Claudio Pavone: differenze tra le versioni

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== ''L'eredità della guerra civile e il nuovo quadro istituzionale'' ==
== ''L'eredità della guerra civile e il nuovo quadro istituzionale'' ==
* L'ostracismo dato fino a non molto tempo fa alla categoria di [[Guerra civile in Italia (1943-1945)|guerra civile]] applicata alla lotta fra Resistenza e Repubblica sociale discende, oltre che dall'orrore che la guerra fratricida di per sé suscita, dal fatto che la destra (intendo ovviamente la destra antifascista) doveva fare propria l'immagine di una Resistenza rassicurante, levigata ed esclusivamente patriottica e militare, che aveva saputo circoscrivere e alla fine espellere le infiltrazioni rosse; e che dal canto suo, la sinistra, per accreditarsi come la più schietta rappresentante dell'unità nazionale in nome del suo intransigente antifascismo, doveva rigettare sulla destra la responsabilità della frattura dell'unione di tutti i veri italiani. Destra e sinistra convergeranno dunque nella programmatica negazione ai fascisti della Rsi della qualità di italiani, indispensabile presupposto del carattere «civile» della guerra. (p. 10)
* L'ostracismo dato fino a non molto tempo fa alla categoria di [[Guerra civile in Italia (1943-1945)|guerra civile]] applicata alla lotta fra Resistenza e Repubblica sociale discende, oltre che dall'orrore che la guerra fratricida di per sé suscita, dal fatto che la destra (intendo ovviamente la destra antifascista) doveva fare propria l'immagine di una Resistenza rassicurante, levigata ed esclusivamente patriottica e militare, che aveva saputo circoscrivere e alla fine espellere le infiltrazioni rosse; e che dal canto suo, la sinistra, per accreditarsi come la più schietta rappresentante dell'unità nazionale in nome del suo intransigente antifascismo, doveva rigettare sulla destra la responsabilità della frattura dell'unione di tutti i veri italiani. Destra e sinistra convergeranno dunque nella programmatica negazione ai fascisti della Rsi della qualità di italiani, indispensabile presupposto del carattere «civile» della guerra. (p. 10)

== Citazioni su Claudio Pavone ==
*C'è davvero qualcosa di singolare nel modo in cui è venuta formandosi la memoria della Repubblica, nel modo in cui tale memoria è stata ed è elaborata dalla cultura ufficiale del Paese. Per molti decenni, ad esempio, a quanto accaduto dal 1943 al '45 fu vietato dare il nome che gli spettava, il nome cioè di [[Guerra civile in Italia (1943-1945)|guerra civile]]. Parlare di guerra civile era giudicato fattualmente falso, e ancor di più ideologicamente sospetto. Bisognava dire che quella che c'era stata era la resistenza, non la guerra civile; di guerra civile parlavano e scrivevano, allora, solo i reduci di Salò, i nostalgici del regime e qualche coraggioso giornalista o pubblicista di rango come [[Indro Montanelli]], che mostravano così da che parte ancora stavano. Le cose andarono in questo modo a lungo. Finché, all'inizio degli anni Novanta, come si sa, uno storico di sinistra, Claudio Pavone, scrisse un libro sul periodo 1943-'45 che si intitolava precisamente ''Una guerra civile'': solamente da allora tutti abbiamo potuto usare senza problemi questa espressione, ben inteso non cancellando certo la parola resistenza. ([[Ernesto Galli della Loggia]])


== Bibliografia ==
== Bibliografia ==

Versione delle 23:02, 11 apr 2012

Claudio Pavone (1920 – vivente), storico e partigiano italiano.

Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza

  • C'era nella parola partigiano un remoto significato di difesa della propria terra, a partire dalla guerra di indipendenza degli spagnoli contro Napoleone; ma c'era anche qualcosa di rosso – «à l'appel du grand Lénine se levaient les partisans» – che ne esaltava la componente aggressiva e irregolare, e che destava diffidenza fra i benpensanti. (Capitolo terzo, Le vie di una nuova istituzionalizzazione, p. 148)
  • L'interpretazione della lotta fra la Resistenza e la Repubblica sociale italiana come guerra civile ha incontrato da parte degli antifascisti, almeno fino a questi ultimissimi tempi, ostilità e reticenza, tanto che l'espressione ha finito con l'essere usata quasi soltanto dai vinti fascisti, che l'hanno provocatoriamente agitata contro i vincitori. La diffi­denza degli antifascisti ne è risultata accresciuta, alimentata dal timore che parlare di guerra civile conduca a confondere le due parti in lotta e ad appiattirle sotto un comune giudizio di condanna o di assolu­zione. In realtà mai come nella guerra civile, che Concetto Marchesi chiamò «la più feroce e sincera di tutte le guerre», le differenze fra i belligeranti sono tanto nette e irriducibili e gli odi tanto profondi. (Capitolo quinto, La guerra civile, p. 221)
  • In occasione del 7 novembre 1944 l'Unità ribadisce che le vittorie dell'urss sono le vittorie della «forma superiore di democrazia», quella «sovietica proletaria»; e, stiracchiandone la nozione a uso italiano, aggiunge che nell'Unione Sovietica la democrazia «è aperta all'iniziativa e all'attiva partecipazione delle più larghe masse popolari». La democrazia sovietica viene più volte additata come chiave interpretativa della democrazia progressiva patrocinata per l'Italia dal partito[1]. (Capitolo sesto, La guerra di classe, p. 407)
  • Si moriva gridando «viva la libertà! viva Stalin!» o semplicemente «viva Stalin». E il fascino della figura di Stalin poteva espandersi anche su chi non era comunista. Ha raccontato un partigiano arruolatosi nel Gruppo di combattimento Cremona del CIL:
    In una battaglia che stavamo facendo, in cui ci stavamo prendendo un mucchio di botte dai tedeschi, e stavamo lì lì per scappare, l'ufficiale aveva strillato per tre volte «Avanti Savoia!» e nessuno si muoveva. S'alzò in piedi un compagno – repubblicano -dice: «Avanti Stalin!». Si spostò tutta la compagnia.[2] (Capitolo sesto, La guerra di classe, p. 410)
  • Gli uomini della brigata Gordini si dichiararono «pronti a impugnare dinuovo le armi in difesa degli interessi del popolo e della Democrazia italiana». [...] Più esplicitamente un partigiano ternano ha cura che la consegna delle armi agli inglesi avvenga nel modo più ordinato, cosl da mostrare che «in quell'occasione consegnavamo soltanto le armi, non certo la nostra capacità di organizzarci e armarci di nuovo»[3]. (Capitolo ottavo, La politica e l'attesa del futuro, p. 586)
  • Alle esuberanze del combattentismo rosso si univano in effetti le diffidenze verso quello che rimaneva pur sempre uno Stato borghese, internazionalmente collocato nel campo imperialista. Qualche dubbio sulla piena legalità del dopo liberazione aveva serpeggiato anche nel gruppo dirigente comunista. [...] Diffidenze verso Roma, prive di spiccati segni ideologici, erano affiorate in campo azionista. [...] L'occultamento delle armi, «sotterfugio» autorizzato «sotto voce» da alcuni capi partigiani comunisti del Nord[4], fu il modo più immediato in cui si concretizzò la mescolanza di diffidenze e di speranze[5]. (Capitolo ottavo, La politica e l'attesa del futuro, p. 587)

