Ryszard Kapuściński: differenze tra le versioni

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*C'è chi nasce per comandare, che per servire. Non ci si può far niente, è l'ordine del mondo voluto da Dio. Chi si azzarda a cambiarlo è un eretico da lapidare. Il dogma della predestinazione dice anche che chi nasce nella fede è creatura superiore a chi nasce nel paganesimo; è più vicina alla salvezza, poiché su di essa si è posata la mano di Dio. Fu con questa credenza che gli afrikaner giunsero in Sudafrica. L'immagine del mondo, forgiata dal dogma della predestinazione, appariva loro in tutta la sua manicheista evidenza. Da una parte loro, gli uomini di fede; dall'altra i pagani. L'uomo di fede era bianco, il pagano nero. Così Dio, nella sua saggezza, aveva creato il mondo, prediligendo i bianchi e condannando alla dannazione i neri. Il nero non può cambiare pelle né scrollarsi di dosso il paganesimo, poiché Dio ha stabilito una volta per tutte l'ordinamento del mondo. (p. 93)
*C'è chi nasce per comandare, che per servire. Non ci si può far niente, è l'ordine del mondo voluto da Dio. Chi si azzarda a cambiarlo è un eretico da lapidare. Il dogma della predestinazione dice anche che chi nasce nella fede è creatura superiore a chi nasce nel paganesimo; è più vicina alla salvezza, poiché su di essa si è posata la mano di Dio. Fu con questa credenza che gli afrikaner giunsero in Sudafrica. L'immagine del mondo, forgiata dal dogma della predestinazione, appariva loro in tutta la sua manicheista evidenza. Da una parte loro, gli uomini di fede; dall'altra i pagani. L'uomo di fede era bianco, il pagano nero. Così Dio, nella sua saggezza, aveva creato il mondo, prediligendo i bianchi e condannando alla dannazione i neri. Il nero non può cambiare pelle né scrollarsi di dosso il paganesimo, poiché Dio ha stabilito una volta per tutte l'ordinamento del mondo. (p. 93)
*Il razzismo afrikaner non deriva esclusivamente dal desiderio di difendere la sua posizione privilgiata nella società coloniale, come accade invece per gli inglesi. Il razzismo è per lui un dogma della fede, e nella sua coscienza la fede è una conferma dell'esistenza dell'afrikaner stesso. Ogni invito a riconoscere qualche diritto civile agli indigeni viene preso dall'afrikaner non solo come un attacco alla propria posizione sociale, ma anche come un gesto di persecuzione verso la propria fede, un oltraggio alla propria chiesa, una bestemmia. (p. 94)
*Il razzismo afrikaner non deriva esclusivamente dal desiderio di difendere la sua posizione privilgiata nella società coloniale, come accade invece per gli inglesi. Il razzismo è per lui un dogma della fede, e nella sua coscienza la fede è una conferma dell'esistenza dell'afrikaner stesso. Ogni invito a riconoscere qualche diritto civile agli indigeni viene preso dall'afrikaner non solo come un attacco alla propria posizione sociale, ma anche come un gesto di persecuzione verso la propria fede, un oltraggio alla propria chiesa, una bestemmia. (p. 94)
*[[Ahmed Ben Bella|Ben Bella]] aveva forte individualità, dominava nettamente per l'ampiezza delle vedute e la profondità del pensiero. Il suo pensiero era coraggioso e fecondo, anche se spesso incoerente. Una personalità di rilievo, ma estremamente complessa e disuguale. (p. 112)
*{{NDR|Su [[Ahmed Ben Bella]]}} Ha conferito all'Algeria il prestigio di primo stato del Terzo Mondo. Voleva farne un ponte tra l'Africa e l'Europa per aprire alla sinistra europea e ai partiti comunisti la via all'Africa e al mondo arabo. (p. 112)
*Il socialismo di Ben Bella è stato un esperimento audace e originale. Semplificando, voleva fondare un'economia socialista tenendo la sovrastruttura islamica. L'opposizione gli rimprovera di averne parlato troppo e di aver fatto troppo poco. Rinfaccia al socialismo di Ben Bella di essere stato un socialismo ''verbale''. (p. 113)
*Nel mondo arabo non esiste la tradizione dei partiti politici intesi come forza sociale di punta e bene organizzata. È difficile costruire un partito del genere. Del resto, Ben Bella non si dedicò affatto a questo compito: il partito gli occorreva come facciata, per disporre di un gruppo di collaboratori, e tanto gli bastava. (p. 115)
*Forse la caduta di Ben Bella preannuncia la fine dell'epoca dei grandi capi del Terzo Mondo che sono emersi dalla grama vita quotidiana dei loro paesi, ma che erano più dei leader che degli economisti. Perfino [[Julius Nyerere|Nyerere]] e [[Ahmed Sékou Touré|Sékou Touré]] hanno perso slancio e sono stati schiacciati dall'economia. Le difficoltà economiche incalzano, mancano i dirigenti, il commercio va male. (p. 117)
*[[Mobutu Sese Seko|Mobutu]] aveva arrestato il presidente Kasavubu, autonominandosi presidente per cinque anni. L'aspetto più curioso e interessante della dichiarazione era proprio il termine di "cinque anni" che Mobutu si era assegnato.<br/>E nessuno trovava niente da ridere.<br/>Mobutu aveva ragione: da queste parti, un ufficiale e mille soldati rappresentano una potenza senza rivali. Chi può contrastarli? Quanti partiti al governo hanno la possibilità di disporre, nel momento del bisogno, di mille uomini fidati, fedeli a un'idea e soprattutto non in contrasto tra loro? (p. 128)
*[[Mobutu Sese Seko|Mobutu]] aveva arrestato il presidente Kasavubu, autonominandosi presidente per cinque anni. L'aspetto più curioso e interessante della dichiarazione era proprio il termine di "cinque anni" che Mobutu si era assegnato.<br/>E nessuno trovava niente da ridere.<br/>Mobutu aveva ragione: da queste parti, un ufficiale e mille soldati rappresentano una potenza senza rivali. Chi può contrastarli? Quanti partiti al governo hanno la possibilità di disporre, nel momento del bisogno, di mille uomini fidati, fedeli a un'idea e soprattutto non in contrasto tra loro? (p. 128)



Versione delle 12:57, 12 nov 2018

Ryszard Kapuściński

Ryszard Kapuściński (1932 – 2007), giornalista polacco.

Citazioni di Ryszard Kapuściński

  • In quegli anni circolavano due diverse immagini di Hailè Selassiè. Una, quella nota all'opinione pubblica internazionale, presentava l'imperatore come un monarca esotico ma capace, dotato di un'energia inesauribile, di una mente acuta e di una profonda sensibilità; un uomo che si era opposto a Mussolini, aveva riconquistato l'impero e il trono, e nutriva l'ambizione di sviluppare il proprio paese e di svolgere nel mondo un ruolo di rilievo. L'altra immagine, formata poco per volta dalla parte più critica, e inizialmente esigua, dell'opinione pubblica interna, lo mostrava come un monarca deciso a difendere il potere con ogni mezzo; ma soprattutto come un demagogo e un padre padrone che, con i fatti e con le parole, mascherava la corruzione, l'ottusità e il servilismo della classe dirigente da lui stesso creata e blandita. Le due immagini, come spesso succede, erano vere entrambe. Hailè Selassiè aveva una personalità complessa: per taluni piena di fascino, per altri odiosa; certuni lo adoravano, altri lo maledicevano. Governava un paese che conosceva solo i metodi più brutali per conquistare (o per conservare) il potere, e dove le libere elezioni erano sostituite da pugnali e veleni, e le libere discussioni da forche e fucilazioni. Lui stesso era un prodotto di quella tradizione, alla quale a suo tempo aveva fatto ricorso. Tuttavia si rendeva conto che in tutto ciò c'era qualcosa di stonato e di incompatibile con il mondo nuovo. Non potendo certo modificare il sistema che lo manteneva al potere (e per lui il potere veniva prima di ogni altra cosa), ricorreva alla demagogia, al cerimoniale e a quei discorsi sullo sviluppo così assurdi in un paese tanto povero e arretrato. Uomo simpatico, politico astuto, padre tragico e avaro patologico, condannava a morte gli innocenti e graziava i colpevoli: capricci del potere, tortuose manovre di Palazzo, ambiguità e misteri che nessuno riuscirà mai a decifrare. (da Il negus)
  • Quando si raggiunge una crisi? Quando sorgono delle domande a cui non si può dare risposta. (da A Warsaw Diary, Granta, 15, primavera 1985)

