Gino Monaldi: differenze tra le versioni

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'''Gino Monaldi''' (1847 – 1932), impresario operistico e critico musicale italiano.
'''Gino Monaldi''' (1847 – 1932), impresario operistico e critico musicale italiano.

==Citazioni di Gino Monaldi==
*Nei [[Camerino (teatro)|camerini]] degli artisti uomini è cosa difficilissima mettersi a sedere. Sedie, sgabelli, divani, se ve ne sono, tutto è ingombro. Biancherie, abiti, pantaloni, mutande, maglie, barbe, parrucche, mantelli, elmi, corazze, gambali, stivaloni, scarpe, giustacuori, ogni cosa alla rinfusa, non solo sulle sedie e sul divano, ma sulle valigie, sulle ceste e sopra ogni altro piano di appoggio. Sembra uno sgabuzzino di rigattiere in un momento di vendita. Volendo sedersi, e molti lo tentano, specialmente gl'intimi, conviene non preoccuparsi del danno che si può fare e di quello che si può ricevere, e questo è il più frequente.<ref>Da ''Memorie d'un suggeritore'', p. 98.</ref>


==''Le regine della danza nel secolo XIX''==
==''Le regine della danza nel secolo XIX''==

Versione delle 10:36, 1 ago 2021

Gino Monaldi (1847 – 1932), impresario operistico e critico musicale italiano.

Citazioni di Gino Monaldi

  • Nei camerini degli artisti uomini è cosa difficilissima mettersi a sedere. Sedie, sgabelli, divani, se ve ne sono, tutto è ingombro. Biancherie, abiti, pantaloni, mutande, maglie, barbe, parrucche, mantelli, elmi, corazze, gambali, stivaloni, scarpe, giustacuori, ogni cosa alla rinfusa, non solo sulle sedie e sul divano, ma sulle valigie, sulle ceste e sopra ogni altro piano di appoggio. Sembra uno sgabuzzino di rigattiere in un momento di vendita. Volendo sedersi, e molti lo tentano, specialmente gl'intimi, conviene non preoccuparsi del danno che si può fare e di quello che si può ricevere, e questo è il più frequente.[1]

