Indro Montanelli: differenze tra le versioni

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*È vero che ha cambiato parere politico più volte, ma sempre perché profondamente preoccupato per le sorti del paese. Ma Indro ha cambiato parere sempre meno di quei giornalisti che da Lotta Continua sono passati a Comunione e Liberazione per approdare infine a dirigere quotidiani di Stato. Senza contare tutti coloro che da stalinisti o maoisti sono diventati prima antimarxisti e ora clintoniani: Montanelli ragiona, loro vogliono avere sempre ragione. ([[Fausto Gianfranceschi]])
*È vero che ha cambiato parere politico più volte, ma sempre perché profondamente preoccupato per le sorti del paese. Ma Indro ha cambiato parere sempre meno di quei giornalisti che da Lotta Continua sono passati a Comunione e Liberazione per approdare infine a dirigere quotidiani di Stato. Senza contare tutti coloro che da stalinisti o maoisti sono diventati prima antimarxisti e ora clintoniani: Montanelli ragiona, loro vogliono avere sempre ragione. ([[Fausto Gianfranceschi]])
*Io mi sono limitato ad adottare la sua formula giornali­stica. Ma l'ho realizzata meglio perché mi sono sempre esposto, ci ho messo la faccia. Lui invece era come Veltroni: "Sì, ma an­che". Non si schierava nettamente, il suo editoriale era così in chiaroscuro che alla fine non capivi mai se fosse chiaro o scuro. Il che non significa che non resti il migliore di tutti noi. Ho venduto più di lui solo perché a me la gente non fa schifo. ([[Vittorio Feltri]])
*Io mi sono limitato ad adottare la sua formula giornali­stica. Ma l'ho realizzata meglio perché mi sono sempre esposto, ci ho messo la faccia. Lui invece era come Veltroni: "Sì, ma an­che". Non si schierava nettamente, il suo editoriale era così in chiaroscuro che alla fine non capivi mai se fosse chiaro o scuro. Il che non significa che non resti il migliore di tutti noi. Ho venduto più di lui solo perché a me la gente non fa schifo. ([[Vittorio Feltri]])
*Mi sono sentito in imbarazzo per lui, e il mio primo pensiero è stato il rifiuto - «no, povero Montanelli» - quando all'ingresso dei giardini di via Palestro mi sono trovato davanti alla sua statua, al punto che ho pensato che ci sono vandali che distruggono e vandali che costruiscono, e che anzi, per certi aspetti, il vandalismo che crea è ben peggiore, perché tenta di disarmarti con le sue buone intenzioni. Dunque era di mattina, molto presto, e i giardini erano vuoti, al sole. Ebbene in questo vuoto, la statua mi è apparsa all'improvviso: una figurina in gabbia che non ha niente a che fare con Montanelli, se non perché lo offende anche fisicamente, lui che era così "verticale", e che ci invitava a buttare via «il grasso» e la retorica monumentale. Il giornalista che ogni volta si ri-definiva in una frase, in un concetto, in un aforisma, in una citazione, è stato per sempre imprigionato in una scatola di sardine. Perciò ho provato il disagio che sempre suscita il falso, la patacca, la similpelle che non è pelle, perché non solo questo non è Montanelli, come ci ha insegnato Magritte che dipinse una pipa e ci scrisse sotto "questa non è una pipa". Il punto è che questa non è neppure una statuta di Montanelli, ma di un montanelloide in bronzo color oro, che ha la presunzione ingenua e goffa di imprigionare il Montanelli entelechiale, il Montanelli che era invece l'asciuttezza, era il corpo più "instatuabile" del mondo, troppo alto, troppo energico, troppo nervoso, incontenibile nello spazio e nel tempo com'è l'uomo moderno, che è nomade e ha un'identità al futuro. Era il più grande nemico delle statue il Montanelli che sempre ci sorprendeva, fascista ma con la fronda, conservatore ma anarchico, con la sinistra ma di destra, un uomo di forte fascino maschile che tuttavia non amava raccogliere i trofei del fascino maschile, ingombrante ma discreto, il solo che nella storia d' Italia abbia rifiutato la nomina a senatore a vita perché, diceva, «i monumenti sono fatti per essere abbattuti», come quello di Saddam, o di Stalin o di Mussolini. Come si può fare una statua ingombrante e discreta? Come si può fare un monumento all'antimonumento? ([[Francesco Merlo]])
*Montanelli, un misantropo che cerca compagnia per sentirsi più solo. ([[Leo Longanesi]])
*Montanelli, un misantropo che cerca compagnia per sentirsi più solo. ([[Leo Longanesi]])
*Recentemente sono stato insignito del Premio Montanelli alla carriera che dovrebbe essermi consegnato a ottobre a Fucecchio, a meno che nel frattempo non mi sia revocato per indegnità, sempre in nome della libertà di informazione. Sono certo che il vecchio Indro non avrebbe condiviso nemmeno un fonema del mio necrologio sul Mullah {{NDR|Omar}}, ma sono altrettanto certo che non si sarebbe mai sognato di bloccarlo. Caso mai ci avrebbe riso su, considerandolo una provocazione, anche se provocazione non era. Perché Montanelli era un vero liberale. Quando i liberali esistevano ancora. ([[Massimo Fini]])
*Recentemente sono stato insignito del Premio Montanelli alla carriera che dovrebbe essermi consegnato a ottobre a Fucecchio, a meno che nel frattempo non mi sia revocato per indegnità, sempre in nome della libertà di informazione. Sono certo che il vecchio Indro non avrebbe condiviso nemmeno un fonema del mio necrologio sul Mullah {{NDR|Omar}}, ma sono altrettanto certo che non si sarebbe mai sognato di bloccarlo. Caso mai ci avrebbe riso su, considerandolo una provocazione, anche se provocazione non era. Perché Montanelli era un vero liberale. Quando i liberali esistevano ancora. ([[Massimo Fini]])

Versione delle 03:00, 18 dic 2015

Indro Montanelli alla sede del Corriere

Indro Montanelli (1909 – 2001), giornalista, saggista e commediografo italiano.

Citazioni di Indro Montanelli

  • A me, invece, Grillo piace. Lo considero il più efficace comico in circolazione. Anzi: «comico» non è la parola giusta. Grillo non è un comico, non è un moralista, non è un predicatore: è tutte queste cose insieme. Nel panorama dello spettacolo italiano, dove abbonda il bollito misto, è un'eccezione ambulante (e urlante). Lei ha ragione quando dice che Grillo esagera. Non soltanto esagera; provoca anche, e insulta, e offende. Ma tutte le categorie di giudizio, con un tipo così, risultano inadeguate. Grillo appartiene ad una specie animale particolare, formata da un solo esemplare: lui. O lo strozziamo o lo applaudiamo. Io, appena posso, lo applaudo. Perché i suoi eccessi, a differenza di quelli di Sgarbi, odorano di bucato.[1]
  • A suo tempo imprigionato dagl'israeliani per complicità col terrorismo palestinese, e liberato per l'intervento del Vaticano con l'impegno di astenersi dalla politica, l'Arcivescovo libanese di Gerusalemme Hilarion Capucci ha dichiarato in un'intervista all'Europeo che i rivoltosi di Gaza e della Cisgiordania non ricevono ordini da nessuno: «Li prendono solo da Dio, loro unico leader». Lo abbiamo sempre detto, noi: a grattare un arabo, anche se cristiano e Monsignore, viene fuori un Ayatollah. Ma forse non c'è neanche bisogno di grattare.[2]
  • Agnelli ha detto che non siamo nella repubblica delle banane, però qualche banana in Italia c'è, perché avvengono cose veramente singolari.[3]
  • Al conformismo l'ironia fa più paura d'ogni argomentato ragionamento.[4]
  • Berlusconi ha straordinarie qualità di imprenditore – coraggio, fantasia, forza di lavoro – che gli hanno valso il successo in tutti i campi in cui si è cimentato. Una sola cosa non gli riesce di fare, il presidente di una società di calcio.[5]
  • [Aldo Moro] Calvinista a rovescio, invece che nella predestinazione della grazia, credeva in quella della disgrazia.[6]
  • Certo, per un direttore di giornale, avere sottomano un Travaglio, che su qualsiasi protagonista, comprimario e figurante della vita politica italiana è pronto a fornirti su due piedi una istruttoria rifinita nel minimo dettaglio è un bel conforto. Ma anche una bella inquietudine. Il giorno in cui gli chiesi se in quel suo archivio, in cui non consente a nessuno di ficcare il naso, ci fosse anche un fascicolo intitolato al mio nome, Marco cambiò discorso.[7]
  • Chi di voi vorrà fare il giornalista, si ricordi di scegliere il proprio padrone: il lettore.[8]
  • Conosco molti furfanti che non fanno i moralisti, ma non conosco nessun moralista che non sia un furfante. Senza, per carità, allusione a Scalfari. Solo come promemoria.[9]
  • Cosa c'è meglio di Prodi? Governa fra compromessi e imbroglietti. I nostri soci sanno benissimo che siamo imbroglioni, che sui conti che portiamo all'Europa s'è un po' imbrogliato. Accettano lo stesso, purché non s'esageri. E Ciampi non esagera, è un economista serio e vero [...] [Romano Prodi] Con la faccia da mortadella, l'ottimismo inossidabile e l'eterno sorriso, ci porterà in Europa: ringraziamo Dio, e anche D'Alema, che ci hanno dato Prodi.[10]
  • Dicono che De Mita sia un'intellettuale della Magna Grecia. Io però non capisco cosa c'entri la Grecia...[11]
  • Gli italiani non si dividono in furbi e in fessi, sono nello stesso tempo tutti furbi e fessi.[12][13]
  • Gran parte delle forze leghiste, quelle che accennano a qualche razzismo nei confronti del meridionale, sono composte da meridionali che si sono milanesizzati e ci si trovano talmente bene a Milano che non vogliono che altri arrivino dal sud.[13]
  • [Su Lucio Battisti] Ho amato molto le sue canzoni e il suo desiderio di vivere appartato.[14]
  • I mariti italiani, per comprar la pelliccia alle mogli, spendono più di tutti i loro colleghi europei. Poveri, ma pelli.[15]
  • I nostri uomini politici non fanno che chiederci, a ogni scadenza di legislatura, «un atto di fiducia». Ma qui la fiducia non basta; ci vuole l'atto di fede.[15]
  • Io non sono napoletano, ma di fronte a Peppino, non so come, mi capita sempre di diventarlo.[16]
  • I ricordi vanno messi sotto teca, appesi a una parete e guardati. Senza tentare di rinnovarli. Mai.[17]
  • Il bello dei politologi è che, quando rispondono, uno non capisce più cosa gli aveva domandato.[15]
  • Il fascismo privilegiava i somari in divisa. La democrazia privilegia quelli in tuta. In Italia, i regimi politici passano. I somari restano. Trionfanti.[15]
  • In Italia a fare la dittatura non è tanto il dittatore quanto la paura degli italiani e una certa smania di avere, perché è più comodo, un padrone da servire. Lo diceva Mussolini: «Come si fa a non diventare padroni di un paese di servitori?».[18]
  • In Italia c'è una frangia d'imbecilli tali che credono si possa resuscitare il comunismo. Seppellire il cadavere del marxismo non è facile, anche perché per molti significa rinnegare l'intera esistenza. Ma certo Bertinotti non è di questi: lui non sa un corno di marxismo, non gl'importa niente, è un piccolo pagliaccio, un populista all'italiana che scalda in piazza maree di poveri diavoli e parla ancora delle masse operaie, che vede solo lui.[10]
  • In Italia non c'è una coscienza civile, non c'è un'identità nazionale che tenga insieme uno Stato federale e garantisca la civile convivenza delle sue parti. Invece io vedo solo nell'Italia Cisalpina qualche barlume di coscienza civile e una vocazione europea. Altrove, invece, è un disastro difficile, se non impossibile, da rimediare. Spero proprio di sbagliarmi.[19]
  • In Italia si può cambiare soltanto la Costituzione. Il resto rimane com'è.[20]
  • In Italia un colpo di piccone alle case chiuse fa crollare l'intero edificio, basato su tre fondamentali puntelli, la Fede cattolica, la Patria e la Famiglia. Perché era nei cosiddetti postriboli che queste tre istituzioni trovavano la più sicura garanzia.[21]
  • Io non mi sono mai sognato di contestare alla Chiesa il suo diritto a restare fedele a se stessa, cioè ai comandamenti che le vengono dalla Dottrina... ma che essa pretenda d'imporre questi comandamenti anche a me che non ho la fortuna di essere un credente, cercando di travasarli nella legge civile in modo che diventi obbligatorio anche per noi non credenti, è giusto? A me sembra di no.[22]
  • Io non voglio soffrire, io non ho della sofferenza un'idea cristiana. Ci dicono che la sofferenza eleva lo spirito; no la sofferenza è una cosa che fa male e basta, non eleva niente. E quindi io ho paura della sofferenza. Perché nei confronti della morte, io, che in tutto il resto credo di essere un moderato, sono assolutamente radicale. Se noi abbiamo un diritto alla vita, abbiamo anche un diritto alla morte. Sta a noi, deve essere riconosciuto a noi il diritto di scegliere il quando e il come della nostra morte.[23]
  • La cosa curiosa di Caponnetto è che si va a schierare con Orlando che è stato il paggior denigratore di Falcone. E poi dice che fa l'antimafia, io vorrei sapere i voti a Orlando chi glieli ha dati.[24]
  • La cultura, per un giornalista, è come una puttana: la puoi frequentare ma non devi ostentarla. La cultura si tiene nel cassetto. Il lettore non va trattato dall'alto in basso, ma preso per mano come un amico e portato dove vuoi.[25]
  • La cultura si è chiusa nella torre eburnea. Rimane lì, arroccata in sé stessa, perché ha orrore dei contatti col pubblico, si crede diminuita dai contatti col pubblico. Questa è la cultura italiana. È una cultura di cretini.[26]
  • La democrazia è sempre, per sua natura e costituzione, il trionfo della mediocrità.[27]
  • La depressione è una malattia democratica: colpisce tutti.[28]
  • La devolution mi preoccupa molto, perché la decomposizione della Jugoslavia cominciò esattamente così: reclamata e imposta dai due grandi compari Tudjiman e Milosevic che distrussero l'unitá del Paese per restare padroni in casa propria...[29]
  • La guerra contro il brigantaggio, insorto contro lo Stato unitario, costò piú morti di tutti quelli del Risorgimento. Abbiamo sempre vissuto dei falsi: il falso del Risorgimento che assomiglia ben poco a quello che ci fanno studiare a scuola.[30]
  • La nostra classe politica ha fatto del partito una specie di totem intoccabile e gli ha attribuito tutti i poteri, con in più un diritto: il diritto di abusarne.[31]
  • Le mie idee sono sempre al vaglio dell'esperienza e l'esperienza mi impone di rivederle continuamente.[32]
  • Mi avvio verso il mio capolinea con l'angoscia di portare con me le cose che ho più amato: il mio paese e il mio mestiere, temo che non mi sopravviveranno.[33]
  • [Rivolto a Berlusconi che voleva imporsi sulla linea editoriale de il Giornale] Nell'arte dell'imprenditoria, tu sei di certo un genio, ed io un coglione. Ma nell'arte della polemica il genio sono io, e tu il coglione.[34]
  • No, Travaglio non uccide nessuno. Col coltello. Usa un'arma molto più raffinata e non perseguibile penalmente: l'archivio.[34]
  • Non credo alle feste comandate. La memoria dovrebbe essere spontanea. L'unica cosa che si dovrebbe fare è raccontare veramente e in maniera spassionata ai giovani, che non lo sanno, cosa è stata la Shoah, senza fare mobilitazioni di folle.[35]
  • Non mi si portino i soliti argomenti astratti, tipo la sacralità della vita: nessuno contesta il diritto di ognuno a disporre della sua vita, non vedo perché gli si debba contestare il diritto a scegliere la propria morte.[36]
  • Non sono certo che il grande pubblico sia in grado di capire che Beppe Grillo costituisce la versione genovese del folletto dispettoso delle fiabe, un incubo esilarante, il rigurgito della nostra cattiva coscienza. Chissà: forse è meglio che rimanga «off limits», per il suo stesso bene. Anche se mi mancherà.[1]
  • Posso solo dire che l'Italia del Cattaneo è quella che conserva qualche probabilità di salvarsi da questo degrado politico, culturale, morale, economico. E l'Italia del Cattaneo è quella Cisalpina. A nord del Po, e forse anche in Emilia, esistono tracce di coscienza civile e anche di classi dirigenti sane. Poi c'è un'Italia centrale, quella toscana e umbra e marchigiana, che conserva le sue peculiarità, i suoi caratteri spiccati che affondano le radici nell'Italia comunale e rinascimentale. Il resto è un disastro che non saprei come salvare. Del resto Cattaneo ci tentò, andò a Napoli e resistette qualche giorno. Poi si arrese e se ne tornò nella sua Lugano, nella sua Svizzera.[19]
  • Pur ricordandovi che la nostra regola è quella di non tener conto delle intemperanze altrui, specie dei politici, e di dire sempre la verità, tutta la verità, senza partito preso né animosità verso nessuno, vi autorizzo a comunicare al suddetto signore, se ve ne capita l'occasione, che l'unica «testa» in pericolo di cadere dopo il 5 aprile non è la vostra ma, casomai, la sua. E potete aggiungere, da parte mia, che non la considererei una gran perdita.[37]
  • Pertini ha interpretato al meglio il peggio degli italiani.[38]
  • Quando mi viene in mente un bell'aforisma, lo metto in conto a Montesquieu, od a La Rochefoucauld. Non si sono mai lamentati.[39]
  • Quello che ci ripugna è che, per mettere un controllo all'autorità politica, ci sia bisogno di ricorrere all'autorità giudiziaria. Cioè che, alla fine, noi avremo le riforme istituzionali non per via politica, ma per via giudiziaria e processuale. Questo ci allarma anche perché, come avrete ben capito, la mia opinione dei politici è molto bassa, ma quella dei giudici non è migliore. Perché anche i giudici sono stati corrotti dalla partitocrazia. Lo dimostra il semplice fatto che molti di loro ostentano la tessera di partito. Un giudice che ha venduto la propria imparzialità ai partiti è un giudice che, prima di processare gli altri, dovrebbe essere processato lui e cacciato in galera. Lo so che a dire queste cose si possono avere dei dispiaceri, ma io di dispiaceri in vita mia ne ho avuti tanti che, uno più o uno meno, non mi fa nessunissimo effetto.[31]
  • Se qualcuno mi chiedesse: "Cosa vorresti che, dopo di te, di te rimanesse?", risponderei senza esitare: "Questi colloqui".[40]
  • Siamo un paese cattolico, che nella Provvidenza ci crede o almeno ne è affascinato. Il pericolo è questo: gli italiani sentendo aria di provvidenza sono sempre pronti a mettersi in fila speranzosi.[41]
  • Sta arrivando l'uomo della provvidenza. E io, in vita mia, di questi personaggi ne ho già conosciuto uno. Mi è bastato. Per sempre.[41]
  • Una cultura che perde i contatti col pubblico si sterilisce e muore. Questa è la verità. E la nostra cultura è assolutamente sterile. Noi culturalmente non contiamo più nulla nel mondo. Perché? Perché è chiusa in sé stessa, la cultura, ha perso i contatti col pubblico, con la vita. Non c'è più. Sono mummie. Non è più cultura: è mafia.[26]
  • [Aldo Moro] Un generale che, sfiduciato del proprio esercito, credeva che l'unico modo di combattere il nemico fosse quello di abbracciarlo.[42]
  • Un giorno fui convocato a Palazzo Venezia, era il 1932 e avevo 23 anni, perché il duce voleva vedermi. Ero emozionatissimo, entrai e mi misi sull' attenti, e il duce che faceva finta di scrivere mi lasciò lì per un quarto d'ora e alla fine mi disse: "Ho letto il vostro articolo sul razzismo (avevo scritto un articolo contro il razzismo). Bravo, vi elogio. Il razzismo è roba da biondi (non si era accorto che ero biondo), continuate così. Sei anni dopo fece le leggi razziali. Perché questo era Mussolini, diceva una cosa e ne faceva un'altra, secondo il vento del momento. Non creava il vento, vi si accodava da buon italiano.[43]
  • [Giorgio La Pira] Un pasticcione ben intenzionato che, nel nome del Signore, appoggia le peggiori cause appellandosi ai migliori sentimenti.[44]
La Storia d'Italia di Indro Montanelli, regia di Enrico Zampini, a cura di Mario Cervi, Cecchi Gori, Firenze, 1998
  • Io dico che il silenzio mantenuto finora [sui massacri delle foibe], o quasi silenzio, si spiega facilissimamente: tutta la storiografia italiana del dopoguerra era di sinistra, apparteneva all'intellighenzia di sinistra, la quale era completamente succuba del Partito comunista. Quindi non si poteva parlare delle foibe, che non appartenevano al comunismo italiano, ma appartenevano certamente al comunismo slavo, di cui però il comunismo italiano era alleato e faceva gli interessi. Quindi di questo non si poteva parlare, e non si poteva parlare delle stragi del triangolo della morte, perché anche queste ricadevano sulla coscienza, ammesso che ce ne sia una, del Partito comunista, il che sta a dimostrare quello che dicevo prima, cioè che la Resistenza non fu una resistenza, fu una guerra civile tra italiani che continuò anche dopo il 25 aprile, cioè il ritorno dell'Italia alla pace e alla normalità. Continuò anche allora; io mi ricordo che andai, volli andare, nel triangolo della morte, cioè fra Reggio Emilia, Modena, Parma eccetera. [...] Andai come giornalista, ma non soltanto come giornalista, per appurare com'era andata la strage dei conti Manzoni, dopo la fine della guerra. La strage dei conti Manzoni, che erano tutti miei amici che furono sterminati. Una famiglia di persone che col fascismo non aveva niente a che fare, ci aveva convissuto come tutti gli italiani. Bene, nessuno mi voleva parlare di questa faccenda. [...] Nessuno ne aveva parlato, né dei Carabinieri né della Polizia e tantomeno della magistratura, eppure lo sapevano. [...] C'era una complicità assoluta, una complicità dannata. [...] Se ne parla ora perché il Muro di Berlino è crollato, ma si ricordi che trent'anni fa, quando De Felice annunziò di mettere allo studio il ventennio fascista per sapere com'era andata, fu proposta la sua estromissione dalla cattedra universitaria. Solo perché metteva allo studio un ventennio di storia italiana che, bella o brutta, c'era stata. [...] Non era possibile inquadrare storicamente il fascismo: chi lo faceva, cercando di spiegare i perché della sua durata ed anche i perché della sua catastrofe, veniva accusato di fascismo. (da Dalla Monarchia alla Repubblica)
  • È difficile sapere che cosa fu Togliatti, perché Togliatti non ha lasciato memoriali, non ha lasciato diario, che cosa pensasse Togliatti non lo sapeva nessuno, credo nemmeno la sua compagna Nilde Iotti. Si può dire che è stato un esecutore fedele degli ordini di Stalin. Lo è stato sempre, e per questo godeva la fiducia di Stalin. [...] Era un diplomatico per sé, soprattutto, perché é un uomo sopravvissuto a venticinque o trent'anni anni di Mosca, senza finire in galera, processato o contro il muro. Beh, questo è uno dei grandi personaggi. Sono pochi. [...] Non poteva essere uno statista perché i comunisti non hanno lo Stato nel sangue, i comunisti hanno il partito. Stalin non è mai stato Capo dello Stato, e nemmeno Capo del Governo, era capo del partito. Il potere nei regimi comunisti non sta né nello Stato né nel governo, sta nel partito. (da Dalla proclamazione della Repubblica al Trattato di pace)
  • Questa Costituzione porta male gli anni da quando aveva un giorno, perché fu subito chiaro quali erano i suoi difetti, del resto furono anche denunciati da uomini come, per esempio, Calamandrei, come Mario Paggi eccetera eccetera. I difetti furono soprattutto due. [...] Il primo difetto fu di ripartizione dei lavori. La Costituente era formata da 600 membri eletti di passaggio. Voglio [far] notare che quella fu la prima elezione che si tenne in Italia – per la Costituente, non per il Parlamento – ma dove ci fu lo spiegamento dei partiti. Ogni partito portò i suoi candidati, cioè dei giuristi che facevano capo alla propria ideologia. Bene, in quella prima elezione il 35% dei voti andò ai democristiani, il 21% andò ai socialisti di Nenni, il 19% ai comunisti. Quindi in quel momento... non c'era ancora il Fronte ma in quel momento i socialisti facevano premio sui comunisti. Erano di poco, ma un po' più forti dei comunisti. [...] Questi 600 costituenti non potevano lavorare tutti insieme, era impossibile mandare avanti 600 persone a dibattere all'infinto le stesse cose, e allora i lavori furono devoluti a una commissione che si chiamò la "Commissione dei Settantacinque", perché erano 75 membri della Costituente che venivano incaricati per le loro competenze specifiche di redigere il testo. Ma anche 75 erano troppi, e allora anche i 75 si frazionarono in sotto-commissioni, ognuna delle quali lavorò per conto suo. Non ci fu un piano di insieme. [...] Non fu un vero lavoro collettivo. Calamandrei lo disse subito: "Noi stiamo montando una macchina, che magari pezzo per pezzo sarà anche ben fatta, ma le cui giunture non coincidono con le giunture di altri pezzi". [...] Fu lasciata così perché nessuno volle rinunziare al proprio elaborato, e questo è tipico degli italiani. [...] Il secondo motivo che rese questa Costituzione veramente impalatabile e nociva per il regime che ne doveva nascere, fu che i nostri costituenti partirono dal punto di vista opposto a quello da cui sarebbero partiti i costituenti tedeschi quando la Germania fu libera di elaborare una sua Costituzione. Da che cosa partirono i costituenti tedeschi? Da questo ragionamento: il nazismo fu il frutto della Repubblica di Weimar. Cos'era la Repubblica di Weimar? Era l'impotenza del potere esecutivo, cioè del Governo. [...] La Germania rimase nel disordine, nel caos, nella Babele dei partiti che non riuscivano a trovare mai delle maggioranze stabili, quindi dei governi efficaci. Ecco perché Hitler vinse, perché il nazismo vinse. I costituenti nostri partirono dal presupposto contrario, cioè dissero: "Cos'era il fascismo? Il fascismo era il premio dato a un potere esecutivo che governava senza i partiti, senza controlli eccetera. Quindi noi dobbiamo esautorare completamente il potere esecutivo, [negando] la possibilità di dare ai governi una stabilità eccetera". Per rifare che cosa? Weimar. Cioè, mentre i tedeschi partivano dalla negazione di Weimar, noi arrivavamo [a Weimar] senza dirlo. Nessuno lo disse, ma questo fu il risultato. [...] Non fu possibile nemmeno introdurre quella solita linea di sbarramento che invece fu introdotta in Germania, per cui i partiti che non raggiungevano non ricordo se il 5 o il 3% comunque, non avevano diritto a una rappresentanza. No, tutti i partiti dovevano esserci e tutti avevano un potere di ricatto sulle maggioranze, che erano per forza di cose di coalizioni. [...] Tutte le volte che si diceva "Ma qui bisogna restituire un po' di autorità al potere esecutivo, bisogna mettere i governi in condizione di governare" si diceva: "Fascista! Fascista!". Con questo ricatto qui abbiamo fatto le più grosse scempiaggini che si potesse immaginare. (da Dall'assemblea costituente alla vigilia delle elezioni del 1948)
  • La fine di De Gasperi è la fine di un'epoca: con lui finisce un'epoca e ne comincia un'altra non certamente migliore. [...] C'è una bella pagina della figlia di De Gasperi, Maria Romana, che ha scritto un bel libro sul padre. Un libro tutto vero in cui racconta anche i funerali su in Val Sugana: c'era naturalmente tutta la nomenclatura democristiana che accompagnava la bara. Oramai De Gasperi era morto, si poteva anche fingere il compianto, e a un certo momento un passante che era lì – uno che guardava, che non aveva niente a che fare con la politica, con la Democrazia Cristiana eccetera eccetera – si avvicinò al feretro e scansando questi turiferari della DC disse: "No, non è vostro! De Gasperi è nostro! Era un italiano!". E aveva ragione. De Gasperi era nostro, non un democristiano. (da Gli anni di Alcide De Gasperi)
  • [Giovanni Gronchi] Era un uomo molto abile, brillante parlatore, molto abile anche negli affari. Era molto più libertino di Sforza, quindi la Democrazia Cristiana [...] era cambiata, evidentemente, e Gronchi fu eletto per una faida interna della Democrazia Cristiana, perché Fanfani voleva Merzagora. Allora per fare dispetto a Fanfani, invece gli buttarono fra i piedi Gronchi, il quale seppe benissimo tessere la sua trama fra Sinistra, Destra eccetera e far diventare gronchiani anche quelli degli altri partiti. Dicendosi agli uni uomo di Destra e agli altri uomo di Sinistra, facendo insomma il giuoco personale di Gronchi, con cui entrò in Quirinale il vero grande corruttore della vita politica italiana. [...] Dopo l'onestissimo Einaudi viene Gronchi, che è l'indulgenza plenaria verso tutte le deviazioni e i deviazionisti d'Italia. (da La rivolta in Ungheria e l'elezione di Giovannni XXIII)
  • Questa storia dell'MSI è una delle grandi truffe della Prima Repubblica: nella Costituzione c'è un articolo che proibisce la rinascita di un partito fascista. Ecco. Ora, l'MSI era chiaramente un partito fascista. Non lo negava, anzi si faceva gloria del fatto di essere l'erede eccetera. Perché lo avevano messo, allora? Lo avevano messo perché questo partito fascista, che avrebbe dovuto essere escluso dalla vita politica, serviva a captare un certo numero di voti che, senza questo partito, sarebbero andati a dei partiti moderati di Centro e soprattutto, forse, alla Democrazia Cristiana. Quindi quale fu il gioco delle Sinistre, a cui la Democrazia Cristiana però si piegò e si rassegnò: è consentito di esistere all'MSI, però l'MSI quando è in Parlamento è escluso dal gioco parlamentare. Così si mettevano i voti dell'MSI in frigidaire, e così non andavano alla Democrazia Cristiana e ai partiti [di Centro]. È una delle peggiori truffe che è stata inventata dalla classe politica che ci ha governato per cinquant'anni. (da I successori di De Gasperi e la politica italiana fino alla morte di Togliatti)
  • Io vorrei sapere quali furono le crescite... di civiltà che il Sessantotto pretende di averci lasciato. Io vedo tutt'altra cosa: io vidi nascere, dal Sessantotto, una bella torma di analfabeti che poi invasero la vita pubblica italiana, e anche quella privata, portando dovunque i segni della propria ignoranza. Io ho visto questo. Può darsi che sia affetto da sordità o da cecità ma io non ho visto altro, come frutti del Sessantotto. [...] [La differenza tra il Sessantotto francese e quello italiano è] La differenza che passa fra l'originale e il fac simile perché il Sessantotto nacque in Francia e in Italia fu un fatto di riporto, di imitazione. [...] [L'imitazione del Sessantotto francese vi fu] Un po' in tutto il mondo ma particolarmente in Italia dove non nasce mai niente, è sempre qualcosa di imitato dagli altri. Bene o male, insomma, i francesi ebbero... anche una certa cultura del Sessantotto, ebbero Sartre. Oddio, Sartre rivisto con gli occhi di oggi naturalmente scende molto dal suo mitico piedestallo. [...] In Italia non ci fu neanche un Sartre. [...] Credo che su Pasolini si sia preso un grosso abbaglio: Pasolini è passato per uno scrittore di sinistra perché aveva preso come sfondo dei suoi racconti – bellissimi del resto – il sottoproletariato delle borgate romane, i ragazzi di vita, insomma, la schiuma della società. Ma lo aveva fatto per dei gusti e dei motivi del tutto personali sui quali è inutile tornare a far commenti. Questo lo aveva fatto considerare come uno scrittore, un difensore del proletariato, ma non era una scelta politica quella che aveva fatto Pasolini. Non centrava niente, assolutamente nulla. Quindi quello che lui disse era assolutamente vero, cioè dire che nei tafferugli, dove spesso ci scappava il morto, tra quei dilettanti delle barricate che erano [i borghesi]... i veri proletari erano i poliziotti, tutti figli di famiglie povere, eccetera eccetera. I dilettanti delle barricate erano tutti o quasi tutti figli di papà: aveva ragione Pasolini! Ma come no! E questo fu considerato un tradimento all'ideologia di sinistra. [...] Il primo fenomeno fu il Sessantotto, e il Sessantotto partorì poi il terrorismo, il brigatismo rosso eccetera eccetera. Su questo non ci son dubbi, insomma. Dirò di più: i più seri, e forse gli unici seri, furono quelli che poi diventarono dei terroristi e che quindi rischiarono la loro vita, almeno. Gli altri erano quello che diceva Pasolini, dei figli di papà. (da Il Sessantotto e la politica di Berlinguer)
  • [La figura del Grande Vecchio] È una di quelle fandonie, di quelle stupidaggini che piacciono tanto a noi italiani: l'idea di un Grande Vecchio che organizzasse tutte queste stragi, attentati eccetera eccetera. È un affare da Simenon di borgata insomma – no? Piaceva l'idea che ci fosse dietro tutta una strategia. Sennonché poi non si sapeva chi fosse il Grande Vecchio. [...] Ne ha avuti molti: naturalmente Andreotti – quello non manca mai, quando si cerca un deus ex macchina di tutto ciò che di più criminale è avvenuto in questo Paese [c'è] Andreotti. [...] In quel momento non era tanto vecchio, ma il Grande Vecchio non ha nulla di anagrafico, è il Grande Vecchio così – poi Gelli, poi Sindona. Ha avuto varie raffigurazioni che sono tutte di fantasia. [...] Come in tutti i processi italiani anche questi, che poi si misero... volevano arrivare all'identificazione dei responsabili e non ci arrivarono quasi mai, erano dominati dal cosiddetto "teorema": si partiva dal presupposto... a un certo momento si mise di parlare degli anarchici – si smise quasi subito di parlare [degli anarchici] – e tutte le lampadine furono rivolte ai partiti e alle forze di Destra. Erano quelle le forze stragiste. [...] I nostri bravi giudici, salvo alcuni, partivano dal presupposto che [i colpevoli] certamente venivano di lì, venivano dalle Destre, dalle Destre più violente. Alle quali si attribuiva, sempre per "teorema", questa idea: creare una tensione nel Paese in modo da impaurire gli italiani e metterli alla scelta "o la libertà o l'ordine", perché insieme non potevano andare. Nella libertà era chiaro che non si poteva mantenere l'ordine, e loro dicevano: "Qualunque popolo messo a questa scelta sceglie l'ordine". Ecco. È un teorema. È un teorema che ha sempre cercato dimostrazione e non l'ha trovata mai. (da Piazza Fontana e dintorni)
  • Quelle lettere erano tutte farina del sacco di Moro, e questa farina non è molto encomiabile perché, vede, tutti gli uomini hanno diritto ad avere paura. Tutti. Però quando un uomo sceglie la politica, e nella politica emerge a uomo di Stato – a uomo rappresentativo dello Stato – non perde il diritto a avere paura, ma perde il diritto a mostrarla. Questo sì. Questo è uno dei principi che dovrebbe essere affermato. L'incidente, tipo quello di Moro, fa parte del mestiere. Chi affronta quel mestiere deve sapere che può incorrere in quell'incidente e deve avere i nervi, e diciamo gli altri attributi, per resistere. Moro era lo Stato. Lo Stato si raccomandava, implorava, minacciava la classe politica che facesse di tutto, anche che si prostituisse, per salvargli la vita: eh, no. No. Moro era certamente un politico a modo suo, estremamente abile – era anche un galantuomo, credo – ma uomo di Stato non era nemmeno lui. [...] Anch'io mi sono posto questa domanda molto spesso: "Ma se Moro fosse tornato in politica dopo aver costretto lo Stato a prostituirsi, a inginocchiarsi di fronte ai terroristi, avrebbe potuto restarci?". Avrebbe potuto restare? Con che faccia? Vabbè che siamo in Italia. [...] I terroristi avrebbero vinto. Quindi lui che cosa diventava, il braccio politico del terrorismo? Che cosa diventava? Come poteva ripresentarsi? Va bene, gli italiani hanno lo stomaco forte, inghiottono tutto – noi italiani abbiamo lo stomaco forte e inghiottiamo tutto – ma, insomma, di fronte a un uomo la cui vita, la cui sopravvivenza, aveva avuto quel prezzo per noi non credo che avrebbe potuto ripresentarsi all'opinione pubblica italiana. (da Il terrorismo fino al sequestro e all'uccisione di Aldo Moro)
  • Noi naturalmente abbiamo il dovere di ringraziare Gorbačëv per quello che ha fatto, però se lei mi chiede se lo ha fatto bene o lo ha fatto male io debbo rispondere che lo ha fatto malissimo. Io non so se lui... che lui volesse salvare la Patria sovietica questo non lo metto in dubbio. Che lui volesse salvare il comunismo... io debbo risponderle di no, perché quello che lui ha fatto per affossare il comunismo lo ha fatto, insomma. Non c'è il minimo dubbio. Dove ha sbagliato? Ha sbagliato... ecco lo si vede dal raffronto coi cinesi. Anche i cinesi si erano accorti che il sistema comunista era arrivato al capolinea, era fallito. Fallito perché non regge, assolutamente non regge. [Il sistema comunista] Aveva portato il Paese, e i Paesi che lo avevano adottato, al fallimento. Anche i cinesi si erano accorti di questo, però avevano capito che per trasformare un sistema oramai ancestralmente totalitario, statalizzato, che aveva tolto ogni libertà a tutti, che aveva disabituato tutti da ogni spirito di iniziativa e di impresa... per trasformare un'economia basata su questi principi fallimentari in un'economia capitalista basata sul libero mercato, sulla libera concorrenza eccetera, bisognava tenere in mano il potere politico per controllare questo passaggio. I cinesi lo fecero. Quando gli studenti di Pechino [...] credettero di potergli prendere la mano scendendo in Piazza Tienanmen i cinesi non esitarono a mitragliarli e, per quanto un massacro non possa che essere esecrato, io dico questo: i cinesi erano obbligati a farlo. Se non lo facevano la Cina si dissolveva, ritornava quella di Chiang Kai-shek: ritornava quella dei signori della guerra, cioè il Paese si disfaceva. Il paese che bene o male Mao Tse-tung aveva unificato e a cui aveva dato un'anima di Nazione si sarebbe disfatto. (da Giovanni Paolo II e la fine dell'URSS)
  • Per istinto, e per come avevo visto e conosciuto Gelli, io sono convinto che [la Loggia P2] era una cricca di affaristi e basta. Era una cricca di affaristi condotta da un uomo che, evidentemente, come intrallazzatore doveva essere geniale. Era un pataccaro, indiscutibilmente era un pataccaro, ma che a tutto pensava fuorché a un golpe. Non ci pensava nemmeno. Lui procurava affari e soprattutto fomentava carriere. Lui aveva capito qual è la struttura del potere in Italia, sempre, non soltanto allora, sempre: è una struttura mafiosa. Bisogna far parte di una cricca, di una conventicola in cui ognuno aiuta l'altro, e questo era la P2. [...] Ma che interesse poteva avere Gelli a rovesciare un sistema che gli consentiva di influire sino a quel punto? Quale interesse poteva avere? E poi, Gelli era un farabolano ma non doveva essere del tutto sprovveduto, doveva sapere che l'Italia non è terra da golpe. Ma chi lo fa il golpe? E anche se qualcuno lo fa, come fa a resistere? Che cos'ha dalla sua per fare il golpe? Non ho mai creduto al golpismo di Gelli. (da Il caso Sindona e la P2)
  • Il caso Chiesa era un caso modestissimo. Fece da detonatore perché il momento era maturo per arrivare a Tangentopoli, che era dovuto a una cosa molto più complessa che era questa: che ci fosse la corruzione in Italia si è sempre saputo, la classe dominante promanava questo puzzo di fogna che tutti sentivano, il famoso "turarsi il naso". Soltanto che fin quando l'alternativa di questa classe politica allora al potere era un Partito comunista, che era un fac-simile di quello sovietico, basato sui carri armati, sulla polizia segreta, sulle delazioni, sui processi, [...] finché c'era questo spettro noi non potevamo prenderci il lusso di mettere sotto processo e mandare in galera la classe politica dirigente allora. Fu quando, col Muro di Berlino, crollò questo incubo che i tempi furono maturi perché questo avvenisse. [...] Noi dobbiamo metterci in testa che la lotta alla corruzione la si fa in un modo solo: cambiando gli italiani, non cambiando le classi politiche. Le classi politiche, anche quelle nuove, si corrompono, è inevitabile. (da Tangentopoli)
  • Lui è un uomo d'attacco: se avesse fatto la carriera militare lui non sarebbe diventato nè un Rundstedt nè un Manstein, che furono i grandi strateghi tedeschi dell'ultima guerra. [...] Lui sarebbe diventato un Rommel o Patton. Cioè dire: è un generale di straccio e di rottura che, appunto, sullo slancio può compiere qualsiasi cosa. Se lo metti poi a difendere le posizioni conquistate con lo slancio, eh no, lì non ci sta. Come Rommel: Rommel finchè potè attaccare in Libia e in Egitto attaccò. Quando dovette mettersi sulla difensiva chiese il rimpatrio. [...] Lui arrivò a Palazzo Chigi credendo, e facendo credere, che uno Stato si poteva condurre con gli stessi criteri di un'azienda privata. Io su questo avevo avuto serie discussioni con lui – non litigi, non ho mai litigato con Berlusconi – gli avevo detto: "Guarda che lo Stato non è un'azienda privata". [...] Lui credeva di potersi comportare a Palazzo Chigi, e con la macchina dello Stato, come si comportava con la sua organizzazione, dove la gente frullava e se non frullava lui la cacciava via, com'è giusto che faccia un imprenditore. Ma lui non poteva applicare questi metodi e sistemi allo Stato. [...] Nel gioco parlamentare lui naufraga perché non è abituato a queste cose. La politica – non dico che sia solo un mestiere – ma è anche un mestiere. Questo mestiere lui non lo aveva. (da Verso il bipolarismo)
  • L'Italia è la più grande produttrice di regole, ognuna delle quali è una riforma, è la riforma di un'altra regola. Gli stessi esperti pare che abbiano perso il conteggio delle regole che vigono in Italia, delle leggi, dei regolamenti che vigono in Italia: c'è qualcuno che parla di 200.000, altri di 250.000. Ora, quando si pensa che la Germania ha in tutto 5.000 leggi, la Francia pare 7.000, l'Inghilterra nessuna, quasi nessuna. Hai dei principi, così stabiliti, e basta. A cosa ha portato questa proliferazione di leggi? A riempire gli scantinati dei nostri pubblici uffici, dove ci sono questi mucchi di legge che nessuno va nemmeno a consultare perché ognuna di queste leggi poi offre il modo di evaderle. Questa è la grande abilità dei legislatori italiani. I legislatori italiani sono quasi tutti degli avvocati. E gli avvocati a che cosa pensano? A ingarbugliare le leggi in modo da restarne loro i supremi e unici depositari. Quindi noi... riforme: hai voglia se ne faremo, continuiamo a farne, è la nostra vocazione, questa. Quanto poi all'attuazione. Allora è un altro discorso: le leggi in Italia non vengono osservate, anche perché sono formulate in modo che si possano non osservare. Ed è questo che spiega l'abbondanza, la prodigalità delle nostre classi politiche, delle nostre classi dirigenti, nello sfornarne di continuo. [...] Un Paese che ignora il proprio ieri, di cui non sa assolutamente nulla e non si cura di sapere nulla, non può avere un domani. Io mi ricordo una definizione dell'Italia che mi dette in tempi lontanissimi un mio maestro e anche benefattore, che fu un grande giornalista, Ugo Ojetti, il quale mi disse: "Ma tu non hai ancora capito che l'Italia è un Paese di contemporanei, senza antenati né posteri perché senza memoria". Io avevo 25-26 anni e la presi come una boutade, per una battuta, un paradosso. Mi sono accorto che aveva assolutamente ragione. [...] Io sono sicuro che gli scienziati italiani, i medici italiani, gli specialisti italiani, i chimici, i fisici italiani quando avranno a disposizione dei gabinetti europei veramente attrezzati brilleranno. Gli italiani, l'Italia no. L'Italia non ci sarà, non c'è. [...] Per l'Italia non vedo un futuro, per gli italiani ne vedo uno brillante. (da Dal Governo Dini all'Ulivo)