Ebano

Incipit

La prima cosa che colpisce è la luce. Luce dappertutto, forte, intensa. Sole dappertutto. Solo ieri, la Londra autunnale, inondata di pioggia. L'aereo lucido di pioggia. Il vento freddo, l'oscurità. Qui, di primo mattino, l'aeroporto inondato di sole e noi tutti immersi nel sole. In passato, quando gli uomini giravano il mondo a piedi, a cavallo o per nave, il viaggio dava loro il tempo di abituarsi al cambiamento. Le immagini della terra scorrevano con lentezza, la scena del mondo si spostava un po' alla volta. Un viaggio durava settimane, mesi. L'uomo aveva il tempo di abituarsi al nuovo ambiente, al nuovo paesaggio. Anche il clima mutava gradualmente, a tappe successive. Prima di raggiungere la fornace equatoriale, il viaggiatore proveniente dalla gelida Europa aveva già attraversato il grato tepore di Las Palmas, la canicola di El-Mahara e l'inferno di Capo Verde.

Citazioni

Bambina malnutrita durante la guerra del Biafra
  • Il nostro mondo, in apparenza globale, in fin dei conti non è che un pianeta con migliaia e migliaia delle più svariate province che non si incontrano mai. Girare il mondo significa passare da una provincia all'altra, ognuna delle quali è una solitaria stella che brilla per conto proprio. Per la maggior parte delle persone che vi abitano il mondo reale finisce sulla soglia di casa, al limite del villaggio, tutt'al più al confine della vallata. Il mondo che sta oltre è irreale, insignificante e addirittura inutile, mentre quello che hanno sottomano e sotto gli occhi assurge alle dimensioni di un grande cosmo oscurante tutto il resto. Spesso gli abitanti di un luogo e chi viene da lontano hanno difficoltà a trovare un linguaggio comune, poiché ognuno di loro guarda il posto da un'ottica diversa: chi viene da fuori usa un grandangolare, che rimpicciolisce l'immagine ma allarga l'orizzonte, mentre la persona del posto ha sempre usato il teleobiettivo, se non addirittura il telescopio, che ingigantisce i minimi dettagli.
  • La storia è spesso il risultato di una mancanza di riflessione. È il frutto bastardo della stupidità umana, parto dello smarrimento, dell'idiozia e della pazzia.
  • Il dramma delle culture, infatti – compresa quella europea – , è consistito in passato nel fatto che i loro primi contatti reciproci sono stati quai sempre appannaggio di gente della peggior risma: predoni, soldataglie, avventurieri, criminali, mercanti di schiavi e via dicendo. Talvolta, ma di rado, capitava anche gente diversa, come missionari in gamba, viaggiatori e studiosi appassionati. Ma il tono, lo standard, il clima fu conferito e creato per secoli dall'internazionale della marmaglia predatrice che non badava certo a conoscere altre culture, a cercare un linguaggio comune o a mostrare rispetto nei loro confronti. Nella maggior parte dei casi si trattava di mercenari rozzi e ottusi, privi di riguardi e di sensibilità, spesso analfabeti, il cui unico interesse consisteva nell'assaltare, razziare, uccidere. Per effetto di queste esperienze le culture, invece di conoscersi a vicenda, diventavano nemiche o, nel migliore dei casi, indifferenti. I loro rappresentanti, a parte i mascalzoni di cui sopra, si tenevano alla larga, si evitavano, si temevano. Questa manipolizzazione dei rapporti interculturali da parte di una classe rozza e ignorante ha determinato la pessima qualità dei rapporti reciproci. Le relazioni interpersonali cominciarono a venir classificate in base al criterio più primitivo: quello del colore della pelle. Il razzismo divenne un'ideologia per definire il posto della gente nell'ordinamento del mondo. Da una parte i Bianchi, dall'altra i Neri: una contrapposizione dove spesso entrambe le parti si sentivano a disagio.
  • Viaggiare sulle strade d'Etiopia è duro e spesso pericoloso. Nella stagione secca, la macchina slitta sul pietrisco degli stretti percorsi scavati nelle pareti di montagne a picco, lungo precipizi profondi centinaia di metri. Nella stagione delle piogge, le strade di montagna vengono addirittura chiuse, mentre quelle di pianura si trasformano in acquitrini melmosi dove si rischia di restare impantanati per giorni e giorni. (p. 117)
  • Nel paese c'era cibo a sufficienza, ma la siccità aveva fatto salire i prezzi e i contadini poveri non potevano più comprarlo. Naturalmente il governo sarebbe potuto intervenire e anche i paesi stranieri avrebbero potuto fare qualcosa. Ma, per motivi di prestigio, il governo si rifiutava di riconoscere che nel paese regnasse la fame, respingendo le offerte d'aiuto. In quel periodo in Etiopia c'era stato un milione di morti, una realtà tenuta nascosta prima dall'imperatore Hailè Selassiè e poi da colui che doveva privarlo del trono e della vita, il maggiore Menghistu. Divisi dalla lotta per il potere, erano uniti dalla menzogna. (p. 120)
  • Un tempo mi ero proposto di scrivere un libro su Amin perché Amin illustra alla perfezione il rapporto fra il crimine e l'assenza di cultura. (p. 123)
  • Non si fidava di nessuno: nella sua cerchia nessuno sapeva mai dove avrebbe dormito quella notte o dove sarebbe stato l'indomani. Possedeva varie residenze in città, altre sul Lago Vittoria, altre ancora in provincia. Stabilire dove si trovasse era difficile e anche pericoloso. Era lui a cominciare con i sottoposti, lui a decidere con chi parlare e chi vedere. Per molta gente quegli incontri si concludevano in tragedia. Quando Amin cominciava a sospettare qualcuno, lo invitava a casa propria. Si mostrava simpatico, cordiale, offriva Coca-Cola. All'uscita l'ospite trovava ad attenderlo i carnefici, e nessuno ne sentiva più parlare. (p. 127)
  • La forza di Amin stava nell'esercito. L'aveva creato sul modello coloniale, l'unico che conoscesse. I suoi membri provenivano perlopiù dalle piccole comunità di uno degli angoli più spreduti dell'Africa, la zona di frontiera tra il Sudan e l'Uganda. A differenza della popolazione autoctona del paese, che si serve delle lingue bantu, parlavano dialetti sudanesi. Rozzi e ignoranti, non riuscivano a intendersi con i locali. Ma lo scopo era proprio questo: dovevano sentirsi estranei, isolati, dipendere esclusivamente di Amin. Quando arrivavano in camion sparvegano il panico, le strade si svuotavano, i villaggi si spopolavano. Selvaggi, scatenati, spesso ubriachi, i soldati razziavano quello che potevano e picchiavano chiunque capitasse loro sottomano. Senza un motivo, senza un perché. (p. 128)
  • Era un uomo dall'energia inesauribile, sempre eccitato, sempre in movimento. Le rare volte che, in qualità di presidente, convocava una seduta del governo, era incapace di parteciparvi fino alla fine. Dopo un po' si stufava, balzava in piedi e se ne andava. I pensieri gli si accavallavano nella mente, parlava in modo caotico, non finiva mai una frase. Leggeva l'inglese con fatica, conosceva mediamente lo swahili. Possedeva bene il suo dialetto kakwa, che però nel paese era poco conosciuto. Ma erano precisamente questi limiti a renderlo popolare tra i bayaye: era uno di loro, sangue del loro sangue, carne della loro carne. (p. 129)
  • Il Ruanda è un paese piccolo, tanto piccolo che in molte delle carte geografiche contenute sui libri sull'Africa viene indicato solo con un puntino. Solo dalle tabelle annesse alle carte apprenderete che quel puntino nel cuore del continente rappresenta il Ruanda. (p. 146)
  • Il Ruanda è un paese montuoso. La geografia africana è solitamente caratterizzata da pianure e altipiani. Il Ruanda invece è tutto montagne alte due o tremila metri, talvolta anche di più. Per questo viene spesso definito il Tibet dell'Africa, non solo per le sue montagne, ma anche per la sua originalità, la sua atipicità, la sua diversità. Una diversità che concerne soprattutto l'assetto sociale. Infatti, al contrario delle popolazioni degli altri stati africani che sono pluritribali (il Congo è abitato da trecento tribù, la Nigeria da duecentocinquanta, e via dicendo), in Ruanda vive una sola comunità, il popolo dei banyaruanda, tradizionalmente diviso in tre caste: la casta dei tutsi, possidenti di mandrie di bestiame (quattordici per cento della popolazione), la casta degli hutu, agricoltori (ottantacinque per cento) e la casta dei twa, composta di braccianti e servitori (uno per cento). (p. 146)
  • Il Ruanda è piccolo, montuoso e densamente popolato. Come spesso accade in Africa, anche in Ruanda si arriva al conflitto tra chi vive allevando bestiame e chi coltiva la terra. Di solito, però, nel continente gli spazi sono talmente vasti che uno dei contendenti può trasferirsi su territori liberi eliminando il focolaio della discordia. In Ruanda questa soluzione è impossibile: non esiste spazio per spostarsi e cedere il campo. Intanto le mandrie possedute dai tutsi crescono e hanno bisogno di sempre nuovi pascoli, e c'è un solo modo per trovarli: confiscare la terra ai contadini, ossia, scacciare gli hutu dai loro campi. Ma gli hutu vivono già stretti come sardine. Da anni il loro numero cresce a vista d'occhio e, per colmo di sventura, le terre che coltivano sono sterili, poverissime. In effetti le montagne del Ruanda sono coperte da uno strato di terra talmente sottile che, ogni anno, la stagione delle piogge ne lava via grandi porzioni. In molte zone dove gli hutu avevano i loro campicelli di maioca e di granturco, ora luccica la roccia nuda. (p. 148)
