Vittorio Imbriani: differenze tra le versioni

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===Citazioni===
===Citazioni===
*I rimorsi, gli scrupoli di coscienza sono amarissimi per tutti, ma doppiamente per l'uomo irreligioso. Chi crede in un'altra vita, in un dio rimuneratore o castigatore, in un inferno ed in un paradiso, ricava conforto da queste credenze stesse, e finisce per acquetarsi.
*I [[rimorso|rimorsi]], gli scrupoli di coscienza sono amarissimi per tutti, ma doppiamente per l'uomo irreligioso. Chi crede in un'altra vita, in un dio rimuneratore o castigatore, in un inferno ed in un paradiso, ricava conforto da queste credenze stesse, e finisce per acquetarsi.
*Se per un presupposto assurdo, gli uomini, snaturandosi, diventassero sinceri, realizzerebbero la favola della torre di Babele: non ci s'intenderebbe più, proseguendo tuttavia nell'interpretare a rovescio le chiacchiere de' nostri cari simili.
*Se per un presupposto assurdo, gli uomini, snaturandosi, diventassero sinceri, realizzerebbero la favola della torre di Babele: non ci s'intenderebbe più, proseguendo tuttavia nell'interpretare a rovescio le chiacchiere de' nostri cari simili.
*Soltanto il galantuomo può truffare; del mariuolo notorio tutti diffidano.
*Soltanto il galantuomo può truffare; del mariuolo notorio tutti diffidano.

Versione delle 17:40, 27 mar 2015

Vittorio Imbriani

Vittorio Imbriani (1840 – 1886), scrittore italiano.

Citazioni di Vittorio Imbriani

  • E se almeno sapessero il greco!... Ma per lo più conoscono il linguaggio di Platone e d'Epicuro come quel bergamasco impostore che spacciava d'averlo imparato ne' suoi viaggi, probabilmente immaginari. Ma fatecene sentire qualche frase, insisteva certa gente dabbene. Ed egli: Μύ μελαρρύδω δέ στυμιγχιών. E quei minchioni: Oh com'è dolce, com'è grazioso il greco! Che bella lingua davvero! (da Giovanni Berchet ed il romanticismo italiano, in "Nuova Antologia", vol. VIII, 1868, p. 278)
  • S'era nell'agosto; ed in Iscaricabarilopoli, città moscosissima, nessuno rimembrava di aver mai visto negli agosti precedenti tanta copia di mosche, tal quantità di mosconi, tanti stuoli di moscerini, tali turbe di mosconcini, tal novero di mosconacci, tal moltitudine di mosconcelli, tanta folla di moschette, tanta adunanza di moscini, tanto popolo di moschettone, tanta frequenza di moscherelli, tanto spesseggiar di moscherini, tanto concorso di moschini, tanto esercito di mosciolini e tanta folta di moscioni. Scaricabarilopoli era tutta un moscaio. I signori salariavano persone apposta per moscare con gli scacciamosche, le ventole, le roste, i ventagli, i paramosche: per ogni stanza si tenevan tre o quattro piattelli con carta moschicida, cinque o sei acchiappamosche prussiani; ed il suolo era bruno per gl'innumerevoli cadaveri moscherecci. Ma non pareva, che quello sterminio le diminuisse: e le moscaiuole e i guardavivande non bastavano a riparare i cibi e le provviste. La povera gente pappava mosche in ogni pietanza. Anzi, il dottissimo Dummkopf, professore a Gottinga, nella Filosofia e Storia comparata della culinaria e della gastronomia, volume quarto, capitolo sessagesimoquinto, pagina seicentonovantotto della settima edizione, annotata dall'egregio Zeitverlust, racconta, che, abituandovisi, le trovarono finalmente gustose; e che gli Scaricabarilesi son tuttora moschivori ed educano ed ingrassano apposta in certi loro moschili sciami, o gregge di insetti. Cosa, della quale non può dubitarsi, vedendola affermata da due tali rappresentanti della scienza tedesca! (da Mastr'Impicca)
  • [su Ferdinando Petruccelli della Gattina] Uomo scandalosissimo [...] Scrive, come un cane, in francese ed in italiano, articolesse, libelli, romanzacci, indecenti sotto ogni aspetto, e storie, anche più indecenti. (citato in Alessandro Poerio, Vittorio Imbriani, Alessandro Poerio a Venezia: lettere e documenti del 1848 illustrati da Vittorio Imbriani, Morano, 1884 p. 430)