Citazioni tratte da suoi libri

  • [Sul funerale di Leo Longanesi] Al cimitero ci si ritrovò in una decina di persone, non di più. Non ci furono cerimonie né discorsi. Solo la piccola Virginia, che avrà avuto quattordici anni, mentre la bara di suo padre calava nella tomba, mormorò: «E dire che gli orfani mi sono sempre stati così antipatici...» Una frase che sarebbe piaciuta moltissimo a Leo. (dalla presentazione a Leo Longanesi, In piedi e seduti, Longanesi & C., Milano 1968)
  • Carnevale ha dichiarato in un'intervista che la notte non ha bisogno di sonniferi per dormire perché, nei confronti della Legge, la sua coscienza è apposto. Ci crediamo senz'altro. Ma se si ponesse la stessa domanda nei confronti della Giustizia, mi domando se i suoi sogni sarebbero altrettanto tranquilli. E ci rendiamo tuttavia conto che questa domanda non se la porrà mai, e anzi gli sembrerà del tutto stravagante. Perché, per un magistrato italiano, la Legge con la Giustizia non ha nulla a che fare. (da Il testimone, p. 386)
  • Gli uomini non sanno apprezzare e misurare che la fortuna degli altri. La propria, mai. (da Storia dei Greci)
  • I partiti avevano finalmente messo l'uomo sbagliato al posto sbagliato. De Mita non è senza qualità. Ma gli facevano interamente difetto le doti di un governo. Lo si era visto quand'era ministro, e concludeva poco: e quel poco, di solito, sarebbe stato meglio non fosse stato concluso. (da L'Italia del Novecento, p. 536)

Attribuite

  • Berlusconi non delude mai: quando ti aspetti che dica una scempiaggine, la dice.[34]
In Io e il cavaliere qualche anno fa, Corriere della Sera, 25 marzo 2001, p. 1, Montanelli attribuisce la citazione a «un'alta personalità della Finanza, nota anche per il suo infallibile fiuto degli uomini». La frase esatta è: «Avrà anche i suoi difetti, ma un merito bisogna riconoscerglielo: quello di non deludere mai. Quando ti aspetti che dica una scempiaggine, la dice».

Interviste

Citazioni in ordine temporale.

  • Certamente Mussolini fu un grossissimo politico, un uomo politico di grandissimo fiuto, di tempismo formidabile: lo dimostrò la facilità con cui vinse. Forse dovuta per metà alle sue capacità, alla sua bravura – parlo sempre come politico – e per metà all'insipienza, alla nullaggine dei suoi avversari, perché è tempo oramai di dire anche questo. Non c'è dubbio che il potere assoluto guastò completamente Mussolini: il Mussolini del 1930 non era certamente quello del 1940, il Mussolini di dieci anni dopo l'avvento al potere era diventato una specie di marionetta, la caricatura di sé stesso. Aveva perso proprio il senso della realtà, che era stato invece il suo forte da principio, il contatto col pubblico lo aveva perso, il senso della misura, e lo aveva dimostrato poi con gli errori madornali che ha fatto. Nei primi dieci anni credo che alcune cose buone le abbia fatte. Non credo che abbia ucciso la democrazia, credo che l'abbia soltanto seppellita perché era già morta. Da quel poco che ricordo l'Italia era un grosso carnevale, e anche abbastanza drammatico, perché la situazione interna era addirittura sfasciata: correva sangue, ne correva molto, noi in Toscana ne sapevamo qualcosa [...]. E quindi non è vero che lui... le democrazie non vengono mai uccise, le democrazie muoiono. Dopodiché si dà la colpa a chi le seppellisce, ma la verità è che si suicidano, e credo che la democrazia italiana del '21-22 si sia suicidata. [...] Mussolini capì una cosa fondamentale: che per piacere agli italiani bisognava dare a ciascuno di essi una piccola fetta di potere col diritto di abusarne, e questo era il fascismo. Il fascismo aveva creato una gerarchia talmente articolata e complessa che ognuno aveva dei galloni: il capofabbricato... tutti avevano una piccola fetta di potere, di cui naturalmente ognuno abusava come è nel carattere degli italiani. (da Questo secolo, 1982)
  • Io sono convinto che la magistratura debba essere indipendente, però chiedo ed esigo che abbia un autogoverno di controllo, e che soprattutto risponda dei suoi gesti. Oggi noi abbiamo una magistratura che non risponde a nessuno dei suoi errori spesso catastrofici, perchè hanno distrutto uomini, hanno distrutto aziende per delle cose che poi si son rilevate insussistenti. Mai un magistrato ha pagato per questo. Io voglio che i magistrati paghino. Non dico a dei poteri esterni, ma perlomeno al potere a cui viene affidata la disciplina nella categoria. (da Mixer, 5 maggio 1985)
  • Io esclusi immediatamente la responsabilità degli anarchici [dalla strage di piazza Fontana] per varie ragioni: prima di tutto, forse, per una specie di istinto, di intuizione, ma poi perché conosco gli anarchici. Gli anarchici non è che sono alieni dalla violenza, ma la usano in un altro modo: non sparano mai nel mucchio, non sparano mai nascondendo la mano. L'anarchico spara al bersaglio, in genere al bersaglio simbolico del potere, e di fronte. Assume sempre la responsabilità del suo gesto. Quindi, quell'infame attentato, evidentemente, non era di marca anarchica o anche se era di marca anarchica veniva da qualcuno che usurpava la qualifica di anarchico, ma che non apparteneva certamente alla vera categoria, che io ho conosciuto ben diversa e che credo sia ancora ben diversa. (da La notte della Repubblica, 12 dicembre 1989)
  • La Lega è una cosa sgradevole. Però le Leghe sono un fenomeno di reazione a una provocazione. È la politica nazionale, che fa nascere le Leghe. Questo non vuol dire che io le approvi. La reazione è sbagliata, ma provocazione c'è, le degenerazioni della partitocrazia ci sono. Che il pubblico denaro sia male amministrato e che a farne le spese siano soprattutto i cittadini del Nord non è contestabile. (da La Stampa, 7 novembre 1990)
  • Ah, quel maledetto Toni Negri, quel maledetto aizzatore dei sentimenti dei giovani che è vigliaccamente scappato dall'Italia per non affrontare il carcere. Per un Paese non c'è nulla di peggio che i cattivi maestri. Come punirli? Bisognerebbe impiccarli. Ripeto, impiccarli. (da L'Italia settimanale, 1995)
  • Tutto questo mi evoca dei ricordi poco simpatici. Era il fascismo che si conduceva così. Era il Fascismo che proibiva la satira, che in un paese civile e democratico dovrebbe essere assolutamente indenne da controlli politici; perché la satira non ha niente a che fare con la politica, anche se prende in giro la politica, ma si sa che è satira. Ed ogni regime serio e democratico accetta la satira, come si accettano le caricature. Era Mussolini che non le sopportava. E qui pensano: "Ripuliremo la stalla", "Faremo piazza pulita". Ma questo linguaggio, al signor Fini, chi glielo ispira? Ci ricorda delle cose che avremmo voluto dimenticare. Questa non è la destra, questo è il manganello. Gli italiani non sanno andare a destra senza finire nel manganello. [...] Alla RAI faranno piazza pulita, lo hanno già annunziato. Ma come si fa a definire democratico un partito che annunzia: "Quando saremo al potere, noi faremo piazza pulita"? Ma questo è un linguaggio del peggiore squadrismo, che loro non sanno cosa fu, ma io me lo ricordo. Questo è il linguaggio con cui [i fascisti] andarono al potere. (da La settimana di Montanelli, 17 marzo 2001)
  • Io voglio ringraziare Travaglio, perché ha detto l'assoluta e pura verità. Assolutamente. La versione che ha dato degli avvenimenti è quella esatta. [...] Io ho conosciuto due Berlusconi: il Berlusconi imprenditore privato che comprò il Giornale – e noi fummo felici di venderglielo, perché non sapevamo come andare avanti – su questo patto: tu, Berlusconi, sei il proprietario de il Giornale, io, direttore, sono il padrone del Giornale, nel senso che la linea politica dipende solo da me. Questo fu il patto fra noi due. Quando Berlusconi mi annunziò che si buttava in politica, io capii subito quello che stava per succedere. Cercai di dissuaderlo [...] ma tutto fu inutile. Dal momento in cui lo decise mi disse: "Ora il Giornale deve fare la politica della mia politica". Ed io gli dissi: "Non ci pensare nemmeno". Allora lui riunì la redazione come ha raccontato Travaglio – e questo lo fece a mia totale insaputa – e disse: "D'ora in poi il Giornale farà la politica della mia politica". E a quel momento me ne andai, cos'altro potevo fare? [...] Nella mia vita ci sono stati due Berlusconi, completamente opposti [...] questo fa parte del ritratto di Berlusconi. [...] Come capo politico è quello che io ho conosciuto in quei brutti giorni in cui scorrettamente, nella maniera più scorretta e più volgare, saltandomi, radunò la redazione de il Giornale per dirgli "Qui si cambia tutto" all'insaputa del direttore. Se questo sembra a Feltri un modo di procedere democratico e civile, è affar suo. (risposta telefonica a Marco Travaglio e Vittorio Feltri durante la trasmissione Il Raggio Verde, 23 marzo 2001)
  • [Silvio Berlusconi] È il bugiardo più sincero che ci sia, è il primo a credere alle proprie menzogne. [...] È questo che lo rende così pericoloso. Non ha nessun pudore. (dall'intervista di Sophie Gherardi, L'Europa deve trattare il sig. Berlusconi con sdegno e disprezzo, non con ostilità, Le Monde, 8 maggio 2001)[34]
  • Spero che l'Europa adotterà nei confronti di Berlusconi l'atteggiamento di indignazione e di disprezzo che merita. (dall'intervista di Sophie Gherardi, L'Europa deve trattare il sig. Berlusconi con sdegno e disprezzo, non con ostilità, Le Monde, 8 maggio 2001)[34]
  • Fu una pulizia etnica, bisognava far fuori gli italiani: allora si chiamarono fascisti e si ammazzarono, e si buttarono nelle foibe. Questo avvenne dopo la fine della guerra, sia chiaro. Perché gli orrori di guerra, non dico che siano giustificabili, ma sono comprensibili, la guerra é di per sé stessa un orrore. No, queste... le foibe furono un'infamia commessa dopo la Liberazione, dopo la fine della guerra, e purtroppo vi hanno collaborato parecchi comunisti italiani, alcuni dei quali non solo sono ancora a piede libero, pur essendo vivi, ma ricevono delle pensioni di Stato. Ricevono delle pensioni di Stato. Però io ti posso dire questo: che come testimone oculare io ho visto anche in Croazia delle cose, da parte degli italiani, su cui è meglio sorvolare. Perché anche noi le abbiamo commesse, perché la guerra le comporta, questo é fatale, ecco. Quindi non facciamo tanto i moralisti. [...] No, questo [tesi sloveno-croata sulla pulizia etnico-culturale da parte degli italiani durante il periodo di occupazione fascista] è assolutamente falso. Pulizie etniche noi non ne abbiamo mai fatte, in nessun Paese occupato. Quando sento dire che noi facemmo anche la pulizia etnica in Etiopia, beh vabbè, mi cascano le braccia. Mi cascano le braccia. Quelle son menzogne infami, di gente o che non sa nulla, o che mente sapendo di mentire. Non è vero. Furono episodi, ma non di pulizia etnica, di rappresaglie. (dall'intervista al TG2, Massacri delle foibe,  data? data?)