  • Nasce così il dramma ruandese, la tragedia del popolo banyaruanda: esattamente come nel dramma palestinese, si è nell'impossibilità di conciliare le ragioni di due communità rivendicanti il diritto al medesimo pezzo di terra, troppo esiguo per accoglierle entrambe. All'interno di questo dramma sorge, dapprima ancora debole e vaga ma, con gli anni, sempre più chiara e perentoria, la tentazione dell'Endöslung, della soluzione finale. (p. 151)
  • In Africa molte guerre si svolgono senza testimoni, all'insaputa di tutti, in luoghi apparati e irraggiungibili che il mondo non conosce o ha dimenticato. È il caso del Ruanda. Le lotte di frontiera, i pogrom, i massacri proseguono per anni. I partigiani tutsi (che gli hutu chiamano "scarafaggi") incendiano villaggi e trucidano la popolazione locale. Sostenuta dal proprio esercito, questa risponde a sua volta con violenze e carneficine. (p. 152)
  • La storia dei rapporti tra hutu e tutsi non è che una tragica serie di pogrom e massacri, di distruzioni reciproche, di migrazioni forzate, di odii feroci. Nel piccolo Ruanda non c'è posto per due popoli così estranei e naturalmente nemici. (p. 158)
  • Mentre nei sistemi hitleriani e staliniani la morte era inferta da carnefici di istituzioni specializzate come le SS o l'Nkvd e il delitto era affidato ad apposite formazioni operanti in luoghi segreti, in Ruanda si voleva che la morte venisse inferta da tutti, che il crimine fosse il prodotto di un'iniziativa di massa e, per così dire, popolare; un cataclisma naturale collettivo dove tutte le mani indistintamente si immergessero nel sangue di gente considerata nemica dal regime. (p. 160)
  • Il Sudan è il primo stato africano a conquistare l'indipendenza dopo la seconda guerra mondiale. Prima era stato una colonia britannica composta di due parti artificiosamente, burocraticamente messe insieme: il nord arabo-musulmano e il sud "negro"-cristiano (e animista). Tra questi due gruppi esistevano un antagonismo, un'inimicizia e un odio di vecchia data, visto che per anni gli arabi del nord avevano invaso il sud catturandone gli abitanti e vendendoli come schiavi.
    Come potevano, quei mondo in conflitto, convivere in un unico stato indipendente? Infatti non potevano, e proprio su questo contavano gli inglesi. A quei tempi i vecchi stati coloniali europei erano convinti che, pur rinunciando formalmente alle colonie, di fatto avrebbero continuato a governarle: in Sudan, per esempio, facendo da agenti conciliatori tra musulmani del nord e cristiani animisti del sud. Presto però queste illusioni imperialiste svanirono. Già nel 1962 in Sudan scoppiò la prima guerra civile tra sud e nord (preceduta da rivolte e insurrezioni nel sud). (pp. 170-171)
  • La prima guerra sudanese durò dieci anni, fino al 1972. Poi, per i dieci anni successivi, si instaurò una fragile pace provvisoria. Quando, nel 1983, il governo islamico di Khartoum tentò di imporre la legge islamica (sharia) a tutto il paese, cominciò la nuova e più terribile fase di questa guerra ancora in atto. Si tratta del conflitto più grande e più lungo della storia dell'Africa e, probabilmente, in questo momento anche del mondo intero; ma svolgendosi in una sperduta provincia del nostro pianeta e non minacciando direttamente né Europa né America, non suscita alcun interesse. Per giunta, a causa delle difficoltà di comunicazione e delle drastiche restrizioni di Khartoum, i teatri di questa guerra, i suoi vasti e tragici campi di morte sono praticamente irraggiungibili dai media e la maggior parte del mondo ignora completamente che in Sudan sia in atto un conflitto di proporzioni gigantesche. (p. 171)
  • Non so come sia cominciata questa guerra. È passato tanto di quel tempo! Una mucca rubata ai dinka dai soldati dell'esercito governativo, che poi i dinka si sono ripresi, provocando una sparatoria e dei morti? Più o meno le cose saranno andate così. Naturalmente la mucca non era che un pretesto: i signori arabi di Khartoum non potevano tollerare che pastori del sud godessero dei loro stessi diritti. La gente del sud non voleva che il Sudan indipendente fosse governato dai figli dei mercanti di schiavi. Il sud voleva la secessione, uno stato proprio. Il nord decise di distruggere i ribelli. Comciarono i massacri. Si dice che finora la guerra abbia causato un milione e mezzo di vittime. (p. 173)
  • Menghistu lavorava giorno e notte. I beni materiali non gli interessavano, voleva solo il potere assoluto. Gli bastava regnare. (p. 193)
  • [Su William Tubman] Era un signore piccolo, minuto, gioviale, sempre con un sigaro tra le labbra. Alle domande imbarazzanti rispondeva con un lungo e sonoro scoppi di risa, seguito da un attacco di rumoroso singhiozzo, seguito a sua volta da una crisi di soffocazione accompagnata da sibili. Sussultava, strabuzzava gli occhi pieni di lacrime. Spaventato e confuso, l'interlocutore taceva, senza osare insistere. Poi Tubman si scuoteva la cenere dal vestito e, ormai calmo, tornava a nascondersi in una fitta nuvola di fumo di sigaro. (p. 210)
  • Appena uno stato africano comincia a vacillare, possiamo stare certi che ben presto appariranno i warlords. In Angola, in Sudan, in Somalia, nel Ciad: sono ovunque, spadroneggiano ovunque. Che cosa fa un warlord? In teoria combatte contro altri warlords. Ma non è sempre così. Il più delle volte il signore della guerra depreda la popolazione inerme del proprio paese. Il warlord è l'esatto contrario di Robin Hood. Robin Hood toglieva ai ricchi per dare ai poveri. Il warlord toglie ai poveri per arricchirsi e nutrire la sua banda. Ci troviamo in un mondo dove la miseria condanna gli uni a morte e trasforma gli altri in mostri. I primi sono le vittime, i secondi i carnefici. Non ci sono vie di mezzo. (p. 221)
  • L'Etiopia è un paese dalla superficie pari a quelle di Francia, Germania e Polonia messe insieme. In Etiopia abitano più di sessanta milioni di persone, che tra qualche anno saranno più di sessanta milioni, tra qualche decina più di ottanta ecc. ecc.
    Forse, allora, qualcuno aprirà una libreria? Almeno una? (p. 195)
  • L'Eritrea è il più giovane stato africano, un piccolo stato di tre milioni di abitanti. Mai indipendente, l'Eritrea fu prima una colonia della Turchia, poi dell'Egitto e, nel XX secolo, successivamente dell'Italia, dell'Inghilterra e dell'Etiopia. Nel 1962 quest'ultima, che già da dieci anni occupava militarmente l'Eritrea, la dichiarò sua provincia. Gli eritrei risposero con una guerra di liberazione, la più lunga nella storia del continente, in quanto durata trent'anni. Quando ad Addis Abeba regnava Hailè Selassiè, gli americani l'aiutarono a combattere gli eritrei. Ma quando Menghistu rovesciò l'imperatore, assumendo personalmente il potere, ad aiutarlo furono i russi. (pp. 264-265)
  • Le forze etiopi impiegavano comunemente il napalm. Per salvarsi, gli eritrei cominciarono a scavare rifugi, corridoi e nascondigli mometizzati. Nel corso degli anni costruirono un secondo stato sotterraneo, nel senso letterale del termine: un'Eritrea nascosta e segreta, inaccessibile agli estranei, che potevano percorrere in lungo e in largo senza essere visti dal nemico. La guerra eritrea non fu, come gli eritrei stessi sottolineano con orgoglio, una bush war, l'uragano banditesco e sterminatore dei warlords. Nel loro stato sotterraneo avevano scuole e ospedali, tribunali e orfanotrofi, officine e fabbriche di armi. In quel paese di analfabeti, ogni combattente doveva saper leggere e scrivere. (p. 266)
  • Questo piccolo paese, tra i più poveri del mondo, possiede un esercito di centomila giovani, relativamente colti, dei quali non sa che fare. Il paese non ha industrie, l'agricoltura è in abbandono, le città in rovina, le strade distrutte. Centomila soldati si svegliano ogni mattina senza saper che fare, e soprattutto senza niente da mangiare. Ma la sorte dei loro colleghi e fratelli in borghese non è molto diversa. Basta girare per Asmara all'ora di pranzo. I funzionari delle poche istituzioni esistenti in uno stato così giovane vanno a mangiare un boccone nei bar e nei ristoranti del quartiere. Ma le folle dei giovani non sanno dove andare: non lavorano, non hanno un soldo. Girano, guardano le vetrine, sostano agli angoli delle strade, siedendo sulle panchine oziosi e affamati. (pp. 266-267)

