Suso Cecchi D'Amico: differenze tra le versioni

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*''[[Ludwig]]'' (1973)
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*''[[Gruppo di famiglia in un interno]]'' (1974)
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* ''[[Oci ciornie]]'' (1987)
*''[[Le rose del deserto]]'' (2006)
*''[[Le rose del deserto]]'' (2006)



Versione delle 07:39, 25 feb 2012

Suso Cecchi D'Amico, pseudonimo di Giovanna Cecchi (1914 – 2010), sceneggiatrice italiana.

Storie di cinema (e d'altro) raccontate a Margherita D'Amico

  • [Enrico Cuccia] Un amico al quale ho voluto un gran bene perché era di umore sempre calmo, non gli ho mai sentito alzare la voce. (p. 18)
  • Questa è una mia caratteristica un po' curiosa. I vincoli dell'amicizia e dell'affetto cancellano il tempo. Come accade ai cani, anche per me ieri e cinquant'anni fa sono la stessa cosa. (p. 19)
  • Moravia era molto simpatico. Dicono di lui che fosse cattivo, ma non riesco a spiegarmene la ragione: era una persona veramente buona, semmai infantile. Aveva le impazienze di un bambino nervoso: non stava fermo un secondo, sfasciava tutto. [...] La sceneggiatura è un lavoro di pazienza, e lui non l'aveva proprio. (p. 22)
  • Con il passare degli anni, seguendo una metamorfosi che ho osservato in parecchi produttori, la passione di Ponti per il cinema si trasformò nella passione per i soldi. (p. 24)
  • [Piero Tellini] Sceneggiatore e soggettista di talento, ritratto del cinema di quei tempi. Bugiardo fino all'inverosimile, molto simpatico. Era di quelli che lavoravano solo la notte con la simpamina, una specie di anfetamina per rimanere svegli. (p. 25)
  • All'epoca nessuno scriveva una sceneggiatura [...] senza fare almeno una nottata. [...] La verità è che non c'era alcuna necessità di queste nottate, ma sarebbe sembrato brutto non farne almeno una. Tutti facevano largo uso di simpamina. Io la provai una volta, ma non mi fece nessun effetto. (pp. 25-26)
  • [Totò] Vidi subito che non gli ispiravo nessuna fiducia. Nessunissima. [...] Forse in quanto donna, che lui vedeva unicamente nei ruoli di sposa o amante. (p. 27)
  • Era attore nel vero senso della parola: non si portava appresso quello che era in effetti nella vita, ed era completamente diverso da come lo si vedeva sullo schermo. [...] Totò nel lavoro non ha mai fatto se stesso, ma ha interpretato altri personaggi, anche nei gesti, nel modo di muoversi. (pp. 27-28)
  • A un certo punto Moravia cominciò a portare a casa di mio padre Elsa Morante. Non era bella, ma curiosa, intrigante. Aveva una singolare voce acuta, i denti davanti molto aperti; ricordava non saprei quale animale. Ci feci amicizia dopo che si sposarono, e vennero da noi parecchie volte. Ci vedemmo meno quando io ebbi i bambini, e poi fu la guerra a dividerci. Mi piacevano i suoi romanzi, molto più di quelli di Moravia, ma come persona apprezzavo di più lui. (p. 29)
  • Avevo poco più di vent'anni quando una mattina di primavera, scendendo a piedi per via Capo le Case, vidi la mia immagine riflessa in una vetrina e rallentai il passo per rimirarla: «Carina, elegante, felice», decretai tra me e me compiaciuta. Ed ecco che di colpo, con una violenza da mozzare il fiato e fermare il cuore, mi balenò alla mente come in un vortice di tempesta il pensiero: «E poi dovrò morire». (p. 31)