'Giangi' Feltrinelli io non ti perdono

la Repubblica, 16 novembre 1991, p. 33

  • Lui fu l'emblema di tutto quanto accadde in quegli anni [Anni della contestazione]. A differenza della Francia, eravamo un paese da burletta, con una contestazione da burletta e rivoluzionari da burletta. E Feltrinelli ne fu l'esponente più qualificato.
  • Era il 1940 e a quel tempo Giangi aveva quattordici anni e seguiva i corsi scolastici con pessimo profitto. Giangiacomo era un ragazzetto che voleva a tutti i costi cavalcare qualcosa di rivoluzionario. Non importava il colore. Tanto è vero che il suo sogno fu prima il fascismo e poi Che Guevara.
  • [Alla domanda "L'importante è stare in prima linea il fascismo?"] Ma sì, negli anni Quaranta lui era fascista. Era talmente fascista che nel 1943, dopo l'8 settembre, voleva denunciare sia me che Barzini per alcune cose che avevamo detto contro i fascisti. Allora pensava di aderire a Salò. La sua dedizione a una causa quale che sia, purché rivoluzionaria, lo spingeva e questi atti pazzeschi.
  • Generoso? Lo chieda ai suoi collaboratori. Era una specie di padrone delle ferriere che spendeva generosamente solo per soddisfare il suo vizio principale: la rivoluzione. Con chi era in difficoltà non si dimostrò mai particolarmente generoso.
  • [Alla domanda "Perché allora lei è così implacabilmente critico nei suoi riguardi?"] Non c'e l'ho neppure tanto con lui, quanto con tutti coloro che di Feltrinelli hanno fatto un mito. In realtà era un povero uomo. Un ingenuo divorato dall'esibizionismo.
  • [Alla domanda "Come può ridurre tutto alla convinzione che fosse solo un ingenuo e un esibizionista?"] Anche Starace segnò un decennio della nostra vita. Mica per questo era meno cretino. Se Feltrinelli sia stato qualcosa di più complesso, io non riesco a vederlo. Posso aggiungere questo: quella sua mania di ostentazione, quella voglia di primeggiare su tutte le cose lo ha condotto anche a degli atti di eroismo. Perché uno che sale su un traliccio, con la dinamite che non sa maneggiare e salta per aria, beh almeno il coraggio gli va riconosciuto. O forse chiamiamola incoscienza.

Montanelli e il sacco di Milano

La Stampa, 14 marzo 1992, p. 14

  • [Il regime corrotto] C'è ancora. Ma la rivolta non era tanto contro la corruzione e la partitocrazia, che erano senza dubbio un grosso male, ma che non erano il male più letale. In quel momento era proprio la società che si disfaceva, le condizioni della scuola, la predicazione del nulla, insomma la contestazione globale, l'ubriacatura degli Anni Settanta, che fu l'ubriacatura del terrorismo, e quella acquiescenza di una certa borghesia, salottiera, radical chic, che amoreggiava con queste cose, che aveva le smanie maotsetunghiste, che poi parlavano tutti di cose che non sapevano. La corruzione dei partiti invece è quasi immanente. La partitocrazia è destinata a durare almeno finché non si riforma la legge elettorale. Ma questa è la battaglia che noi cerchiamo di fare oggi.
  • [Alla domanda "Ma gli Anni Settanta non hanno anche prodotto qualcosa di positivo nella società italiana?"] No. Non vedo fatti positivi nel lascito degli anni di piombo. Vorrei sapere veramente quali. Quando dicono per esempio il divorzio. Ma il divorzio c'era già prima. Quelle sono conquiste sociali. C'era bisogno dei pistoleros per il divorzio? Ma andiamo!
  • ["Però lei difendeva Pannella"] Sì. A Pannella dobbiamo veramente due cose, malgrado le sue mattane. Effettivamente riuscì a impedire a una certa aliquota di giovani di finire in braccio al terrorismo, cioè gli dette un'altra bandiera. E alcune battaglie sue furono sacrosante, come quella del divorzio che appoggiammo. Poi verso Pannella io ho una certa simpatia, dovuta al mio vecchio fondo anarchico, libertario, che ritrovo in lui. È una simpatia genetica. Ritrovo in lui quello che io sono stato a vent'anni.
  • [Alla domanda "Ma che fine ha fatto quella borghesia, che fine hanno fatto quei salotti buoni? Le sue battaglie contro la Crespi o contro la Cederna sono cosa Passata? Sono cambiati loro, oppure è cambiato lei?"] Vabbè, con la Camilla poi siamo ridiventati amici. Con la Crespi no, mai. Ma non ho più rancori, non ho più animosità. Però è un mondo che disprezzo un po', perché è un mondo di pecore che seguono sempre il filo del vento, santoiddio, sono proprio personcine, personcine inconsistenti, pronte ad andare con chiunque. E poi sempre per salvare i propri interessi, non è che abbiano delle idealità, no? Oggi è cambiato il vento, quindi sono cambiati anche loro. Ma non è che sia cambiato il mio giudizio. Quel mondo lì io non lo amo.
  • La crisi rimane e si riflette nell'amministrazione cittadina. L'amministrazione era sempre stata un autentico specchio. Fino a Bucalossi il Comune di Milano era retto da specchiati galantuomini, che finivano tutti poveri, in miseria, finivano alla Baggina. Gente davvero di una correttezza esemplare. Poi sono venuti gli Aniasi e compagni e guardi qui dove siamo arrivati: siamo arrivati a Chiesa.

Montanelli si tura il naso come nel '76: voto l' uomo della Lega

Corriere della Sera, 6 giugno 1993, p. 3

  • Mi sono dannato l'anima perché il centro avesse un suo candidato. Avrei voluto Locatelli: era la persona giusta per portare la bandiera referendaria e raccogliere gli elettori moderati. Era quello il mio sogno.
  • Segni non ha capito nulla, è arrivato in ritardo, ha candidato una persona che nessuno conosce. Non abbiamo un rappresentante del centro, ma tre surrogati che si elimineranno a vicenda. E ci toccherà scegliere fra Dalla Chiesa e Formentini.
  • ["Di qui il suo suggerimento: turarsi il naso e votare Lega"] No, non dico "Votiamo Lega", dico "Votiamo Formentini". E nel suo caso non ci si deve neppure turare il naso: è modesto, anche mediocre se vogliamo, ma è onesto. Non credo sia marcio. Insomma: è il male minore.
  • [Alla domanda "E Dalla Chiesa?"] No, il mio voto non lo avrà. Perché io non voto per la sinistra e per un sinistro come quello lì.
  • [Alla domanda "Ma che cosa la preoccupa nella coalizione di Dalla Chiesa?"] Questi reperti di un mondo fallito vogliono ora governare l'Italia. E io con loro non ci sto. La storia gli ha dato torto, la realtà li svergogna e noi dovremmo fidarci? E stata l'apertura a sinistra a dare inizio alla putredine.

Montanelli "gambizzato" cinque mesi prima: "Mi salvò una promessa a Mussolini"

Corriere della Sera, 9 novembre 1997, p. 29

  • Quella mattina [2 giugno 1977] sono in due nei giardini di piazza Cavour, a Milano. Uno mi spara alle gambe. L'altro mi tiene nel mirino della sua pistola. I primi due – tre proiettili entrano nelle mie lunghe zampe di pollo. Non devastano né ossa né arterie. Ma sarebbero sufficienti per far cadere a terra qualsiasi cristiano. In quegli attimi ricordo la promessa che avevo fatto a Mussolini, e a me stesso, quando, bambino, mi ritrovai intruppato nei balilla: "Se devi morire, muori in piedi!" Davanti a questi vigliacchi che non hanno il coraggio di affrontarmi in faccia, penso, non posso morire in ginocchio. E mi aggrappo alla cancellata dei giardini. Non sto in piedi sulle gambe, ma mi reggo dritto con la forza delle braccia. E quello continua a sparare e a centrare le mie zampe di pollo. Se mi fossi accasciato, se mi fossi inginocchiato davanti a lui, a quell'ora sarei morto.
  • Per lui ho sempre avuto rispetto. Penso che la sua autoemarginazione dalla società prima e l'emarginazione che la società gli ha imposto poi ci abbiano privato di un uomo di valore. Non lo conosco di persona, ma lo stimo, anche se poteva essere lui quello che ha mandato i due ragazzi a spararmi. Non ho rancore: quando la guerra è finita gli avversari si devono stringere la mano e devono brindare alla pace ritrovata.
  • Apprezzo il coraggio di chi non si pente per ricavarne un utile, di chi non denuncia il compagno di errori ma riconosce i propri torti. Almeno i brigatisti lottavano per ideali diversi da quelli dello stalinismo e del comunismo sovietico. I terroristi neri, invece, volevano soltanto restaurare un regime sepolto dalla storia. I rossi non sapevano bene cosa ma avevano in mente qualcosa di nuovo.
  • [Alla domanda "E se avessero vinto loro?"] Impossibile. L'esistenza del terrorismo ha soltanto ribadito le manchevolezze del nostro Paese: uno Stato inefficiente e un popolo codardo e conformista.
  • [Sui burattinai, i Grandi Vecchi, la Cia, i Servizi segreti] Fregnacce: che gliene poteva importare alla Cia di fucilare gente come il buon Casalegno o quel galantuomo di Emilio Rossi, vent'anni fa direttore del Tg Uno, o quel bischero di Montanelli? La dietrologia era una divagazione di intellettuali perditempo. Il vero problema era ed è un altro: finché non ci decideremo a riconoscere la mancanza negli italiani di una coscienza nazionale e civile questo pericolo del terrorismo lo correremo sempre. E questa fabbrica di una coscienza nazionale e civile io non la vedo nascere.
  • [Sul dolore che il tempo non ha cancellato nei parenti delle vittime] Anche noi italiani dobbiamo imparare a pagare gli inevitabili tributi dovuti alla Storia come hanno saputo fare tutti i Paesi occidentali. Il dolore resta, ma la piaga va ricucita. Una volta per tutte.

Borghesia vile e deludente

la Repubblica, 25 luglio 1998, p. 8

  • È la solita bruciante delusione, questa nostra borghesia. Non cambia mai, è sempre la stessa: la più vile di tutto l'Occidente. Gente portata a correr dietro a chi alza la voce, a chi minaccia, al primo manganello che passa per la strada. Questo sono i nostri borghesi: tutti fascisti sotto il fascismo, poi tutti antifascisti fin dall'indomani. Quando il comunismo era forte e faceva paura, e io fondai il Giornale, mi lasciarono solo e senza un soldo. Ai tempi del terrorismo, amoreggiavano con gli estremisti nella speranza che quelli – andati al potere – gli risparmiassero la villa e il portafoglio. E ora che il comunismo non c'è più, si scoprono tutti anticomunisti, questi sedicenti liberaloni.
  • Non vogliono le regole, detestano le leggi, vogliono avere le mani libere per fare quello che gli pare, in nome della loro cosiddetta «efficienza».
  • Parlare di regole e di legalità a questa gente è peggio di un insulto, una bestemmia in chiesa.
  • L'ho sempre detto che fu un errore, quattro anni fa, defenestrarlo. Bisognava lasciarlo lì ancora un bel po', così tutti avrebbero capito quanto vale, che razza di statista è... Magari adesso non saremmo in Europa, ma non avremmo così tante gente che si lascia ubriacare dalla sua propaganda, che prova nostalgia per lui.
  • [Alla domanda "E se un giorno si andasse a votare per il suo referendum, quello per abolire i reati del Cavaliere?"] In quella forma, mi pare difficile che si arrivi, anche se in Italia non si sa mai. Comunque, se si votasse, credo che anche lì vincerebbe lui. Perchè è quello che vuole questa nostra borghesia. Ormai è ufficiale: Berlusconi ce lo meritiamo.

L'Italia di Berlusconi è la peggiore mai vista

la Repubblica, 26 marzo 2001

  • Io voglio che vinca, faccio voti e faccio fioretti alla Madonna perché lui vinca, in modo che gli italiani vedano chi è questo signore. Berlusconi è una malattia che si cura soltanto con il vaccino, con una bella iniezione di Berlusconi a Palazzo Chigi, Berlusconi anche al Quirinale, Berlusconi dove vuole, Berlusconi al Vaticano. Soltanto dopo saremo immuni. L'immunità che si ottiene col vaccino.
  • È strano: io non avevo mai preso parte alla campagna di demonizzazione: tutt'al più lo avevo definito un pagliaccio, un burattino. Però tutte queste storie su Berlusconi uomo della mafia mi lasciavano molto incerto. Adesso invece qualsiasi cosa è possibile: non per quello che succede a me, a me non succede nulla, non è che io rischi qualcosa, è chiaro. Quello che fa male è vedere questo berlusconismo in cui purtroppo è coinvolta l'Italia e anche tante persone perbene.
  • La scoperta che c'è un'Italia berlusconiana mi colpisce molto: è la peggiore delle Italie che io ho mai visto, e dire che di Italie brutte nella mia lunga vita ne ho viste moltissime. L'Italia della marcia su Roma, becera e violenta, animata però forse anche da belle speranze. L'Italia del 25 luglio, l'Italia dell'8 settembre, e anche l'Italia di piazzale Loreto, animata dalla voglia di vendetta. Però la volgarità, la bassezza di questa Italia qui non l'avevo vista né sentita mai. Il berlusconismo è veramente la feccia che risale il pozzo.

Citazioni tratte dai giornali

Corriere della sera

  • Gli eroi sono sempre immortali agli occhi di chi in essi crede. E così i ragazzi crederanno che il Torino non è morto: è soltanto «in trasferta». (7 maggio 1949)
  • [A proposito di Maratea] Forse in Italia non c'è paesaggio e panorama più superbi. Immaginate decine e decine di chilometri di scogliera frastagliata di grotte, faraglioni, strapiombi e morbide spiagge davanti al più spettacoloso dei mari, ora spalancato e aperto, ora chiuso in rade piccole come darsene. (4 ottobre 1957)
  • [Su La dolce vita] Ma non c'è dubbio che qui ci si trova di fronte a qualcosa di eccezione (sic!) non perché rappresenti un meglio o un di più di ciò che finora si è fatto sullo schermo, ma perché ne va nettamente al di là, violando tutte le regole e convenzioni, a cominciare da quelle della durata, che supera le tre ore di spettacolo, per finire a quelle della trama, o meglio della non trama, perché non c'è. (Montanelli vede La Dolce Vita, 22 gennaio 1960)
  • [Su La dolce vita] Non siamo più nel cinematografo, qui. Siamo nel grande affresco. Fellini secondo me non vi tocca vette meno alte di quelle che Goya toccò in pittura, come potenza di requisitoria contro la sua e la nostra società. (ibidem)
  • Il suo reportage non è una "patacca". Il poco – oh, molto poco! – che vi luce è proprio oro. E il molto che vi puzza è proprio fogna. Del resto, se così non fosse, il film sarebbe fallito come falliscono i reportages quando eludono la verità o non riescono a centrarla. Quindi, amici, vi prevengo se domani La dolce vita vi farà inorridire, non confutàtela dicendo: "Non è vero". Perché per esser vero, tutto ciò che qui è raccontato, lo è. D'altronde Fellini è ricorso al mezzo più spicciativo (e più diabolico) per dimostrarlo. (ibidem)
  • Ma mi affretto subito ad aggiungere che La dolce vita non è una polemica a sfondo giustizialista, che appunta i suoi strali sulle cosiddette classi alte. Non convincerebbe, in questo caso, o convincerebbe meno. Gli altri ambienti, che si srotolano giù giù negli appunti di questo reporter d'eccezione, sono descritti con la identica spietatezza, convalidata dalla stessa tecnica di rappresentare ciascuno nei propri panni. Lasciatemi testimoniare in tutta onestà che raramente ho visto qualcosa di più vero di quel salotto intellettuale. Esso ha dato perfino a me, che non ne frequento nessuno, un senso profondo di mortificazione, un vago anelito a cambiar mestiere e a iscrivermi, fo' per dire, ai coltivatori diretti. (ibidem)
  • Non è necessario essere socialisti per amare e stimare Pertini. Qualunque cosa egli dica o faccia, odora di pulizia, di lealtà e di sincerità. (27 ottobre 1963)
  • Che i profughi palestinesi siano delle povere vittime, non c'è dubbio. Ma lo sono degli Stati Arabi, non d'Israele. Quanto ai loro diritti sulla casa dei padri, non ne hanno nessuno perché i loro padri erano dei senzatetto. Il tetto apparteneva solo a una piccola categoria di sceicchi, che se lo vendettero allegramente e di loro propria scelta. Oggi, ubriacato da una propaganda di stampo razzista e nazionalsocialista, lo sciagurato feddayn scarica su Israele l'odio che dovrebbe rivolgere contro coloro che lo mandarono allo sbaraglio. E il suo pietoso caso, in un modo o nell'altro, bisognerà pure risolverlo. Ma non ci si venga a dire che i responsabili di questa sua miseranda condizione sono gli «usurpatori» ebrei. Questo è storicamente, politicamente e giuridicamente falso. (16 settembre 1972)
  • Una delle eterne regole italiane: nel settore pubblico, tutto è difficile; la buona volontà è sgradita; la correttezza, sospetta. Per questo, le persone capaci continueranno a tenersi a distanza di sicurezza dalla «cosa pubblica», lasciando il posto ai furbastri (magari bravi) e alle mezze cartucce (magari oneste). Così, purtroppo, vanno le cose in questo bizzarro paese. (da Impegno politico: la caduta delle illusioni, 26 gennaio 1996, p. 36)
  • Se si mettono a raffronto i due rivali come faccia, come presenza, come eloquio, come cordialità, insomma come simpatia umana, non c'è dubbio che Albertini ne ispira molto meno di Fumagalli, anzi diciamo la verità tutta intera: non ne ispira punta. Ed io, cittadino ed elettore milanese, proprio di questo sentivo il bisogno: di un sindaco antipatico, di faccia arcigna e poco invogliante alla pacca sulla spalla, al confidenziale «tu» e al pappecciccia coi sottoposti, e poco, anzi punto disponibile a quelle benevolenze, condiscendenze e indulgenze che rappresentano le supposte di glicerina di tutte le corruzioni. [...] Con Albertini ho parlato una sola volta. Ma mi è bastata per capire che, per rendersi antipatico, non ha bisogno di fare sforzi. Basta che si mostri com'è e come spero che rimanga: una specie di Molotov di Palazzo Marino, chiuso nei suoi caparbi niet, diffidente, scostante e culdipietra. Che abbia una compagna fermamente decisa a non partecipare alla vita pubblica del compagno, anche questo ci va bene. [...] Si ricordi, signor Sindaco, che noi abbiamo votato per lei, non per questi papponi. (da Sì, ho tradito l'Ulivo. 13 maggio 1997, p. 1)
  • Non vorremmo, dopo averne deplorato il brutto vezzo, contribuire alle polemiche nel momento in cui bisogna invece accantonarle per fare compatto fronte per il salvataggio del salvabile. Ma basta con le «regole» che servono soltanto a rendere impenetrabili le responsabilità dei disastri quando i disastri si possono ricondurre a delle responsabilità umane (come non accade, per esempio, nei terremoti). Ma quando verrà l'ora della ricostruzione, ricordiamoci che l'urbanistica e il paesaggio italiani hanno bisogno non di altre, ma di meno «regole». E, più che di cemento, di dinamite. (da Le licenze facili e le leggi oscure, 9 maggio 1998, p. 1)
  • Qualche dichiarazione meno infuocata contro la Giustizia di regime, come il Cavaliere si ostina a definirla, avrebbe meglio aiutato la politica italiana a rimuovere il macigno che la paralizza, e che è lui, Berlusconi. (da E il resto sia silenzio, 14 luglio 1998, p. 1)
  • L'Italia sarà anche, come dicono i nostri tromboni universitari, «la culla del diritto». Ma è anche il sepolcro di una giustizia che, per decidere se un imputato è innocente o colpevole, aspetta il suo certificato di morte che la esenta dal dirlo. Il secondo problema è il reclutamento e la selezione del personale. Come in tutte le altre pubbliche attività, anche nella giustizia c'è un dieci per cento di autentici eroi pronti a sacrificarle carriera e vita, ma senza voce in un coro di «gaglioffi» che c'è da ringraziare Dio quando sono mossi soltanto da smania di protagonismo. (da Il Cardinale e il Magistrato, 24 agosto 1998, p. 1)
  • Tutto si è risolto in un colpo solo, non si sa con precisione quando e come combinato, che ha tagliato la strada alla bagarre prima che cominciasse. E che, per quanto mi riguarda, mi ha liberato dall'incubo che turbava i miei inquieti sonni, e in cui mi vedevo in fuga da un mostro senza volto, ma che m'incalzava con la logorrea del presidente uscente, aggravata dall'accento irpino di Mancino e dalle corde vocali della signora Jervolino. [...] Siamo sicuri che il popolo, chiamato a pronunciarsi fra un Ciampi e – faccio per dire – un Di Pietro, si sarebbe pronunciato per Ciampi? È una domanda che non aspetta risposta, ma che mi permetto di proporre ai lettori. Gran bella parola «il Popolo». E riconosciamogli pure l'attributo, che gli spetta, di «Sovrano». Ma insomma, meditate gente, meditate. (da Quasi non ci credo, 14 maggio 1999, p. 1)
  • Tutti coloro che hanno svolto pubbliche funzioni in Sicilia sono rimasti e sono tuttora in qualche modo «collusi» con la mafia. Lo furono quotidianamente, e per secoli, il governo e la polizia borbonica. Lo fu Garibaldi che in essa trovò, dopo lo sbarco, la sua prima alleata. Lo furono i governi nazionali sia di destra che di sinistra. Lo fu Giolitti che pure non scese mai, a ch'io sappia, a sud di Napoli. Lo fu il presidente della vittoria, Orlando, che quando tornava a Palermo, la prima visita che rendeva non era al prefetto né all'arcivescovo, ma al capomafia. Tentò di non esserlo Mori che aveva licenza di uccidere garantita da un regime totalitario, e ci rimise il posto. Lo sono stati tutti i politiconi e politicastri della Prima Repubblica. Anche il cautissimo Andreotti? Può darsi, attraverso i suoi proconsoli in loco. Ma il Tribunale deve aver capito che l'imputato non era lui. Era il costume morale e politico della nostra vita pubblica, sul quale un Tribunale non ha, né può né deve avere competenza. [...] E il problema, secondo me, è questo: che fin quando noi italiani crederemo di salvarci dalla peste mandando sul rogo una strega o un untore, dalla peste non ci libereremo mai. (da Il tribunale della storia, 24 ottobre 1999, pag. 1)
  • Ci dicano chiaro e tondo perché hanno smembrato il Ros, e hanno ridimensionato l'attività di Sco e Gico. Non ci raccontino che hanno voluto mettere al riparo il capitano Ultimo e i suoi uomini dalle possibili vendette della malavita. E soprattutto non vengano a ripeterci che il modus operandi dei servizi segreti, per impedirne le «deviazioni», dev'essere «trasparente». Questa, che un segreto possa essere trasparente, è un'idea da primato della cretineria. E, se non della cretineria, lo è della retorica virtuista o della menzogna truffaldina. (da Procuratore batta il pugno, 2 novembre 1999, pag. 1)
  • Era la prima volta che il partito socialista italiano aveva trovato un uomo [Bettino Craxi], se non di Stato, almeno di governo, che lo aveva liberato dalla subalternanza al Pci, e condotto su posizioni democratiche, europeistiche e atlantiche. Lo avrà anche fatto con metodi alquanto spicciativi e disinvolti, più da padrino che da leader. Ma mi chiedo se avrebbe potuto usarne di diversi per avere ragione dei vecchi tromboni del massimalismo populista e piazzaiolo con le loro clientele incrostate da decenni. E mi chiedo anche quanto contribuirono alla sua crocefissione i rancori e le acredini che si era lasciato dietro. Ma nella difesa si perse, e non per mancanza, ma forse per eccesso di coraggio. (da Lo statista latitante, 20 gennaio 2000, pag. 1)
  • Anche noi siamo convinti che il Paese ha il diritto di conoscere la verità (che non riguarda soltanto quella di Piazza Fontana). Ma non ci riusciamo. Anche perché se la pista rimane, come sembra accertato, quella del terrorismo nero, non sappiamo quali nomi l'accusa potrà tirar fuori dal suo cappello. I tre maggiori indiziati sono già stati assolti con sentenza passata in giudicato che non consente di richiamarli sul banco degli imputati. Gli altri di cui si fa il nome non sarebbero che comparse, la più importante delle quali, Delfo Zorzi, risiede a Tokio con passaporto giapponese che lo mette al riparo da ogni pericolo di estradizione. Vale la pena ricominciare? L'ouverture dei dibattimenti non è stata incoraggiante. Il proscenio era occupato da Capanna, Valpreda, Dario Fo e altri reduci sessantottini, cui si era aggiunto anche Sergio Cusani, l'intangentato convertitosi (lo diciamo senza nessuna ironia) al missionarismo. [...] Invano i portaparola della parte lesa, cioè dei familiari delle vittime, si sono dichiarati estranei e contrari a ogni tentativo di politicizzare il processo. Una parola. Non ci riescono nemmeno Jovanotti e Teocoli con le loro filastrocche dal palcoscenico di Sanremo. Figuriamoci se potranno riuscirci i registi di questo processo rouge et noir, se mai ve ne furono. [...] Ecco a cosa servono i processi come questo: non a cercare la verità, ma a fornire argomenti al rouge o al noir. (da Quella verità che cerchiamo, 26 febbraio 2000, pag. 1)
  • Cosa c'entri la giustizia italiana in fatti e misfatti capitati trent'anni fa in un Paese [l'Argentina] di cui la metà della popolazione è di origine italiana, non riusciamo a capire. Ma ci pareva impossibile che l'iniziativa del giudice spagnolo Garzon per trascinare l'ex dittatore cileno Pinochet sul banco degli accusati di un tribunale madrileno non trovasse imitatori in un Paese di scimmie come il nostro. Grazie ad essa, il nome e il volto di Garzon sono noti in tutto il mondo. Ed è probabile che tra poco lo siano anche quelli del pubblico ministero Caporale. Vi pare poco in un'era dell'effimero come quella in cui stiamo vivendo, e che vede l'infittirsi di processi ai defunti, su cui le nuove leve della storiografia vorrebbero riscrivere il passato? (da Quei processi al caro estinto, 3 aprile 2000, pag. 1)
  • Dobbiamo avere la modestia di riconoscere che noi, come venditori, non leghiamo nemmeno le scarpe a un piazzista che se un giorno si mettesse a produrre vasi da notte, farebbe scappare la voglia di urinare a tutta l'Italia. (da I predicatori e le comparse, 15 febbraio 2001, p. 1)
  • Al tavolo di pace di Versailles, il vecchio prostatico Clémenceau, guardando il nostro Orlando continuamente in lacrime per le umiliazioni che, a suo dire, gli Alleati gl'infliggevano, bofonchiava: «Ah, se io potessi pisciare come lui piange!». (da Io e il cavaliere qualche anno fa, 25 marzo 2001, p. 1)
  • Non sono mai venuto meno all'impegno, preso non con il Cavaliere, ma con me stesso, di non associarmi mai alla sua demonizzazione. Ma non posso sottacere ai lettori i pericoli che si nascondono sotto questa sua allergia alla verità, questa sua voluttuaria e voluttuosa propensione alle menzogne, la naturalezza con cui riesce a pronunziarle. (da Io e il cavaliere qualche anno fa, 25 marzo 2001, p. 1)
  • Berlusconi, cui nulla riesce tanto bene quanto la parte di vittima e perseguitato. «Chiagne e fotte» dicono a Napoli dei tipi come lui. E si prepara a farlo per cinque anni di seguito. (da Io e il cavaliere qualche anno fa, 25 marzo 2001, p. 1)

