Luigi Barzini (1874-1947): differenze tra le versioni

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==Citazioni di Luigi Barzini Senior==
==Citazioni di Luigi Barzini Senior==
*Così giovane e già così Barzini? Sì.<ref>Citato in Marzio Breda, ''[http://www.corriere.it/cultura/17_marzo_30/simona-colarizi-luigi-barzini-marsilio-69a9e3d8-156e-11e7-9957-bbceb60275cc.shtml L’Italia che si specchia in Barzini]'', ''Corriere.it'', 31 marzo 2017</ref>
*Così giovane e già così Barzini? Sì.<ref>Citato in Marzio Breda, ''[http://www.corriere.it/cultura/17_marzo_30/simona-colarizi-luigi-barzini-marsilio-69a9e3d8-156e-11e7-9957-bbceb60275cc.shtml L’Italia che si specchia in Barzini]'', ''Corriere.it'', 31 marzo 2017.</ref>
*La [[civiltà]] è una cosa bellissima, ma orribilmente monotona.<ref>Da ''Nell'estremo oriente'', Madella, 1915.</ref>
*La [[civiltà]] è una cosa bellissima, ma orribilmente monotona.<ref>Da ''Nell'estremo oriente'', Madella, 1915.</ref>



Versione delle 14:26, 3 mar 2019

Scipione Borghese (sinistra) con Luigi Barzini (destra) al loro arrivo a Berlino nel corso del raid Pechino-Parigi

Luigi Barzini senior (1874 – 1947), giornalista, scrittore e corrispondente di guerra italiano.

Citazioni di Luigi Barzini Senior

  • Così giovane e già così Barzini? Sì.[1]
  • La civiltà è una cosa bellissima, ma orribilmente monotona.[2]

Avventure di un paio di stivali

Incipit

Con la modica spesa di mezza rupia mi sono fatto trascinare in «rickshas», piccola vettura tirata da un indigeno, il quale corre continuamente in modo spaventoso. Secondo l'abitudine, la vettura si è regolarmente rovesciata, girando l'angolo d'un mercato, e io sono caduto fra le ceste di banane e arance.
Un nuvolo d'indigeni si è precipitato a raccogliermi e a ripormi sul seggiolino disertato, reclamando una mancia che mi sono guardato dal pagare.

Citazioni

  • [...] nell'«hackeries» – così si chiama quest'altra vettura – si ha la vicinanza poco profumata del guidatore. Preferisco cadere dieci volte dal più fracassato dei «rickshas».

U.R.S.S. l'impero del lavoro forzato

Incipit

La Russia bolscevica accoglie lo straniero con una correttezza formale e posata.
Arrivando ci si aspetta, non si sa perché, un apparato più severo e rivoluzionario, qualche cosa nella buona tradizione cinematografica, baionette in canna, comandi rauchi, volti feroci, un po' di confusione comunista. Invece no.
Le giovani guardie della «Ghepeù»[3] di frontiera, che compaiono sul treno ancora in moto a ritirare i passaporti, vestono con una eleganza vecchio stile il caratteristico cappotto dei soldati russi, lo stesso del tempo zarista – quella specie di pittoresca tunica avana attillata al busto e ricadente gonfia a gonna dai fianchi fino a terra –, portano il berretto a piatto dei vecchi tempi, e, se il loro sguardo è insistente ed inquisitivo, la loro parola è deferente e breve. Le mani esperte dei doganieri penetrano in ogni angolo delle vostre valigie ma poi non disdegnano di rimettere le cose a posto. Vi è quasi troppo ordine, troppo silenzio, troppo raccoglimento.