La prima guerra del football e altre guerre di poveri

Kwame Nkrumah, primo presidente del Ghana indipendente
  • Pensai che il modo migliore di raccontare l'Africa fosse quello di parlare di colui che in quel periodo fu la figura più significativa del continente, un uomo politico, un visionario, un tribuno e uno stregone: Nkrumah. (p. 21)
  • Lo scopo che si è prefisso fin da ragazzo è la liberazione del Ghana. Per raggiungerlo, però, bisogna prima diventare qualcuno. Essere qualcuno: ecco il primo obiettivo. A quel tempo il Ghana è una colonia. Un nero non ha possibilità di fare carriera. (p. 26)
  • Quando il premier va nei villaggi, dorme nelle capanne. A volte si trattiene per strada a chiacchierare fino a tarda notte. In quei casi non rientra in città e si ferma a dormire in una casa qualunque. Questo gli procura le simpatie generali. Così passa il suo tempo. (p. 30)
  • Parlava in tono fermo, chiaro e uniforme. Nkrumah è un oratore eccellente, da gestire parco ma incisivo. Perfino gli inglesi dicono che ascoltarlo è un piacere. È un uomo di media statura, ben fatto e gradevole. Ha un viso intelligente, la fronte alta e lo sguardo profondo e triste. Uno sguardo che rimane triste anche quando Nkrumah sorride. (p. 33)
  • L'uomo alto e magro non parlava come gli altri. Diceva che la nostra tribù non era sola, che esisteva una famiglia di tribù chiamata nation congolaise, che dovevamo essere tutti fratelli e che questo ci avrebbe dato la forza. Parlò a lungo, era calata la notte. L'oscurità aveva cancellato le facce. Non si vedevano che le parole dell'uomo. Erano chiare. Le distinguevamo perfettamente. (p. 41)
  • Ho già sentito parlare di Nasser, Nkrumah, Sékou Touré. Adesso sento Lumumba. Ma bisognerebbe vedere come li ascolta l'Africa, vedere la folla che va ai comizi: solenne, compresa, gli occhi febbrili. Bisogna avere i nervi saldi per soportare l'ovazione estatica che saluta l'apparizione di ognuno di loro. È bene mescolarsi alla folla, applaudire, ridere e arrabbiarsi con lei, sentire la sua pazienza e la sua forza, la sua dedizione e la sua minacciosità. Un comizio in Africa è sempre una festa popolare, gioiosa e piena di dignità come la festa del raccolto. (p. 43)
  • Nasser ha un eloquio duro e incisivo, è sempre dinamico, impulsivo, dominatore. Touré battibecca con la folla, la conquista con il suo buonumore, con il suo sorriso perenne, con la sua sottile noncuranza. Nkrumah è patetico, raccolto, con uno stile da predicatore che gli è rimasto addosso dai tempi dei suoi sermoni nelle chiese dei neri d'America. E la folla, inebriata dalle parole dei capi, nel suo entusiasmo si avventa sull'automobile di Gamal, solleva l'automobile di Sékou, si spezza le costole per toccare l'automobile di Kwame. (p. 43)
  • Ora che si è risvegliata, l'Africa ha bisogno di grandi nomi. Come simbolo, come collante, come ricompensa. Per secoli la storia di questo continente è rimasta anonima. Nello spazio di trecento anni i mercanti hanno deportato milioni di schiavi: chi può citare il nome di una sola vittima? Per secoli si è combattuto contro l'invasione bianca: chi può citare il nome di un solo combattente? Quali nomi evocano le sofferenze delle generazioni nere, quali nomi commemorano il coraggio delle tribù massacrate? L'Asia ha avuto Confucio e Buddha, l'Europa Shakespeare e Napoleone. Dal passato africano non emerge un solo nome che il mondo conosce, che l'Africa stessa conosca.
    Ed ecco che ora, quasi ogni anno, la grande marcia africana, come per rimediare a un irrecuperabile ritardo, scrive nella storia un nuovo nome: 1956, Gamel Nasser; 1957, Kwame Nkrumah; 1958, Sékou Touré; 1960, Patrice Lumumba. (pp. 43-44)
  • La biografia di quest'uomo si riassume in quest'unica formula: non fa in tempo. All'epoca in cui Kasavubu o Bolikango conquistano faticosamente i loro seguaci, Lumumba non è ancora all'orizzonte, o perché è troppo giovane, o perché sta in prigione. Ma gli altri pensano solo alla loro parrocchia, mentre Lumumba pensa a tutto il Congo.
    Il Congo è un oceano, un immenso affresco pieno di contrasti. Piccoli agglomorati di congolesi vivono sparsi nella giungla e nella savana; spesso non si conoscono e sanno poco gli uni degli altri. Sei persone per chilometro quadrato. Il Congo è grande come l'India. A Gandhi ci vollero vent'anni per attraversare l'India. Lumumba ha provato ad attraversare il Congo in sei mesi. Un'impresa impossibile. (p. 44)
  • Negli altri paesi, i leader hanno a disposizione la stampa, la radio, il cinema, la televisione. Hanno i loro staff.
    Lumumba non aveva niente di tutto ciò. Tutto apparteneva ai belgi, e il suo staff neanche esisteva. Anche se avesse avuto un giornale, in quanti avrebbero potuto leggerlo? Anche se avesse avuto un'emittente radiofonica, in quante case c'erano apparecchi radio? Bisognava attraversare il paese. Come Mao, come Gandhi, come Nkrumah e Castro. (p. 45)
  • Lumumba è sempre di un'eleganza raffinata. La camicia di un bianco abbagliante, il colletto inamidato, i polsini con i gemelli, la cravatta annodata alla moda, gli occhiali dalla montatura costosa. Questo non è lo stile popolare, è lo stile degli évolués cresciuti alla scuola degli europei. Quando Nkrumah va in Europa, indossa a scopo dimostrativo il costume africano; quando Lumumba va in un villaggio africano indossa, per la stessa ragione, gli abiti europei. Può darsi che non lo faccia con intenzione, ma è così che viene interpretata. (p. 45)
  • Lumumba è figlio del suo popolo. Anche lui è ingenuo e mistico, passa facilmente da un estremo all'altro, dagli scoppi di gioia alla disperazione muta. È una figura appassionante perché incredibilmente complessa. Niente in quest'uomo si presta a una definizione. Ogni formula gli va stretta. Irrequieto, caotico, testa calda, poeta sentimentale, politico ambizioso, anima elementare, arrogante e nello stesso tempo umile; convinto sino all'ultimo della sua verità, sordo alle parole altrui, assorto nella propria bellissima voce. (pp. 48-49)
  • La versione "scientifica" con cui l'afrikaner presenta l'apartheid al mondo è questa: i bianchi e i non bianchi appartengono a due razze diverse, la cui convivenza nello stesso paese presenta sempre il rischio, per i bianchi, di perdere il potere e, per i non bianchi, di subire un'ingiustizia. Da un lato i bianchi non possono accettare di concedere i diritti politici ai non bianchi, perché questo provocherebbe l'assorbimento della civiltà occidentale da parte di quella indigena. Dall'altro, poiché gli indigeni lavorano nell'industria dei bianchi, sarebbe ingiusto negare loro i diritti civili. Inoltre il non bianco ha lo stesso diritto del bianco di sviluppare la propria lingua e la propria cultura. Se si rendesse l'africano cittadino di uno stato europeo (ed è così che l'afrikaner considera il Sudafrica), invece di essere un vero africano diventerebbe un'imitazione dell'uomo europeo. In uno stato europeo l'africano non può ottenere né la parità dei diritti né il potere, cosa che invece è possibile nel suo stato africano. L'africano perciò deve avere un suo paese (homeland), un territorio da considerare proprio e dove possa raggiungere la posizione che le sue capacità gli permettono. Questo terreno natale dell'africano, all'interno dello stato europeo, sono appunto le riserve esistenti, cui però conviene cambiare nome. Se un africano lascia la sua riserva per venire a lavorare nella ditta di un europeo, sarà trattato come un operaio immigrato temporaneo, senza diritti civili né politici. Ciò gli permetterà di capire e ricordare che, allo scadere del suo contratto nel Sudafrica europeo, dovrà tornarsene alla sua riserva. Bisogna innalzare il livello delle riserve e ricordare che per un bel pezzo i bianchi vi eserciteranno un mandato fiduciario, poiché gli africani non hanno ancora raggiunto lo stadio di sviluppo necessario ad autogovernarsi. (pp. 83-84)