Le Stanze, le risposte ai lettori del Corriere

  • I riformatori italiani, quando si tratta di riformare ciò che non ha bisogno di essere riformato, sono instancabili. L'attività dell'Ucas, Ufficio complicazioni affari semplici, come ricordava un altro lettore esasperato, è frenetica. (13 dicembre 1995)
  • Io credo che il miglior omaggio che si può rendere a Moro sia quello di archiviare l'episodio che ne segnò la fine e dal quale, diciamo la verità, la sua immagine esce tutt'altro che bene. Quando sento dire che, oltre a quelle conosciute, ci sono anche altre lettere di Moro, prego Iddio che non vengano trovate. So già cosa contengono, e preferisco non leggerlo. (21 dicembre 1995)
  • È assolutamente impossibile istillare negli zingari il concetto di proprietà e quindi educarli al lavoro come mezzo per conquistarsela. Ma temo che sia altrettanto impossibile far capire tutto questo ai nostri pietisti, religiosi e laici, che farneticano di «integrarli». (30 dicembre 1995)
  • L'unico incoraggiamento che posso dare ai giovani, e che regolarmente gli do, è questo: «Battetevi sempre per le cose in cui credete. Perderete, come le ho perse io, tutte le battaglie. Una sola potete vincerne: quella che s'ingaggia ogni mattina, quando ci si fa la barba, davanti allo specchio. Se vi ci potete guardare senza arrossire, contentatevi». (20 febbraio 1996)
  • Non so se il Pci sia sotterraneamente sceso a trattative con le Br per convincerle a secondare questo piano. So soltanto che le Br, le quali invece la rivoluzione la volevano sul serio, lo rifiutarono, e fu proprio per farlo naufragare che rapirono e poi uccisero colui che doveva esserne lo strumento. [...] Fu il risoluto e quasi furibondo (oltre che sacrosanto) no dei comunisti che fece naufragare il tentativo [Trattativa Stato-BR durante il sequestro Moro], che invece in seno alla Dc aveva parecchi sostenitori, anche se non osavano dirlo apertamente. Di qui le accuse e le insinuazioni contro i suoi compagni di partito, lanciate da Moro in quelle famose lettere, che avrebbe fatto meglio a non scrivere perché indegne di un vero uomo di Stato, anzi di un uomo tout court, e che ancor oggi forniscono materia al sospetto di una congiura fra democristiani – con l'aiuto dei soliti servizi segreti «deviati» – per sbarazzarsi di lui. Vero nulla. Forse nella Dc le forze «trattativiste», praticamente disposte alla resa alle Br, avrebbero vinto, se non ne fossero state impedite dalla risolutezza del Pci, che di un brigatismo assurto ad interlocutore dello Stato non voleva sentir parlare e di un Moro salvato al prezzo di una simile capitolazione non avrebbe più saputo che farsi. (26 marzo 1996)
  • No, è stata la persecuzione che ha costretto gli ebrei, per resisterle, a tendere ed affinare tutte le loro risorse intellettuali. Ecco il segreto dei loro primati. In tutto. E talvolta anche nella cretineria. (3 aprile 1996)
  • Io non mi considero affatto ateo e non capisco come si possa esserlo. (23 maggio 1996)
  • Quanto scrivi [riferito a una lettrice] sull'insegnamento della Storia nelle nostre scuole è sacrosantamente vero. I testi su cui ve la fanno studiare sono o reticenti o faziosi, ma più spesso l'una cosa e l'altra, e soprattutto scritti coi piedi. (4 settembre 1996)
  • No, caro N***, non mi basta che il Pool abbia perseguito e persegua una buona Causa. Doveva farlo anche con buoni mezzi e criteri. E il caso Di Pietro basta a dimostrare che questo non è sempre avvenuto. (24 ottobre 1996)
  • Io non ho titoli culturali che mi qualifichino a lezioni su una tematica come quella del calvinismo. Ma credo di averne afferrato l'essenziale: la concezione della Ricchezza come segno della Grazia, di cui quindi non si è proprietari, ma amministratori per conto del Signore col compito di moltiplicarla per il bene di tutti. (21 dicembre 1996)
  • Di commissioni d'inchiesta il nostro Parlamento ne ha partorite a dozzine. Me ne citi una sola che abbia raggiunto dei risultati, anche semplicemente conoscitivi. Per un Parlamento come il nostro (e mi trattengo a fatica dal qualificarlo) anche la ricerca della verità è materia di lottizzazione. (23 dicembre 1996)
  • Quando ebbi un processo non con un magistrato ma con un politico del rango di De Mita che avevo coinvolto nella mala amministrazione dei fondi stanziati per l'Irpinia dopo il terremoto, non trovai, in tutta quella vasta regione, una toga che venisse a testimoniare in mio favore. L'unico che mi difese fu colui che avrebbe dovuto accusarmi: il pubblico ministero del tribunale di Monza, Mariconda: non sul merito delle accuse, ch'egli non aveva elementi per poter valutare, ma sul diritto che mi riconosceva di lanciarle. Anche l'uso di 50-60 mila miliardi stanziati per l'Irpinia rimase un porto nelle nebbie. (12 gennaio 1997)
  • La sola parola «ingegneria genetica» mi mette i brividi. (14 marzo 1997)
  • Io non mi sono mai impiccato. Ma a Norimberga assistetti a diciassette impiccagioni, compresa quella di un cadavere, il cadavere di Göring che si era suicidato il giorno prima. Be', mi resi conto [...] che ficcare la testa nel nodo scorsoio di una corda non è un esercizio da mezzetacche o quacquaracquà. (15 maggio 1997)
  • [Gladio] Era stato istituito in quasi tutti i Paesi che facevano parte della Nato, e per volontà della Nato, consapevole che i suoi soci europei non avrebbero potuto resistere all'attacco di una Potenza superarmata qual era l'Unione Sovietica: avrebbero dovuto aspettare, per la riscossa, l'intervento dell'America. Lo dimostra il fatto che quando questo piano fu rivelato, nessun altro Paese trovò nulla da ridirne. Solo noi italiani – i soliti romanzieri imbecilli e peggio che imbecilli – ne facemmo materia di scandalo e pretesto di «gialli» che tuttora trovano credito, come la sua lettera dimostra. Anch'io mi sento scandalizzato, e un poco offeso. Ma solo dal fatto che nessuno mi abbia sollecitato l'adesione al Gladio: l'avrei data con entusiasmo. (7 giugno 1997)
  • A fare l'Italia alcuni pochi italiani ci sono, senza e contro i più, riusciti. A fare gl'italiani, l'Italia, in centocinquant'anni, non c'è riuscita; anzi non ci s'è nemmeno provata. (19 giugno 1997).
  • Il vero cacciatore ama gli animali a cui dà la caccia, forse anche perché li considera complici di questo gioco in cui ritrova la sua origine esistenziale. Non spara, per esempio, sul bersaglio fermo: lo considera sleale. (9 luglio 1997)
  • Al matrimonio misto, che dell'integrazione razziale è la condizione genetica, sono i neri, molto più dei bianchi, che si rifiutano. Non è quindi colpa degl'italiani, o almeno non tutta questa colpa è degl'italiani, se anche da noi l'integrazione con gl'immigrati africani incontra degli ostacoli. Quella con gli oriundi dei Paesi europei non ne incontra nessuno, salvo quelli che frappone la burocrazia, la quale ne pone tanti anche a noi, e anzi campa solo di questo. Non ho mai sentito un francese, o un inglese, o un tedesco, o un bulgaro o un ukraino lamentarsi di una apartheid italiana. Ci sono anche da noi, purtroppo, delle manifestazioni di razzismo. Ma queste sono dovunque, e in Italia meno violente che altrove. L'Italia è un Paese che va a catafascio. Ma non buttiamogli addosso anche delle croci che non merita. Quelle che merita bastano, e ne avanza. (24 agosto 1997)
  • Io sono un italiano, fra i pochi rimasti che nei confronti dell'Italia s'ispirano all'adagio inglese: «Che abbia ragione o torto, sto col mio Paese». Anch'io sto col mio paese quando ha torto, ma senza pretendere che il suo torto sia considerato ragione. (23 settembre 1997)
  • Sono e rimango convinto che fin quando noi italiani ci affideremo soltanto alla Legge – o, come ora usa chiamarla, alle «regole» –, rimarremo quello che siamo, coi vizi che abbiamo, fra cui quello di accatastare regole su regole al solo scopo di metterle in contraddizione l'una con l'altra per poterle meglio evadere. (16 ottobre 1997)
  • Forse farebbe meglio ad astenersi a dare lezioni di liberalismo a me che sono stato, in tutto il giornalismo italiano, l'unico a difenderlo negli anni Settanta e Ottanta, quando difenderlo era difficile e poteva anche costar caro. Non me ne faccio un vanto perché, quando alla fine ha vinto, ho visto di che liberalismo si trattava, ed è per questo che ho votato Ulivo. (23 ottobre 1997)
  • Le confesso che il suo piglio perentorio e inquisitorio mi disturba alquanto, anche perché mi lascia capire che lei parte da convinzioni così granitiche da rendere vano ogni tentativo d'insinuarvi almeno un dubbio. (23 ottobre 1997)
  • È importante tutto questo? No. Non lo è per me né per lei, che sappiamo cosa è accaduto. E non lo è per i leghisti doc, secondo cui qualunque cosa propone il capo è Vangelo. Se Bossi decide di andare in Bicamerale, applaudono. Se decide di abbandonare la Bicamerale, esultano. Se va con Berlusconi, assentono. Se lascia Berlusconi, approvano. E se un giorno si sveglia e cambia i confini della Padania, accettano i nuovi confini. Tempo fa, rispondendo a un lettore, scrissi che «i leghisti sono pronti a inneggiare anche all'annessione della Yakuzia, e non solo perché non sanno dove sta». Arrivarono molte lettere indispettite. Ma nessuna contro l'annessione della Yakuzia. (29 ottobre 1997)
  • Se sono – come sono – uno di quegli uomini di Destra che ultimamente hanno votato, sia pure controvoglia, per la Sinistra (annacquata) dell'Ulivo, è perché da questa, che non è mai stata la mia bandiera, non mi sento tradito. Essa sta facendo ciò che prometteva di fare, ma lo fa con molta moderazione, e con una squadra di uomini che magari non saranno (meno qualcuno, come per esempio Ciampi) di serie A, ma da cui non temo, e credo che nessuna persona ragionevole possa temere, l'instaurazione di un regime. (10 dicembre 1997)
  • E lo specchio non vi giudica dai successi che avrete ottenuto nella corsa al denaro, al potere, agli onori; ma soltanto dalla Causa che avrete servito. Tenendo bene a mente il motto degli hidalgos spagnoli: «La sconfitta è il blasone delle anime nobili». (31 dicembre 1997)
  • Che cosa io pensi dell'onorevole Previti mi pare di averlo detto in termini talmente espliciti da apparire – a più d'uno – brutali: un personaggio che solo a guardarlo in faccia verrebbe voglia di applicargli le manette ai polsi prima ancora di sapere chi è e cosa ha fatto. (31 gennaio 1998)
  • Infine, c'è quello che io considero il vero, grande vantaggio dell'euro: una volta dentro, non potremo tornare all'allegra finanza pubblica d'un tempo. (20 febbraio 1998)
  • Tutti hanno diritto di credere nel miracolo, quando non c'è altro a cui aggrapparsi. La scienza no: se lo ricordi anche il Papa. (23 febbraio 1998)
  • I conti col passato, si capisce, bisogna farli. Ma a un certo punto bisogna chiuderli. Perché nella Storia non ce n'è mai stato uno che, protratto all'infinito, non ne abbia innescato un altro. (10 marzo 1998)
  • Perché, caro B***? Perché la vocazione a dividerci sempre e su tutto per il nostro «particulare», come lo chiamava Guicciardini, noi italiani ce la portiamo nel sangue, e non c'è legge che possa estirparla. (18 aprile 1998)
  • Che un giudice spagnolo in vena di protagonismo abbia chiesto all'Inghilterra la consegna di un ospite straniero andato a Londra in forma privatissima per ragioni di salute, non mi stupisce: un Di Pietro può nascere dovunque. Ma che l'Inghilterra si proponga di consentire, non mi stupisce. Mi sbalordisce, come ha sbalordito e indignato la signora Thatcher che aveva ospitato in casa il Generale. Ma ancora di più mi sbalordirebbe che la Giustizia spagnola, cioè di un Paese che non solo ha accettato per quarant'anni il potere di un Generale, ma gli ha consentito (per sua fortuna) di disporne anche dopo morto, portasse davanti a una Corte di Giustizia quello cileno. Per non parlare delle conseguenze che tutto questo potrebbe provocare in Cile dove, nel caso che il governo Frei si mostrasse esitante e accomodante, le Forze Armate potrebbero riprendere il potere per rompere i rapporti diplomatici con Spagna e Inghilterra e dimostrare al mondo che i processi alla Norimberga hanno fatto il loro tempo. Se a qualcuno il Generale cileno Pinochet deve rendere conto del suo operato, è soltanto al Cile e ai suoi tribunali. E se io fossi un cileno che ha votato Frei (come certamente avrei fatto se fossi stato un cileno), in questa occasione mi schiererei con le Forze Armate. Con tanti saluti a tutto il sinistrume italiano passato, presente e futuro. (24 ottobre 1998)
  • Che gli Usa siano in tutto il mondo odiati dagli uomini come lei [riferito a un lettore], è verosimile, e quindi più che credibile. Un po' meno credibile è che gli uomini di tutto il mondo siano e la pensino come lei. Comunque, il giorno in cui quel Paese venisse chiamato (ma da chi?) sul banco degl'imputati come il nemico dell'umanità, io chiederò di essere ascoltato come testimone. Per dire alla Corte dei Vecchio di turno che io, uomo qualunque, mi considero graziato tre volte da questo grande nemico dell'umanità. La prima fu quando mi strappò al pericolo di diventare – per bene che mi fosse andata – l'attendente di un colonnello tedesco. La seconda fu quando mi sottrasse a quello di finire i miei giorni in un kolkos siberiano. La terza fu quando, invece di rimettermi la parcella di questi favori, mi aiutò a rifarmi la casa senza contestarmi il diritto di invitarvi anche coloro che pensano (si fa per dire) e parlano (o meglio sbraitano) come lei. (10 aprile 1999)
  • Tradotto in politica, non c'è nulla di più intollerante e fazioso, e quindi di meno pacifico, del pacifismo in generale, e di quello italiano in particolare. È un pacifismo a fasi alterne, e che si sveglia soprattutto, anzi quasi esclusivamente, quando a fare la guerra sono gli americani. Furioso e devastatore imperversò, non soltanto in Europa, ma nella stessa America, al tempo del Vietnam: al punto che quando Nixon venne in visita in Italia (quell'Italia che poteva fare ciò che voleva grazie agli americani) dovettero mandarlo a prendere a Fiumicino con un elicottero e trasportarlo via aria in Quirinale perché via terra avrebbe rischiato la pelle. Ma questo stesso pacifismo rimase impassibile quando i carri armati sovietici schiacciarono l'Ungheria (e a Montecitorio risuonò il grido: «Viva l'Armata Rossa!»), e poco dopo la Cecoslovacchia e da ultimo l'Afghanistan. Sono sempre gli stessi, i pacifisti italiani. Con una bandiera in mano come quella della pace (chi può infatti invocare la guerra?), si sentono invulnerabili. Ma la sventolano solo per il povero Milosevic; il genocidio del Kosovo li lascia del tutto indifferenti. (5 maggio 1999)
  • Non sempre condivido le opinioni di Sartori. Qualche volta, anzi spesso, abbiamo litigato, anche perché a lui litigare piace moltissimo: da buon toscano, è nella polemica che lui, e forse anch'io, diamo il meglio di noi. E anche sull'articolo del 25 maggio non siamo in tutto e per tutto d'accordo. Lo siamo nel respingere la qualifica di «pacifista», che entrambi lasciamo in esclusiva alle «anime belle» che, sventolando la bandiera della pace, sperano di raccogliere intorno a essa tutti gl'ipocriti e gl'imbecilli che, sommati insieme, costituiscono certamente la stragrande maggioranza degl'italiani. (29 maggio 1999)
  • Lo Stato di Platone, quello che lui chiamava la polis, e che poi era Atene, aveva, al tempo di Platone, cioè nel momento del suo massimo splendore, ventimila abitanti, di cui solo cinquemila avevano diritto al voto. E veda un po' come quei civilissimi cittadini lo usarono nelle assemblee dell'Acropoli: mettendo sotto processo Pericle e Aspasia, condannando a morte Socrate e provocando la guerra del Peloponneso, che fu la rovina non solo di Atene, ma di tutta la Grecia e della sua civiltà. Ora se il sistema della «democrazia diretta» o, come lei la chiama, «partecipatoria», non funzionò nemmeno in una polis di ventimila abitanti, s'immagini un po' cosa diventerebbe nei formicai umani cui si sono ridotte le polis attuali, e non soltanto quelle italiane. [...] Lei ha tutte le ragioni del mondo a dire che l'attuale sistema di democrazia «rappresentativa» o «delegata» ha dei vizi gravissimi e spesso provoca disastri, compresa quella americana, che pure è una di quelle che meglio funzionano. Ma, mi creda, quella «diretta» o «di piazza» è ancora molto più pericolosa perchè continuamente a rischio di cadere in balia di qualche ciarlatano che sappia soltanto vendere bene la sua merce. Certo, quella indiretta esige, da parte del cittadino, una partecipazione che in Italia manca. Ma non è certo coi referendum che si può sostituirla. Almeno questo mi ha insegnato l'esperienza. (22 agosto 1999)
  • Quello di Franco, se proprio vogliamo chiamarlo regime, fu un regime di polizia, di una polizia molto più dura di quella fascista, ma un totalitarismo no. Ecco perché, quando sentì avvicinarsi il momento della fine, Franco poté liquidare il franchismo con relativa facilità: perché di totalitario non aveva altro che le galere. Però bisogna anche riconoscere che questo soldataccio squallido e ottuso (sul piano umano era repellente), il ritorno al regime democratico seppe compierlo da maestro, facendosi consegnare dal pretendente al trono, Don Juan, ch'egli considerava (non a torto) poco affidabile, il figlio Juan Carlos per prepararlo – operazione riuscitissima – ai suoi compiti di Re, e mettendogli accanto un uomo di primissimo ordine come Suarez. (24 ottobre 1999)
  • La servitù, in molti casi, non è una violenza dei padroni, ma una tentazione dei servi. (2 gennaio 2000)
  • Non conosco Haider, e quindi nemmeno i fondamenti della sua ideologia, ammesso che ne abbia una. A occhio e croce, più che un nazista, mi sembra un qualunquista che interpreta, o cerca d'interpretare i sentimenti e i risentimenti di una pubblica opinione di livello bossiano, scontenta di tante cose, e a cui l'Austria attuale va stretta. [...] Non so se anche Haider – ripeto: non lo conosco – sia un omuncolo. Ma penso che l'Europa, ponendo il veto a un suo eventuale governo, costringerà gli austriaci ad affidargliene l'incarico, come avvenne per Waldheim. Io al pericolo di un rigurgito nazista non ci credo. Come ho letto in un articolo (mi pare di Enzo Bettiza, ma potrei sbagliarmi) penso che Jorg Haider somigli più a un Poujade che a un Le Pen, cioè più a una miscela di Bossi e di Giannini che a un Pino Rauti. Ciò che mi allarma è l'incapacità dell'Europa a riflettere sulle sue proprie esperienze a trarne qualche insegnamento. Questo, sì, mi fa paura. (3 febbraio 2000)
  • Li conosco e riconosco, quei regimi [di dittatura e di censura]. Ne avverto il passo anche di lontano, e convengo che in Italia il pericolo di vederne arrivare qualcuno c'è. Ma sa quando si realizzerà? L'anno venturo, dopo la vittoria – che io do per certa – del Polo alle Politiche. Vedrà. La prima cosa che farà Berlusconi, come la fece nel '94, sarà di spazzare via l'attuale dirigenza Rai per omologarne le tre Reti a quelle sue. (26 febbraio 2000)
  • Una Giustizia che per istruire un processo impiega sei o sette anni e poi non riesce a chiuderlo con una sentenza che non si presti a rimetterlo, con qualche marchingegno, in gioco, è un meccanismo di cui bisogna assolutamente rivedere e rifare gl'ingranaggi: «Giustizia ritardata – dice Montesquieu – è Giustizia negata». (7 giugno 2000)
  • Il mio giudizio su Garzón resta quello di prima, solo un po' rinforzato: un garzoncello smanioso soltanto di leggere il proprio nome sulle prime pagine di tutti i giornali e di vedere la propria effigie sugli schermi televisivi di tutto il mondo: il che rafforza la mia ipotesi che si tratti di un italiano nato per sbaglio in Spagna. (30 giugno 2000)
  • La pena di morte americana esiste e resiste in America perché fu un elemento base e costitutivo della sua nascita e sviluppo. Dei famosi 102 «Padri Pellegrini» che per primi sbarcarono dal «Mayflower» in quel Continente non per saccheggiare le ricchezze come facevano spagnoli e portoghesi in Messico e nell'America del Sud, ma per costruirvi una società nuova e libera, circa i due terzi erano avanzi di galera che fuggivano la Giustizia e le prigioni dell'Europa, e un terzo erano uomini che cercavano la libertà, e soprattutto quella religiosa. I primi avevano in tasca la pistola, i secondi la Bibbia, ma nella sua versione calvinista quella del taglione, basata sulla concezione di un Dio giustiziere che esige la morte di chi senza giusto motivo la dà. (9 luglio 2000)
  • Il mio parere è rimasto quello che espressi sul mio Giornale l'indomani del fattaccio [l'agguato di via Fani]. «Se lo Stato, piegandosi al ricatto, tratta con la violenza che ha già lasciato sul selciato i cinque cadaveri della scorta, in tal modo riconoscendo il crimine come suo legittimo interlocutore, non ha più ragione, come Stato, di esistere». Questa fu la posizione che prendemmo sin dal primo giorno e che per fortuna trovò in Parlamento due patroni risoluti (il Pci di Berlinguer e il Pri di La Malfa) e uno riluttante fra lacrime e singhiozzi (la Dc del moroteo Zaccagnini). Fu questa la «trama» che condusse al tentennante «no» dello Stato, alla conseguente morte di Moro, ma poco dopo anche alla resa delle Brigate rosse. Delle chiacchiere e sospetti che vi sono stati ricamati intorno, e che ogni tanto tuttora affiorano, non è stato mai portato uno straccio di prova, e sono soltanto il frutto del mammismo piagnone di questo popolo imbelle, incapace perfino di concepire che uno Stato possa reagire, a chi ne offende la legge, da Stato. (22 settembre 2000)
  • La Serbia ha perduto la guerra e ha vinto la pace: ora deve voltar pagina. Sarà la storia – un giudice non imparziale, ma efficace – a decidere cos'è stato giusto e cos'è stato sbagliato. Tuttavia, una ritorsione serba verso l'Occidente avverrà. E ci troverà disarmati. Sa di cosa parlo? Delle rivendicazioni sul Kosovo, che è amministrato dalla Nazioni Unite ma è ancora Jugoslavia (lo dice la risoluzione dell'Onu). I serbi chiederanno di tornare a controllarne le frontiere, per esempio. E dire no a un Kostunica buono è più difficile che dire sì a un Milosevic cattivo. Gli albanesi del Kosovo, sono certo, lo hanno già capito. (8 ottobre 2000)
  • È un dimenticato, Ojetti, come in questo Paese lo sono quasi tutti coloro che valgono. Se io dirigessi una scuola di giornalismo, renderei obbligatori per i miei allievi i testi di tre Maestri: Barzini, per il grande reportage; Mussolini (non trasalire!), quello dell'Avanti! e del primo Popolo d'Italia, per l'editoriale politico; e Ojetti, per il ritratto e l'articolo di arte e di cultura. (13 novembre 2000)
  • In Italia fu il potere temporale a soffocare negl'italiani la voce della coscienza e a spegnere in loro ogni senso di responsabilità. Ma fu la Controriforma a fornire al prete le armi per accaparrarsi l'una e l'altra: il Sant'Uffizio, le scomuniche e, nei casi estremi, il patibolo. Con questo risultato: l'aborto del «cittadino» e la trasformazione di quello che avrebbe dovuto e potuto diventare un «popolo» in un gregge (come con inconsapevole spudoratezza i preti lo chiamano), e in un gregge di pecore indisciplinate che credono di affermare il loro ribelle individualismo non rispettando il semaforo rosso. (20 novembre 2000)
  • Questo mondo materialista, edonista ed esibizionista non entusiasma neanche me; e, visto che mi legge, dovrebbe saperlo. Ma vorrei conoscere il sistema che voi avete in mente, e non avete il coraggio, o la capacità, di proporre. Un mondo francescano? Bello: ma guardatevi intorno, e ditemi se vedete un saio. Un comunismo riveduto e corretto? Farebbe la fine dell'altro, anche se non riuscirà a ripeterne i disastri. Mi creda, G.: l'unico sistema sociale ed economico oggi accettabile, in Occidente, è quello basato sul mercato: un capitalismo controllato e temperato, per intenderci. È auspicabile che sia anche corretto: e questo non sempre accade, è vero. Il guaio è che il capitalismo è fatto dai capitalisti – e quelli, devo ammettere, sono spesso difficili da digerire. Non cerchi di confondermi le idee, quindi. Non ci riuscirà. Probabilmente ho tre volte i suoi anni, e ho visto dove conducono queste generiche tirate contro «le multinazionali»: prima o poi, qualcuno deporrà la spranga e prenderà la pistola. Dimenticavo: io firmo le mie opinioni, lei tira il sasso e nasconde la mano. Tutti coraggiosi così, voi ragazzi di Seattle? (9 giugno 2001)
  • Non erano, le mie, parole di circostanza. Erano – e rimangono – quelle di un conservatore abbastanza spassionato e nutrito di Storia da capire che non c'è, per la conservazione di ciò che va conservato, nemico più mortale dei conservatori che vogliono conservare tutto; e che un sistema capitalistico senza un correttivo socialista diventa una jungla che conduce pari pari a Carlo Marx. Di qui il mio amore per uno dei personaggi meno amabili, sul piano umano, della nostra Storia, Giolitti, che sempre cercò l'accordo con Turati, a cui il cretinume massimalista – che nel vostro partito ha sempre dominato – lo impedì. Il vedervi – sbriciolati in gruppi, gruppetti e gruppuscoli – annaspare nell'attuale centro-sinistra in cui nessuno riesce a recitare la parte di se stesso, fa male al cuore di un vecchio autentico liberal-conservatore come me. Cosa aspettate, caro Tamburrano, a ridarci il socialismo, ma che sia quello e quello solo: il socialismo di Turati e di Massarenti? [...] Credo che come forza politica siate abbastanza mal messi. Ma in compenso avete in mano una grande bandiera che prima o poi un esercito la ritroverà. Arrivederci, al primo settembre, cari lettori. (4 luglio 2001)