La bella bionda

Incipit

Bell'uso il nostro di dir bianco quando pensiamo nero, e nero quando pensiamo rosso; di mentire tutti, sempre, da mane a sera, imperturbatamente, su qualunque proposito, per diletto od abitudine, anche se le bugie nulla giovano! Per lo più, senza mala fede; anzi, come notò quell'arguto francese, ci persuadiamo delle nostre menzogne per intolleranza di mentite, ed infinocchiamo noi stessi, per infinocchiar poi meglio gli altri. Somigliamo tutti al Duca di Bassano, del quale il Talleyrand diceva, praticar egli così male la massima diplomatica di sempre ingannare senza mai mentire, che invece mentiva sempre senza ingannar mai.

Citazioni

  • I rimorsi, gli scrupoli di coscienza sono amarissimi per tutti, ma doppiamente per l'uomo irreligioso. Chi crede in un'altra vita, in un dio rimuneratore o castigatore, in un inferno ed in un paradiso, ricava conforto da queste credenze stesse, e finisce per acquetarsi.
  • Se per un presupposto assurdo, gli uomini, snaturandosi, diventassero sinceri, realizzerebbero la favola della torre di Babele: non ci s'intenderebbe più, proseguendo tuttavia nell'interpretare a rovescio le chiacchiere de' nostri cari simili.
  • Soltanto il galantuomo può truffare; del mariuolo notorio tutti diffidano.
  • Si suole mentire disinteressatamente, senza malizia e senza scopo, da' migliori.
  • Le passioni spuntano e germogliano lentamente assai nel cuore umano, come le piante nel suolo; e come queste appunto, sono tanto più saldamente radicate nell'animo, quanto più tempo impiegarono a radicarsi.
  • Se amore significa desiderio d'una persona e d'ogni sua parte, come può sorgere questo pieno desiderio, quando s'ignora gran numero di quelle parti?
  • Beati i veri cristiani! Si buttano a' piedi di un confessore, si accusano, si mortificano, e si rialzano di lì, e si spazzolano i calzoni insudiciati con una consolazione grandissima: perché, o vennero assoluti, o fu loro imposta una penitenza, che frutterà l'assoluzione.
  • Chi ha forza di braccia, farà forse la stiratrice; chi ha sveltezza di dita, ricamerà; e chi ha bellezza rara di forme, non potrà fare la modella?
  • Chi notoriamente è l'informista del quartiere, viene riverito e temuto dal popolino.

Dio ne scampi dagli Orsenigo

Incipit

Non presumo sputar fuori ned un paradosso, ned una novità; credo, anzi, ripeter cosa, ormai, consentita, da chiunque s'intenda, alcun po', della partita, dicendo "che una relazione è, quasi sempre, più pesante del matrimonio". Sicuro! Impone obblighi maggiori, senza diritti corrispettivi: e la parte piacevole tocca, non di rado, al marito; e la gravosa all'amante. Questo perché l'amore non è da tutte: bensì, da pochissime, arcipochissime. L'amore, anch'esso, è manifestazione della fantasia; la facoltà d'amare è cognata alla virtù poetica. Se una femmina non ha il cervelluzzo congegnato in quel dato modo, ben potrà civetteggiare, condiscendere, eccitare, lusingare, promettere, deludere, crucciare e crucciarsi, bisticciarsi, rappattumarsi, come chiunque sa contar fino a undici può scandire endecasillabi; ma i versi, per sé soli, non fanno poesia, né le condiscendenze, da sole, costituiscono l'amore.