  • Non so spiegare come sia potuto accadere che io continui a sentire presenti le persone che ho più amato e delle quali dovrei soffrire la mancanza. Il rapporto che ho avuto con loro nel passato continua inalterato, tranquillo, né faccio nulla per trovare una risposta a questo mistero che mi è proposto, e dal quale traggo la confortante persuasione che tutto ciò che è esistito esiste. (pp. 35-36)
  • [Luchino Visconti] C'era in Luchino, fortissimo, l'aspetto dell'educatore, unito al senso della famiglia. Si rifletteva nel desiderio di spingere in avanti le persone che aveva creato, o di ostacolarle. Non c'erano vie di mezzo. Non posso dire che fosse un carattere molto facile. (p. 59)
  • [Luchino Visconti] Una delle caratteristiche di Luchino, che aveva una severità morale anche spietata, era quella di avere poi contraddizioni bizzarre. (p. 59)
  • [Sulla regia] Non tutti possono fare quel lavoro, anche se ne hanno la preparazione. È il motivo per cui io non ho mai accettato di passare alla regia. Non ho il carattere giusto, non ho l'autorità di comando. (p. 73)
  • [Cesare Zavattini] Era una persona fuori dal comune, certo. La personificazione dell'autodidatta. [...] Fu un grande peccato dividerci, per me come per lui, perché ci completavamo bene. O meglio, io potevo essere un buon aiuto per lui: una coppia eccellente di sceneggiatori è sempre formata da due personalità antitetiche. (pp. 76-77)
  • Come me, Monicelli è nato a Roma per caso, e ciò esaspera la nostra rivendicazione alla toscanità. I nostri padri si conoscevano bene, facevano lo stesso mestiere, hanno vissuto la stessa epoca. I suoi fratelli, come i miei, hanno razzolato nell'ambiente letterario e affini. Saranno forse queste cose che abbiamo in comune a facilitare l'intesa fra noi. Sta di fatto che sono poche le persone al mondo con cui mi trovo così a mio agio, e con lui mi accompagnerei in qualsiasi circostanza, fino alla convivenza. [...] Non vorrei però che [...] ti facessi l'idea di un Monicelli dal carattere rassicurante, perché tra i miei amici presenti e passati Monicelli è senza dubbio il più segreto e il più pericoloso, capace di gesti clamorosi rigorosamente in contrasto con i suoi interessi, se non addirittura con i suoi sentimenti. È il re dell' understatement, che io chiamo pudore, e nessun regista-autore al mondo ne ha mai avuto tanto nel proprio lavoro. Monicelli si farebbe impiccare piuttosto che parlare di «ispirazione», di «anima», di «creatività». Non direbbe «noi artisti» neppure sotto tortura, né farebbe mai un capriccio per ottenere il dovuto da una produzione, ma lo farà per ottenere l'inutile, e tutto a suo danno. (p. 78)
  • Nelle sedute di sceneggiatura con Flaiano, tra chiacchiere, critiche e divagazioni sul soggetto, c'era da ricavare materia per condire dieci film; e sarebbe andato tutto perduto se fosse toccato a lui di cavarne il succo. Ho fatto centinaia di riunioni di sceneggiatura con Flaiano [...] ma di pagine scritte da lui ne ho viste ben poche. Lo scrittore vero non può compiacersi nel lavoro di sceneggiatura, che deve trovare il modo di tradurre in immagini e battute dei concetti, oltre che dei fatti. [...] Flaiano scrisse parecchi soggettini, ma di sceneggiature sue ne conosco due sole: quella del Melampo di cui voleva fare la regia, e che non è bella, e quella tratta dalla Recherche di Proust per René Clement, un compito del quale era molto scontento. (p. 79)
