaldi foro, que ki contene, et trenta anni le possette.
    (Teano, luglio 963):
    Kella terra, per kelle fini que bobe mostrai, sancte Marie è, et trenta anni la possett parte sancte Marie.
    (Teano, ottobre 963):
    Sao cco kelle terre, per kelle fini que tebe mostrai, trenta anni le possette parte sancte Marie.
    (III. I primordi (950-1225), 8. I placiti cassinesi, pp. 90-91)
  • Per rendersi conto della consistenza e del carattere degli scritti in volgare, bisogna anzitutto tener conto che in questo secolo [XIII secolo] e ancora per lungo tempo, gli scritti in latino rappresentano la stragrande maggioranza. Le opere teologiche e filosofiche, le leggi e i commenti al codice, le cronache, i trattati di medicina e di astrologia: tutto o quasi tutto è in latino. (IV. Il Duecento (1225-1300), 4. Latino e volgare, p. 116)
  • È vera, e in che senso, l'espressione vulgata che chiama Dante «padre della lingua italiana» o l'altra, un po' meno forte, ma non meno onorevole, per cui il Petrarca lo chiamò (Sen., V, 2) dux nostri eloquii vulgaris?
    [...] ove si intenda «lingua» nel senso di «lingua capace di tutti gli usi letterari e civili», è indiscutibile che a Dante spettano i meriti di un demiurgo.[2] Prima di lui alla preponderanza schiacciante del latino, e all'uso occasionale delle due lingue di Francia [lingua d'oc e lingua d'oïl], letterariamente insigni, non si contrapponevano che dialetti in via di dirozzamento, e tentativi sporadici di assurgere all'arte e alla bellezza. Tutta l'opera di Dante ha una «carica» spirituale nuova e potente, che in breve tempo opera un rivolgimento nell'opinione pubblica in Toscana e fuori, e fa d'un balzo assurgere l'italiano al livello di grande lingua, capace di alta poesia e di speculazioni filosofiche. (V. Dante, 1. Dante «padre della lingua», p. 167)
  • Ciò che conta del Petrarca in una storia della lingua italiana è solo la sua lirica; di prosa italiana non abbiamo nulla (non contano le poche righe di una lettera a Leonardo Beccanugi); lontana e indiretta è l'importanza delle sue opere latine. (VI. Il Trecento, 7. Petrarca, p. 190)
  • Se esaminiamo complessivamente lo stato della lingua italiana durante il Quattrocento, notiamo una differenza notevole fra la prima e l'ultima parte del secolo, e fra l'atteggiamento della Toscana e quello del resto d'Italia.
    Nei primi decenni il volgare è depresso e sminuito nell'opinione generale, di contro al latino esaltato dal trionfante umanesimo: esso è ridotto a funzioni modeste, quasi ancillari. [...] Poiché chi vuol essere elegante scrive in latino, l'eleganza è scarsamente curata da chi scrive in volgare. Nei testi senza pretese [...] la lingua fluisce schietta e senza fronzoli; ma se chi scrive ha la più modesta preoccupazione letteraria, sùbito fioccano dalla penna latinismi in copia. (VII Il Quattrocento, 4. La «crisi» quattrocentesca, pp. 230-231)
  • Se leggiamo una pagina di prosa, anche d'arte, degli ultimi anni del Quattrocento o dei primi del Cinquecento, ci è di solito abbastanza facile dire da quale regione proviene, mentre per un testo della fine del Cinquecento la cosa è assai malagevole. [...]
    Ma se una notevole uniformità della lingua scritta si sta attuando tra le persone colte, per quella parlata si è ancora molto indietro. (VIII Il Cinquecento, 6. La lingua letteraria, p. 303)
  • Il latino [ nel XVII secolo] ha ancora una posizione di privilegio in molti campi. L'insegnamento universitario è impartito esclusivamente in latino, e solo le lezioni private[3] e certi compendi paragonabili alle nostre dispense sono in italiano. Quanto all'insegnamento meno elevato, ricordiamo che ancora la Ratio studiorum[4] della Compagnia di Gesù[5] nel 1661 non considera affatto la lingua materna. (IX Il Seicento, 4. Latino e italiano, p. 392)