Citazioni

  • Perfino la parola Russia è scomparsa, condannata come reazionaria. Non si dice più che U.R.S.S.: una sigla che cancella i confini con l'intenzione di includere eventualmente il resto del mondo. (cap. 2, p. 16)
  • Per fermare gli impulsi vagabondi delle masse il bolscevismo è ricorso agli stessi metodi di Ivan il Terribile e di Boris Goudonov.
    Si è stabilito un passaporto interno che inchioda. Nessuno può muoversi senza permesso. L'operaio è legato all'officina e il contadino alla «collettivazione». (cap. 2, p. 18)
  • I cani, anche quelli non randagi, sono completamente scomparsi dalle città russe, come sono scomparsi i gatti e tutti gli altri animali domestici delle classi parassitarie (insetti esclusi). Vi sono stati periodi della tragedia bolscevica in cui la fame ha fatto utilizzare le più imprevedibili commestibilità. I cani e i gatti si sono trovati nell'alternativa di essere mangiati o di morire di fame, per mancanza della tessera del pane. Comunque sia, sono estinti. (cap. 4, p. 40)
  • Sulle sofferenze della vecchia Russia si sono formate molte leggende. Mancava la libertà ma non mancava il pane. Ci voleva una dura carestia o una lunga guerra perché, sulle zone private dei raccolti dalla siccità o dalla requisizione, si arrivasse alla fame. (cap. 10, p. 136)
  • Con quattro parole [la terra ai contadini], una frase magica netta come un colpo di spada, Lenin offriva alle fantasie e alle passioni un orientamento, la soluzione radicale e fulminea a quell'antico problema rurale che era stato l'incubo dell'Impero, la ragione di tutte le sommosse, le rivolte, e congiure, l'anima stessa della rivoluzione. Da Pietro il Grande a Nicola II, la storia russa si annoda attorno alla questione agraria (cap. 10, pp. 140-141)
  • La gioventù che esce dalle università sovietiche e che formerà le future classi dirigenti è di una ignoranza stupefacente, fuori delle sue specializzazioni. Chiusa nella rigidità di dottrine assolute come in una prigione, privata di termini di paragone e di elementi di giudizio, manca di senso critico e di equilibrio spirituale. Crede alla propria superiorità nell'universo ed alla propria perfezione. È fanatica, dogmatica, invasa da un misticismo conquistatore, combattiva, inflessibile, piena di un orgoglio esasperato. Ignora o nega la parte che il talento straniero ha nella ricostruzione russa, e considera la scienza come un prodotto del bolscevismo. Troppo sicura di sé per dubitare della sua competenza, si slancia al lavoro, entusiasta, attiva, col più grande disprezzo per chi, più anziano, le ingombra il passo. (cap. 11, pp. 192-193)
  • L'utopia comunista è forzata ad una revisione perpetua dei suoi postulati. Per cercare di far scaturire negli uomini al lavoro una più intelligente volontà di sforzo, ha dovuto rinunziare alla livellazione sociale ristabilendo differenziazioni di compensi, di regimi di vita, di classi sociali. Per tentare di riuscire il comunismo deve farsi meno comunista. (cap. 12, p. 240)
  • Lo spionaggio mantiene il terrore. Nelle scuole rurali si educano i bambini a sorvegliare le loro famiglie e a riferire quello che sentono e quello che vedono fra le pareti domestiche. Il contadino si chiude nella sua impassibilità come in una corazza. (Cap. 13, p. 244)

Explicit

Auguriamo alla Russia un più grande progresso: quello del benessere sociale, della equità e della bontà diffuse nella vita degli uomini. Le gigantesche opere figlie e generatrici della potenza dell'U.R.S.S. ci sembreranno infinitamente più apprezzabili e degne quando non le vedremo più ergersi come isole sinistre sopra un torbido mare di povertà, di sofferenza, di schiavitù, di paura, di dolore, di odio, di fanatismo. L'operosità, la mitezza e la pazienza delle masse russe meritano il premio ed il conforto di una esistenza più alta, più lieta, più umana.

Incipit di alcune opere

Al fronte

2 giugno 1915.

Ho vissuto i primi sei giorni della guerra sulla fronte friulana. Al settimo giorno tutte le persone che non abitano permanentemente quelle terre, giornalisti compresi, sono state invitate a ritirarsi. In questo momento e nelle condizioni attuali la misura è giustificata. L'opinione pubblica non interpreti l'allontanamento della stampa dai campi di battaglia come un provvedimento di politica interna. Sento il dovere di dirlo subito, altamente, onestamente: il popolo non si lasci trascinare da quel fondo vago di diffidenza che è nel nostro carattere per immaginare che il momentaneo esilio dei corrispondenti dalla guerra abbia lo scopo di nascondere alla nazione dei possibili mali. Vi sono molte cose da nascondere, è vero, ma al nemico. E per celarle a lui bisogna celarle a tutti.

