Tullio Kezich: differenze tra le versioni

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{{Intestazione| 1=''[https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1988/03/29/renato-salvatori-divo-di-un-cinema-che.html Renato Salvatori divo di un cinema che non c'è più]'', ''la Repubblica'', 29 marzo 2008.}}
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*{{NDR|Su [[Renato Salvatori]]}} [[Luchino Visconti]], che lo amava moltissimo, protesse la sua unione con [[Annie Girardot]] come un vecchio zio. Lo trattava in maniera burbera, provocandolo, sgridandolo, bruscamente lodandolo quand' era il caso. E Salvatori visse qualche anno di intensa vita artistica, con titoli che formerebbero (e senza dubbio alla prima occasione formeranno) una "personale" di tutto rispetto. Da ''I soliti ignot''i di [[Mario Monicelli|Monicelli]] a ''Un giorno da leoni'' di [[Nanni Loy|Loy]], da ''La banda Casaroli'' di [[Florestano Vancini|Vancini]] ai misconosciuti ''Omicron'' di [[Ugo Gregoretti|Gregoretti]] e ''Una bella grinta'' di [[Giuliano Montaldo|Montaldo]], da ''I compagni'' di Monicelli ad altri che sarebbe troppo lungo elencare.
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*Perché il cinema chiuse le porte a [[Renato Salvatori|Renato]], o perché Renato voltò le spalle al cinema? Negli ultimi anni, si era dedicato ad altre attività, parlava del passato con rabbia e nostalgia. Era invecchiato, ma le rughe lo rendevano più interessante. Lo consideravano troppo legato a un momento irripetibile della nostra storia, troppo legato a un costume per non imporre stucchevoli confronti con il passato? Fatto sta che si ritrovò addosso, da un momento all'altro, quell'etichetta di "has been" (è stato) fatale a tanti campioni dello spettacolo. Non aveva un retroterra professionale di dizione e voce impostata, persa l'occasione al momento giusto non poteva fare teatro. Si contentò di vivere ai margini dell' ambiente che amava e non era più il suo. Mi par di capire che si distrasse in vari modi: con le carte, con il bicchiere.
*Perché il cinema chiuse le porte a [[Renato Salvatori|Renato]], o perché Renato voltò le spalle al cinema? Negli ultimi anni, si era dedicato ad altre attività, parlava del passato con rabbia e nostalgia. Era invecchiato, ma le rughe lo rendevano più interessante. Lo consideravano troppo legato a un momento irripetibile della nostra storia, troppo legato a un costume per non imporre stucchevoli confronti con il passato? Fatto sta che si ritrovò addosso, da un momento all'altro, quell'etichetta di "has been" (è stato) fatale a tanti campioni dello spettacolo. Non aveva un retroterra professionale di dizione e voce impostata, persa l'occasione al momento giusto non poteva fare teatro. Si contentò di vivere ai margini dell' ambiente che amava e non era più il suo. Mi par di capire che si distrasse in vari modi: con le carte, con il bicchiere.
*[[Renato Salvatori|Renato]] era attratto dalla gente di penna e di pensiero. Gli piaceva fare le ore piccole, in via Veneto, da Rosati o da Doney, ascoltando discorsi che non capiva fino in fondo, ma che (dato importantissimo, fu il segreto della sua simpatia) non fingeva mai di capire. In quegli anni la sua naturalezza conquistò tutti; e la sua carriera cinematografica prese senza sforzo le vie del film impegnato fino al trionfo di ''Rocco e i suoi fratelli''.
*[[Renato Salvatori|Renato]] era attratto dalla gente di penna e di pensiero. Gli piaceva fare le ore piccole, in via Veneto, da Rosati o da Doney, ascoltando discorsi che non capiva fino in fondo, ma che (dato importantissimo, fu il segreto della sua simpatia) non fingeva mai di capire. In quegli anni la sua naturalezza conquistò tutti; e la sua carriera cinematografica prese senza sforzo le vie del film impegnato fino al trionfo di ''Rocco e i suoi fratelli''.

Versione delle 18:50, 31 dic 2020

Tullio Kezich (1928 – 2009), critico cinematografico, sceneggiatore e attore italiano.