il Giornale

  • Chi sarà il nostro lettore noi non lo sappiamo perché non siamo un giornale di parte, e tanto meno di partito, e nemmeno di classi o di ceti. In compenso, sappiamo benissimo chi non lo sarà. Non lo sarà chi dal giornale vuole soltanto la «sensazione» [...] Non lo sarà chi crede che un gol di Riva sia più importante di una crisi di governo. E infine non lo sarà chi concepisce il giornale come una fonte inesauribile di scandali fine a se stessi. Di scandali purtroppo la vita del nostro Paese è gremita, e noi non mancheremo di denunciarli con quella franchezza di cui crediamo che i nostri nomi bastino a fornire garanzia. Ma non lo faremo per metterci al rimorchio di quella insensata e cupa frenesia di dissoluzione in cui si sfoga un certo qualunquismo, non importa se di destra o di sinistra. [...] Vogliamo creare, o ricreare un certo costume giornalistico di serietà e di rigore. E soprattutto aspiriamo al grande onore di venire riconosciuti come il volto e la voce di quell'Italia laboriosa e produttiva che non è soltanto Milano e la Lombardia, ma che in Milano e nella Lombardia ha la sua roccaforte e la sua guida. [...] A questo lettore non abbiamo «messaggi» da lanciare. Una cosa sola vogliamo dirgli: questo giornale non ha padroni perché nemmeno noi lo siamo. Tu solo, lettore, puoi esserlo, se lo vuoi. Noi te l'offriamo. (25 giugno 1974)
  • Checché ne dicano gli agiografi della Resistenza, la guerra l'abbiamo persa, e c'è un conto da pagare. Che l'Italia lo saldi a spese dei suoi figli minori – i Dalmati e gli Istriani – è un ghigno del destino. Ma in compenso può considerarsi miracolata. Quando si pensa a cosa ha pagato la sua sconfitta la Germania, amputata d'intere province e dimezzata in due nazioni diverse e ostili, e quando si pensa a cosa ha pagato l'Inghilterra, precipitata dalla condizione di massimo impero mondiale a quella di piccola isola alla periferia d'Europa; non possiamo lamentarci del trattamento che gli alleati ci fecero. (30 settembre 1975)
  • Siamo stati accusati di aver fatto, nei confronti dei comunisti, il processo alle intenzioni. Non vediamo su cos'altro avremmo dovuto giudicarli, visto che sono sempre rimasti all'opposizione, ed è di lì che ancora si affannano a dire che cosa si propongono di fare se andassero al potere, anzi quando andranno al potere (perché ormai lo danno per scontato). E cosa sono, queste, se non intenzioni? (19 giugno 1976)
  • Che cerchino di eliminarmi perché sono un avversario, questo lo posso anche capire; ma perché – a quanto mi riferiscono – hanno detto che io sono un servo delle multinazionali, allora questo sta a dimostrare la confusione di idee di questi poveretti che, evidentemente, non sanno cosa sono le multinazionali. (3 giugno 1977)
  • I giuochi sono fatti. E sono fatti non soltanto per Moro, cui va tutta la nostra più fraterna e rispettiva pietà. Sono fatti anche per una politica da belle époque, che la distruzione – fisica o morale – di Moro chiude e conclude. La Storia sta riprendendo i suoi connotati di tragedia, e costringe coloro che la fanno, o ambiscono o s'illudono di farla, ad adeguarsi al repertorio. Stiamo entrando in una di quelle «età di ferro» in cui il potere si paga, o si può pagarlo col ferro. Nessuno è obbligato a sfidare questo rischio. Chi lo fa, sappia che oggi è toccato a Moro, domani può toccare a lui. Solo se si rende conto di questo e lo accetta, la classe politica troverà la forza di archiviare il caso Moro. Ed è tempo che lo faccia. (7 maggio 1978)
  • Quattr'anni e mezzo orsono, quando questo giornale nacque, un «ragazzo del '68» (con tante scuse a quelli veri, del '99), Mario Capanna, oggi gerarchetto regionale (che belle carriere, questi rivoluzionari!), dichiarò che, come nemici del «pubblico» e del «sociale» e come assertori del «privato», e quindi della reazione, noi saremmo diventati il più bel museo della città, dove babbi e mamme avrebbero potuto condurre in gita ricreativa i loro figlioletti per mostrargli, dal vivo, com'erano buffi i loro nonni e bisnonni: noi. Bene. Se il vento seguita a soffiare come soffia, saremo noi che di qui a un po' condurremo i nostri figlioletti dal signor Capanna per mostrargli com'erano buffi i loro nonni e bisnonni di dieci anni fa. Ma non lo faremo. Lo spettacolo di questi ragazzi-prodigio abortiti, di questi barricadieri con pancia e cellulite che credevano di camminare con la Storia, e invece camminavano solo con la moda, non ha nulla di edificante. (16 gennaio 1979)
  • In una sua memorabile inchiesta un giornalista d'incrollabile fede sinistrorsa, ma di esemplare onestà, Giampaolo Pansa, mise benissimo in luce questo contrasto fra i due atteggiamenti e mentalità, che ieri ha trovato una eloquente conferma nella manifestazione di Torino. Niente chiasso, niente sceneggiate, niente slogans, niente insomma che appartenga al repertorio del buffonismo nazionale. Nessuno ha rotto le righe per andare a rovesciare auto o a fracassar vetrine. Questa, sì, era Danzica, sia pure senza Madonne; non i picchettaggi e i pestaggi di Mirafiori, sia pure con le Madonne. Ora sappiamo già cosa diranno gli altri, oggi e domani. Diranno che gli operai non c'erano. Infatti. Doveva trattarsi di quarantamila presidenti, consiglieri delegati, ingegneri: insomma, la solita «maggioranza silenziosa»: termine che soltanto nella lingua italiana ha significato spregiativo. La maggioranza silenziosa esiste in tutti i Paesi del mondo, dove nessuno si vergogna di appartenervi perché è essa, in definitiva, che ristabilisce gli equilibri. Fu la maggioranza silenziosa – autoqualificatasi come tale – di seicentomila parigini che dodici anni fa pose fine al carnevale sessantottesco, riportò De Gaulle all'Eliseo e restituì alla Francia la stabilità di cui tuttora essa gode. [...] Il motivo vero che farà i dimostranti bersaglio delle peggiori critiche e accuse è ch'essi rappresentano la rivolta delle persone serie contro la «conflittualità permanente», dei «modelli di sviluppo» e via baggianando. E in questo Paese nulla fa più paura, perché nulla è più rivoluzionario, della serietà. (15 ottobre 1980)
  • Per i falchi del Pci, Berlinguer era ormai un personaggio scomodo e pericoloso, specie da quando aveva cominciato ad allentare gli ormeggi che lo legavano a Mosca. Gli era perfino scappato di dire (a Pansa) che voleva per l'Italia un regime comunista, ma sotto l'ombrello della Nato che la tenesse al riparo dalle soperchierie del padrone sovietico: la più grave e blasfema di tutte le eresie in cui un capo comunista possa incorrere. (12 giugno 1984)
  • Tutto pensavo che potesse capitarmi, fuorché di essere un giorno tentato di spendere qualche parola, per poco che valga, in difesa di Togliatti. [...] Un processo a Togliatti per stalinismo, se glielo intentano i socialisti, che nell'era dello Stalinismo gli fecero da mosca cocchiera, è una burletta. Se lo intentano i comunisti – come sembra che qualcuno di loro voglia fare –, oltre che oltraggio al pudore, diventa quiescenza alla voce del nuovo padrone, cioè stalinismo della più brutt'acqua, anzi una parodia dello Stalinismo. Per la caccia alle streghe, anche dello Stalinismo, ci vogliono degli stalinisti doc, qual era Togliatti. Non è roba da dilettanti, quali sono i suoi pallidi epigoni. (3 marzo 1988)
  • La fine del Muro è una cosa buona, la fine di una vergogna: non possiamo che salutarla con soddisfazione. Ma guardiamoci dal prendere abbaglio sui suoi moventi. Ulbricht concepì e Honecker realizzò il muro per impedire che i tedeschi dell'Est fuggissero in massa nella Germania dell'Ovest: già 9 (diconsi nove) milioni lo avevano fatto fin allora. E il rimedio fu, come tutti quelli che escogitano nei regimi totalitari, drastico e semplicistico: murare viva la gente dietro una colata di cemento, senza pertugi. [...] Abbiamo in uggia le astrazioni. Ma ciò che distingueva le due Germanie è l'idea morale e giuridica dell'uomo: che a Ovest è padrone di se stesso, e quindi può andarsene dove vuole: ad Est è proprietà dello Stato che ne regola i movimenti. Per chi non ricorda questo, il Muro di Berlino era, oltre che barbaro, incomprensibile e irrazionale: mentre invece ha obbedito a una sua logica. Nel momento in cui il bunker si affoscia e si sopravvive come mero ammasso di cemento ricordandoci un altro bunker, quello che fece da fossa di Hitler (anche questo pare impossibile: ma i regimi in Germania muoiono nei bunker), il Muro va ricordato per ciò che è stato: non un'aberrazione del comunismo, ma una sua conseguente applicazione. E se crolla così, nel silenzio assordante di un giornale-radio, è perché è crollata, prima, l'ideologia che lo aveva eretto. (11 novembre 1989)
  • Negli anni Trenta, per le strade di Berlino, risuonava il grido: ein Volk, ein Reich, ein Führer: un popolo, uno Stato, un capo. Stavolta si sono contentati di scandire ein Volk, ein Reich. Non potevano aggiungere, checché ne dica il sig. Ridley, ein Kohl, che fra l'altro significa «cavolo». Ma [ai tedeschi] per diventare i padroni dell'Europa anche un cavolo gli basta. (3 ottobre 1990)
  • Abbiamo fatto poco: il poco che il Paese dei Formigoni, dei Cristofori, degli Sbardella, dei Balducci, dei vescovi di Molfetta poteva fare. Non lamentiamoci se il posto che ci verrà assegnato nel ristabilimento dell'ordine internazionale sarà nell'anticamera, non nella camera dei bottoni. Però sia chiara una cosa: che a gridare «Viva la pace!» siamo qualificati oggi soltanto noi che abbiamo auspicato la guerra contro chi la pace l'aveva turbata e, se lo si lasciava fare (non è un ipotesi, è una constatazione), avrebbe continuato a turbarla in un crescendo di colpi e di aggressioni. (1 marzo 1991)
  • I voti dei democristiani novaresi non sono andati al partito; sono andati a Scalfaro, democristiano talmente anomalo, che si permette persino di credere in Dio. [...] Il vecchio magistrato conosce il suo mestiere, e sa benissimo di operare in un Paese in cui la mamma dei Casson è sempre incinta. In nome della Legge, le leggi le farà funzionare. Insomma siamo sicuri che starà in Quirinale come un italiano deve starci: da straniero. Unico pericolo: le prediche. Anche Einaudi le faceva. Ma le chiamava «inutili». (26 maggio 1992)
  • Da dove siano venuti tutti i «no» non lo sapremo mai con precisione, ma una cosa è certa. Questo è il colpo di grazia al sistema dei partiti e della classe politica che lo rappresenta, e un colpo durissimo all'immagine del Paese pronto a fare pulizia che l'Italia si stava faticosamente costruendo all'estero. Senza giovare nemmeno a Craxi, che non potrà certo ricostruire la sua carriera sulla votazione di ieri, anzi. Se c'è ancora qualcuno che dubita sulla necessità di un pubblico processo, non solo a lui, ma a tutta la corte di faccendieri che lo circondava, alzi la mano, o meglio nasconda la faccia. (30 aprile 1993)
  • Questo è l'ultimo articolo che compare a mia firma sul giornale da me fondato e diretto per vent'anni. Per vent'anni esso è stato – i miei compagni di lavoro possono testimoniarlo – la mia passione, il mio orgoglio, il mio tormento, la mia vita. Ma ciò che provo a lasciarlo riguarda solo me: i toni patetici non sono nelle mie corde e nulla mi riesce più insopportabile del piagnisteo. [...] A presto dunque, cari lettori. Anche a costo di ridurlo, per i primi numeri, a poche pagine, riavrete il nostro e vostro giornale. Si chiamerà La Voce. In ricordo non di quella di Sinatra. Ma di quella del mio vecchio maestro – maestro soprattutto di libertà e indipendenza – Prezzolini. (12 gennaio 1994)

====Rituale barbarico

articolo su il Giornale nuovo, 10 maggio 1978

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  • La fine di Aldo Moro ci rende sgomenti, il fanatismo di chi lo ha ucciso lentamente, togliendogli la speranza prima di toglierli la vita, ci riempie di orrore. Speriamo ancora che la tracotanza dei criminali sia un giorno punita. L'importante, adesso, è che il Paese, proprio per rendere omaggio a Moro, e proprio in memoria di lui, sappia trarre da questa tragedia l'amara lezione che essa comporta. La democrazia non deve, anzi non può essere debole. La libertà, che la rende superiore a qualsiasi altro regime, ma anche più vulnerabile, non va conclusa con la indulgenza verso i nemici, la imprevidenza, la leggerezza.
  • Lo Stato italiano ha superato con onore questa prova difficile, ma la magistratura e gli organi di polizia hanno denunciato, nella loro azione, una desolante inefficienza, che ha permesso alle brigate rosse di operare con irridente spavalderia. Ne va data colpa non tanto alle forze dell'ordine quanto a chi ha voluto, per demagogia, per compiacere le sinistre, per acquistare facile popolarità, smobilitare i servizi segreti, rimuovere i funzionari più ligi al dovere, trasformare le carceri in alloggi con libera uscita quotidiana. Gli evasori della democrazia, i contestatori della legalità hanno potuto predicare e demolire senza ostacoli. Ci auguriamo di non vederli ora associati ipocritamente al compianto per un delitto del quale sono, ideologicamente se non materialmente, corresponsabili. Le loro non erano soltanto parole. Un giovane sfracellato da un ordigno sulla ferrovia Trapani-Palermo – l'episodio è di ieri – apparteneva a Democrazia proletaria. I banditi che hanno assalito a Bologna un grande magazzino venivano dal Movimento studentesco. È inutile che questi gruppi ostentino adesso costernazione e stupore per le belluine imprese delle brigate rosse. Il terrorismo è figlio loro.
  • All'annuncio della fine di Aldo Moro i sindacati si sono mossi, hanno indetto manifestazioni e proclamato uno sciopero generale. Siamo certi della loro profonda esecrazione, e della loro sincera partecipazione al cordoglio nazionale. Pensiamo tuttavia che i lavoratori e i loro rappresentanti darebbero un apporto più costruttivo alla lotta contro i terroristi tenendo d'occhio gli estremisti delle fabbriche, troppe volte protetti e difesi. Così pure gli studenti «impegnati», se proprio vogliono dissociarsi dalle brigate rosse, devono estromettere dalle loro file gli agitatori deliranti, e dinamitardi che nascondono bottiglie molotov e armi negli scantinati delle facoltà. Chi ha chiuso gli occhi di fronte alla escalation di violenza degli anni scorsi, li chiuda oggi per non lasciar scorrere lagrime di coccodrillo.

====Poveri morti poveri vivi

articolo su il Giornale, 31 maggio 1985

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  • L'Inghilterra non sono i forsennati che abbiamo visto all'opera nello stadio di Bruxelles. L'Inghilterra sono la Thatcher, i politici, i commentatori di stampa, radio e televisione, la gente intervistata per strada, che hanno confessato la loro vergogna a una voce, con una sola stecca: quella del ministro dello Sport che con le sue dichiarazioni si è messo sullo stesso piano degl'imbestialiti. Comunque, Dio ci guardi ora dai soliti sproloqui e dibattiti dei sociologi sui motivi di «tifo» e sui mezzi d'impedirne gli eccessi. Non ce ne sono, se non nel controllo che ognuno può e deve esercitare su di sé.
  • La strega non è il «tifo» che dallo sport è inseparabile. E non siamo nemmeno noi, come vogliono i cantautori del «siamo tutti colpevoli» che ieri giornali e radio hanno intitolato. Perché, se di qualcosa siamo colpevoli, è di aver sempre secondato la corruttrice e demagogica tendenza a scaricare l'individuo di ogni responsabilità, rigettandola regolarmente e interamente sulla società. È la società che ci obbliga a rubare, è la società che ci obbliga ad uccidere. E si capisce che quando si offrono alla gente di questi alibi, c'è sempre qualcuno che ne approfitta. Stamane leggevo su un giornale francese un dotto articolo in cui si spiegava che la furia dei tifosi del Liverpool era dovuta la fatto che, essendo quasi tutti minatori, per un anno erano rimasti senza lavoro a causa dello sciopero: il che gli aveva fatto accumulare la rabbia che poi era scoppiata a Bruxelles. Insomma, senza dirlo, l'articolo induceva alla conclusione che il vero responsabile del massacro era la signora Thatcher. Ecco in che senso siamo tutti colpevoli. Siamo colpevoli di assolvere tutti come vittime innocenti di una società iniqua che, a furia di essere tutti noi, non è nessuno. È un giuoco a cui non ci stiamo. I responsabili di Bruxelles sappiamo chi sono: sono i delinquenti che abbiamo visto avventarsi, prima che la partita cominciasse, e quindi senza alcuna provocazione, contro i tifosi italiani con sbarre e coltelli di cui erano accorsi armati, con l'evidente intenzione di farne l'uso che ne hanno fatto. Delinquenti, non vittime. La società non c'entra, non c'entrano le miniere. Casomai l'alcol. Ma ne avevano ingerito per delinquere meglio. Speriamo che la polizia li identifichi e li consegni a quella inglese. Della quale possiamo fidarci.

====I rieccoli

articolo su il Giornale, 20 gennaio 1990

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  • Scorrendo le cronache delle agitazioni studentesche di questi giorni avevo avuto per un momento l'impressione, o l'illusione, che esse si fondassero sui problemi concreti dell'università, e che fossero qualcosa di diverso, e di migliore della grottesca ubriacatura sessantottina. Ma quando giovedì sera, nella trasmissione televisiva Samarcanda, è stato lanciato contro Mario Cervi il rituale e vile epiteto «fascista!» (e questo solo perché aveva mosso obiezioni agli sproloqui assembleari di Roma e di Palermo), ho capito che vent'anni dopo è come vent'anni prima. La protesta è un pretesto, il legittimo scontento diventa arma politica, gli appelli al dialogo si risolvono in volontà di sopraffazione, di discussione su ciò che nell'università deve essere cambiato sfocia in un attacco globale al governo, alla società, al sistema. L'unica connotazione sessantottina che ancora manca è la violenza fisica. Ma temo che non tarderà ad arrivare se chi dissente è bollato come fascista e chi governa (è capitato ad Andreotti, a Palermo) come mafioso.
  • Quanto alla legge Ruberti, Cervi ha osservato che viene presa di mira perché consentirebbe un limitato ingresso dei privati nella gestione delle università: e al solo sentir parlare di «privato» – che le folle e i giovani dell'Est chiedono con slancio entusiastico – gli epigoni nostrani del marxismo-leninismo sono presi da convulsioni. [...] La legge Ruberti è passata in sott'ordine, il punto centrale del dibattito – o piuttosto della successione di sproloqui, intimazioni e insulti – è diventato il degrado di questa povera Italia privatizzata, che invece conoscerebbe fulgidi destini se fosse tutta pubblica e stabilizzata. Gli slogans, le utopie, le bugie e le dissennatezze sessantottine o settantasettine riemergevano dalle pagine dei libri e dalla polvere degli archivi, per imitazione o per transfert generazionale.
  • Tirava aria romena o cecoslovacca in quelle assemblee: ma della Romania e della Cecoslovacchia di Ceausescu e di Husak, con l'idolatria dello Stato, con gli applausi unanimi, con la riduzione al silenzio degli oppositori. S'è sentito, a proposito sempre di Cervi, il sinistro termine «provocazione» con cui tutti gli oppressori legittimano i loro soprusi. Qualcuno di quei ragazzi pretende che esistano parentele tra questo movimento e quelli dell'Est, dimenticando che là ci si batte, a rischio della pelle, per instaurare non il regime dello statalismo, ma al contrario per abbatterlo e introdurre o reintrodurre quello di iniziativa privata in tutti i campi, compreso quello della cultura e della scuola. Che siano diventati, gli studenti di Berlino, di Praga, di Bucarest, fascisti anche loro?