  • I dialetti [ nel XVII secolo] ancora vigoreggiano: dobbiamo presumere che, all'infuori della Toscana e di Roma, il toscano letterario fosse scarsamente divulgato nell'uso parlato quotidiano, e che in ciascun luogo predominasse il rispettivo dialetto, fin che si parlava fra concittadini. Qualche sforzo lo facevano solo le persone più elevate. Ma scrivendo è di regola usare l'italiano, anche se qua e là rimanga qualche traccia dialettale. (IX Il Seicento, 7. Uso effettivo e uso riflesso dei dialetti, p. 406)
  • I primi decenni [ del XVIII secolo] sono dominati dall'Arcadia la quale ha grande importanza per i principi che essa propugnò: la reazione al secentismo e quindi all'abuso dei traslati[6]. Il ritorno al canone dell'imitazione (dei classici e del Petrarca), il culto della perizia formale, ma ancora più per l'aver diffuso questo programma fra i letterati di tutta l'Italia introducendo la poesia nel costume sociale. Se non ne nacquero capolavori, ne nacque un operato ben concertato, che giovò a ridurre le tendenze particolaristiche. (X Il Settecento, 5. Scritti in versi e scritti in prosa, p. 455)
  • Nel 1816 ha inizio la polemica sul romanticismo: i romantici rinnegano il principio d'imitazione, proclamano morta la vecchia mitologia e vorrebbero una letteratura e una lingua che esprimessero le idee di un'Italia giovane e fresca, all'unisono col resto d'Europa. Di qui la necessità di stretti contatti fra la lingua scritta e la lingua parlata, per meglio aderire alla realtà delle cose. (XI Il Primo Ottocento (1796-1861), 4. Principali tendenze nel mutamento linguistico, p. 531)
  • Il conseguimento dell'unità nazionale, con l'influenza esercitata dalla nuova capitale (per brevi anni Firenze, poi definitivamente Roma), porta a conguagli linguistici attivi. E la nuova partecipazione alla vita civile di ceti sempre più ampi fa si che l'uso della lingua scritta e parlata estenda man mano il suo àmbito. [...]
    Già nel 1860-70 il purismo[7] ha perduto ogni forza di persuasione: si pensi ai molti scrittori che dopo aver fatto il loro tirocinio alla sua scuola escono dalle strettoie: il De Sanctis, il Carducci, il D'Ancona, Adolfo Bartoli[8], e tanti altri. [...]
    I letterati, alla ricerca di una forma bella, espressiva, la perseguono secondo varie tendenze, ma ormai non v'è più alcuno che accetti come modello da imitare pedissequamente gli scrittori del passato (Trecentisti, Cinquecentisti). (XII Mezzo secolo di unità nazionale (1861-1915), 4. Principali tendenze nel mutamento linguistico, p. 604)

Explicit[modifica]

Quale sia per essere la lingua di domani non è possibile vaticinare, se non ripetendo quelle parole on cui Gino Capponi concludeva il suo noto saggio della Nuova Antologia (1869): «la lingua italiana sarà ciò che sapranno essere gli Italiani».

Note[modifica]

  1. Cfr. voce su Wikipedia.
  2. Cfr. voce su Wikipedia.
  3. Abbiamo notizia che Gustavo Adolfo volle da Galileo «nell'istessa casa di lui (con l'interesse di esercitarsi insieme nelle vaghezze della lingua toscana) sentire l'esplicazione della sfera, le fortificazioni, la prospettiva» (Opere, ed. nazionale, XIX, p. 629). [N.d.A.]
  4. Cfr. voce su Wikipedia.
  5. Cfr. voce su Wikipedia.
  6. Cfr. voce su Wikipedia.
  7. Cfr. voce su Wikipedia.
  8. Cfr. voce su Wikipedia.

Bibliografia[modifica]

  • Bruno Migliorini, Storia della lingua italiana, introduzione di Ghino Ghinassi, Bompiani, Milano, 1994. ISBN 88-452-2153-9.

Voci correlate[modifica]

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