Le regine della danza nel secolo XIX

  • Per la società parigina dell'ultimo scorcio del secolo decimottavo la Guimard rappresentò la poesia d'una fata, fata incantatrice sulla scena, e fata pietosa e caritatevole fuori di essa. La sua grande ricchezza permettevagli prodigalità eccessive. Le sue feste hanno lasciato ricordi di sontuosità leggendaria. La bontà del suo cuore ebbe talvolta ispirazioni felici. (p. 22)
  • [...] il Viganò scavò un solco luminoso nel sentiero dell'arte e portò la coreografia italiana a un'altezza a cui non era mai salita sino allora. Con lui il ballo, deposto ogni residuo di quella licenza, spesse volte oscena, degli antichi, corre speditamente verso più civile e nobile missione: quella di scuotere gli animi, e suscitare commozioni non inferiori a quelle provocate dalla rappresentazione drammatica. (p. 61)
  • Tanto questi [Salvatore Viganò] quanto il Gioja e come pure il Garzia, altro e più modesto compositore dell'epoca, fecero a gara per incontrare il favore della grande Pallerini e scrivere balli in cui ella avesse agio e modo di far pompa della sua affascinante eloquenza di mima e della sua leggerezza di silfide. (p. 64)
  • Il Blasis è riguardato a ragione come caposcuola, poiché allargò infatti i confini dell'arte della danza, le diede lustro e decoro massimo e le affidò uno scopo. Egli fu il vero fondatore della grande scuola italiana. I suoi balli infiniti appartengono a tutti i generi: eroici, epici, biblici, mitologici, anacreontici, misti, tragici, poetici, cavallereschi, fantastici, romantici. E pensare che di tutte queste sue azioni coreografiche non una è arrivata sino a noi! (pp. 94-97)
  • L'agilità e la leggerezza della Grisi erano invero stupefacenti. Nel ballo Paquita eseguiva un passo d'una arditezza iperbolica. Erano una serie di salti a cloche-pied sulle punte, con delle piroette d'una velocità vertiginosa, che producevano meraviglia mista a spavento. Questo passo, malgrado la sua difficoltà inverosimile, la Grisi lo ripeteva per ben otto volte. Il pubblico dell'Opéra vi andava in visibilio. (p. 169)
  • [Carolina Rosati] [...] possedeva l'armonia perfetta delle forme. Elegante di modi, aggraziata nella persona, dotata di squisito buon gusto, conoscitrice profonda dell'arte sua, appartenente a scuola purissima, essa esercitò un fascino straordinario sul pubblico. (p. 176)
  • [Carolina Rosati] Natura le donò tutto per essere perfetta. (p. 176)
  • Nella Gisella del Cortesi faceva il suo debutto la Sofia Foco, danzatrice vivacissima che giustificava il proprio nome. Essa possedeva anzitutto un merito rarissimo nella danza – arte assai limitata – l'originalità. Essa non aveva niente a che fare con la Taglioni, con l'Elssler, con la Grisi, con la Gratin, con la Cerrito. Le sue punte in ispecie erano sorprendenti. Essa eseguiva tutta una intera variazione senza posare in terra il tallone una sola volta. I suoi piedi potevano paragonarsi a due freccie d'acciaio che rimbalzassero sopra un pavimento di marmo. Non un istante di mollezza, di oscillazione, di tremito. Il suo pollice inflessibile non tradiva mai il peso del corpo leggerissimo della danzatrice. (pp. 183-184)
  • Pochi ricordano oggi [Luigi Manzotti] il glorioso autore dell'Excelsior come mimo. Quelli però che al pari di me poterono vederlo nella Esmeralda, nella Cleopatra, nel Muzio Scevola, nel Masaniello[2], e ne' suoi balli Rolla e Pietro Micca non potranno dimenticarlo. Egli non aveva nulla a che fare con quegli attori-mimi, anche i più celebrati, che sembravano tanti mulini a vento sulla scena per la velocità del gesto e la irrequietezza continua dei movimenti. Il Manzotti sapeva esprimere tutto ciò che voleva dire con un'eloquenza mimica ammirevole. (p. 218)
  • [Luigi Manzotti] Il volto era lo specchio del sentimento, il suo gesto la sua parola. La plastica bellissima della persona sempre scultoriamente atteggiata, gli serviva stupendamente a conferire al personaggio da lui rappresentato l'idealizzazione scenica necessaria. Bastava osservarlo per intenderlo e capirlo come un attore drammatico: talvolta anche meglio. (p. 218)