Controcorrente – rubrica

Citazioni in ordine temporale.

  • La cosa che più ci turba, delle nostre sconfitte sportive, è il grande, alluvionale bisticcio che si scatena fra i «tecnici» per giustificarle. Per quella di Stoccarda, che ci ha eliminato dal campionato del mondo, ne avremo – temiamo – per tutta l'estate: se ne parlerà più che di Caporetto. Noi tecnici non siamo, ma abbiamo la nostra idea. È questa: che non si possono mandare dei polli di batteria a competere con quelli ruspanti. Resta da capire perché noialtri non sappiamo allevare che polli di batteria. Ma ci sembra che questo sia sufficientemente spiegato da un piccolo episodio occorso a Roma, dove un gruppo di tifosi ha creduto di «vendicare» i suoi campioni (si fa per dire) assalendo con pomodori e uova l'ambasciata di Polonia. Ecco. Per un paese in cui la «sana passione sportiva» si effonde in simili manifestazioni, quegli undici mammozzi dalle gambe molli sono fin troppo, e fin troppo misericordiose le disfatte che subiscono. (25 giugno 1974)
  • Noi, di fascismi ne conosciamo e ne esacriamo uno solo: quello di chi appiccica questa etichetta a qualunque idea o opinione che non corrisponde alle sue. Di questo giuoco, la nostra sinistra è spesso maestra. Non per nulla lo stesso Mussolini veniva dai suoi ranghi. (10 luglio 1974)
  • In una conferenza stampa a Nuova Delhi, Henry Kissinger ha dichiarato che verrà a Roma e andrà a pranzo dal presidente Leone, ma non parlerà di politica perché quella italiana è, per lui, troppo difficile da capire. È la prima volta che Kissinger riconosce i limiti della propria intelligenza. Ma vogliamo rassicurarlo. A non capire la politica italiana ci sono anche cinquantacinque milioni di italiani, compresi coloro che la fanno. (31 ottobre 1974)
  • Dario Fo, poeta di corte dell'ultrasinistra, flagella nella sua ultima fatica teatrale il senatore Amintore Fanfani, responsabile di ogni nequizia passata, presente e futura. I sarcasmi più grevi hanno però come bersaglio il metraggio del notabile democristiano che, come tutti sanno, non è quello di un granatiere. Toulouse-Lautrec, che per gli stessi motivi dovette per tutta la vita subire analoghe canzonature, disse una volta, giocando sulla lunghezza del suo doppio casato: «Ho la statura del mio nome». Non sappiamo se questo discorso si possa applicare a Fanfani. Certo, si applica a Fo. (11 giugno 1975)
  • Churchill diceva che «i panni dei servizi segreti si possono, anzi si devono lavare più spesso degli altri; ma, a differenza degli altri, non si possono mettere ad asciugare alla finestra». Dello stesso parere era Stalin che regolarmente, ogni tre o quattro anni, il lavaggio lo praticava facendo accoppare al buio i capi della sua polizia, nel presupposto – probabilmente fondato – che a far quel mestiere non potevano essere che arnesi da forca, e quindi era giusto che ci finissero. Gli americani seguono tutt'altro criterio. Essi hanno trascinato la Cia in televisione denunciandone coram populo fatti e misfatti. I suoi capi ne hanno commessi, dicono, di grossi. Ma il più grosso è forse quello di non aver capito che l'America non li paga per svolgere servizi segreti, ma per offrire agli americani il pretesto per vergognarsene. È l'unico popolo che goda più nel pentimento che nel peccato. (28 novembre 1975)
  • Non sempre, per redigere questa piccola rubrica, occorre forzare la fantasia. Qualche volta basta lasciare la parola alle agenzie di stampa ufficiali. Eccone un caso. L'agenzia Adn Kronos comunica: «Due giorni di sciopero sono stati dichiarati dai sindacati postelegrafonici milanesi per il 28 gennaio e per il 6 febbraio per protesta contro gli scioperi e i disservizi». (25 gennaio 1976)
  • L'Unità ci rimprovera di aver pubblicato il manifesto degl'intellettuali in favore della libertà. E ha ragione. Si tratta infatti di una illecita concorrenza perché finora i manifesti, gli appelli, le «veglie» e tutto il resto sono stati monopolio del Pci, unico partito capace di far cantare la gente in coro. Ma appunto per questo non vediamo di che si preoccupi. Gl'intellettuali italiani che preferiscono aver ragione da soli piuttosto che torto con gli altri, sono pochi. I più seguono la massima di Toulet: «Quando i lupi urlano, urla con loro». (1 giugno 1976)
  • Ieri Fortebraccio, dalle colonne dell'«Unità», ha invocato per noi, previa qualche iniezione, il ricovero immediato, e a titolo definitivo, in manicomio. La cosa non ci stupisce: sappiamo benissimo che di manicomi e di iniezioni nessuno s'intende più dei comunisti: chi c'è passato giura che ci hanno fatto una mano da maestri. Ci stupisce però che Fortebraccio lo abbia implicitamente – e un po' anzitempo – riconosciuto. Forse gli è scappata. Alla sua età, succede. (10 dicembre 1976)
  • Cadendo oggi il trigesimo della scomparsa di Pietro Valdoni, vogliamo rievocare un episodio del grande chirurgo. Come tutti ricorderanno, fu lui ad operare, salvandogli la vita, Palmiro Togliatti, ferito alla testa dalla rivoltella di Pallante. Quando ricevette la parcella, Togliatti la trovò salata, e accompagnò il pagamento con queste parole: «Eccole il saldo, ma è denaro rubato». Valdoni rispose: «Grazie per l'assegno. La provenienza non mi interessa» (23 dicembre 1976)
  • «Dio non è un maschio» assicura alle femministe Civiltà Cattolica, l'autorevole rivista dei gesuiti, scusandosi «delle tracce di antifemminismo che ancora sono nella Chiesa». Brutto segno quando i teologi si mettono a discutere di sesso. Fu mentre i bizantini si accapigliavano su quello degli angeli che arrivarono i turchi. (21 giugno 1977)
  • Anche noi italiani dobbiamo qualcosa a Elvis Presley: quella di offrirci una delle rare occasioni in cui preferiamo essere italiani piuttosto che americani. (20 agosto 1977)
  • È in corso una iniziativa per l'abolizione, nelle aule scolastiche, della pedana su cui si eleva la cattedra. Il perché lo avrete già capito: l'insegnante deve mettersi, anche materialmente, a livello degli alunni per non lederne la dignità e dimostrare con l'esempio che siamo tutti uguali. Giusto. «La via dell'uguaglianza – dice Rivarol – si percorre solo in discesa: all'altezza dei somari è facilissimo instaurarla». (29 ottobre 1977)
  • Fra gli annunci economici di Lotta Continua, ne è comparso uno che dice: «Compero a L. 100.000 una tesi di laurea, anche già presentata, purché tratti un argomento attinente all'Inghilterra, o alla lingua, storia, letteratura inglese. Meglio se con una impostazione femminista». Curioso. Questi grandi rivoluzionari, che dicono di battersi per costruire una società nuova di zecca, quando si tratta di lauree, si contentano anche di quelle usate e di seconda mano. (3 marzo 1978)
  • Credevamo che l'assassinio di Aldo Moro, così come è stato eseguito, fosse il colmo dell'infamia. Abbiamo dovuto ricrederci. Al comizio di protesta svoltosi in piazza Duomo a Milano subito dopo la macabra scoperta in via Caetani a Roma, un gruppo di ultrà ha gridato: «Moro fascista!». Preferiamo le zanne delle belve alla bava degli sciacalli. (10 maggio 1978)
  • Ecco il nostro telegramma di congratulazioni e auguri a Pertini: «Che Dio le conceda il coraggio, Presidente, di fare le cose che si possono e che si debbono fare; l'umiltà di rinunziare a quelle che si possono ma non si debbono, e a quelle che si debbono ma non si possono fare; e la saggezza di distinguere sempre le une dalle altre». (9 luglio 1978)
  • Dall'indagine svolta da uno dei più seri istituti di ricerche demografiche, lo svizzero Scope, risulta che la professione più ammirata e rispettata, nel mondo, è quella dei medici. I giornalisti sono al penultimo posto. Ce ne sentiremmo profondamente avviliti se all'ultimo non vedessimo catalogati gli editori. (29 novembre 1978)
  • Prima di partire per Vienna, il presidente [degli Stati Uniti] Carter ha fatto due dichiarazioni. La prima: «Ci auguriamo che il signor Breznev [allora presidente dell'Unione Sovietica e Primo Segretario del PCUS] abbia per le nostre ragioni la stessa comprensione che noi abbiamo per le sue». La seconda: «Se Ted Kennedy si presenta contro di me alle elezioni presidenziali, gli faccio un c.o così» Il triviale Nixon avrebbe potuto dire le stesse cose, ma certamente ne avrebbe invertito l'ordine di priorità riservando la comprensione a Kennedy ed il c.o a Breznev. La differenza fra i due è tutta qui. (16 giugno 1979)
  • Avvicinandosi il 25 dicembre, decine di migliaia di teneri abeti vengono strappati dai boschi della Penisola per allestire il tradizionale albero di Natale. Ogni anno lo scempio si ripete, tra la generale indifferenza. Soppresso l'Ente protezione animali, figuriamoci se qualcuno ha voglia di proteggere gli alberi. Diciamo la verità: la sola pianta che interessi all'italiano medio è la pianta stabile. (19 dicembre 1979)
  • Nel Manifesto di domenica scorsa tale K.S. Karol faceva considerazioni amare sulla rivoluzione cubana e sui suoi fallimenti: «Fidél – ha ricordato il commentatore, uno dei tanti orfani delle illusioni di sinistra – prometteva ai cubani per il 1965 un tenore di vita pari a quello svedese». Certo Fidél si è sbagliato di grosso; non per cattiva volontà, ma per mancanza di uomini, anzi di un uomo. Sarebbe bastato che anche la Svezia avesse uno suo Castro al potere per ritrovarsi in pochissimi anni con un tenore di vita pari a quello cubano. (15 aprile 1980)
  • Riferiscono le cronache che quando è giunta in tribunale la notizia dell'assassinio di Walter Tobagi, il brigatista Corrado Alunni l'ha accolta con una sghignazzata di tripudio. Abbiamo sempre combattuto la pena di morte sul presupposto che l'uomo non ha il diritto di uccidere l'uomo. Il presupposto lo confermiamo. Ciò di cui cominciamo a dubitare è che gli Alunni e quelli come lui siano uomini. Sui cadaveri sghignazzano le jene. (30 maggio 1980)
  • A Mirafiori, parlando agli operai della Fiat in sciopero, il sindaco di Torino, Novelli, se l'è presa coi giornalisti e li ha additati all'uditorio come falsari che ricalcano i loro resoconti non sui fatti, ma sulle «veline» distribuite loro dai «padroni». Anche Novelli ha fatto il giornalista in un foglio comunista, e quindi di veline e di padroni è certamente un intenditore. Ma se dopo questa denuncia ci scappa un altro Casalegno, sarà molto gradita la sua assenza ai funerali. (8 ottobre 1980)
  • Grandi elogi – dopo il successo del blitz di Trani – alle «teste di cuoio» italiane. La loro azione ha dimostrato quanto poco valesse la strategia della flessione propugnata di alcuni personaggi. Teste anche loro: ma di che? (31 dicembre 1980)
  • Fra i tanti slogans che il partito socialista francese ha lanciato in occasione delle elezioni presidenziali per rassicurare i bravi borghesi sottolineando il proprio carattere moderato e riformista, abbiamo letto anche questo: «Il socialismo può fare di chiunque un milionario». Ci crediamo senz'altro. A patto che quel chiunque fosse prima un miliardario. (8 maggio 1981)
  • Per gl'italiani, finora, il nome di Gelli era quello dell'autore del più famoso e autorevole codice cavalleresco. Anche oggi rimane legato a un codice. Quello penale. (9 maggio 1981)
  • L'elenco degli affiliati alla P2 comprende, dicono, 953 nomi, cui corrispondono i più alti gradi della politica, della magistratura, delle forze armate, della burocrazia, dell'industria, della finanza. Tutti «fratelli». È la riprova che, in questo Paese, guai ai figli unici. (11 maggio 1981)
  • Macché pazzo! L'attentatore del Papa deve essere un furbo matricolato. Dichiarandosi seguace di George Habbas e della causa palestinese, ha cercato di procurarsi la solidarietà dei molti, dei moltissimi, che non battono ciglio quando un terrorista cerca di spedire qualcuno all'altro mondo. Purché il terrorista appartenga al terzo. (16 maggio 1981)
  • Studiosi cinesi, mettendo a confronto reperti di ominidi dissimili traloro tanto da far pensare che l'uomo discenda anche da animali diversi dalla scimmia, sono arrivati alla conclusione che i nostri progenitori erano comunque scimmie, ancorché di specie differenti. Ci pare logico. Quale altro animale avrebbe potuto imitare la scimmia che ha dato l'avvio alla razza umana se non un'altra scimmia priva di senso critico? (19 maggio 1981)
  • Una nostra redattrice andata per una sua cronaca sul femminismo alla «libreria delle donne» in via Dogana a Milano, è stata accolta da una di loro con queste parole: «Con te non parlo perché sei di un giornale fascista, e anche tu hai la faccia da fascista». La nostra redattrice, che ha ventun anni, probabilmente non sapeva bene cosa fosse il fascismo. Ora lo sa: lo ha imparato in quella libreria. (4 novembre 1981)
  • Come previsto, la Juventus ha conquistato il ventesimo scudetto battendo il Catanzaro. Una vittoria di rigore. (17 maggio 1982)
  • Socialisti e comunisti si sono opposti alle sanzioni economiche contro l'Argentina perché, hanno detto, una buona metà degli argentini sono di origine italiana, e molti di loro conservano tutt'ora la nostra nazionalità. Vero. Ma non ci eravamo accorti che queste sinistre spasimassero tanto d'amore per i nostri connazionali di laggiù quando si trattava di riconoscergli il diritto di voto. (22 maggio 1982)
  • Se si va avanti di questo passo, la guerra delle Falkland (o Malvine) finirà quando l'ultimo aereo argentino sarà abbattuto col suo carico di bombe sull'ultima nave inglese. E dire che questa lotta di leoni si svolge per un'isola di Pecore. (27 maggio 1982)
  • Tutti abbiamo trepidato ieri, davanti al televisore, per le sorti della squadra azzurra, tutti ci siamo entusiasmati alle sue gesta, tutti abbiamo salutato con orgoglio la sua vittoria. Ma il tipo di patriottismo che questa ha suscitato nelle strade delle nostre città, messe a soqquadro dai tifosi scalmanati che usavano il tricolore a copertura del peggior teppismo, ci ha fatto rimpiangere di non essere nati brasiliani. (6 luglio 1982)
  • Mai visto così tanto entusiasmo patriottico, tanti tricolori per le strade come per la finale degli azzurri al Mundial. Nella tomba di Caprera, le ossa di Garibaldi fremono di invidia. Per unificare l'Italia «in un solo grido, in una sola passione» gli erano accorsi mille uomini. A Bearzot ne sono bastati undici. (12 luglio 1982)
  • Gli scrittori Mario Soldati (PSI) e Gianni Brera (PSI) sono stati trombati [non sono stati eletti]. Peccato. Il Parlamento era l'unico posto in cui, dovendo parlare per gli altri, forse avrebbero finalmente taciuto. (1 luglio 1983)
  • Che Craxi sia uomo di grandi capacità e ambizioni, lo si sapeva. Che sia anche uomo di grande coraggio, lo si è visto ieri, quando pronunciava alla Camera il suo discorso di replica. Per due volte si è interrotto alla ricerca di un bicchier d'acqua. Per due volte Andreotti glielo ha riempito o porto. E per due volte lui lo ha bevuto. (13 agosto 1983)
  • Condannato dal tribunale di Reggio Emilia per bestemmie e turpiloquio contro la Chiesa, Roberto Benigni avrebbe qualche ragione di considerarsi vittima di un'ingiustizia. Proprio il giorno prima la Chiesa riabilitava Martin Lutero, scomunicato ai suoi tempi pressappoco per gli stessi motivi. Come cambia, coi tempi, la sorte degli uomini! È inquietante pensare che Benigni, se fosse vissuto cinquecent'anni fa, sarebbe forse diventato Lutero. Ma addirittura sconvolgente è che Lutero, se fosse nato cinquecent'anni dopo, sarebbe forse diventato Benigni! (8 novembre 1983)
  • Il più autorevole giornale americano di economia e finanza, il Wall Street Journal di martedì 10 gennaio, è incorso in un curioso lapsus. Parlando del concordato fra lo Stato italiano e la Santa Sede, scrive che esso «venne firmato nel 1929 da Bettino Mussolini». Chissà, se lo legge, come si arrabbia Benito Craxi. (12 gennaio 1984)
  • È vero: la Juventus, a Basilea, non ha fatto una gran figura. Giocando con più cervello, poteva vincere comodamente 4-0. Ma attenti a non giudicare troppo severamente il Porto. Quello di Genova va molto peggio. (18 maggio 1984)
  • Il trentanovenne James Nelson, condannato da un tribunale di Londra a quindici anni per avere ucciso la madre a colpi di mattone, ha sentito, chiuso in cella, la vocazione sacerdotale: si è messo a studiare teologia, e ora sta per diventare prete nella chiesa scozzese. «È mia intenzione – ha dichiarato – contribuire alla edificazione di una nuova società». Si può credergli: i mattoni ha dimostrato di saperli usare. (25 maggio 1984)
  • L'agenzia Agi informa, con un drammatico flash, che il ministro Andreotti, «impegnato in una riunione superistretta con gli altri 15 ministri degli esteri della Nato, perderà la partita Roma-Liverpool». È giusto il fatto che faccia notizia: è la prima volta che Andreotti perde qualcosa. (31 maggio 1984)
  • Presso la Presidenza del Consiglio, a palazzo Chigi, è stata istituita una commissione di giuristi per la completa parificazione dei diritti fra i due sessi. Finalmente! Era ora che ce la riconoscessero, a noi uomini. (16 ottobre 1984)
  • La riforma dei programmi della scuola elementare, cui sta lavorando il Ministro Falcucci, introdurrà nella terza, quarta e quinta classe l'insegnamento di una lingua straniera. Non è specificato quale. Speriamo che si tratti dell'italiano. (21 gennaio 1985)
  • I tecnici di calcio sono rimasti stupiti dalla prova del Real Madrid che nella semifinale della coppa Uefa ha letteralmente travolto i modesti giocatori dell'Inter. I madrileni hanno proprio vinto a biglia sciolta. (26 aprile 1985)
  • Quando Sandro Pertini è apparso sul video di Raiuno che trasmetteva la premiazione del concorso ippico di Roma, il cronista ha commentato: «Anche i cavalli, come vedete, sono gentili col Presidente». Era vero. Forse meritano di essere fatti cavalieri. (5 maggio 1985)
  • I tifosi rossoneri sono in festa per la notizia che Berlusconi sta per acquistare il loro Milan. Sono convinti che in un battibaleno ne farà una squadra da scudetto, da coppa delle coppe, da tutto, e forse hanno ragione. C'è un solo pericolo: che il neo-presidente voglia fare anche il direttore tecnico, l'allenatore, il massaggiatore, il capitano e il centrattacco. Il che potrebbe andar anche bene. Ma ad una condizione: che possa fare anche l'arbitro. (27 dicembre 1985)
  • Rete Quattro e Italia 1 sono state multate per violazione del decreto che proibisce la propaganda al consumo del tabacco. Lo spot incriminato è quello che, parlando del «Camel Trophy», ostentava un pacchetto di sigarette della ditta sponsorizzatrice. Strano Paese, il nostro. Colpisce i venditori di sigarette, ma premia i venditori di fumo. (13 marzo 1986)
  • Molti lettori ci chiedono quale missione sta svolgendo l'on. Capanna a Tripoli, quali motivi l'hanno spinto da Gheddafi. Non ne sappiamo granché: non siamo abituati a ficcare il naso nelle altrui questioni di famiglia. (1 giugno 1986)
  • Oggi Paolo Pillitteri sarà designato alla successione di Tognoli come sindaco di Milano. Lo dipingono come uomo intelligente, efficace, insomma pieno di qualità. Purtroppo, gli manca quella fondamentale: il celibato. (5 dicembre 1986)
  • Finalmente, dopo sette anni di esilio a Gorky, l'impavido Andrei Sacharov è tornato a Mosca. Speriamo che Gorbaciov ci resti. (24 dicembre 1986)
  • L'agenzia Ansa riferisce che da un sondaggio operato in Francia su un pubblico internazionale, risulterebbe che il maschio italiano detiene ancora il primato mondiale della seduzione. Speriamo che i giornali non riportino la notizia: gl'italiani sarebbero capaci di crederci. (15 marzo 1987)
  • Per la prima volta nella storia della Corte Costituzionale, il nuovo presidente, Francesco Saja, è stato eletto al primo scrutinio. Ma il rivale sconfitto, Ferrari, ha sollevato eccezione accusando il vincitore di averlo battuto grazie a un «compromesso storico» fra elettori democristiani e comunisti, aggravato da un intrallazzo fra siciliani. Vero o falso, dalla Corte al cortile. (5 giugno 1987)
  • Ieri tutti i telegiornali ci hanno martellato negli occhi le immagini dei capibastone – Craxi, De Mita, Spadolini, Altissimo ecc. – che infilavano la scheda nell'urna. I loro volti raggiavano di soddisfazione. Erano gli unici elettori matematicamente sicuri di aver dato il voto al candidato ideale. (15 giugno 1987)
  • In una scuola di Chattanooga, nel Tennesse (Usa), due sedicenni, approfittando dell'assenza dell'insegnante, si sono baciati e hanno fatto l'amore davanti a una decina di compagni, niente affatto scandalizzati. Dato il lassismo di certe scuole americane, gli esami in cui gli studenti riescono meglio sono proprio queste prove orali. (4 giugno 1988)
  • Diciannove persone hanno dichiarato d'aver visto aggirarsi, tra le quinte della Scala, il fantasma di Maria Callas. Non ci meravigliamo, anche perché migliaia di altri frequentatori del massimo teatro lirico italiano sostengono da tempo di vedere, alla Scala, il fantasma della Scala. (28 giugno 1988)
  • Scoprendo le isitutzioni britanniche con un secolo e mezzo di ritardo, i comunisti sembrano fermamente intenzionati a formare il loro «shadow Cabinet». Ma onestamente non ne afferriamo la ragione. Non c'è nessun bisogno di un governo ombra per contrastare quest'ombra di governo. (5 maggio 1989)
  • Da un sondaggio condotto tra i francesi risulta che il personaggio più noto d'Oltralpe è Marcello Mastroianni, conosciuto dall'83 per cento degli intervistati. Il 97 per cento dei francesi invece confessa di non sapere chi sia Ciriaco De Mita. Quando si dice un Paese fortunato... (20 maggio 1989)
  • Gerardo Iglesias, che fu segretario generale del partito comunista spagnolo dall'82 all'88, ha lasciato l'attività politica per riprendere il suo lavoro di minatore di carbone, «l'unico modo in cui posso guadagnarmi degnamente la vita». Alcuni dirigenti del Pci, a quanto risulta, vorrebbero imitarne l'esempio, tornando al vecchio lavoro. Il difficile è trovare chi ne aveva uno. (1 giugno 1990)
  • Il giudice veneziano Casson ha convocato, per la storia del Gladio, il presidente Cossiga, e l'Italia leguleia è in subbuglio: la Costituzione, pure, si è dimenticata di precisare se il Capo di Stato può essere chiamato a rispondere, sia pure da testimone, a un qualunque magistrato. Il quale però ha ora la fotografia su tutti i giornali. E tutti possono ammirarla chiedendosi che cosa passa in quella testa, la testa di Casson. (10 novembre 1990)
  • Gli studenti italiani manifestano rumorosamente per la pace e contro la guerra. La guerra, diceva Clemenceau è una cosa troppo seria per lasciarla fare ai militari. Ma anche la pace è una cosa troppo seria per lasciarla fare ai pacifisti. (20 gennaio 1991)
  • Occupandosi – tra tanto Golfo – del Festival di Sanremo il Tg3 ci ha dato, finalmente, ieri sera, una notizia credibile: il livello delle canzoni, ha detto, è destinato a salire. Infatti: sentite le prime è impossibile che scenda. (1 marzo 1991)
  • Da un'indagine risulta che il 41,9% degli italiani non considera illecito l'assenteismo dal lavoro e che il 41,3% non considera peccato le infedeltà coniugali. La coincidenza delle due cifre spiega in che modo gli statali impiegano il tempo che dovrebbero dedicare all'ufficio. (3 ottobre 1991)
  • A quest'ora Padre Balducci è di fronte al Supremo Giudice nel quale affermava di credere. Almeno a Lui dovrà spiegare non ciò che diceva contro la Chiesa, ma perché lo diceva travestito da frate. (26 aprile 1992)
  • Nell'ultima tornata presidenziale è emerso, con un bel pacchetto di 20 voti, Aldo Aniasi. Finalmente. In questo imperservare di tangenti e bustarelle, era ora che qualcuno si ricordasse di lui. (24 maggio 1992)
  • Per sfatare le malevole dicerie su certe bestie, il presidente degli «animalisti» italiani ha offerto un premio di 200 milioni a chi potrà dimostrare che i corvi scrivono lettere anonime e che le talpe fanno le spie. È vero: di simili casi non ne conosciamo. Ma di somari che fanno i presidenti, ne conosciamo parecchi. (5 luglio 1992)
  • Dopo le invettive e i clamori da cui il presidente del consiglio Amato è stato accolto in Senato per la sua insensibilità alla crisi morale che investe il Paese, il dibattito sulla medesima si è svolto, a Montecitorio, in un'aula deserta. Sì, una crisi morale, per la nostra classe politica esiste: lo dimostra il vuoto in cui l'ha lasciata cadere. (14 marzo 1993)
  • «I socialisti – ha detto l'ex ministro della Difesa Salvo Andò – devono andare tutti nudi verso la meta di un nuovo sistema politico». Come faranno senza le tasche? (24 maggio 1993)
  • Il candidato del Psi per le elezioni a sindaco di Roma sarà Niccolò Amato. Assennata scelta. Ex direttore delle carceri, Amato è certamente il più qualificato a rappresentare quel partito. (23 settembre 1993)
  • Giovedì sera annuncio a sorpresa di Emilio Fede nel suo Tg4: «Adesso – ha detto – voglio parlarvi di informazione». C'è sempre una prima volta. (8 gennaio 1994)
  • Secondo un sondaggio della Diacron (gruppo Fininvest), l'82 per cento dei lettori del «Giornale» sarebbe schierato con Berlusconi. Vero. Almeno com'è vero che Berlusconi diventerà presidente del Consiglio. (12 gennaio 1994)