  • L'afrikaner è un bianco che però non si considera europeo. Anzi l'afrikaner disprezza l'europeo, o se ne vergogna. In effetti, dal suo punto di vista, gli europei rappresentano la parte compromessa della razza bianca, il suo punto debole, la sua frazione più molle e opportunista. Secondo l'afrikaner, l'europeo è liberale, disonora la razza bianca cedendo terreno ai neri in Africa, è senza morale poiché la domenica va al cinema e al ristorante e, quel che è peggio, è spesso comunista. Tra gli afrikaner fanatici dirsi "jou europeen!" (tu europeo!) è una specie di ingiuria o di rimprovero, come dire "buono a nulla". L'afrikaner può anche conoscere qualche lingua europea, ma eviterà accuratamente di parlarla. Interrogato in inglese, da un giudice del tribunale, l'afrikaner risponde solo nella sua lingua, l'afrikaans. Se risponde in inglese, verrà considerato un traditore dagli altri afrikaner. (p. 84-85)
  • Gli afrikaner sono una delle quattro popolazioni di provenienza europea stabilitesi su territori extraeuropei in seguito alle grandi conquiste coloniali nel periodo del capitalismo nascente. Le altre tre popolazioni sono l'americana, l'australiana e la canadese. La geneologia storica di tutte e quattro è comune, ma la loro situazione attuale è diversa. Americani, australiani e canadesi discendono dal ceppo britannico, gli afrikaner da quello olandese. Tuttavia la differenza principale è un'altra. Gli Stati Uniti, il Canada e l'Australia sono riconosciuti come paesi dell'uomo bianco, e questo dato non viene più messo in discussione. Nessuno pretende che gli Stati Uniti restituiscano il potere agli indiani. Anche in Canada e in Australia la "questione indigena" non rappresenta certo uno scottante argomento di attualità politica. In Sudafrica è diverso. Una parte dell'opinione pubblica considera il proprio paese come la nazione degli africani, un'altra lo considera la nazione dell'uomo bianco, e un'altra ancora una nazione mista di bianchi e neri, la cosiddetta nazione multirazziale.<br\>La differenza tra la condizione di un afrikaner e quella, per esempio, di un americano, si deve al fatto che, negli Stati Uniti, gli americani bianchi rappresentano una netta maggioranza, mentre in Sudafrica gli afrikaner bianchi sono una netta minoranza. Infatti entrambe le colonizzazioni, l'americana e l'africana (concomitanti nel tempo e identiche nelle modalità di appropriazione), si differenziano fortemente per il grado di violenza e di impeto espansionista, nonché, fattre importantissimo, per il grado di resistenza incontrario. (pp. 85-86)
  • Gli afrikaner sostengono oggi che il Sudafrica appartiene solo a loro, perché quando vi arrivarono non era di nessuno. Si tratta di una vecchia bugia divulgata da tutti i colonialisti dall'America fino all'Oceania. Vero è invece che il Sudafrica era un paese scarsamente popolato, e tale si è mantenuto anche oggi, nel secolo dell'esplosione demografica mondiale. I coloni quindi spaziavano su grandi estensioni e l'ideale dell'afrikaner è sempre stato di avere intorno a sé abbastanza terra da non vedere, dalle finestre di casa, il fumo del camino del vicino. (p. 88)
  • Nella famiglia dell'afrikaner la forza lavorativa è lo schiavo, comprato al mercato di Città del Capo o catturato nella guerra contro una tribù africana. Gli afrikaner, infatti, sono perennemente in lotta con gli africani. Di spazio in Sudafrica ce n'è quanto se ne vuole, di terra fertile meno. Oggi si stima che solo il quindici per cento di tutto il Sudafrica si presti alla coltivazione senza bisogno di grossi investimenti per l'irrigazione. Allo stesso modo che il punto debole dell'industria sudafricana sta nella mancanza di risorse petrolifere, così il punto debole dell'agricoltura sta nella mancanza d'acqua. (pp. 88-89)
  • Da un punto di vista organizzativo, il trek fu un movimento partigiano. Da un punto di vista ideologico, fu un movimento religioso. Il suo scopo era la conquista coloniale dell'Africa, l'appropriazione della terra africana, condotta però con i metodi della lotta partigiana. Gli afrikaner, fanaticamente religiosi, si definivano il popolo eletto cui Dio aveva assegnato il Sudafrica come nuova patria. In un certo senso, fu il viaggio verso la terra promessa, la crociata dei colonialisti afrikaner per purificare la terra santa dalla barbarie nera. Dal punto di vista della forma, il movimento dei trekker ricorda i moti sociali contadini dell'Europa medioevale la cui motivazione è sempre religiosa; ma nella sostanza e nel significato, si tratta di un movimento di tipo predatore e coloniale. (p. 90)
  • C'è chi nasce per comandare, che per servire. Non ci si può far niente, è l'ordine del mondo voluto da Dio. Chi si azzarda a cambiarlo è un eretico da lapidare. Il dogma della predestinazione dice anche che chi nasce nella fede è creatura superiore a chi nasce nel paganesimo; è più vicina alla salvezza, poiché su di essa si è posata la mano di Dio. Fu con questa credenza che gli afrikaner giunsero in Sudafrica. L'immagine del mondo, forgiata dal dogma della predestinazione, appariva loro in tutta la sua manicheista evidenza. Da una parte loro, gli uomini di fede; dall'altra i pagani. L'uomo di fede era bianco, il pagano nero. Così Dio, nella sua saggezza, aveva creato il mondo, prediligendo i bianchi e condannando alla dannazione i neri. Il nero non può cambiare pelle né scrollarsi di dosso il paganesimo, poiché Dio ha stabilito una volta per tutte l'ordinamento del mondo. (p. 93)
  • Il razzismo afrikaner non deriva esclusivamente dal desiderio di difendere la sua posizione privilgiata nella società coloniale, come accade invece per gli inglesi. Il razzismo è per lui un dogma della fede, e nella sua coscienza la fede è una conferma dell'esistenza dell'afrikaner stesso. Ogni invito a riconoscere qualche diritto civile agli indigeni viene preso dall'afrikaner non solo come un attacco alla propria posizione sociale, ma anche come un gesto di persecuzione verso la propria fede, un oltraggio alla propria chiesa, una bestemmia. (p. 94)
  • Ben Bella aveva forte individualità, dominava nettamente per l'ampiezza delle vedute e la profondità del pensiero. Il suo pensiero era coraggioso e fecondo, anche se spesso incoerente. Una personalità di rilievo, ma estremamente complessa e disuguale. (p. 112)
  • [Su Ahmed Ben Bella] Ha conferito all'Algeria il prestigio di primo stato del Terzo Mondo. Voleva farne un ponte tra l'Africa e l'Europa per aprire alla sinistra europea e ai partiti comunisti la via all'Africa e al mondo arabo. (p. 112)
  • Il socialismo di Ben Bella è stato un esperimento audace e originale. Semplificando, voleva fondare un'economia socialista tenendo la sovrastruttura islamica. L'opposizione gli rimprovera di averne parlato troppo e di aver fatto troppo poco. Rinfaccia al socialismo di Ben Bella di essere stato un socialismo verbale. (p. 113)
  • Nel mondo arabo non esiste la tradizione dei partiti politici intesi come forza sociale di punta e bene organizzata. È difficile costruire un partito del genere. Del resto, Ben Bella non si dedicò affatto a questo compito: il partito gli occorreva come facciata, per disporre di un gruppo di collaboratori, e tanto gli bastava. (p. 115)
  • Forse la caduta di Ben Bella preannuncia la fine dell'epoca dei grandi capi del Terzo Mondo che sono emersi dalla grama vita quotidiana dei loro paesi, ma che erano più dei leader che degli economisti. Perfino Nyerere e Sékou Touré hanno perso slancio e sono stati schiacciati dall'economia. Le difficoltà economiche incalzano, mancano i dirigenti, il commercio va male. (p. 117)
  • Mobutu aveva arrestato il presidente Kasavubu, autonominandosi presidente per cinque anni. L'aspetto più curioso e interessante della dichiarazione era proprio il termine di "cinque anni" che Mobutu si era assegnato.
    E nessuno trovava niente da ridere.
    Mobutu aveva ragione: da queste parti, un ufficiale e mille soldati rappresentano una potenza senza rivali. Chi può contrastarli? Quanti partiti al governo hanno la possibilità di disporre, nel momento del bisogno, di mille uomini fidati, fedeli a un'idea e soprattutto non in contrasto tra loro? (p. 128)