  • Ho fatto anche delle sceneggiature da sola, e direi con onore. Ma il ricordo di quei lavori non mi è caro come quello delle lunghe sedute con i colleghi, con le confidenze, le complicità, lo scambio di letture, il perdersi e il ritrovarsi, il momento del «dividemose i pezzi», che è quello in cui – esaurite le discussioni sul soggetto e messa faticosamente a punto la scaletta – si passa alla stesura di un trattamento, cui è affidato il compito di affascinare produttore e attori, ma che va scritto in modo da fornire tutti gli elementi necessari al direttore di produzione per fare, al centesimo, il preventivo dei costi. (p. 80)
  • Nasce, durante le riunioni di sceneggiatura, anche un curioso rapporto con i familiari dei colleghi, che impariamo a conoscere intimamente nei discorsi fra noi, per cui ci troviamo a partecipare alle vicende tristi e liete delle loro vite con una passione che non trova poi riscontro nel rapporto diretto. (pp. 80-81)
  • Zavattini aveva il fisico massiccio di un contadino, con mani bellissime, lunghe, agili, che muoveva in continuazione a commento del discorso. Aveva un buffo modo di parlare, e occhi azzurri e sporgenti, con i quali io sostenevo che ipnotizzasse i produttori. (p. 82)
  • Mentre con gli attori, alcuni dei quali di scarso talento, Visconti si prodigava ad aiutarli perché facessero carriera, con Franco Zeffirelli e anche con altri aspiranti alla regia non fu generoso. Lo consigliò, incoraggiò, apprezzò finché lavorò come scenografo per lui, ma il modo in cui criticò i primi passi di Zeffirelli in teatro e nel cinema non fu simpatico. (p. 88)
  • [Francesco Rosi] Come Franchino [Franco Zeffirelli], deve tutto alla scuola di Visconti il quale, maestro inflessibile, gli ha fatto proprio sputare sangue. (p. 88)
  • [Walter Chiari] Era un entertainer. Saliva sul palcoscenico e parlava per un'ora, con la gente che si sbellicava dalle risate. Aveva una qualità pressoché unica: di solito il comico non è bello, e spesso non è nemmeno giovane. Lui era bello, giovane e spiritoso. (p. 100)
  • [Ettore Giannini] Un regista molto importante, di grandissimo talento, che si è in qualche modo suicidato professionalmente a causa della rivalità con Luchino e Strehler. Giannini non era da meno di nessuno dei due, ma era un nevrotico. Quando l'impresa alla quale si era dedicato stava per decollare, cercava con tutte le sue forze di dimostrare che non era realizzabile. La competizione, anziché spronarlo, lo distrusse. (p. 107)
  • [Sophia Loren nel film Peccato che sia una canaglia, suo primo ruolo da protagonista] La imponemmo Flaiano e io, che l'avevamo vista passare a Cinecittà, bella, eccessiva, decorativa come un albero di Natale. Era anche brava, dato che, come diceva a ragione De Sica, i bambini e i napoletani bucano lo schermo. Non mancava di una sua aristocrazia, con quelle braccia, mani e gambe stupende. (p. 115)
  • [Silvana Mangano] Non aveva la passione del cinema e della recitazione. [...] A Silvana non importava niente, lo faceva solo per suo marito, e trascinata dall'enorme successo personale che aveva riscosso. [...] Non ha mai condotto una vita normale: si è sposata giovanissima con un uomo che la idolatrava e l'ha viziata in modo assurdo. Non ha conosciuto la realtà, incapace com'era di prendere autonomamente persino un tram. [...] Suscitava negli uomini furibonde passioni. Ha avuto delle grandi amitiés amoureuses, che si mantenevano per quel che ne so su un piano di lettere, telefonate, visite di omaggio. Era in ogni caso una donna fascinosissima, misteriosa. (pp. 115 sgg.)