Citazioni

  • Così è, quando si ama molto e si è persona di mondo, certi pregiudizi religiosi, morali, civili cadono, di per sé: che importa la legittimità del legame? le formalità nel contrarlo? Il meno guarentito sembra, quasi quasi, più rispettabile, perché patto di onore, senza sanzione legale. (Allori Edizioni, Ravenna, 2004, p. 153)
  • [...] così porta la natura nostra: in pubblico (se, anche il pubblico è ridotto al termine minimo d'un solo individuo) affettiamo sensi sdegnosi e noncuranza suprema; soli con noi medesimi, operiamo in aperta contraddizione di quelli. V'è un po' d'ipocrisia, anche, nella virtù più incorrotta e sincera. (Allori Edizioni, Ravenna, 2004, p. 105)
  • Fra l'Inferno ed il Paradiso dantesco, c'è da esitare? Non per la Salmojraghi! La sofferenza le apparve cosa desiderabile; la colpa o ciò, che, sino allora, aveva chiamato con questo nome, quasi, uno stato di grazia, moralmente superiore alla inerte e sterile innocenza. Avete, mai, visto in uno sperimento chimico, ravvicinare due sali, la base di ciascuno de' quali abbia maggiore affinità con l'acido dell'altra, che non col proprio? si decompongono e, contemporaneamente, ecco costituiti due copri, diversi da' primi. Come avviene, che la pietra infernale ed il sal comune, ravvicinati si trasformino in nitrato di sodio ed in cloruro di argento, così era accaduto nel ravvicinamento del Radegondato di serenità con l'Almerinduro di passione. (Allori Edizioni, Ravenna, 2004, p. 107)
  • Il dolore è la forma più intensa di vita, è sovreccitazione: quindi, il ricerchiamo. (Allori Edizioni, Ravenna, 2004, p. 72)
  • Questo profondo desiderio della passione era, già, di per sé, la passione stessa: non la bufera, che sconquassa l'animo, anzi la breve pausa di raccoglimento, che precede i cataclismi così orali come fisici. Le scomparve il riso dalle labbra, le si accese un fuoco cupidissimo, negli occhi. Ned osava confessare a sé medesima cosa desiderasse, confessarselo esplicitamente, collocando i titoli sugl'i; non siamo franchi, nojaltri uomini, neppure ne' colloqui con la coscienza nostra. Eppure ch'ella ne convenisse o no, che l'avvertisse o no, pure, la passione le si presentava fatalmente, sotto le forme di quel Maurizio, nel quale, prima di ella l'aveva vista così rigogliosa e potente e (come a lei pareva) sublime. (Allori Edizioni, Ravenna, 2004, p. 108)
  • "[...] una relazione è, quasi sempre, più pesante del matrimonio". Sicuro! Impone obblighi maggiori, senza diritti corrispettivi: e la parte piacevole tocca, non di rado, al marito; e la gravosa, all'amante. Questo, perché l'amore non è da tutte; bensì, da pochissime, arcipochissime. L'amore, anch'esso, è manifestazione della fantasia; la facoltà d'amare è cognata alla virtù poetica. Se una femmina non ha il cervelluzzo congegnato in quel dato modo, ben potrà civetteggiare, condiscendere, eccitare, lusingare, promettere, deludere, cruciare e crucciarsi, bisticciarsi, rappattumarsi, come chiunque sa contar fino ad undici può, scandire endecasillabi: ma i versi, per sé soli, non fanno poesia, né le condiscendenze, da sole, costituiscono l'amore. Il senso n'è sustrato e presupposto, non essenza. (Allori Edizioni, Ravenna, 2004, p. 61)

Incipit di alcune opere

Il vivicomburio e altre novelle

Mastr'Impicca

C'era una volta un Re di Scaricabarili, vedovo e padre di figliuola unigenita, bella quanto il sole. E, dicendo bella quanto il sole, par che si dica quel più che può dirsi. La Rosmunda, ereda presunta del trono scaricabarilese, portava due grandi occhi bruni in fronte, che innamoravano; ed in capo una chioma lunga e folta tanto, che avrebbe potuto vestirsene. La voce di lei sembrava una musica, ammaliava. Sebbene andasse appena pe' sedici anni, le sue movenze eran tutta grazia e disinvoltura, non aveva il solito fare impacciato delle giovanette. Né poteva rinvergarsi od immaginarsi la più colta ed assennata principessina in tutto l'universo mondo.