Se tutta l'Africa

Incipit

I reportage raccolti in questo libro sono una relazione dei miei percorsi africani. Non sono andato in Africa in cerca di avventure, a caccia di elefanti o per trovarci i diamanti. Facevo il corrispondente dell'Agenzia stampa polacca e dovevo descrivere ciò che sentivo e che vedevo sul posto, ciò che vi succedeva. E a quell'epoca vi succedevano molte cose. Ho trascorso in Africa quasi sei anni del suo periodo più burrascoso e inquieto, colmo peraltro di belle - e talvolta troppo facili speranza. Si era alla svolta tra due epoche: la fine del colonialismo e l'inizio dell'indipendenza. Ho cercato di descrivere questo cambiamento, questo sconvolgimento, questa rivoluzione.

Citazioni

  • Nkruma'h, Ben Bella, Kasavubu e Balewa sono passati, ma sono stati grandi personalità dell'Africa e i loro nomi non verranno dimenticati. (pp. 11-12)
  • In Africa mi appassionava l'esotismo della vita politica, mi interessava soprattutto il modo in cui la tradizione locale, il costume, l'ambiente influivano sullo stile politico, deformandone i meccanismi per ricrearli in nuove forme. (p. 12)
  • L'Africa, ora buffa, ora minacciosa, ora triste, ora incomprensibile, è sempre stata autentica, irripetibile, se stessa. L'Africa ha un suo stile, un suo clima, una sua individualità che attirano, incatenano, affascinano. (p. 12)
  • L'Etiopia ha un presente modesto, ma vanta un illustre passato nonché un imperatore, il che permette all'etiope analfabeta di guardare dall'altro in basso i popoli della terra che non possono vantare un imperatore in carne e ossa. Ci troviamo in un'Africa che ignora i complessi di inferiorità e i problemi relativi alla razza. Per quanto di costituzione smilza e minuta, Hailè Selassiè ha un'energia di ferro, è uno di quei grandi vecchi che stupiscono per la loro vitalità e chiarezza di idee. Come persona è straordinariamente simpatico: è sereno, accattivante e nel suo modo di fare c'è quel momento di timidezza e imbarazzo con cui i grandi della terra si conquistano la simpatia dei piccoli. (p. 33)
  • Il potere di Hailè Selassiè è assoluto: in Etiopia non esistono né partiti politici né sindacati e il parlamento ha un ruolo puramente simbolico e nominale in quanto non esistono neanche le elezioni. I due massimi poteri organizzati di questo regime tipicamente feudale sono un potente esercito e una potentissima Chiesa. L'imperatore, che senza dubbio la suprema mente politica del paese, esercita quindi il potere non solo in virtù del suo titolo ma anche grazie ai suoi alti valori personali. Hailè Selassiè nutre ambizioni panafricane e ambisce a venire considerato il numero uno di tutta l'Africa. (p. 34)
  • Tubman, che è ormai un anziano signore dai capelli bianchi, ha maniere gioviali e ama le barzellette. Sempre vestito in frac e bombetta e con un eterno sigaro tra le labbra, ha una voce profonda, rauca e dal forte accento americano. Politicamente è filoamericano, ma senza fanatismi anticomunisti. (p. 35)
  • Essendo figlio di un capo della grande tribù nigeriana dei pastori fulani, Ahidjo è un estraneo nel Camerun, dominato dal gruppo etnico dei bantu meridionali. Ma dietro Ahidjo c'è Parigi e questo ha il suo peso. (p. 38)
  • La Francia ha scelto come capi delle sue client-countries africane dei politici non solo leali nei confronti di Parigi, ma anche umanamente insignificanti e incapaci di un'opinione personale. (p. 39)
  • Youlou, piccola di statura, indossa sempre una sottana da gesuita sebbene non sia mai appartenuto a quest'ordine ma sia stato un semplice prete, peraltro ormai espulso dalla Chiesa per via delle sue propensioni gallanti. Sull'indice della mano destra Youlou porta un mostruoso anello, copia ingrandita dell'anello pontificale. (p. 39)
  • [Su Léopold Sédar Senghor] A suo avviso l'Africa rappresenta innanzitutto una comunità culturale, da lui definita con il termine di africanité, la cui principale caratteristica è la passion dans les sentiments. Oltre a questa comunanza culturale, la base dell'unità africana è notre situation commune de pays sous développés. L'unità appare indispensabile alla realizzazione di uno sviluppo economico che restituisca all'Africa quella piena dignità umana negata e mutilata dal colonialismo. (p. 40)
  • Adoula è un tipo strano: non guarda in faccia nessuno, tiene sempre gli occhi fissi sul piano del tavolo o sul pavimento e non sorride mai. Kasavubu è l'esatto contrario: un grassone gioviale e soddisfatto, con stampato in faccia un enigmatico sorrisetto. (p. 41)
  • La politica di Tsiranana è estremamente reazionaria e il presidente non ne fa certo mistero. (p. 42)
  • [Sulla Sierra Leone] La vita politica del piccolo paese (stretto tra la Guinea e la Liberia) si riduce da molti anni alla lotta per il potere tra due fratelli: il sudetto Milton Augustus e il fratello Albert Michael, di quindici anni più giovane, entrambi di professione infermieri. (pp. 42-43)
  • Se Obote governasse un paese normale, l'Africa si arricchirebbe di un leader audace e di grande rilievo. Purtroppo l'Uganda è un paese assurdo, in cui il settore che conta politicamente è formato da quattro regni feudali, mantenuti in vita grazie all'appoggio inglese e all'oscurantismo delle masse, che conducono una politica di sabotaggio contro il governo di Obote. Il premier ugandese, che ha le mani legate, deve quindi stare attento a muoversi con cautela, mostrandosi estremamente duttile e scegliendo con cura le sue parole. (pp. 43-44)
  • Il Ruanda è uno dei paesi africani più reazionari, il cui Stato rappresenta il bastione e il sostegno del cattolicesimo nella parte francofona del continente. In pratica si tratta di un piccolo paese teocratico, governato da un arcivescovo. Uno degli articoli della costituzione ruandese definisce la lotta contro il comunismo il dovere costituzionale di ogni cittadino. In Ruanda vive un monaco che è stato l'insegnante dell'intero corpo governativo. (p. 46)
  • Balewa è un uomo alto, grosso, dal modo di fare lento e solenne caratteristico di tutti i musulmani subsahariani, dai quali infatti proviene (è originario del Nord musulmano della Nigeria). Ha una faccia da contadino tagliata con l'accetta, e di stampo contadino è anche il suo conservatorismo, più pratico che intellettuale. Parla brevemente, senza addentrarsi in concetti filosofici, ma quello che dice è espresso in un modo estremamente determinato e che suscita rispetto. (p. 46)
  • Nasser è poco fotogenico: nelle foto il suo viso assume sempre un aspetto vagamente demoniaco. In realtà è un bell'uomo, robusto di costituzione atletica, sempre gentile e sorridente. (p. 52)
  • Succede sempre ogni volta che in una conferenza panafricana prende la parola la Somalia. La questione è ben nota: i somali sostengono che la vera e propria Somalia, o Grande Somalia, si compone di cinque Somalie minori: la Somalia italiana, la Somalia inglese, la Somalia francese, la Somalia etiopica e la Somalia kenyota, delle quali soltanto due (l'italiana e l'inglese) si trovano entro le frontiere dello Stato somalo. La Somalia ha posto come principale obiettivo della sua politica estera la riconquista delle altre tre parti. Se dirigesse il suo attacco contro la Somalia francese, ultima ufficiale colonia africana della Francia, potrebbe contare sull'appoggio degli altri Stati africani; invece appunta tutto il suo ardore patriottico contro l'Etiopia e il Kenya, il che condanna i suoi sforzi al più completo isolamento: nessun paese africano vuole infatti creare un pericoloso precedente di revisione delle frontiere. A quel punto bisognerebbe rivedere anche tutte le altre frontiere: ma secondo quale criterio? (p. 52)
  • Dacko è un uomo elegante e alla moda che si muove con aria sicura di sé. Per i francesi rappresenta un problema in quanto fanno molta fatica a mantenerlo al potere. Infatti hanno dovuto sciogliere il parlamento dopo che questo ha negato due volte la fiducia al presidente; poi è stato attaccato da alcuni partiti avversi e i francesi hanno dovute arrestarne i capi. (p. 55)
  • La Mauritania si trova al confine tre due mondi: il Nord arabo e il Sud nero. La religione e i legami di sangue l'accomunano al Nord, mentre dal punto di vista economico-commerciale è sempre stata legata ai vicini del Sud, soprattutto al Senegal. (p. 56)
  • Il re della Libia è l'unico capo di Stato africano a non parlare nessuna lingua straniera; in compenso il suo palazzo è custodito da due compagnie di un esercito straniero, precisamente inglese. (p. 58)
  • Houphouët ha inferto duri colpi alle forze progressiste dell'Africa e nelle rivoluzioni ha svolto un ruolo più dannoso di molti altri famosi (o per meglio dire famigerati) nomi africani. L'annientamento delle forze progressiste di sinistra nell'ex Africa francese è soprattutto merito suo. Il presidente della Costa d'Avorio è un ideologo africano, organizzatori e promotore del neocolonialismo francese. (pp. 59-60)
  • In Africa sono noti il lusso e il fasto di cui si circonda Houphouët-Boigny. Oltre a varie residenze in Costa d'Avorio, possiede una villa nei dintorni di Parigi e un palazzo in Svizzera acquistato per la figlia di dieci anni iscritta a una scuola di quel paese. (p. 60)
  • Visto che la situazione africana è caratterizzata da due dati fondamentali, ossia, da una parte, la tendenza all'autonomia e, dall'altra, la sostanziale impossibilità di raggiungerla in modo completo, ogni centro politico extra-africano vi trova qualcosa che gli fa comodo. Per il blocco comunista questo qualcosa è l'irremovibile tendenza dell'Africa a rendersi indipendente; per l'Occidente, la sua impossibilità di ottenere un'indipendenza completa. (p. 72)
  • [Su Fulbert Youlou] [...] più che un protetto di de Gaulle, è uno strumento nelle mani del suo primo consigliere, M. Delarue, ex alto funzionario della Gestapo condannato dopo la guerra all'ergastolo per i crimini commessi durante l'occupazione nazista. (p. 73)