Cantanti celebri del secolo XIX

  • La cronaca narra che la Grassini, nonostante la volubilità e l'incostanza del suo carattere, provasse qualche slancio di sincero amore per il grande Monarca [Napoleone], tanto che si vuole che in una rappresentazione alle Tuileries, nella quale sosteneva la parte di Cleopatra, aggiungesse e dirigesse a lui i seguenti versi:
    Sposa sarò se vuoi, non dubitar di me; | ma uno sguardo sereno ti chiedo d'amor.
    (cap. I, p. 6)
  • I frequenti amori e le più frequenti infedeltà procurarono alla Grassini sorprese non sempre liete. Il principe Augusto, duca di Sussex, figlio di re Giorgio III d'Inghilterra, raccontava al celebre Lablache[3] che per punire la Grassini di alcune infedeltà, una bella sera d'estate, mentre in barca, al chiaro di luna, si cullava sulle onde paradisiache del golfo di Napoli, la fece afferrare di peso da due vigorosi barcaioli e gettarla in mare. Ma, soggiungeva il principe, quel demonio di femmina sapeva nuotare, e all'indomani mi fece pagare ben caro il suo bagno involontario! (cap. I, p. 7)
  • Il genio di Rossini era fecondo come quello di Napoleone: dovunque esso toccava dava vita a nuove e vigorose energie. Il contatto di Napoleone creava gli eroi, quello di Rossini i cantanti. (cap. I, p. 16)
  • [...] la potenza vocale del Lablache risultava così esuberante, l'impressione che produceva sul pubblico era così stupefacente che le voci dei suoi compagni insigni, compreso il Galli[4], rimanevano schiacciate dal vivo ricordo di quel suo formidabile suono. (cap. I, p. 22)
  • Il Duprez, allievo dell'illustre Choron[5], riuscì uno dei più famosi tenori del mondo, unicamente con la forza indomabile della sua volontà. La natura non lo aveva infatti troppo favorito: la sua voce era debole e sorda di timbro (ciò che chiamasi, in francese, une voix sombrée); ebbene, egli arrivò, a furia d'ingegnosi espedienti, a renderla forte, intensa, robustissima. (cap. IV, p. 66)
  • [Gilbert Duprez] Il suo profondo sentimento drammatico e il suo modo ammirabile di dire il recitativo lo resero [...] uno dei tenori più ammirati del suo tempo. Rossini, dopo averlo sentito nel Guglielmo Tell, corse ad abbracciarlo piangendo. Chiestagli la ragione di quel pianto, il grande Maestro rispose: «Io piango perché coloro, e sono molti, che udirono stasera il Guglielmo cantato da Duprez, non potranno più sentirlo da altri, e il Duprez, disgraziatamente, non potrà durar molto».
    La triste profezia del Rossini non tardò ad avverarsi.[6] (cap. IV, p. 66-67)
  • Il Duprez, abusando delle sue forze, cantava tutta intera [nel Guglielmo Tell] la parte di Arnoldo a piena voce, senza una sola nota di falsetto. L'effetto del suo do di petto era meraviglioso. L'esempio del Duprez fece scuola, ma scuola purtroppo pericolosa.[6] (cap. IV, p. 68)
  • La cosa più pregevole nell'arte del Tamberlick era la declamazione cantata dei recitativi, che si manifestava con una ampiezza e nobiltà di fraseggio assolutamente impareggiabile. Nelle opere di Rossini, in cui il recitativo ha importanza somma, il Tamberlick non aveva rivali, e coloro che presumevano emularlo, imitandolo, divenivano piccoli – anche se grandissimi – vicino a lui. (cap. VI, p. 108)
  • Una sera al teatro Pagliano di Firenze l'entusiasmo sollevato dal Boucardé nella efficacissima apostrofe [del Trovatore]: «Ah! questa infame l'onore ha venduto» raggiunse tale intensità che fra gli spettatori della platea e quelli del loggione che esigevano una terza replica del pezzo, nacque così clamoroso tumulto da far temere si rinnovasse uno dei sanguinosi episodî fra le antiche fazioni dei Guelfi e Ghibellini !... (cap. VI, p. 112)
  • Boucardé fu il cantante che più e meglio d'ogni altro seppe penetrare nel cuore del popolo e più lungamente e genialmente rimanervi. La sua era arte tutta d'istinto che improvvisamente gli suggeriva l'accento e l'espressione della frase musicale facendogli ottenere effetti poderosi. (cap. VI, p. 112)