Le tre maruzze (Novella troiana da non mostrarsi alle signore)

C'era una volta un Re, che possedeva il più bel giardino del mondo. Non s'è mai visto e non si vedrà mai un giardino simile. Tutte le piante della terra raccolte insieme vi facevano bella mostra di sé: ed anche quanti vegetali allignan solo nella flora fantastica dei poeti e de' novellatori, tranne uno, cioè quella varietà di cedro dal cui frutto tagliato esce una bella donna ignuda (Citrus virginifera pentameronalis Johannis Alexii Abbattutis. Vedi: Lo cunto de li cunti, Trattenemiento de li peccerille).

Guglielmo Tell e Federigo Schiller

La razza germanica parmi senza dubbio, checché dicano i tedescomani odierni, la più vendereccia e servile tra le schiatte europee. Giova al tedesco farsi volontariamente schiavo, darsi a nolo, trafficar di sé. In Francia ed in Italia abbiamo ora ne' postriboli una immigrazione continua di meretrici della Magna: lì nascon femmine, che riescono esimie nel mestiere; che l'esercitano con disinvoltura, con virtuosità, alla quale le altre non aggiungono; che si profferiscono spontanee a turpitudini, cui rado prestansi le puttane indigene, sebben tentate con molt'oro; buggerone, fellatrici e peggio, se peggio è possibile.

La novella del vivicomburio

A' tempi del calavrese abate Gioacchino, campava in Guascogna una poncella a nome Scolastica, ereditiera del Marchesato d'Isolagiordana, donna di grandi aderenze ed attinenze, e, giunta, ricchissima, bellissima e castissima, se credo a' cronicografi comprovinciali contemporanei. Relato rotolo. Veramente, un proverbio c'insegna: Denari e santità, metà della metà; ed il ruffiano Lúcramo della Cassaria il parafrasa così:

Quando si sente lodar troppo e mettere,
Come si dice, in ciel, beltà di femina;
O liberalitade d'alcun Principe;
O santità di frate; o gran pecunia
Di mercatante; o bello e buono vivere,
Che sia 'n una cittade; o cose simili:
Non si potrebbe mai fallir a credere
Poco. E talvolta, credere il contrario
Di quel, ch'apporta la fama, è stato utile.

Per questo Cristo, ebbi a farmi turco

Dirò: io, cotesti vostri raccontini, cotesti bozzettucoli, cotesti sentimentuzzi lambiccati e raffinati, cotest'articciuola tisichetta da stufa anzi da infermeria, non mi garbano: io ci sbadiglio su.
Mi giova e mi conferisce, invece, la grossolana facezia e plebea, la fragorosa risata e schietta. Oh le novelle de' nostri bisnonni e del volgo! specie, quando le han per protagonista il frataccio mangione e beone, giocatore e bestemmiatore, accattabrighe e scansafatiche, femminiero e mariuolo, asino e bue, tipo della belva umana non mansuefatta, che sommette la ragione al talento, per cui è sprecato ogni ammaestramento di savio, ogni rivelazion divina, cieco ad ogni ideale, curante solo del piacer presente e della soddisfazion momentanea...

L'impietratrice: panzana

Verseggiando a meraviglia ed anche poetando stupendamente, si può spropositare in politica, anzi non capirne un acca. Gli esempli abbondano. Fra i contemporanei il più splendido ed ovvio è quello del besanzonese Vittor Hugo, il quale divulgò un volume di giambi archilochei contro la Maestà di Napoleone III, tanto belli ed ingiusti che, resi inoffensivi dalla esagerazione stessa, venivan declamati per ischerzo ed isvago ed ispasso ed iscapricciamento dalla Imperatrice Eugenia e dagl'intimi della corte, durante le prosperità del magnanimo alleato nostro e benefattore. Jacopo Sannazzaro ci offre un'altra istanza più remota di valore epigrammatico unito ad insipienza politica.