L'eredità della guerra civile e il nuovo quadro istituzionale

  • L'ostracismo dato fino a non molto tempo fa alla categoria di guerra civile applicata alla lotta fra Resistenza e Repubblica sociale discende, oltre che dall'orrore che la guerra fratricida di per sé suscita, dal fatto che la destra (intendo ovviamente la destra antifascista) doveva fare propria l'immagine di una Resistenza rassicurante, levigata ed esclusivamente patriottica e militare, che aveva saputo circoscrivere e alla fine espellere le infiltrazioni rosse; e che dal canto suo, la sinistra, per accreditarsi come la più schietta rappresentante dell'unità nazionale in nome del suo intransigente antifascismo, doveva rigettare sulla destra la responsabilità della frattura dell'unione di tutti i veri italiani. Destra e sinistra convergeranno dunque nella programmatica negazione ai fascisti della Rsi della qualità di italiani, indispensabile presupposto del carattere «civile» della guerra. (p. 10)

Citazioni su Claudio Pavone

  • C'è davvero qualcosa di singolare nel modo in cui è venuta formandosi la memoria della Repubblica, nel modo in cui tale memoria è stata ed è elaborata dalla cultura ufficiale del Paese. Per molti decenni, ad esempio, a quanto accaduto dal 1943 al '45 fu vietato dare il nome che gli spettava, il nome cioè di guerra civile. Parlare di guerra civile era giudicato fattualmente falso, e ancor di più ideologicamente sospetto. Bisognava dire che quella che c'era stata era la resistenza, non la guerra civile; di guerra civile parlavano e scrivevano, allora, solo i reduci di Salò, i nostalgici del regime e qualche coraggioso giornalista o pubblicista di rango come Indro Montanelli, che mostravano così da che parte ancora stavano. Le cose andarono in questo modo a lungo. Finché, all'inizio degli anni Novanta, come si sa, uno storico di sinistra, Claudio Pavone, scrisse un libro sul periodo 1943-'45 che si intitolava precisamente Una guerra civile: solamente da allora tutti abbiamo potuto usare senza problemi questa espressione, ben inteso non cancellando certo la parola resistenza. (Ernesto Galli della Loggia)

Bibliografia

  • Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1991.
  • Claudio Pavone, L'eredità della guerra civile e il nuovo quadro istituzionale, in AA.VV., Lezioni sull'Italia repubblicana, Roma, Donzelli Editore, 1994, ISBN 8879890700.

Note

  1. Edizione settentrionale, articolo della serie «Domande e risposte», 7 novembre 1944.
  2. Testimonianza di Ferruccio Mauri, in Porrelli, Biografia di una città cit., p. 314.
  3. Testimonianza di Bruno Zenoni, in Portelli, Biografia di una città cit., p. 288.
  4. Quazza, Resistenza e storia d'Italia cit., p. 339.
  5. Quazza (ibid., p. 342), rinviando alle opere di Kogan e di Delzell, parla di una consegna delle armi avvenuta solo per il 60 per cento. La grande quantità di armi sequestrate dagli Alleati entro la fine di settembre – 215 000 fucili, 12 000 mitra, 5000 mitragliatrici, 760 bazooka, 12 autoblinde, 217 cannoni, ma solo 5000 pistole – è stata ritenuta un indice della forza raggiunta dalla Resistenza (Ginsborg, Storia d'Italia dal dopoguerra a oggi cit., I, pp. 89-90, che rinvia ai dati forniti da C. R. S. Harris, Allied Military Administration of Italy I943-45, H. M. Stationery Office, London 1957, p. 358). Le vicende del proprio parabello sono raccontate da L. Meneghello come indicative del clima del dopoguerra (Bau-sète cit., pp . 49-50). In alcune delle testimonianze raccolte da Portelli in Biografia di una città cit., al prudente silenzio dei primi anni si è sostituita la spavalda rivendicazione. Mario Filipponi parla ad esempio di «tonnellate» di armi nascoste e racconta di un segretario di federazione che diceva «non sarà oggi, sarà fra un anno, fra cinque, le armi dobbiamo prenderle in mano» (p. 299). Le punte più spinte delle reazioni all'attentato a Togliatti del 14 luglio 1948 – Genova, Piombino – vanno lette anche in questa chiave.

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