Citazioni di Tullio Kezich

  • offre due letture: la prima è quella riservata a un clan di amici e conoscitori, in grado di cogliere ai vari livelli i riferimenti multibiografici, di decifrare divertendosi le chiavi del racconto. [...] La seconda lettura di è quella che interessa il comune spettatore e bisogna dire che il film regge bene. L'ambiente e la sua fauna, evocati con rapidi tratti da grande umorista, hanno un'importanza secondaria di fronte al cuore del problema, cioè la domanda fondamentale: la ragione della nostra presenza nel mondo.[1]
  • Ciò che affascina in "Entrapment" è la delicatezza con cui si descrive la senilità di un eroe, capace di accettare con la femmina un continuo scambio di ruoli restando fedele ai propri codici di comportamento: "L'esperienza prima della confidenza".[2]
  • E poi, doveva succedere, il film ormai pronto diventò una cosa di tutti. Deflagrò come una bomba nel febbraio '60 e il giorno dopo qualcuno si accorse che l'Italia non era più la stessa. Certo non l'aveva cambiata La dolce vita, ma ne era stato l'annuncio vistoso: il segnale di un decennio di mutazioni che si sarebbero succedute a rotta di collo. Sbarcati dalla gran nave felliniana, a noi girava un po' la testa; e così, nel rimpianto di quelle notti luminose e illuminanti, ci preparammo ad annoiare i nipotini raccontando: io c'ero...[3]
  • "Entrapment" fa di Bond un vecchio eroe alla Svevo. Ma che "hommage à Sean Connery", ho sentito mugugnare sulla "Croisette": questa presentazione in pompa magna di "Entrapment" fuori concorso è piuttosto un omaggio del Festival al cinema commerciale.[2]
  • La mondina in calzoncini, interpretata da Silvana Mangano, divenne un'icona del cinema italiano e anticipò il fenomeno delle maggiorate degli anni Cinquanta.[4]
  • [Su Operazione Valchiria] Fu così che Stauffenberg si trasformò in un aspirante chirurgo della storia: come Bruto, Bresci e gli altri che nei secoli hanno tentato di modificare a mano armata i destini della patria. Sotto tale profilo, fallita la vasta congiura che riuscendo avrebbe risparmiato al mondo ulteriori milioni di vittime, Claus fu atrocemente denigrato. Perfino il New York Times, nel dare la notizia, lo chiamò «the assassin»: bella gratitudine da parte americana, non c' è che dire.[5]
  • [Su Scoprendo Forrester] La vicenda procede su tempi stiracchiati: si capisce subito che lo scrittore imboscato è l'ennesima reincarnazione del burbero benefico e ci sarebbe perfino da sospettare una sottintesa implicazione omosessuale se il divo britannico non fosse l'epitome della virilità. In ogni modo, anche in un film convincente sino a metà, Connery è sempre Connery. Ovvero un attore che ogni volta riesce a illuderti di avere incontrato un essere umano.[6]
  • Nel film [Café Express] convergono, con risultati quasi sempre efficaci, la vena neorealistica di un regista memore di De Sica-Zavattini (il modo di vedere i ricchi è ancora quello di Miracolo a Milano, il finale su padre e figlio ricorda Ladri di biciclette) e la grande tradizione del teatro dialettale napoletano. Abbiamo fatto il nome di Eduardo perché in questo film Nino Manfredi si conferma come l'attore italiano che ne ha meglio assimilato la lezione: qui, per esempio, assomiglia all'Eduardo di trent'anni fa più dello stesso Eduardo ascetico ed essenziale di oggi. Del suo modello Manfredi riproduce genialmente le coloriture, i tempi, le ironie, gli scandagli emotivi da racconto russo; e alla vena pirandelliana di Eduardo rimanda anche il discorso su verità e finzione che nasce intorno al braccio di legno. Staccandosi dalla matrice di un film inventato sulla realtà, Manfredi scivola in leggerezze verso un gran teatro: infatti recita come se avesse lo spettatore davanti e potesse sfruttarne le reazioni, adattandosi al suo respiro e strapparne l'immediato consenso...[7]
  • [Su Scent of a Woman - Profumo di donna] Nel rifacimento americano Al Pacino è accompagnato da un giovane studente, Chris O'Donnell, che sembra uscito da "L'attimo fuggente", e le peripezie della coppia sono molto più spettacolari e incredibili, inclusa una scorribanda in una Ferrari pilotata dal cieco.[8]
  • «Salvatore Giuliano» è il capolavoro di un grande regista [Francesco Rosi] che anziché limitarsi a rappresentarla è riuscito a trasferire sullo schermo una verità non solo cronachistica o giudiziaria. Il momento alto fu la ricostruzione della strage di Portella, nei luoghi veri e con gli autentici abitanti dei paesi coinvolti come in uno psicodramma. Solo il cinema permette di fare esperienze di questo genere.[4]
  • Se è vero che la lavorazione di ogni film felliniano è caratterizzata da un'atmosfera particolare, da un umore predominante del regista che lo accompagna dall'inizio alla fine, è insieme il film del dubbio e dell'ostinazione, della tentazione di piantare tutto e del perfezionismo esasperato. Nebuloso nella progettazione, accuratissimo nell'esecuzione.[9]
  • [Su Fargo] Straordinaria tragicommedia dove le più svariate e raffinate componenti intellettuali si innestano su una trama di genere, Fargo gioca a opporre la normalità del bene alla normalità del male: l'una e l'altra sono rappresentate con ineffabile ironia in situazioni e dialoghi essenziali. I personaggi appaiono immersi nel torpore della vita provinciale, sia quelli che hanno trascurato di mettere l'orologio all'ora attuale, sia quelli che si illudono di incrementare il proprio destino con spunti di cinismo o atti di violenza. Tutti guardano la Tv: ladri, guardie e gente comune. E Marge, in particolare, è una donna comune di tipo non comune: la prova vivente che nella confusione odierna l'attaccamento tranquillo ai propri compiti (il marito, la famiglia che cresce, il dovere del servizio) rappresenta l'unica alternativa. [...] Vorrei concludere, profetizzando: è un film che resterà.[10]
  • [Su Renato Salvatori] Luchino Visconti, che lo amava moltissimo, protesse la sua unione con Annie Girardot come un vecchio zio. Lo trattava in maniera burbera, provocandolo, sgridandolo, bruscamente lodandolo quand' era il caso. E Salvatori visse qualche anno di intensa vita artistica, con titoli che formerebbero (e senza dubbio alla prima occasione formeranno) una "personale" di tutto rispetto. Da I soliti ignoti di Monicelli a Un giorno da leoni di Loy, da La banda Casaroli di Vancini ai misconosciuti Omicron di Gregoretti e Una bella grinta di Montaldo, da I compagni di Monicelli ad altri che sarebbe troppo lungo elencare.
  • Perché il cinema chiuse le porte a Renato, o perché Renato voltò le spalle al cinema? Negli ultimi anni, si era dedicato ad altre attività, parlava del passato con rabbia e nostalgia. Era invecchiato, ma le rughe lo rendevano più interessante. Lo consideravano troppo legato a un momento irripetibile della nostra storia, troppo legato a un costume per non imporre stucchevoli confronti con il passato? Fatto sta che si ritrovò addosso, da un momento all'altro, quell'etichetta di "has been" (è stato) fatale a tanti campioni dello spettacolo. Non aveva un retroterra professionale di dizione e voce impostata, persa l'occasione al momento giusto non poteva fare teatro. Si contentò di vivere ai margini dell' ambiente che amava e non era più il suo. Mi par di capire che si distrasse in vari modi: con le carte, con il bicchiere.
  • Renato era attratto dalla gente di penna e di pensiero. Gli piaceva fare le ore piccole, in via Veneto, da Rosati o da Doney, ascoltando discorsi che non capiva fino in fondo, ma che (dato importantissimo, fu il segreto della sua simpatia) non fingeva mai di capire. In quegli anni la sua naturalezza conquistò tutti; e la sua carriera cinematografica prese senza sforzo le vie del film impegnato fino al trionfo di Rocco e i suoi fratelli.