  • [Carlo Boucardé] La sua voce non poteva dirsi bella e nemmeno estesa. Tuttavia egli sapeva modularla con dolcezza infinita e smorzarla gradatamente sino a ridurla un lieve sospiro. La sua mezza voce era un incanto! Rammento il Boucardé vecchio e già ritirato dalle scene nel 1864 a Milano e ricordo che una sera, al famoso Caffè Martini, allora convegno di tutti i cantanti grandi e piccini, in attività e in riposo, essendosi posto a canterellare sottovoce lo «Spirto gentil» della Favorita, in un momento tutto il pubblico d'ogni specie che affollava le sale gli si fece attorno, attratto da quel dolcissimo canto e beato dell'espressione paradisiaca con cui il grande tenore accentava le flebili e amorose note. (cap. VI, pp. 112-113)
  • Un altro solo cantante, il Giuglini, il tenore soave per eccellenza, superava il Boucardé nello «Spirto gentil»; ma la superiorità era tutta nell'arte impareggiabile con cui il Giuglini era riuscito a legare le note lunghe e tenute di quella romanza, in guisa da rendere persino inavvertita la ripresa dei fiati. Lo «Spirto gentil» cantato dal Giuglini poteva dirsi, anzi che cantato, suonato dall'arco magico del Paganini. (cap. VI, p. 113)
  • Io non avevo udito peranco la Stolz e non credevo mai che una voce umana potesse raggiungere tale forza e intensità di suono.
    Il famoso do di petto ch'essa lanciava all'unisono coll'orchestra e col coro, aveva qualche cosa d'inverosimile. (cap. IX, pp. 171-172)
  • [...} coll'esercizio e lo studio la voce della Mariani [che proveniva dalle file delle coriste] acquistò tale densità e robustezza da farla divenire ben presto un soprano drammatico chiaro e deciso, la cui poderosità vocale, più e meglio che in due o tre note acute, si esplicava ugualmente in tutta la scala e segnatamente nell'ottava media – la parte, in genere, più debole delle prime donne drammatiche attuali. Conscia di questa sua forza, essa era presa sovente dal desiderio di farne mostra, e ciò costituiva un lenocinio non lodevole di cui, pur troppo, le cantanti venute dopo di lei, e procedenti sulla stessa via, si sono compiaciute con danno della logica e del buon gusto, e soprattutto delle voci. (cap. XII, p. 213)
  • [..] il Tamagno, sottò l'impulso titanico del sommo Maestro [Giuseppe Verdi], mutò d'un tratto la sua natura e subì in quei pochi mesi una metamorfosi completa. Tamagno-Otello apparve una rivelazione. divenuta poi leggenda portentosa, tanto che oggi, dopo circa venti anni, essa è più viva di prima.
    Ciò che Tamagno ha saputo fare nell'Otello è cosa che, se non fosse vera, non sarebbe credibile. (cap. XIV, p. 259)
  • Ricordo che il Verdi ebbe a dirmi una volta: «Oh! se a Tamagno[7] e a Maurel[8] potessi mettere accanto una Desdemona ideale!» Orbene, questa Desdemona ideale, sospirata dal Verdi, la si trovò finalmente nel 1892 in Hariclea Darclée. (cap. XV, p. 280)
  • Hariclea Darclée, come in genere tutte, o quasi, le cantanti straniere d’una certa rinomanza, aveva la gola educata a sapiente e laboriosa ginnastica, tale da permetterle di prodursi in opere che in genere le nostre odierne artiste liriche non possono né sanno eseguire con la dovuta puntualità e perizia. (cap. XV, p. 280)
  • Le grazie del volto e la bella persona hanno giovato a conferire alla Darclée quel valore teatrale che l'ha accompagnata sin qui; ad essa è sempre mancato però lo spirito vero dell'artista: quello spirito che anima invece così genialmente il canto e la voce di Rosina Storchio[9]. (cap. XV, p. 281)
  • Rossini, con la forza del suo genio, abbatte d'un colpo le formule e le convenzioni del suo tempo e obbliga i cantanti a dare un significato al canto, pure conservando la poesia degli arabeschi vocali. Ma questi arabeschi Rossini li scrive in modo che il tema melodico, qualora spogliato di quegli ornamenti, perderebbe gran parte del suo vigore e della sua efficacia.
    La grande riforma rossiniana sta appunto in quel mirabile connubio del canto fiorito con la espressione drammatica della poesia: connubio non mai tentato prima di lui, né più ottenuto da' suoi imitatori. (cap. XV, p. 305)
  • La rivoluzione italiana, di cui Verdi si fa simbolo sul teatro, àltera la fisonomia del canto e quella dei cantanti. Un non so che di aspro e di selvaggio circola per le vene della musica verdiana e spinge il canto dalle zone dei pioppi e dei salici in quelle delle quercie e dei faggi. (cap. XV, p. 306)