Merope IV

Non oso scommettere ma giurerei d'esserci più caos, molto più, sul mio tavolino che nell'amministrazione italiana: carte scritte, da scrivere e geografiche; armi bianche e da fuoco; oggetti di scrittoio; capi di vestiario; libri e libercoli; occhiali e cannocchiali; mille cosette stravaganti vi sono confusissimamente frammischiate: e quantunque volte mi accade di cercare o questo o quello, travolgo ogni cosa in guisa da far maggiore il disordine, se fosse possibile. Altrimenti, se tutto fosse ordinato, sistemato e classificato, non saprei lavorare, non mi verrebbe un pensiero. Quando, dopo un viaggetto, un'assenza, riprendo il mio solito posto, per due o tre giorni non mi riesce di combinar nulla, finché a furia di scartabellar libri, di scarabocchiar cartuscelle, di scaricar le tasche e soprattutto di rimuginare l'accumulato non abbia ristabilito l'amico scompiglio.

XII conti pomiglianesi

'Na[1] vota nce steva 'na mamma e teneva[2] 'nu figlio, ca ssi chiammava Giuseppe; e pecche nu' diceva nisciuna[3] buscìa 'o[4] mettette nomme Giuseppe 'a Veretà. 'Nu juorno, ammente 'o stava chiammanno, ssi truvò a passa' 'o Re; e, verenno, ca chella mamma 'o chiammava accussì,[5] li spiava:[6]
- «Neh, pecchè 'o chiammi Giuseppe 'a Veretà?»
- «Pecchè nu' dice nisciuna buscìa.»

Note

  1. Notevole è la tendenza, che hanno i dialetti nostri, a distinguere uno ed una, articoli, da uno ed una, numerali. I milanesi han fatto dei primi on ed ona e de' secondi vun e vunna, (voeunna). I napoletani adoperano come articoli 'no (nu) e 'na; ed uno ed una per numerali).
  2. Teneva, alla spagnuola, per avere. Ad una napolitana, che diceva: – «Tengo un gran mal di capo;» – rispondeva un fiorentino: – «O s'io non glielo veggo in mano? Me lo mostri un po' per vedere». – A Bertrando S...., che porgeva un francescone ad una cambiamoneta, dicendole: – «Tieni la moneta?» – venne risposto: – «O che me l'ho a tener davvero, la moneta?». – La prima e di teneva, le due di veretà e generalmente tutte le e disaccentate non finali sono così tenui e strette, da confondersi quasi, come da alcuni effettivamente si confondono con l'i.
  3. Nisciuna, nessuna. Giordano Bruno adopera spesso questo napoletanesimo.
  4. 'O mettette nomme, gli (lo) mise nome; Giuseppe 'a Veretà, Giuseppe la Verità. Il De Ritis scrive sub LA: – «Spesso, nella pronunzia, la L viene totalmente abolita, e talvolta benanche nella scrittura, comunque i buoni autori se ne guardino, specialmente nella prosa; e se accade, che l'usino in poesia, a mera licenza o (a dir meglio) poltroneria, vuole attribuirsi. Pure, non mancano scrittori, che di questa aferesi si compiacciono, la quale il dialetto napoletano col comune italico potrebbe mettere a paragone, come il portoghese col castigliano; e, nella veneranda archeologia, come l'attico col comun greco. Checché ne sia, il Del Piano non altramente elaborava le sue canzoncine spirituali, se non con questo sistema:
    «Chi p' 'a famme ss'allamenta,
    Chi p' 'a sete e chi p' 'o fuoco...
    Che seccà' ve pozza 'a lengua...