Citazioni su Tullio Kezich

  • È stato un grande intellettuale. Non sapevo che fosse stato decisivo per l' esordio di Lina Wertmüller, quello che ha fatto per Franco Giraldi e per i Taviani o l' esperienza sul set di Rosi per Salvatore Giuliano che si trasformò in un libro. (Carlo Lizzani)
  • [In omaggio a Tullio Kezich] Fu Tullio a chiedermi scherzando, quando fosse arrivato il momento, di organizzare qualcosa in sua memoria, in qualche modo l'omaggio l'ha fissato lui. (Felice Laudadio)
  • Lo stimavo moltissimo, da sempre. I suoi libri e le sue recensioni mi avevano aiutato ad amare il cinema e a saperne di più, pertanto provavo estremo dolore quando i miei film non lo convincevano. È accaduto diverse volte, sfortunatamente. Tuttavia il nostro rapporto di cordiale amicizia non si è mai incrinato, e la mia considerazione per la sua alta statura intellettuale non è mai venuta meno. Cresceva, semmai, il mio senso di inadeguatezza nei confronti delle sue aspettative. Del resto quale regista non ha tremato nel leggere la recensione di Kezich? Ma nessuno ha mai temuto che la sua analisi, per quanto spietata, potesse contemplare l'uso del disprezzo o dell'irrisione. La ragione, semplice, è che Tullio Kezich nutriva il più assoluto rispetto per il mestiere del cinema, e li conosceva bene i tormenti e i drammi che si consumano all'ombra della macchina da presa, essendo stato molte volte dall'altra parte della barricata, come produttore, sceneggiatore e ispiratore di talenti. Per questo motivo giudicava a fondo, con cognizione di causa, costringendoti alla riflessione, e anatomizzava i film insegnandoti. Una figura di critico cinematografico davvero singolare. (Giuseppe Tornatore)

Film

Note

  1. Da Federico: Fellini, la vita e i film, Feltrinelli Editore, 2002, pp. 235-236. ISBN 88-07-49020-X
  2. a b Da "Entrapment" fa di Bond un vecchio eroe alla Svevo, Corriere della Sera, 15 maggio 1999, p. 37.
  3. Da Un film destinato a non finire mai; in Noi che abbiamo fatto La dolce vita, Sellerio, Palermo, 2009, pp. 13-14. ISBN 88-389-2355-8
  4. a b Citato in Corriere della Sera, 20 ottobre 2005.
  5. Da Corriere della Sera, 30 gennaio 2009.
  6. Da Se James Bond diventa scrittore, Corriere della Sera, 24 marzo 2001, p. 36.
  7. Da una recensione del film Café Express su la Repubblica, 16 febbraio 1980.
  8. Da Bisogna dire grazie a Gassman, Corriere della Sera, 4 gennaio 1996, p. 24.
  9. Da Federico: Fellini, la vita e i film, Feltrinelli Editore, 2002, p. 238. ISBN 88-07-49020-X
  10. Da L'America dei fratelli Coen fa centro a Cannes, Corriere della Sera, 15 maggio 1996, p. 31.

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