La parola ai lettori – rubrica

  • I tennisti italiani hanno disputato la finalissima di Coppa Davis a Praga, e nessuno ha battuto ciglio. Le squadre di calcio italiane frequentano gli stadi dell'Est, a cominciare da quelli russi, e i puristi della democrazia non ci trovano nulla a ridire. Ma per l'Uruguay – che con i suoi tre milioni di abitanti e la sua posizione geografica non mi pare possa essere considerato una minaccia troppo grave alla libertà dei Paesi democratici – c'è puntuale la protesta. Come se l'Uruguay potesse invadere, espandersi, insidiare, inviare – direttamente o indirettamente – eserciti di mercenari in mezzo mondo, e l'Unione Sovietica no. Possiamo capire gli intransigenti della democrazia: ma possiamo soltanto disprezzare i farisei che hanno l'indignazione dimezzata. Si calmino Bruno Conti e Pruzzo. Né l'Uruguay, né il suo regime, meritano tante ansie e tanta ostilità. Mosca è più vicina – lo sanno bene i polacchi – e Kabul anche. (31 dicembre 1980)
  • Non abbiamo mai «coperto», come si usa dire, questo nostro socio (che ha il 37, non il 36% del Giornale), anche perché non vediamo da cosa dovremmo coprirlo. Berlusconi non è né un politico né un gerarca civile o militare, e non svolge nessuna pubblica funzione incompatibile con l'appartenenza alla massoneria. È un privato imprenditore e cittadino che quando fa una balordaggine (e l'iscrizione alla P2 lo è) la fa a proprio rischio e pericolo. Come lei avrà visto, il suo coinvolgimento nella P2 non ci ha impedito di dire, di Gelli e della sua banda, tutto il male che ne pensiamo. (31 maggio 1981)
  • In tutti questi anni che è stato con noi, [Silvio Berlusconi] si è sempre comportato nella maniera più signorile, ed anche in questa circostanza ci ha dato le più ampie garanzie. (14 aprile 1987)
  • Nel panorama sudamericano il Cile è oggi uno di quei paesi economicamente più solidi e con maggior progresso, tanto da meritare gli elogi del Fondo monetario internazionale. Ma la postilla impone a sua volta una precisazione. È più facile fare il risanamento economico monetario in Cile, dove i sindacati sono inesistenti o impotenti, che non in Argentina, dove il sindacato incalza il governo e pretende aumenti salariali il cui ritmo sia adeguato al ritmo dell'inflazione. [...] Pinochet è quello che è. Il suo plebiscito per la Costituzione del 1980 fu indetto in circostanze che gli tolgono ogni valore. E gli inizi del regime militare furono sanguinari. Però il Cile di oggi ha un livello di libertà e di dialettica politica – nonostante Pinochet – che tanti paesi del Terzo mondo vezzeggiati dai nostri democratici dovrebbero invidiargli. Come ha osservato un lettore, né l'Etiopia né lo Zaire né la Siria, né il Nicaragua avrebbero tollerato corrispondenze come quelle che gli inviati della Rai diffondono, in diretta dal Cile. (16 aprile 1987)
  • Mai le nostre prese di posizione su problemi e personaggi sono state non dico condizionate, ma influenzate dalle personali amicizie o preferenze di Berlusconi. Per la verità, l'editore chiese una volta a titolo di favore, un «occhio di riguardo» per la sua creatura prediletta. Non la televisione, come i lettori saranno stati forse indotti a pensare, ma il Milan. Sottoposi questa sommessa istanza alla redazione sportiva. La risposta fu una lettera collettiva di dimissioni. Caso chiuso. Da allora rinuncio a leggere le cronache delle partite del Milan, per non dovermi dispiacere del dispiacere che ne prova probabilmente Berlusconi. (17 aprile 1988)
  • Come già ho scritto, e quì mi piace ripetere, la designazione di Cossiga al Quirinale fu la scelta dell'uomo giusto al posto sbagliato. Sappiamo benissimo chi la volle. Ma sappiamo altrettanto bene che fu avallata anche da quegli uomini e partiti che ora si scagliano contro di lui e lo accusano, apertamente o copertamente, di fellonia. La classe politica, nella quale egli ha militato da sempre e che quindi da sempre lo conosceva, doveva sapere che l'onesto (perché tale è) Cossiga non era uomo da Quirinale. Eppure, per i suoi sporchi giochi di potere, ce lo mandò. Ora dovrebbe sentire il dovere di difenderlo dagli sciacalli che lo attaccano da tutte le parti. (22 dicembre 1990)

La Voce

  • Uscendo dal Giornale, io feci a me stesso, ma pubblicamente, un giuramento: «Mai più un padrone». Quì padroni non ce ne sono. La proprietà è ripartita fra alcune centinaia di azionisti, di cui nessuno può, per statuto detenere più del 4 per cento. Fra di essi, e per primi, ci siamo stati tutti noi: redattori, impiegati, fattorini, autisti. [...] Per questa sua pulviscolarità, il nostro azionariato è stato definito, nei quartieri alti della Finanza, «straccione». La qualifica non ci dispiace: coi tempi che corrono, meglio stare tra gli stracci che tra le tangenti. (22 marzo 1994)
  • Di insurrezione generale non c'era bisogno, il 25 aprile, perché il Terzo Reich non esisteva più. Se l'insurrezione generale fosse avvenuta avrebbe dovuto avere come primo obiettivo, a Milano, il quartier generale delle SS all'Hotel Regina. Le SS furono invece lasciate del tutto tranquille, mentre si provvedeva a trascinare in piazzale Loreto, per la fucilazione Achille Starace [...]. Non sono contro la Resistenza, anzi: sono contro la retorica, inguaribile vizio italiano. Proprio questa retorica ha fatto sì che un sindaco democristiano di Roma, in un manifesto dedicato anni or sono alla liberazione della città non accennasse nemmeno con una parola agli Alleati. Ed ha fatto sì che in quest'ultimo 25 aprile si sia parlato ai giovani che affollavano piazza del Duomo a Milano o che stavano davanti ai televisori, ingannandoli – ossia raccontando loro che i tedeschi erano stati sconfitti dai partigiani, e che da questi l'Italia era stata liberata. Se questa è la «memoria storica» evocata da tanti commentatori, stiamo freschi. (28 aprile 1994)
  • Intorno a Berlusconi vedo agitarsi una falange di Starace, convinti non meno di Achille che il padrone (e con lui, si capisce, la carriera) si serve sbattendo i talloni e gridando: «Forza, Italia!». Di tutto questo, intendiamoci, Berlusconi non può essere tenuto responsabile. Gli Starace – a differenza di Mussolini che si scelse il suo vedendolo com'era – gli sono germinati e gli pullulano intorno d'irresistibile forza propria cercando di sopraffarsi in una gara di servilismo, che trova soprattutto nel video la propria arena. E per ora la gente pensa: «Povero Cavaliere, da chi è circondato». Ma prima o poi – forse più prima che poi – comincerà a dire anche di lui: «Vedi un po' di chi si circonda». (18 giugno 1994)
  • Il presidente della Repubblica non può contrattare. Ma deve trovare qualcuno che abbia l'autorità morale di farlo. Un kamikaze. E di kamikaze ne vediamo uno solo che, non avendo veste politica, né alcuna ambizione di indossarla, può anche affrontare una simile responsabilità: Di Pietro. Ma temiamo che l'idea sia soltanto nostra. [...] Una delle pochissime cose che nella presente situazione ci confortano è di vedere in Quirinale un difensore delle Regole come lui. Vorremmo solo sommessamente avvertirlo che l'Italia che noi conosciamo somiglia poco all'immagine angelica ch'egli ce ne ha fornito la sera di Capodanno, e che anche quando vi avremo messo a posto tutte le Regole, ne mancherà sempre una: quella che dall'interno della sua coscienza fa obbligo ad ogni cittadino di regolarsi secondo le regole. (3 gennaio 1995)
  • Noi volevamo fare, da uomini di Destra, il quotidiano di una Destra veramente liberale, ancorata ai suoi storici valori: lo spirito di servizio (quello vero, taciuto e praticato), il senso dello Stato, il rigoroso codice di comportamento che furono appannaggio dei suoi rari campioni da Giolitti a Einaudi a De Gasperi. Insomma, l'organo di una Destra che oggi si sente oltraggiata dall'abuso che ne fanno gli attuali contraffattori. Questa Destra fedele a se stessa in Italia c'è. Ma è un'élite troppo esigua per nutrire un quotidiano. (12 aprile 1995)

====Il realista inviso agli snob

articolo su La Voce, 24 aprile 1994

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  • Fino ad una decina di anni or sono, la maggioranza degli americani erano convinti che, se Nixon fosse rimasto nella Storia del loro Paese – cosa che al loro orecchio suonava come un obbrobrio – vi sarebbe rimasto solo per il Watergate, cioè appunto per l'obbrobrio. Negli ultimi tempi tutto si è rovesciato: l'obbrobrio non è stato più il Watergate, ma la campagna scandalistica che lo aveva provocato. Gli stessi protagonisti che l'avevano montata – Bob Woodward e Carl Bernstein del Washington Post – ne riconobbero le forzature e fecero atto di contrizione. Non avevano inventato nulla, ma avevano deformato tutto. [...] La sorte è stata, tutto sommato, clemente con Nixon dandogli il tempo di vedere questo capovolgimento.
  • Ultimamente era ricevuto, ed anzi continuamente sollecitato alla Casa Bianca, dove lo si accoglieva come lo Elder Statesman, lo statista anziano da consultare come un vecchio saggio sui problemi difficili. Fu a lui che Bush si rivolse per riallacciare un dialogo con Pechino dopo la rottura seguita al fattaccio di Tienanmen. E lui a Pechino lo riallacciò: i cinesi non avevano dimenticato che quel dialogo erano stati Nixon e Kissinger ad aprirlo, quando l'America aveva deciso di chiudere l'avventura del Vietnam in cui Kennedy e Johnson l'avevano malaccortamente cacciata. Ma anche Clinton è ricorso alla sua esperienza per capire cosa succedeva in Russia e trarne qualche insegnamento. Nixon andò a Mosca, e ne tornò con cattivi presagi sulla sorte di Eltsin che i successivi avvenimenti hanno confermato.
  • Non era un uomo «simpatico», e soprattutto non aveva nulla che potesse sedurre l'America dei salotti e della intellighentzia, che gli uomini politici li misurano a modo loro, mai quello giusto. Scambiarono per un grande intellettuale Kennedy, che in vita sua aveva visto migliaia di film, ma mai letto un libro. E prendevano Nixon, che di libri ne ha letti ed ha continuato a leggerne (ed a scriverne, niente male), fino all'ultimo giorno per una specie di Bossi californiano, rozzo e triviale. [...] Ma forse quello che più infastidiva gli americani era la renitenza di Nixon ad appelli e richiami tanto più sonori quanto più vacui, come «la nuova frontiera» e simili. Nixon era un professionista della politica, uno dei pochissimi che l'America abbia mandato alla Casa Bianca. Non andava per sogni e per versetti del Vangelo. Conosceva il suo Bismarck, il suo Disraeli, e credo anche il suo Machiavelli che in America basta nominarli per finire scomunicati. Per questo lo consideravano un mestierante, e per questo si era scelto come consigliere un altro mestierante, l'ebreo tedesco Kissinger. Furono questi due uomini che ridiedero all'America la leadership nella politica estera coinvolgendo nel gioco la Cina e scavandone il solco da Mosca. I successori di Nixon, e specialmente Reagan, vissero in gran parte di questa eredità.

I conti con me stesso

Incipit

Una telefonata da Milano m'informa che Longanesi è morto. È stato colpito dall'infarto davanti al suo tavolo di lavoro, su cui era spiegata una mia lettera di dieci giorni fa, che cominciava così: «Caro Leo, stanotte ho sognato ch'eri morto...». (27 settembre 1957)

Citazioni

  • Tutta la mia vita è stata contesa fra la noia di vivere insieme e la paura di vivere solo. (4 ottobre 1957)
  • Più approfondisco questo tema delle regioni (sono a Milano per questo), e più mi sgomenta il doverne scrivere. Ci vuol poco a capire che questi regionalisti lombardi perseguono, consapevolmente o inconsapevolmente, un piano secessionista cisalpino. E, una volta che ne abbiano lo strumento, riusciranno a realizzarlo. Non per nulla Bassetti parla già non più di «regione lombarda», ma di «regione padana», di cui il resto d'Italia non sarebbe che un'appendice. Se ce la fanno (e ce la faranno), addio Risorgimento! Non era che una finzione, d'accordo, e in pratica ha fallito. Ma con che lo sostituiremo? (26 settembre 1972)
  • Volo a Lussemburgo sul solito bireattore di Berlusconi, che ci accompagna, felice di esibirsi e di esibire il suo status in una cerimonia internazionale. La medaglia d'oro (ma è proprio d'oro?) me la consegna Gaston Thorn, capo del governo lussemburghese. Berlusconi riempie il suo taccuino di indirizzi: quelli di tutte le personalità che ha incontrato. È il vero climber che approfitta di tutto e non butta via nulla. (23 maggio 1977)

I protagonisti

  • Nel settembre di quell'anno [1956] il partito lo spedì [Gian Carlo Pajetta] a Mosca insieme a Pellegrini e a Negarville per sentire direttamente da Kruscev come ci si doveva comportare nella crisi, ormai aperta, dell'antistalinismo. Kruscev li accolse affabilmente, li invitò a cena. E qui, trascinato da bocconi e libagioni ad una espansiva euforia come spesso gli capita, a un certo punto disse: «Beh, ora vi voglio raccontare come strangolammo Beria». E descrisse l'agguato che gli avevano teso al Cremlino, come gli erano saltati addosso e come gli avevano serrato la gola con le mani fino alla soffocazione. Lo descrisse ridendo allegramente, forse senz'accorgersi del pallore che soffondeva il volto dei suoi ospiti, o per lo meno quelli di Pajetta e di Negarville.
    L'indomani li convocò nuovamente e, come non ricordando affatto ciò che gli aveva raccontato la sera prima, disse loro in tono solenne: «Beh, ora vi farò sentire il processo di Beria registrato sul nastro». E glielo fece sentire davvero come lo avevano inventato post mortem, con la voce del defunto falsificata.
    Quando si ritrovarono fra loro, Negarville e Pajetta si guardarono con gli occhi pieni di lacrime. «Ma allora – dissero –. Ma allora...». E non aggiunsero altro. (pp. 66-67)
  • [Su Anna Magnani] Ci sarebbe da scrivere un trattato sul modo di usare Anna. La prima precauzione da prendere è quella di non farla ritrovare in mezzo a estranei. Timida com'è, pur dopo un'esistenza trascorsa sotto i flashes, la gente la raggela e la chiude in un mutismo ostile o l'aizza ad atteggiamenti protervi. Delle poche persone che le ho presentato, l'unica che la sedusse immediatamente fu il mio collega Augusto Guerriero, perché il discorso cadde sui cani e sui gatti: e questo è un argomento su cui il cuore di Anna si scioglie e la mente le si ottenebra. Si mise in testa che noi due, con un articolo, potevamo far riformare la legge sulla protezione degli animali. E invano cercammo di dimostrarle che il problema non era di leggi, ma di costume. Non sentì ragioni. Dovemmo prometterle l'articolo (che poi infatti scrivemmo). (pp. 177-178)
  • [Su Ignazio Silone] Leggendo i suoi primi romanzi, Fontamara, Pane e vino, Il seme sotto la neve, e pur ammirandoli, ero caduto in abbaglio sull'autore. Lo avevo preso per uno di quegl'industriali dell'antifascismo che, riparati all'estero, avevano trovato nella universale avversione alla dittatura una comoda scorciatoia al successo dei libri di denunzia. Lo consideravo insomma un profittatore del regime a rovescio (come del resto ce ne sono stati). E una conferma mi era parso di vederla nel fatto che finito, col fascismo, l'antifascismo, parve finito anche il narratore Silone.
    Poi vennero Una manciata di more, Il segreto di Luca, La volpe e le camelie. Ma vennero soprattutto alcuni saggi politici che mi costrinsero a ricredermi. Ed era proprio questo che non riuscivo a perdonargli. Mi era antipatico non per i suoi, ma per i miei errori. Più lo conoscevo attraverso i suoi scritti, e più dovevo constatare che non solo egli non somiglia affatto al personaggio che m'ero immaginato, ma che anzi ne rappresenta la flagrante contraddizione. (pp. 180-181)
  • [Su Uscita di sicurezza] Come documento umano, non ne conosco di più alti, nobili e appassionati. Fenomeno unico, o quasi unico, fra gli sconsacrati del comunismo che di solito non superano mai più il trauma e trascorrono il resto della loro vita a ritorcere l'anatema, Silone non recrimina. Egli rifiuta i grintosi e uggiosi atteggiamenti del moralista, o meglio ne è incapace. Domenicano con se stesso, è francescano con gli altri, e quindi restio a coinvolgerli nella propria autocritica. Cerca di metterne al riparo persino Togliatti; e se non ci riesce che in parte, non è certo colpa sua. Qui non c'è che un accusato: Silone. E non c'è che un giudice: la sua coscienza. (pp. 186-187)
  • Noi crediamo di scoprire dei modelli. In realtà non scopriamo che degli antenati. Cassola s'illude di aver imparato da Joyce quello che già sapeva. Joyce gli avrà fornito, al massimo, qualche mezzo tecnico per esprimerlo. Uno scrittore vero (e Cassola lo è) non cerca in un altro scrittore che se stesso. (p. 207)
  • [Su Enrico Mattei] Egli amava solo il potere, e l'amore del potere esclude tutti gli altri. (p. 265)
  • [Su Andreotti] Andava anche, mi dicono, a messa insieme a lui [De Gasperi], e tutti credevano che facessero la stessa cosa. Ma non era così. In chiesa, De Gasperi parlava con Dio; Andreotti col prete. Era una divisione di compiti perfetta. (pp. 271-272)

Pantheon minore

Incipit

Einaudi
Avendo saputo che sollecitavo l'onore e il piacere di incontrarlo, il Presidente, che non mi aveva mai visto, trovò del tutto naturale invitarmi a colazione. «Quando vuol venire?» mi fece chiedere, «giovedì mattina, per esempio?» Giovedì voglio stappare una nuova bottiglia del mio 'barolo' e ci sarà anche la signorina Barbara Ward dell' Economist. Vino piemontese, giornalismo ed economia politica, pensa: sarebbe difficile sorprendere Einaudi in una cornice più einaudiana di questa.

Citazioni

  • [Luigi Einaudi] E in quei pochi minuti aveva ancora tante cose da dire a due giornalisti per ricordare loro, manzonianamente, che l'uomo è «buono», come dice Rousseau, ma tale può diventare solo in grazia delle buone istituzioni (in ciò consiste la sua posizione conservatrice e cattolicamente pessimistica).
  • Ingrid Bergman è forse la sola persona al mondo che non consideri Ingrid Bergman un'attrice completamente riuscita e definitivamente arrivata. (p. 195)
  • Non ho mai visto in vita mia, nemmeno nei film di cui la Bergman è protagonista, una donna così trasparentemente pulita. (p. 195)
  • Ogni buon padre di famiglia deve, al principio della giornata, sapere quanto la famiglia ha in cassa e quanto può spendere.
    Einaudi conosce a memoria le cifre dell'economia italiana, come i re che lo precedettero conoscevano a memoria i nomi e i motti dei reggimenti.
  • «Venez, mademoiselle, venez», disse Anatole France a Emma Gramatica che, poco più che ventenne, si trovò un giorno a viaggiare con lui in automobile a Palermo, e aveva paura di essere troppo ingombrante sul sedile. «Vous êtes comme les anges, qui n'ont pas de derrière!»
    Qualcosa come mezzo secolo dev'esser trascorso da allora, ed Emma somiglia un po' meno a un angelo, ma grassa non la si può dire nemmeno adesso. La vita che mena, d'altronde, non lo consentirebbe di diventaro. Alla sua età, ha girato per tre anni consecutivi, tutti i teatri dell'America del Sud, volando da Buenos Aires a Santiago, da Santiago a Lima, da Lima a Caracas, e recitando una sera in italiano e la sera dopo in spagnolo, lingua che, sino al momento di partire, ignorava totalmente. Ora è tornata per girare un film con De Sica, e sono fatiche a cui molti giovani non resistono.
  • Il fascismo trovò, tra i suoi oppositori più accaniti, Mario Missiroli, che si batté a duello con Mussolini. Egli non credette alla forza e al successo delle «camicie nere» fino al giorno in cui, mentre cercava faticosamente di salire sul tram, uno squadrista che lo incalzava, dopo avergli inflitto una serie di spintoni, non gli ebbe affibbiato, in risposta alle sue proteste, due sonori schiaffi che gli fecero volar via gli occhiali cerchiati d'oro. Mario li raccolse con dignità, vi fiatò sopra, li ripulì col fazzoletto e concluse in tono ammirativo: «Però!... Picchiano bene, veh!...»