Verdi

  • Le blande e facili melodie dell'Oberto non hanno penne agili e robuste, il loro volo è debole e corto e l'atmosfera sulla quale si librano affannosamente è densa e pesante. Le inevitabili cavatine e cabalette, il duetto di convenzione e la stretta di rito nei finali camminano tutte sulla falsariga delle opere della prima maniera del Donizetti e del Mercadante. Un solo pezzo, un quartetto composto all'ultima ora e del quale il Merelli, l'impresario della Scala, suggerì la situazione e il Solera scrisse i versi, fa presagire la vibrazione futura dell'arpa verdiana. Quel quartetto è la migliore, anzi l'unica pagina veramente bella dell'opera: si potrebbe quasi chiamarla l'aurora del Nabucco. (cap. II, p. 13)
  • Verdi [...] non fu mai del resto eccessivamente austero e melanconico; egli fu sopratutto artista di genio che sentì indistintamente il bello in ogni sua espressione, tanto che, attraverso la sua musica ardente, immaginosa, robusta e talvolta michelangiolesca, guizzano, benché fugaci, fantasmi lievi e giocondi e un gaio scintillìo lampeggia nella sua tavolozza. (cap. II, p. 16)
  • Autore del libretto [dell'Ernani] non è più il Solera, bensì Francesco Piave, un giovane veneziano fabbricatore di cattivi versi, ma dotato di un raro intuito teatrale. In grazia appunto di codesta dote egli poté divenire da quel giorno il più assiduo collaboratore del Verdi. Il Piave si raccomandava anche per una esemplare modestia e pieghevolezza di carattere, qualità che lo resero segnatamente caro al Maestro, il quale amò sempre di scegliere da sé medesimo gli argomenti dei suoi libretti, di suggerirne e sovente imporne anche le situazioni. (cap. VI, p. 53)
  • [Marianna Barbieri-Nini] [...] il suo intelletto e le sue virtù vocali ed artistiche erano così imponenti da farle perdonare la non comune infelicità della persona e bruttezza del volto. Virtù questa dipendente da un fascino spirituale superiore che il pubblico raramente subisce, disposto com'è per istinto a mal sopportare sulla scena la visione del brutto e dell'inelegante. (cap. VII, p. 64)
  • La Forza del Destino può considerarsi come l'ultima delle opere popolari del Verdi, di quelle, cioè, la cui musica divenne patrimonio universale. Dopo il Trovatore si può anzi dire che nessun altro melodramma del compositore italiano sia altrettanto penetrato nelle orecchie del popolo e vi sia così saldamente e genialmente rimasto. La popolarità della Forza del Destino è fenomeno del quale la critica cercherebbe invano le ragioni. Ragioni non ve ne sono. Il popolo ha i suoi istinti come la scienza ha le sue leggi. (cap. XVIII, p. 180)

Note

  1. Da Memorie d'un suggeritore, p. 98.
  2. nel testo "Masianello".
  3. Luigi Lablache.
  4. Filippo Galli.
  5. Alexandre-Étienne Choron (1772 – 1834), musicologo e pedagogista francese.
  6. a b La tecnica di canto "forzata" logorò prematuramente la sua voce. Il tenore abbandonò le scene a soli 43 anni.
  7. Francesco Tamagno (1850 – 1905), tenore italiano.
  8. Victor Maurel (1848 – 1923), baritono francese.
  9. Rosa Storchio, detta Rosina (1872 – 1945), soprano italiano.

Bibliografia