Dall'impero del Mikado all'impero dello Zar

La vecchia Europa considera il Giappone un po' come suo figlio adottivo. Gli ha tirato gli orecchi per correzione, quando si è mostrato troppo intraprendente; si sa, con gl'interessi non si scherza; ma in fondo ha serbato sempre per esso una profonda simpatia. Una simpatia tanto più viva in quanto che si compone di vanità soddisfatta, di amor proprio lusingato. Le vittorie del Giappone, i suoi progressi prodigiosi vengono riguardati dall'Europa quasi come sue vittorie e suoi progressi.

Gl'italiani della Venezia Giulia

Il Luogotenente Hohenlohe, inaugurando l’esposizione Adria a Vienna nel maggio (1913) ebbe a dire che Trieste non appartiene a nessuna nazionalità. Questa affermazione basta ad illuminare i suoi intendimenti di governo. Negare la nazionalità italiana a Trieste è come negare la luce del sole. Il viaggiatore che arriva da certe regioni del regno d’Italia deturpate d’esotismo, vivendo a Trieste e nelle paesane città dell’Istria prova l’impressione di trovarsi a contatto di una nazionalità più pura, più schietta, più viva di quella che ha lasciato. L’italianità vi si compenetra tutta di un calore rovente di cosa percossa.

La metà del mondo vista da un’automobile

Il 18 Marzo 1907, a mezzogiorno (data per me memorabile), ero allo scrittoio, completamente immerso nello studio dell’organizzazione ferroviaria nord-americana. In quel tempo mi dedicavo con passione ai problemi della strada ferrata, ne scrivevo e ne parlavo, pascevo il mio spirito di regolamenti e di orari nazionali ed esteri. All’improvviso una lunga scampanellata del telefono, posato proprio sul mio tavolo da lavoro, mi strappò violentemente dalle reti ferroviarie degli Stati Uniti.

L'Argentina vista come è

Da bordo del Venezuela, 12 ottobre.

Chi può udire senza commozione profonda il grido che si leva da una nave carica d'emigranti, nel momento della partenza, quel grido al quale risponde la moltitudine assiepata sulle banchine, urlo disperato di mille voci rauche di pianto? Gridano addio! E par che gridino aiuto!...

Una porta d'Italia col Tedesco per portiere

Un po’ di storia. Abbiamo occupato l’Alto Adige nel novembre del 1918 e vi abbiamo stabilito un governo militare. Fu un governo sentinella. Ebbe l’ordine di non urtar niente, di muoversi in punta di piedi per lasciar dormire l’Alto Adige, così come l'avevamo trovato, fino al momento in cui si sarebbe presa qualche decisione. Il Ministero non aveva un programma. Imbarazzato fra le necessità nazionali, l’incubo del Consiglio Supremo, la propria ignoranza e il feticismo per una libertà demagogica, esso sceglieva il minimo comun denominatore di tutte queste influenze. Oscillava così fra una vaga volontà di energia e il desiderio che questa energia non trapelasse, come Tartarin che chiamava il leone ma a bassa voce per non esserne udito. Raccomandava concisamente «tatto e moderazione». Non sapeva quel che si dovesse fare, ma prescriveva che fosse fatto «a gradi». Dimenticava quella grande ed eterna regola fondamentale che nei momenti di crisi prescrive di fare le cose spiacevoli ma necessarie tutte in una volta e di far poi un po’ alla volta quelle bene accette, per la stessa ragione per cui s’ingoja d’un colpo la medicina amara e si centellina lentamente il buon liquore. La politica saggia è quella che si adatta alla natura degli uomini. Ma bisogna sapere qual’è la medicina e qual’è il liquore. Il Governo non pensò nemmeno d’informarsi in modo conclusivo, non ordinò studi ed inchieste a tecnici provetti: era già abituato ad affrontare i più formidabili problemi del mondo senza conoscerli.

Note

  1. Citato in Marzio Breda, L’Italia che si specchia in Barzini, Corriere.it, 31 marzo 2017.
  2. Da Nell'estremo oriente, Madella, 1915.
  3. Il Direttorato politico dello Stato, più nota con l'acronimo GPU (pronunciato Ghepeù), fu la polizia segreta del regime sovietico fino al 1934.

Bibliografia

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