  • [Roberto Rossellini] Era un grande cronachista. Ho sempre detto che non ci potevamo permettere di fare un'altra guerra per far girare qualche altro bel film a Rossellini. Paisà e Roma città aperta sono dei grandi film, grandi come gli avvenimenti che a lui erano congeniali. Non era un regista da piccola cronaca quotidiana. (p. 118)
  • In Rossellini c'erano l'avventuriero e l'uomo di grande generosità. (p. 120)
  • Rossellini era una persona che aveva macinato un patrimonio proprio, poi aveva guadagnato moltissimo, ma si ritrovava perennemente senza una lira. La sua generosità era grande quanto la sua incoscienza. (p. 121)
  • Nannarella [Anna Magnani] aveva un carattere impossibile, passionale, estremo. (p. 125)
  • [Anna Magnani] Non era bella, spesso cupa come il suo cane lupo color dell'ebano. Aveva sempre le occhiaie, un colorito terreo e i capelli neri come non si può immaginare, della consistenza di una matassa di seta pesante. Le gambe erano magre e leggermente storte, era piccolina e forte di fianchi. Aveva un décolleté splendido, come pure lo erano le mani e i piedi. Dovunque entrasse e in scena, non guardavi altri che lei. Era poi capricciosissima e prepotente. (pp. 126-127)
  • Secondo me, se finita la guerra ci fossero stati in Italia tutti i giornali e le riviste che ci sono adesso, molti di noi si sarebbero sfogati a scrivere, invece di fare del cinema. Morivamo dalla voglia di raccontare l'esperienza della guerra, volevamo lasciare testimonianza di come, nostro malgrado, ci eravamo trovati coinvolti. (p. 138)
  • Come scrive il mio collega Carrière, la sceneggiatura è il bozzolo, e il film la farfalla. Il bozzolo ha già in sé il film, ma è uno stato transitorio destinato a trasformarsi e a sparire. Lo sceneggiatore deve quindi impadronirsi al meglio della materia da trattare, e lavorarci poi con il regista e con i colleghi per trarne una proposta valida in assoluto, mirata a sfruttare al massimo le possibilità del regista ed evitando il pericolo di fare letteratura. Lo sceneggiatore non è uno scrittore; è un cineasta e, come tale, non deve rincorrere le parole, bensì le immagini. Deve scrivere con gli occhi. (p. 141)
  • Dario era tra noi figli Cecchi quello di valore. Mia sorella Giuditta era la più colta, io la più vivace, ma Dario era un'altra cosa: era un artista nato. Di ciò sono certa, perché ho sempre saputo distinguere chi è nato artista da chi ha saputo imparare l'arte con l'aiuto del talento. (p. 151)
  • Penso che nella trasposizione di un romanzo in film sia possibile realizzare qualcosa di più di una semplice illustrazione [...] Non si può in nessun caso parlare di un film e di un romanzo come se fossero la stessa cosa. Non lo saranno mai, e se qualche conclusione debbo trarre dalla mia lunga esperienza di lavoro, è che per suggerire con la trama anche il tono, il sapore di un romanzo, bisogna avere il coraggio di tradirlo. (p. 156)
  • Il fenomeno delle scuole [di sceneggiatura] si basa, secondo me, su un equivoco. Quello cioè che la sceneggiatura si possa davvero insegnare in una scuola. Ciò che un maestro può insegnare si esaurisce in tre o quattro lezioni. Il resto non si insegna. (p. 157)
  • Mario Camerini, il più importante regista degli anni Trenta [...] non soffrì affatto di trovarsi fanale di coda nella ripresa del dopoguerra, dopo essere stato nel passato un grande innovatore. Era un uomo di rara simpatia e dirittura morale. (p. 159)
  • Anche con Blasetti, come con Camerini, non riuscii a collaborare con lo slancio con cui affiancai i registi che, come me, si trovavano ad affrontare il primo, o uno dei primi film. Mi pesava la carriera che avevano alle spalle, non sapevo con quale delle loro opere identificarmi. (p. 159)