Shah-in-Shah

Studenti dell'Università di Teheran abbattono una statua dello scià durante la Rivoluzione iraniana
  • Khomeini conduce una vita ascetica: si nutre di riso, yogurt e frutta, abitando in una sola stanza spoglia e senza mobili, eccetto un giaciglio sul pavimento e una pila di libri. (p. 15)
  • [Su Ruhollah Khomeyni] Parla senza gesticolare, le mani poggiate sui braccioli della poltrona. Siede rigido, senza un movimento della testa o del corpo; di tanto in tanto aggrotta l'alta fronte e solleva le sopracciglia ma, a parte questo, non un muscolo vibra nel volto deciso e inflessibile di quest'uomo profondamente ostinato, dalla volontà ferma e irriducibile, immune da ripensamenti e forse anche da dubbi. Una faccia immutabile, scolpita una volta per tutte, che non tradisce emozioni né umori, che nulla esprime se non una continua attenzione e un'intensa concentrazione interiore. Solo gli occhi sono costantemente in movimento: il loro sguardo vivo e penetrante percorre il mare delle teste ricciute, misura la profondità della piazza e la distanza dei suoi margini, ispeziona meticolosamente lo spazio, quasi alla ricerca di una persona precisa. Parla con voce piatta e monotona, dal ritmo lento e regolare: una voce potente ma priva di note alte, aliena da ogni brillantezza e splendore. (pp. 15-16)
  • [Su Reza Pahlavi] È profondamente convinto della sua missione e sa dove vuole arrivare (per dirla con la sua innata brutalità, vuole mettere al lavoro la folla ignorante e costruire un forte stato moderno davanti al quale – dice – tutti se la facciano addosso dalla paura). Ha la mano di ferro prussiana e la sbrigativa efficienza dell'aguzzino. Il vecchio Iran apatico e sonnolento (per ordine dello scià da questo momento in poi la Persia si chiamerà Iran) trema fin nelle fondamenta. (p. 32)
  • [Su Reza Pahlavi] Per punire i cosiddetti disenzienti, li obbliga a presentarsi quotidianamente alla polizia. Nei ricevimenti le signore dell'aristocrazia svengono di paura quando quel colosso arcigno e inavvicinabile le squadra con occhio severo. Reza Khan conserva finché è al potere molte abitudini dell'infanzia contadina e dell'adolescenza in caserma. Vive a palazzo, ma continua a dormire per terra; indossa sempre l'uniforme, mangia nello stesso piatto con i soldati. È uno di loro, però è anche avido di terra e denaro. Approfittando del suo potere, accumula un patrimonio sconfinato. Diventa il feudatario numero uno, padrone di quasi tremila villaggi e dei duecentocinquantamila contadini a essi assegnati; detiene azioni industriali e partecipazioni bancarie, riceve tributi, calcola, addiziona; basta che l'occhio gli cada su una bella foresta, una valle verdeggiante, una piantagione fertile perché foresta, valle e piantagione diventino sue; infaticabile, insaziabile, accresce continuamente i suoi beni, accumula e moltiplica la sua pazzesca fortuna. Guai a chi si avvicina al confine delle sue terre. (pp. 33-34)
  • [Su Reza Pahlavi] Accanto alla crudeltà, all'avidità e alle stravaganze, il vecchio scià ha anche i suoi meriti, come quello di salvare l'Iran dalla dissoluzione che minacciava lo stato dopo la Prima guerra mondiale. Inoltre ha cercato di modernizzare il paese costruendo strade e ferrovie, scuole e uffici, aeroporti e nuovi quartieri nelle città. Eppure il paese resta povero e apatico: così, alla morte di Reza Khan, il popolo esultante festeggia a lungo l'avvenimento. (p. 34)
  • Il sovrano adorava leggere libri che trattavano di lui e sfogliare gli album pubblicati in suo onore. Amava molto anche presenziare all'inaugurazione di statue e ritratti che lo raffiguravano. Non bisognava cercarli lontano. Bastava fermarsi a caso in un posto qualsiasi e guardarsi intorno: lo scià appariva dappertutto. (p. 36)
  • I rapporti tra Mossadeq e gli scià Pahlavi (padre e figlio) non sono mai stati buoni. Mossadeq ha una formazione di stampo francese: liberale e democratico, crede in istituzioni quali palamento e libertà di stampa e deplora lo stato di dipendenza in cui versa la sua patria. (p. 38)
  • [Su Mohammad Mossadeq] Tutte le sue speranze sono svanite, i calcoli si sono rivelati errati. Ha cacciato gli inglesi dai campi petroliferi sostenendo che ogni paese ha diritto di disporre le proprie ricchezze, ma dimenticando che la forza ha sempre la meglio sul diritto. L'Occidente ha decretato il blocco dell'Iran e il boicottaggio del petrolio iraniano, facendone un frutto proibito per tutti i mercati. Mossadeq contava che gli americani lo sostenessero e lo aiutassero nel conflitto contro gli inglesi. Ma gli americani non gli hanno teso la mano. (pp. 40-41)
  • Le sedi della Savak erano ignote. Non aveva una centrale, era sparpagliata in tutta la città (e in tutto il paese), si trovava ovunque e in nessun posto. (p. 66)
  • L'Iran apparteneva alla Savak, ma la Savak agiva come un'organizzazione clandestina: appariva e spariva, cancellava le sue tracce, non aveva indirizzo. Certe sue sezioni erano invece ufficialmente riconosciute. Stampa, libri e film subivano la sua censura (fu la Savak a proibire Shakespeare e Molière, le cui opere criticavano i difetti dei re), spadroneggiava nelle università, negli uffici, nelle fabbriche. Era un mostruoso cefalopode che avvolgeva ogni cosa, si insinuava in ogni spiraglio, incollava ovunque le sue ventose, frugava, fiutava, grattava, scavava. Annoverava sessantamila agenti, senza contare i tre milioni di informatori (così almeno si calcola) che denunciavano la gente per i più svariati motivi: il denaro, salvezza personale, posti di lavoro, promozioni. La Savak era libera di comprare la gente o di torturarla, di distribuire impieghi o di recludere nei sotterranei. Stabiliva chi fossero i nemici da annientare. Le sue erano condanne senza revisioni né appelli. L'unica persona a cui quell'istituzione dovesse render conto del suo operato era lo scià: gli altri non contavano niente. (pp. 66-67)