Soltanto un giornalista

  • Da quando ho cominciato a pensare, ho pensato che sarei stato un giornalista. Non è stata una scelta. Non ho deciso nulla. Il giornalismo ha deciso per me. E questa è stata una delle mie tante fortune, posto che tutto quel che ho fatto lo debbo soprattutto a un alleato ch'è sempre rimasto al mio fianco: il caso. (p. 5)
  • Per sua disgrazia, Bontempelli fu nominato accademico d'Italia da un fascismo che puzzava già di morto. Eletto senatore nelle liste del Fronte popolare dopo la guerra, non esitò a pronunziare giudizi brucianti su chi aveva collaborato col regime. Quel voltafaccia gli costò caro, perché a un certo punto saltarono fuori le lettere che aveva scritto a Mussolini per impetrare la sua nomina: i comunisti lo scaricarono e lui cadde in un tale stato di prostrazione da morirne. (pp. 26)
  • A Salò ci fu di tutto. Ci furono le squadracce assetate di vendetta e di saccheggio che provocarono il disgusto agli stessi tedeschi. Ma anche uomini per i quali quello fu il banco di prova d'una coerenza e d'una lealtà che non possono non incuter rispetto. E l'unica ragione per la quale benedico le mie cosiddette benemerenze antifasciste è che mi han dato il diritto di difenderle. (p. 119)
  • Il 2 giugno del '46, giorno del referendum istituzionale, votai per la monarchia. Lo feci perché ritenevo fosse pericoloso recidere il tenue filo che legava l'Italia all'unica sua tradizione nazionale: quella monarchica, appunto. L'Italia non s'era "fatta da sé", come pretendeva la nostra storiografia ufficiale. Era stata fatta dalla monarchia sabauda guidata dal genio diplomatico d'un suo diplomatico, Cavour, che voleva estendere il Regno di Sardegna al Lombardo-Veneto. Se poi ci scappò fuori l'Italia, non fu grazie al contributo degl'italiani, che non ne diedero punto. Fu perché la storia dell'Europa andava verso la costituzione degli Stati nazionali, e condannava a morte quelli plurinazionali come l'Impero austriaco. [...] Al posto di quel patrimonio, sia pure modesto, cosa prometteva la Repubblica? Si presentava come depositaria dei valori della Resistenza, un mito ancora più falso di quello del Risorgimento. Che non era stata affatto, come pretendeva d'essere, la lotta d'un popolo in armi contro l'invasore, bensì una lotta fratricida tra i residuati fascisti della Repubblica di Salò e le forze partigiane, di cui l'80 per cento si batteva (quasi mai contro i tedeschi) sotto le bandiere d'un partito a sua volta al servizio d'una potenza straniera. (pp. 125-126)
  • Un'altra scelta s'era imposta, quella delle elezioni del '48. Per l'Italia era una scelta vitale: o con l'Est o con l'Ovest, ossia con i totalitarismi rossi oppure con le democrazie occidentali. Ergo, o con il Fronte popolare oppure con la Dc. E lì ebbe inizio il mio dramma, ch'è poi quello eterno del laico italiano: il quale, messo davanti al boia, vede comparire al suo fianco il prete che solo può salvarlo. (pp. 135-136)
  • Mi proposi due obiettivi, entrambi falliti: il primo era farmi intentare un processo dagli amministratori della città che attirasse l'attenzione sui pericoli che Venezia stava correndo. Il secondo era rendere pubblica la convinzione che m'ero formato: che per salvare Venezia la prima cosa da fare era sottrarla allo Stato italiano e affidarlo a un organismo internazionale come l'Onu, con le sue cospicue possibilità finanziarie e i suoi agguerriti uffici tecnici. [...] Il Comune di Venezia non aveva più nulla di veneziano, salvo la sede. A dominarlo erano gli elettori di Mestre e Marghera, che con quelli di Venezia si trovavano nella proporzione di tre a uno, e dalla loro avevano tutto: i soldi delle industrie, i sindacati e quindi anche i partiti. Decidendo di restare amministrativamente unita, Venezia ha preferito mettersi al rimorchio delle ciminiere e petroliere di Marghera, alle quali ha sacrificato il suo delicatissimo sistema idraulico. Fu allora che, con grande amarezza, feci atto di rinunzia a Venezia, convinto come ero, e come son rimasto, che una città si può salvare solo se sono i suoi abitanti a volerlo. (pp. 216-217)
  • Una sera, uscendo solo soletto dal «Giornale», mi trovai davanti il solito muro di folla tumultuante con le bandiere rosse spiegate. Dalla piazza si levò un urlo: «Tel chi el Muntanel!». In un attimo cinquanta scalmanati mi s'avventarono contro. Temendo il linciaggio, arretrai fino a trovarmi con le spalle al muro. Ma non feci in tempo a dire be' che mi ritrovai issato in spalla a una mezza dozzina d'energumeni, fra salve d'evviva. Erano i tifosi del Torino che quel giorno [16 maggio 1976] aveva vinto lo scudetto, e le bandiere non eran rosse, ma granata. E siccome i cronisti sportivi del «Giornale» erano sempre stati favorevoli al Torino, m'acclamavano come un loro idolo. (p. 241)
  • La Dc era il partito dei maneggi e dell'inefficienze. Ma se avesse perso il 4 o il 5 per cento dei suoi voti, il partito di maggioranza relativa destinato a formare il nuovo governo sarebbe diventato quello comunista. Ch'era ancora molto pericoloso. Perché è vero che in Italia c'era Berlinguer, ma io sapevo bene che col comunismo d'allora poteva ancora succedere di tutto: bastava un cambiamento al vertice e un Berlinguer poteva diventare un Dubček come un Ulbricht. Il «Giornale» era certamente laico, ma prima di essere laico era italiano, e cercava d'operare con qualche senso di responsabilità. E negli anni Settanta solo gl'irresponsabili potevano augurarsi il crollo della Dc, cui eravamo condannati anche perché la cosiddetta Alleanza laica, l'accordo fra Pli, Pri e Psdi, non sortì mai i numeri per sostituirvisi. (pp. 243-244)
  • Ci fu un'unica battaglia sulla quale il «Giornale» si trovò allineato con Craxi e il nostro editore: quello per la libertà d'antenna. Battaglia sacrosanta. Berlusconi è tutt'altro che un idealista disinteressato e nessuno sa agire come lui aggirando, quando non calpestando, le regole. Ma i panni nobili coi quali i difensori della Rai rivestivano la loro offensiva politico-giudiziaria erano grotteschi. Se il peccato di Berlusconi stava nell'essere troppo amico del Psi, quello della Rai era d'essere troppo amica di tutti i partiti. A fornirci il destro furono poi i pretori coi loro interventi oscurantisti, peraltro prontamente sventati dai decreti di Craxi. E quindi la crociata dell'etere libero, che rientrava fra l'altro nella nostra tradizione antistatalista, divenne una campagna contro il "pretore selvaggio", che con i suoi abusi toglieva ogni certezza del diritto al cittadino. (pp. 275-276)
  • Le vere novità erano nate fuori dal Palazzo: come la Lega di Umberto Bossi. Che all'inizio anche il «Giornale», come molti altri, sottovalutò. Come si faceva a prender sul serio un invasato che nutriva le sue invettive di sfondoni storici e grammaticali da far accapponare la pelle? [...] Che Roma fosse ladrona, era indubitabile. E l'avversione per la burocrazia parassitaria e per il meridionalismo piagnone e sprecone andava a nozze con le tradizioni del «Giornale». Bossi quindi incarnava un sentimento molto diffuso anche fra i nostri lettori, una protesta genuinamente qualunquista che, per certi versi, all'inizio anche noi appoggiammo. Ma dovemmo prenderne le distanze quando Bossi cominciò a condire le sue contumelie contro il Palazzo con propositi secessionisti. (pp. 279-280)
  • Con Berlusconi, tuttavia, poi feci pace. Fu lui a telefonarmi: forse, aveva captato in qualche mio articolo un'ombra di rimpianto per il vecchio amico. Era il '96 e dopo il ribaltone le cose per lui si mettevano di male in peggio. [...] Così, una sera mi ritrovai di nuovo seduto alla sua mensa ad Arcore. [...] Riparlammo senza rancore dei nostri trascorsi. Gli domandai quale garanzia avesse ricevuto da D'Alema sulle sue aziende in cambio dell'opposizione inesistente che gli assicurava. Rise. «Ma perché, ora che hai sistemato i tuoi affari, non ti chiami fuori dalla politica?» gli chiesi. «È una parola» mi rispose rabbuiandosi. «I giudici non obbediscono neppure a D'Alema». E lì capii quale era, ormai, la vera sostanza del suo dramma. (p. 312)
  • Se anch'io sono diventato europeista, è per disperazione: l'Europa è forse l'unica possibilità di sopravvivere per noi italiani, che come italiani non siamo riusciti a vivere. Questo è sempre stato l'europeismo degl'italiani di più alta coscienza, a partire da De Gasperi, che fu il primo a capire i rischi d'un Italia lasciata in balìa degl'italiani. (p. 315)
  • Pur fra tante fortune, purtroppo a me la sorte ha riservato di portarmi nella tomba le due cose che ho più amato: il mio mestiere e il mio Paese. Che cosa sia diventato il primo, annientato da computer e televisione, è sotto gli occhi di tutti. Quanto al secondo, la cancrena è ormai inarrestabile e la decomposizione sta avvenendo per dissoluzione di quel poco che resta dello Stato. E dico decomposizione, non secessione. La secessione si fa anche con la violenza, e dove lo troviamo oggi un solo plotone di soldati disposto a imbracciare le armi pro o contro l'Unità dello Stato? Che, se resta ancora in piedi, è solo perché non ha neppure la forza di cadere. Quello di rinunziare alla nazione poi, è un sacrificio che non saprei compiere, anche se razionalmente mi rendessi conto ch'è necessario, oppure inevitabile. E ringrazio l'anagrafe che mi esclude dal problema. (p. 316)

Storia d'Italia

Per approfondire, vedi: Indro Montanelli e Roberto Gervaso e Indro Montanelli e Mario Cervi.

L'Italia giacobina e carbonara

  • I cinici sono tutti moralisti, e spietati per giunta.

L'Italia del Risorgimento

  • [...] Anzani, il più serio e autorevole degli esuli italiani, che aveva combattuto per la libertà in Grecia e in Spagna. Le sue parole avevano gran peso anche perché fra tutti quei chiacchieroni, ne pronunziava poche. (p. 223)
  • C'era il malinconico ex prete Sirtori, che della guerra aveva fatto una mistica e sul campo sembrava che officiasse. (pp. 506-507)

L'Italia dei notabili

  • [Margherita di Savoia] Era una vera e seria professionista del trono, e gl'italiani lo sentirono. Essi compresero che, anche se non avessero avuto un gran Re, avrebbero avuto una grande Regina.
  • [Carmine Crocco] In poco tempo era diventato il più temuto e rispettato capobanda della Lucania non soltanto per il suo coraggio, ma anche per la sua intelligenza di guerrigliero [...]. Fu in questo arengo che Crocco venne riconosciuto Generalissimo non solo per l'autorità che gli conferivano le sue gesta, ma anche perché, sebbene mezzo analfabeta, possedeva un'oratoria immaginosa e apocalittica. (pp. 85-89)
  • [Giustino Fortunato] Il più grande e illuminato studioso del Meridione. (p. 86)

L'Italia di Giolitti

  • [Francesco Saverio Nitti] Incarnava il tipo del notabile meridionale, colto, brillante, scettico e alquanto egocentrico. [...] La sua specialità era il problema del Mezzogiorno, di cui fu tra i primi seri studiosi e che gli fornì anche la base elettorale. [...] Sul livello medio della classe politica di allora, egli faceva spicco per preparazione, equilibrio e lucidità, ma anche per una certa propensione ad attribuirsi il monopolio di queste virtù.

Storia di Roma

Incipit

Non sappiamo con precisione quando a Roma furono istituite le prime scuole regolari, cioè «statali». Plutarco dice che nacquero verso il 250 avanti Cristo, cioè circa cinquecent'anni dopo la fondazione della città. Fino a quel momento i ragazzi romani erano stati educati in casa, i più poveri dai genitori, i più ricchi dai magistri, cioè da maestri, o istruttori, scelti di solito nella categoria dei liberti, gli schiavi liberati, che a loro volta erano scelti fra i prigionieri di guerra, e preferibilmente fra quelli di origine greca, che erano i più colti.

Citazioni

  • Non ho scoperto nulla, con questo libro. Esso non pretende di portare "rivelazioni", nemmeno di dare una interpretazione originale della storia dell'Urbe. Tutto ciò che qui racconto è già stato raccontato. Io spero solo di averlo fatto in maniera più semplice e cordiale, attraverso una serie di ritratti che illuminano i protagonisti in una luce più vera, spogliandoli dei paramenti che fin qui ce li nascondevano. (introduzione)
  • Se riuscirò ad affezionare alla storia di Roma qualche migliaio di italiani, sin qui respinti dalla sussiegosità di chi gliel'ha raccontata prima di me, mi riterrò un autore utile, fortunato e pienamente riuscito. (introduzione)
  • Sull'esattezza di quel che Livio riferisce facciamo le nostre riserve, specie là dov'egli mette in bocca ai suoi personaggi interi discorsi che somigliano più a Livio che a loro. La sua è una storia di eroi, un immenso affresco a episodi, e serve più a esaltare il lettore che a informarlo. Roma, a dargli retta, sarebbe stata popolata soltanto, come l'Italia di Mussolini, da guerrieri e navigatori assolutamente disinteressati, che conquistarono il mondo per migliorarlo e moralizzarlo. Gli uomini, secondo lui, sono divisi in buoni e cattivi. A Roma c'erano solamente i buoni, e fuori di Roma solamente i cattivi. Anche un grande generale come Annibale diventa, sotto la sua penna, un comune mariuolo. Ciò non toglie che la storia di Livio, costata cinquant'anni di fatiche a un autore che si dedicò soltanto ad essa, resti un gran monumento letterario. Forse il più grande fra quelli, piuttosto mediocri, eretti sotto il segno di Augusto. (cap. 30, Orazio e Livio)
  • Purtroppo la pace, per ottenerla, bisogna essere in due a volerla. (cap. 37, I Flavi)
  • Le rivoluzioni vincono non in forza delle loro idee, ma quando riescono a confezionare una classe dirigente migliore di quella precedente. E il Cristianesimo era riuscito proprio in questa impresa. (cap. 47, Il trionfo dei cristiani)
  • Costantino fu uno strano e complesso personaggio. Faceva gran scialo di fervore cristiano, ma nei suoi rapporti di famiglia non si mostrò molto ossequente ai precetti di Gesù. Mandò sua madre Elena a Gerusalemme per distruggere il tempio di Afrodite che gli empi governatori romani avevano elevato sulla tomba del Redentore, dove, secondo Eusebio, fu ritrovata la croce su cui era stato suppliziato. Ma subito dopo mise a morte sua moglie, suo figlio e suo nipote. (cap. 47, Il trionfo dei cristiani)
  • Come tutti i grandi Imperi, quello romano non fu abbattuto dal nemico esterno, ma roso dai suoi mali interni. (cap. 51, Conclusione)
  • Una religione conta non in quanto costruisce dei templi e svolge certi riti; ma in quanto fornsice una regola morale di condotta. Il paganesimo questa regola l'aveva fornita. Ma quando Cristo nacque, essa era già in disuso, e gli uomini, consciamente o inconsciamente, ne aspettavano un'altra. Non fu il sorgere della nuova fede a provocare il declino di quella vecchia; anzi, il contrario. (cap. 51, Conclusione)
  • Il dispotismo è sempre un malanno. Ma ci sono delle situazioni che lo rendono necessario. (cap. 51, Conclusione)

Explicit

Mai città al mondo ebbe più meravigliosa avventura. La sua storia è talmente grande da far sembrare piccolissimi anche i giganteschi delitti di cui è disseminata. Forse uno dei guai dell'Italia è proprio questo: di avere per capitale una città sproporzionata, come nome e passato, alla modestia di un popolo che, quando grida «Forza Roma!», allude soltanto a una squadra di calcio [la Roma].

Citazioni su Indro Montanelli

  • C'è davvero qualcosa di singolare nel modo in cui è venuta formandosi la memoria della Repubblica, nel modo in cui tale memoria è stata ed è elaborata dalla cultura ufficiale del Paese. Per molti decenni, ad esempio, a quanto accaduto dal 1943 al '45 fu vietato dare il nome che gli spettava, il nome cioè di guerra civile. Parlare di guerra civile era giudicato fattualmente falso, e ancor di più ideologicamente sospetto. Bisognava dire che quella che c'era stata era la resistenza, non la guerra civile; di guerra civile parlavano e scrivevano, allora, solo i reduci di Salò, i nostalgici del regime e qualche coraggioso giornalista o pubblicista di rango come Indro Montanelli, che mostravano così da che parte ancora stavano. Le cose andarono in questo modo a lungo. Finché, all'inizio degli anni Novanta, come si sa, uno storico di sinistra, Claudio Pavone, scrisse un libro sul periodo 1943-'45 che si intitolava precisamente Una guerra civile: solamente da allora tutti abbiamo potuto usare senza problemi questa espressione, ben inteso non cancellando certo la parola resistenza. (Ernesto Galli della Loggia)
  • È uno che riesce a spiegare agli altri quello che non capisce nemmeno lui. (Mario Missiroli)
  • È vero che ha cambiato parere politico più volte, ma sempre perché profondamente preoccupato per le sorti del paese. Ma Indro ha cambiato parere sempre meno di quei giornalisti che da Lotta Continua sono passati a Comunione e Liberazione per approdare infine a dirigere quotidiani di Stato. Senza contare tutti coloro che da stalinisti o maoisti sono diventati prima antimarxisti e ora clintoniani: Montanelli ragiona, loro vogliono avere sempre ragione. (Fausto Gianfranceschi)
  • Io mi sono limitato ad adottare la sua formula giornali­stica. Ma l'ho realizzata meglio perché mi sono sempre esposto, ci ho messo la faccia. Lui invece era come Veltroni: "Sì, ma an­che". Non si schierava nettamente, il suo editoriale era così in chiaroscuro che alla fine non capivi mai se fosse chiaro o scuro. Il che non significa che non resti il migliore di tutti noi. Ho venduto più di lui solo perché a me la gente non fa schifo. (Vittorio Feltri)
  • Mi sono sentito in imbarazzo per lui, e il mio primo pensiero è stato il rifiuto - «no, povero Montanelli» - quando all'ingresso dei giardini di via Palestro mi sono trovato davanti alla sua statua, al punto che ho pensato che ci sono vandali che distruggono e vandali che costruiscono, e che anzi, per certi aspetti, il vandalismo che crea è ben peggiore, perché tenta di disarmarti con le sue buone intenzioni. Dunque era di mattina, molto presto, e i giardini erano vuoti, al sole. Ebbene in questo vuoto, la statua mi è apparsa all'improvviso: una figurina in gabbia che non ha niente a che fare con Montanelli, se non perché lo offende anche fisicamente, lui che era così "verticale", e che ci invitava a buttare via «il grasso» e la retorica monumentale. Il giornalista che ogni volta si ri-definiva in una frase, in un concetto, in un aforisma, in una citazione, è stato per sempre imprigionato in una scatola di sardine. Perciò ho provato il disagio che sempre suscita il falso, la patacca, la similpelle che non è pelle, perché non solo questo non è Montanelli, come ci ha insegnato Magritte che dipinse una pipa e ci scrisse sotto "questa non è una pipa". Il punto è che questa non è neppure una statuta di Montanelli, ma di un montanelloide in bronzo color oro, che ha la presunzione ingenua e goffa di imprigionare il Montanelli entelechiale, il Montanelli che era invece l'asciuttezza, era il corpo più "instatuabile" del mondo, troppo alto, troppo energico, troppo nervoso, incontenibile nello spazio e nel tempo com'è l'uomo moderno, che è nomade e ha un'identità al futuro. Era il più grande nemico delle statue il Montanelli che sempre ci sorprendeva, fascista ma con la fronda, conservatore ma anarchico, con la sinistra ma di destra, un uomo di forte fascino maschile che tuttavia non amava raccogliere i trofei del fascino maschile, ingombrante ma discreto, il solo che nella storia d' Italia abbia rifiutato la nomina a senatore a vita perché, diceva, «i monumenti sono fatti per essere abbattuti», come quello di Saddam, o di Stalin o di Mussolini. Come si può fare una statua ingombrante e discreta? Come si può fare un monumento all'antimonumento? (Francesco Merlo)
  • Montanelli, un misantropo che cerca compagnia per sentirsi più solo. (Leo Longanesi)
  • Recentemente sono stato insignito del Premio Montanelli alla carriera che dovrebbe essermi consegnato a ottobre a Fucecchio, a meno che nel frattempo non mi sia revocato per indegnità, sempre in nome della libertà di informazione. Sono certo che il vecchio Indro non avrebbe condiviso nemmeno un fonema del mio necrologio sul Mullah [Omar], ma sono altrettanto certo che non si sarebbe mai sognato di bloccarlo. Caso mai ci avrebbe riso su, considerandolo una provocazione, anche se provocazione non era. Perché Montanelli era un vero liberale. Quando i liberali esistevano ancora. (Massimo Fini)
  • So solo che Montanelli è fatto così: un maestro di giornalismo che ogni tanto s'impenna con qualcuna delle sue bizzarrie. (Giorgio Bocca)
  • Una volta, parecchi anni fa, Indro Montanelli, dicendosi disgustato della morbidezza e della mollezza della Democrazia Cristiana, che ammorbidiva, incorporava, estenuava e alla fine innocuizzava qualsiasi opposizione, togliendole ogni soddisfazione e dignità, mi mostrò una fotografia, incastonata in una cornicetta d'argento, che teneva, a mo' di santino, come altri fanno con le immagini della madre o della moglie e dei figli, sulla sua scrivania, al «Giornale». Con sorpresa vidi che si trattava di Stalin. «Con questo ci sarebbe stato gusto, a battersi», disse. (Massimo Fini)

Enzo Biagi

  • A Indro Montanelli devo molto: intanto, l'idea che chi conta è il pubblico. Poi la necessità di essere chiari, di far anche fatica, perché chi legge non ha voglia di impegnarsi troppo, e solo se uno si chiama Joyce può essere difficile.
  • Montanelli se n'è sempre fregato delle critiche, io molto meno, ho un carattere permaloso, spesso non ho resistito alla tentazione di rispondere a chi mi attaccava. Indro mi sgridava, diceva a mia moglie di tenermi calmo, che non ne valeva la pena, che erano tutte bischerate. [...] Per lui il buon risultato era il sorriso di un passante, l'oste che gli trovava il tavolo. Qualcuno si chiedeva che cos'avesse di speciale. A pensarci bene, niente. Scriveva degli articoli che erano letti e dei libri che si vendevano.
  • Non è una gran notizia che Indro e io non abbiamo mai fatto parte del coro, ma fu una grande notizia la spiegazione che ne diede Berlusconi: "Biagi e Montanelli hanno invidia del mio successo". La prima cosa che mi venne in mente fu: "Sai che risate si starà facendo Indro adesso". Poi mi dissi che c'era poco da ridere.

Note

  1. a b Da Beppe Grillo, un incubo esilarante, Corriere della Sera, 11 gennaio 1996.
  2. Da Il meglio di "Controcorrente": 1974-1992, Rizzoli, 1993.
  3. Citato in Marco Travaglio, Bananas, Garzanti, 5 maggio 2001.
  4. Da Contro Corrente, Editoriale Nuova, 1978.
  5. Da Ora Montanelli critica Berlusconi, la Repubblica, 20 gennaio 1987.
  6. Citato in Roberto Gervaso, Ve li racconto io, Milano, Mondadori, 2006, pp. 310-311. ISBN 88-04-54931-9
  7. Dalla prefazione a Marco Travaglio, Il Pollaio delle Libertà, Vallecchi, 1995.
  8. Dalla lezione di giornalismo all'Università di Torino, 12 maggio 1997; citato in La Stampa, 14 aprile 2009
  9. Citato in Eugenio Scalfari, Incontro con io, Rizzoli, 1994. ISBN 8806200747
  10. a b Citato in Francesco Battistini Montanelli: ragazzi, rifate il ' 68, Corriere della Sera, 19 dicembre 1997.
  11. Citato in Liberazione, 22 febbraio 2008.
  12. In risposta alla frase di Giuseppe Prezzolini, "Gli italiani si dividono in due categorie: i furbi e i fessi".
  13. a b Da Eppur si muove, di Indro Montanelli e Beniamino Placido, 1994; anche in Indro Montanelli, gli anni della televisione, puntata 2, di Nevio Casadio, Rai Premium, 2013.
  14. Citato in Leo Turrini, Lucio Battisti: la vita, le canzoni, il mistero, Mondadori, 2008, retrocopertina.
  15. a b c d Da Controcorrente, 1974–1986, Arnoldo Mondadori Editore, 1987.
  16. Citato in Pappagone e non solo, a cura di Marco Giusti, Mondadori, 2003.
  17. Da un'intervista di Ferruccio De Bortoli, 1999; in Indro Montanelli, gli anni della televisione, puntata 8, di Nevio Casadio, Rai Premium, 2013.
  18. Dall'intervista di Pasquale Cascella, Montanelli: «Il regime? È alle porte, inutile aspettare il dittatore», l'Unità, 25 ottobre 1994, p. 5.
  19. a b Citato in Il grande vecchio del giornalismo rilegge gli ultimi anni della nostra storia, L'Indipendente, 25 luglio 1995.
  20. Dall'articolo di Polaczek, Teile und sende, in Frankfurter Allgemeine Zeitung, 15 agosto 1996, p. 29.
  21. Citato in Daniele Abbiati, La maîtresse di Indro nella Prima Repubblica delle marchette, il Giornale.it, 22 ottobre 2010.
  22. Citato in Umberto Veronesi, Non vince la scienza, la Repubblica, 14 novembre 2008.
  23. Citato in Carlo A. Martigli, Sul diritto alla morte si discute su Internet, 25 aprile 2002.
  24. Citato in Riccardo Chiaberge Montanelli la voce controcorrente, Corriere della Sera, 21 marzo 1994.
  25. Citato in Roberto Gervaso, Ve li racconto io, Milano, Mondadori, 2006, p. 294. ISBN 88-04-54931-9
  26. a b Radio Montecarlo, Intervista a Indro Montanelli, di Roberto Arnaldi, 1973.
  27. Citato in Oggi, 11 ottobre 2000.
  28. Citato nel programma televisivo Ippocrate, Rai News, 13 giugno 2010.
  29. Citato in Gian Guido Vecchi, Devolution e traffico, il voto è un rebus, Corriere della Sera, 8 aprile 2001.
  30. Citato in Stefano Preite, Il Risorgimento, ovvero, Un passato che pesa sul presente, P. Lacaita, 2009.
  31. a b Dal programma televisivo Dovere di cronaca, Rete 4, 1988, visibile su YouTube.
  32. Da un'intervista del 1971, tratta da III B, Facciamo l'appello di Enzo Biagi; anche in Indro Montanelli, gli anni della televisione, puntata 7, di Nevio Casadio, Rai Premium, 2013.
  33. Da un'intervista del 1996, tratta da Tablet Italiani, puntata 2, "Montanelli/Bocca", Rai Storia, 25 agosto 2013.
  34. a b c d e Citato in Marco Travaglio, Montanelli e il Cavaliere, Garzanti, 2009.
  35. Citato in Marco Cremonesi, Diecimila in piazza con i nomi dei lager, Corriere della Sera, 28 gennaio 2001, p. 31.
  36. Citato in Enrico Bonerandi, Montanelli: pronto a morire, la Repubblica, 13 dicembre 2000, p. 36.
  37. Citato in Federico Orlando, Il sabato andavamo ad Arcore, Larus, 1995.
  38. Citato in Franco Fontanini, Piccola antologia del pensiero breve, Liguori Editore, 2007, p. 12.
  39. Citato in Luigi Mascheroni, Mai dette, ma le ripetiamo sempre. Ecco le frasi fantasma della storia, il Giornale, 21 marzo 2009, p. 22.
  40. Da Le Nuove stanze, Collana Saggi Italiani, Rizzoli, Milano 2001.
  41. a b Citato in Rivogliono l'uomo della provvidenza, la Repubblica, 24 febbraio 1994, p. 11.
  42. Citato in Roberto Gervaso, Ve li racconto io, Milano, Mondadori, 2006, p. 310. ISBN 88-04-54931-9
  43. Citato in Gianna Fregonara, Dal balcone di Mussolini al bianco sorriso di Belen, 24 gennaio 2010, p. 34.
  44. Citato in Roberto Gervaso, Ve li racconto io, Milano, Mondadori, 2006, p. 236. ISBN 88-04-54931-9

Bibliografia

  • Indro Montanelli, Pantheon minore (incontri), Longanesi e C., Milano, 1950. (ISBN non disponibile)
  • Indro Montanelli, Storia di Roma, Milano, Longanesi, 1957; Milano, Rizzoli, 1959. (ISBN non disponibile)
  • Indro Montanelli, Storia dei greci, Milano, Rizzoli, 1959. (ISBN non disponibile)
  • Indro Montanelli, L'Italia giacobina e carbonara. (1789-1831), Milano, Rizzoli, 1971. (ISBN non disponibile)
  • Indro Montanelli, L'Italia dei notabili. (1861-1900), Milano, Rizzoli, 1973. (ISBN non disponibile)
  • Indro Montanelli, L'Italia del Risorgimento (1831-1861), RCS Quotidiani, Milano, 2011. (ISBN non disponibile)
  • Indro Montanelli, L'Italia di Giolitti. (1900-1920), Milano, Rizzoli, 1974. (ISBN non disponibile)
  • Indro Montanelli, I protagonisti, Rizzoli, Milano, 1976. (ISBN non disponibile)
  • Indro Montanelli, Contro corrente, Editoriale Nuova, Milano, 1978. (ISBN non disponibile)
  • Indro Montanelli, Controcorrente, 1974 – 1986, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1987. ISBN 8804300558
  • Indro Montanelli, Il testimone, TEA, Milano, 1993. ISBN 8878194182
  • Indro Montanelli, Mario Cervi; L'Italia del Novecento, BUR, Milano, 1998. ISBN 8817860147
  • Indro Montanelli, Soltanto un giornalista, BUR, Milano, 2003. ISBN 8817107042
  • Indro Montanelli, Le stanze, BUR, Milano, 2004. ISBN 8817004707
  • Indro Montanelli, I conti con me stesso, Rizzoli, Milano, 2010. ISBN 8817028202 (Anteprima su Google Libri)

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