  • [Dopo il film Fabiola] Blasetti cambiò genere, lasciandosi tentare dalla commedia e dalle antologie di racconti dell'Ottocento e dei giorni nostri. Come dire che, da ammiraglio, muovesse la flotta per andare a pesca di telline. (p. 159)
  • Non dico il pubblico, ma neanche i registi, salvo eccezioni come Mario Monicelli o Blasetti, danno credito al lavoro degli sceneggiatori. Fellini mise a dura prova il fegato di Flaiano, dichiarando sempre a destra e a sinistra di non avere sceneggiatura, e di andare sul set con in tasca un fogliettino grande quanto il biglietto dell'autobus, sul quale nottetempo aveva segnato qualche appunto. Sfacciato. Le sceneggiature le aveva eccome, almeno fino agli ultimi tempi. (p. 162)
  • [Fellini] Molto simpatico, intelligentissimo, spiritoso. Grandissimo talento creativo e notevolissimo scrittore. [...] Fui entusiasta de I vitelloni [...] Mi piace moltissimo anche Amarcord e la prima parte di E la nave va. Non sono una patita de La dolce vita, e giudico Otto e mezzo il più bel film di Fellini. Un film molto importante. Quanto a Satyricon, Roma, La città delle donne, La voce della luna, mi mettono lo sgomento che provo nei musei quando imbocco una di quelle sale piene dei quadroni di Rubens. (pp. 163-164)
  • La violenza al cinema mi infastidisce e trovo che abbia le sue brave responsabilità sociali. Il desiderio di emulazione esiste realmente, e l'idea che un eroe dello schermo faccia fuori venti persone può scagionare chi ne ammazza una. (p. 179)
  • [Ennio Flaiano] Ti dava l'aria di farti confidenza ed era invece estremamente riservato. Piuttosto piccolo di statura e non bello, conversatore brillante e spiritoso. (p. 193)
  • La mia amicizia con Flaiano aveva un che di infantile che coinvolgeva anche i miei figli, felici di stare con lui. Che Flaiano fosse un carattere molto complesso, avrei dovuto capirlo osservandolo bene quando si levava gli occhiali. Cambiava moltissimo, perché non c'era serenità nei suoi occhi. (pp. 195-196)
  • A Burt [Burt Lancaster] ho voluto molto bene. Era una persona «pulita», seria, sempre impegnata a capire e progredire. (p. 199)
  • [Burt Lancaster] È sempre stato molto affettuoso e presente nei momenti chiave. [...] È l'unico attore al quale ho visto svolgere il proprio lavoro con la calma e l'impegno di un grande medico. (p. 200)
  • [Marcello Mastroianni] È un attore molto dotato, che si è divertito a lavorare. Non ha mai studiato un copione. Ha sempre cercato, per quanto possibile, di non leggerlo neppure. A lui piace andare in giro, si adatta con estrema facilità a qualsiasi ambiente. Non è di quelli che con la testa tra le mani si concentrano per entrare nel personaggio, come De Niro. Mastroianni è un caso piuttosto unico, in questo senso. [...] Ha un orecchio eccezionale, che lo guida sul palcoscenico e davanti alla macchina da presa. (p. 201)
  • L'amicizia con gli attori ha a volte un carattere un po' particolare. Può svolgersi a cicli, come la lavorazione di un film. [...] Gran cordialità se ci si rincontra, ma non ci si cerca. (pp. 206-207)
  • Il cinema è la mia professione, un lavoro che ho avuto la fortuna di fare divertendomici anche, e di amare moltissimo. Ma la mia vita non si esaurisce nel lavoro ed è addirittura possibile che, curiosa e disponibile come sono sempre stata, avrei finito per trovarmi bene anche se mi fossi occupata di architettura, di medicina o di numismatica. L'elemento insostituibile, al quale avrei sacrificato qualunque cosa, è stato invece quello costituito dalle mie famiglie, quella dei miei genitori prima e quella con mio marito e i nostri figli e nipoti poi, con tutto quel che hanno comportato e che ha gravitato intorno. (p. 213)

Bibliografia

  • Suso Cecchi D'Amico, Storie di cinema (e d'altro) raccontate a Margherita D'Amico, Garzanti, 1996. ISBN 88-11-73855-5

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