  • Un iraniano in patria non può leggere i libri dei suoi migliori scrittori (che vengono stampati solo all'estero), non può vedere i film dei suoi migliori registi (proibiti nel paese), non può ascoltare la voce dei suoi intellettuali (condannati al silenzio). Lo scià lascia i sudditi liberi di scegliere tra Savak e mullah, e quelli ovviamene scelgono i mullah.
    Quando si parla della caduta di una dittatura (e il regime dello scià è stato una dittatura particolarmente brutale ed efferata) c'è poco da illudersi che con essa svanisca di colpo, come un brutto sogno, anche l'intero sistema. Finisce di esistere fisicamente, ma le sue conseguenze psicologiche e sociali permangono per anni, sopravvivendo in comportamenti inconsapevoli. Una dittatura che annienta intellighenzia e cultura lascia dietro di sé terre incolte, dove l'albero del pensiero faticherà molto a rinascere. (p. 79)
  • La vera passione, l'hobby della sua vita è l'esercito. Una passione e un hobby non del tutto disinteressati. L'esercito è sempre stato il principale e poi anche l'unico sostegno del trono. Una volta dissolto l'esercito, lo scià smette di esistere. (p. 82)
  • Agli occhi dell'iraniano medio, la Grande Civiltà, ossia la Rivoluzione dello Scià e del Popolo, si configura soprattutto come una Grande Rapina praticata dall'élite. Chiunque ha il potere ruba. Chi occupa una carica e non ruba si fa il vuoto intorno, viene sospettato di essere una spia mandata a scoprire quanto rubino gli altri, per poi riferirlo al nemico, avido di informazioni del genere. (pp. 87-88)
  • È difficile farsi un'idea del fiume di soldi che affluisce nelle casse dello scià, della sua famiglia e di tutta l'èlite cortigiana. I parenti dello scià intascano tangenti dai tre ai quattro miliardi di dollari, ma il grosso del capitale si trova nelle banche estere. Primi ministri e generali prendono bustarelle dai venti ai cinquanta milioni di dollari. Per le cariche inferiori le tangenti sono più modeste, ma non per questo inesistenti, anzi. Con l'aumento dei prezzi aumentano anche le tangenti: la gente si lamenta di dover sacrificare una parte sempre maggiore dei propri guadagni al moloch della corruzione. (p. 88)
  • Perseguitato dal despota, espulso dal paese, era diventato l'idolo e l'anima stessa del popolo. Distruggere il mito di Khomeini significava distruggere qualcosa di sacro, annientare le speranze degli umiliati e degli offesi. (p. 140)
  • Khomeini, per molti versi, era un individuo fuori della norma, una personalità fortissima, dotata di grande magnetismo, di vero carisma, e le masse iraniane lo seguivano con fede cieca. (p. 181)

Stelle nere

  • Lumumba era una fiamma ardente, sempre in preda dalla passione: qualcuno lo ha definito una freccia incoccata su un arco teso. (p. 69)
  • Quando un negro si vergogna, chiude gli occhi. Al suono della parola "Ciombe" li chiude tutta l'Africa.
    In Polonia, Ciombe non viene giudicato in modo corretto. Lo consideriamo un traditore. Ciombe non è un traditore per la semplice ragione che non ha mai tradito nessuno. Non ha tradito il popolo: lo ha sempre odiato. Non ha tradito Lumumba: ha sempre che l'avrebbe bruciato sul rogo. Ciombe è sempre stato contro l'unità e la libertà, per cui non ha dovuto tradire neanche questi ideali. Ciombe è sempre stato quello che è: un mascalzone. Ma se nella mascalzonaggine esiste una qualche forma di grandezza, lui l'ha raggiunta. Eccellente politico, Ciombe supera di una spanna tutti i mobutu, i kasavubu e i kalongi messi insieme ed elevati alla decima potenza. (p. 77)
  • L'Africa ride di Mobutu perché è una figura comica. (p. 77)
  • Mobutu ha sempre avuto fifa di tutto. (p. 78)
  • Di Ciombe l'Africa non ride, l'Africa lo odia. Ciombe irrita il nervo più sensibile del Continente Nero, ossia il separatismo. L'intero neocolonialismo punta sulla speranza che i giovani governi africani siano discordi, instabili, divorati da ondate di antagonismi tribali, e Ciombe va incontro a questa speranza. Ciombe è l'ideologo della divisione, dello spezzattamento del continente. (p. 78)

Bibliografia

  • Ryszard Kapuściński, Ebano, traduzione di Vera Verdiani, Feltrinelli, Milano, 2009. ISBN 978-88-07-81706-9
  • Ryszard Kapuściński, Il negus: splendori e miserie di un autocrate, traduzione di Vera Verdiani, Feltrinelli, Milano, 2008. ISBN 978-88-07-81742-7
  • Ryszard Kapuściński, La prima guerra del football e altre guerre di poveri, traduzione di Vera Verdiani, Feltrinelli, Milano, 2014. ISBN 978-88-07-88494-8
  • Ryszard Kapuściński, Se tutta l'Africa, traduzione di Vera Verdiani, Feltrinelli, Milano, 2018. ISBN 978-88-07-89097-0
  • Ryszard Kapuściński, Shah-in-Shah, traduzione di Vera Verdiani, Feltrinelli, Milano, 2004. ISBN 88-07-81778-0
  • Ryszard Kapuściński, Stelle nere, traduzione di Vera Verdiani, Feltrinelli, Milano, 2015. ISBN 978-88-07-03132-8

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