    «E così sempre. Egli è chiaro, che gli articoli, così attenuati alla semplice vocale, esigono uno strascico e quasi una duplicazione di pronunzia». – Il cavaliere Raffaele D'Ambra scrive poi: – «L'a, in luogo dell'articolo la, si tollera nel dialetto parlato; ma è un errore nella scrittura, dove si ha a segnare tutto intero». – «Grecamente del la articolo, mangiasi l'l nella pronunzia plebea. Esempii: A mamma, la mamma; a scuffia, la cuffia. Ciò sarebbe errore nella scrittura». – Sarebbe errore, è errore! perché? Se così si dice, e non altrimenti? E che c'entra la Grecia? Ci avevamo la lingua scritta e la parlata: ora, il D'Ambra ci vuol regalare anche il dialetto scritto ed il parlato, tanto per aumentar la confusione. Questo dialetto scritto, diverso dal parlato, non altro sarebbe se non un gergo convenzionale: e tale è pur troppo; giacché piace al più gli scrittori vernacoli di storpiar del pari la lingua aulica e lo idioma domestico. In Napolitano si dice quasi sempre 'a e non la; 'o (oppure 'u) anziché lo e la, semprechè la parola seguente cominci per consonante. Se ne' canti popolari si usasse lo e la, i versi zoppicherebbero quasi tutti. Così pure si dice 'e bacche e non le bacche (le vacche); 'e bitelle e non le bitelle (le vitelle).

  5. Accussì, così.
  6. Li spiava, le chiedeva. Spià', chiedere, domandare, interrogare. Vedi Varie Poesie | di | Niccolò Capassi | Primario Professore di Leggi | nella R. Università di Napoli || In Napoli MDCCLXI | Nella stamperia Simoniana | Con permesso de' Superiori. Achille dice a Grammegnone (Agamennone):
    Spia un a uno (e bide che te dice):
    Sì li trojane l'erano nemmice?

    Gregorio De Micillis scrive: – «Nell'edizione Simoniana delle Poesie varie di questo autore, e ne' suoi Sonetti in dialetto patrio, da me pubblicati l'anno 1789, leggesi Capassi, e non Capasso, e male; perché in tutte le sue lettere, ed in altre scritture di sua mano, egli sottoscrisse sempre il suo cognome coll'o in fine e nommai coll'i, come, affettando un certo fiorentinismo, sogliono praticare i moderni. Il nostro Grandi, nell'eccellente trattato dell'Origine de' cognomi gentilizî, condanna questo abuso e ne fa vedere l'irragionevolezza con pruove, che non ammettono risposta. Vedilo alla pag. 284 e seguenti della detta Opera.» – Così può leggersi ne Le opere | di | Niccolò Capasso | la maggior parte inedite | Ora per la prima volta con somma diligenza raccolte, | disposte con miglior ordine | e di Note | ed Osservazioni arricchite | da Carlo Mormile |. Si è aggiunta in questa prima compiuta edizione | la vita dell'autore nuovamente scritta | da Gregorio De Micillis. | Volume Primo. || In Napoli MDCCCXI. | Presso Domenico Sangiacomo | Con licenza de' Superiori. Pure, malgrado la disapprovazione del Grandi e malgrado tutte le buone ragioni, che consiglierebbero a mantenere inalterati i cognomi, li vediamo continuamente alterati da noi e nella scrittura e nella pronunzia, o per fuggire equivoci osceni, o per ingentilirli e per ravvicinarli al tipo aulico, o per altre cagioni. Così, per esempio, il sommo storico Carlo Troya, voleva il suo scritto con l'y anziché con l'i o con la j. Le famiglie Culosporco, Stracazzi, Figarotta, si fanno ora chiamare Colosporco, Stragazi, Fecarròta. Il commendator Marvasi, era figliuolo e fratello di Marvaso. Un Torelli, di origine albanese, giornalista, padre di un noto commediografo, è fratello e zio e figliuolo di tanti Turiello. Conosco un Rossi, ch'era fino a pochi anni fa semplicemente Russo. Gl'illustri Silvio e Bertrando Spaventa appartengono ad una famiglia De Laurentiis, la quale cominciò a farsi chiamare De Laurentiis-Spaventa, quando entrò in essa l'ereditiera della famiglia Spaventa; in poche generazioni il cognome originario s'è obliterato ed è stato surrogato del tutto dallo avventizio. Mille altri casi simili potrei citare.

Bibliografia

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