Angelo Del Boca: differenze tra le versioni

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*{{NDR|Sull'appoggio di [[Amhà Selassié]] per il [[Colpo di Stato in Etiopia del 1960]]}} Su questo episodio non è mai stata fatta chiarezza. Asfa Wossen dirà più tardi di aver letto il proclama alla radio mentre un ufficiale ribelle gli teneva puntata una pistola alla tempia. Ma l'ufficiale in questione, capitano Asrat Deferresu, smentirà molti anni dopo questa circostanza precisando che il principe ereditario non aveva opposto alcun rifiuto all'invito degli insorti. Comunque siano andate le cose, Asfa Wossen annunciava al popolo etiope la fine della tirannide e l'inizio di una nuova era, di libertà e di benessere. (p. 252)
*{{NDR|Sull'appoggio di [[Amhà Selassié]] per il [[Colpo di Stato in Etiopia del 1960]]}} Su questo episodio non è mai stata fatta chiarezza. Asfa Wossen dirà più tardi di aver letto il proclama alla radio mentre un ufficiale ribelle gli teneva puntata una pistola alla tempia. Ma l'ufficiale in questione, capitano Asrat Deferresu, smentirà molti anni dopo questa circostanza precisando che il principe ereditario non aveva opposto alcun rifiuto all'invito degli insorti. Comunque siano andate le cose, Asfa Wossen annunciava al popolo etiope la fine della tirannide e l'inizio di una nuova era, di libertà e di benessere. (p. 252)


*{{NDR|Sul fallimento del [[Colpo di Stato in Etiopia del 1960]]}} Troppe forze, nel paese, erano ancora contrarie ai cambiamenti radicali: non soltanto l'esercito, saldamente in pugno a uomini devoti all'imperatore, e la Chiesa copta, che si era affrettata a condannare i «traditori», ma lo stesso popolo etiopico, che pure soffriva in silenzio. [[Germame Neway|Germamè Neway]] si era illuso che i tempi fossero maturi per la rivolta ed era uscito allo scoperto, innalzando pateticamente, lo stendardo della rivoluzione. In questo errore non cadranno, tredici anni dopo, i militare del ''[[Derg]]'', i quali agiranno con un'esasperante gradualità servendosi persino dell'imperatore per svuotare il regime sino a farlo morire. (p. 255)
*{{NDR|Sul fallimento del [[Colpo di Stato in Etiopia del 1960]]}} Troppe forze, nel paese, erano ancora contrarie ai cambiamenti radicali: non soltanto l'esercito, saldamente in pugno a uomini devoti all'imperatore, e la Chiesa copta, che si era affrettata a condannare i «traditori», ma lo stesso popolo etiopico, che pure soffriva in silenzio. [[Germame Neway|Germamè Neway]] si era illuso che i tempi fossero maturi per la rivolta ed era uscito allo scoperto, innalzando pateticamente, lo stendardo della rivoluzione. In questo errore non cadranno, tredici anni dopo, i militari del ''[[Derg]]'', i quali agiranno con un'esasperante gradualità servendosi persino dell'imperatore per svuotare il regime sino a farlo morire. (p. 255)


*Il colpo di Stato in [[Eritrea]], meditato da [[Haile Selassie|Hailè Selassiè]] sin dal giorno in cui aveva ratificato ad Addis Abeba l'atto federale, era tanto più grave in quanto in palese contraddizione con la politica che egli aveva inaugurato, a partire dalla seconda metà degli anni '50, nei confronti del continente africano e dei paesi non allineati. In poco tempo si era conquistato una solida reputazione di «pelegrino della pace», predicando l'unità degli africani, la moderazione, la concordia, le virtù del negoziato, e condannando severamente l'impiego della forza come mezzo di risoluzione delle controversie e intervenendo più volte come abile, ostinato e fortunato mediatore. Ma questa volontà di conciliazione, che egli manifestava nei riguardi di tutti i problemi esterni all'Etiopia, evidentemente non doveva ritenerla valida per le questioni interne dell'interne dell'impero, se è vero che egli decideva di rispondere con la repressione alle richieste di autonomia prima degli eritrei e poi dei somali, degli oromo e dei sidamo. (p. 274)
*Il colpo di Stato in [[Eritrea]], meditato da [[Haile Selassie|Hailè Selassiè]] sin dal giorno in cui aveva ratificato ad Addis Abeba l'atto federale, era tanto più grave in quanto in palese contraddizione con la politica che egli aveva inaugurato, a partire dalla seconda metà degli anni '50, nei confronti del continente africano e dei paesi non allineati. In poco tempo si era conquistato una solida reputazione di «pelegrino della pace», predicando l'unità degli africani, la moderazione, la concordia, le virtù del negoziato, e condannando severamente l'impiego della forza come mezzo di risoluzione delle controversie e intervenendo più volte come abile, ostinato e fortunato mediatore. Ma questa volontà di conciliazione, che egli manifestava nei riguardi di tutti i problemi esterni all'Etiopia, evidentemente non doveva ritenerla valida per le questioni interne dell'interne dell'impero, se è vero che egli decideva di rispondere con la repressione alle richieste di autonomia prima degli eritrei e poi dei somali, degli oromo e dei sidamo. (p. 274)

Versione delle 12:38, 5 mag 2019

Angelo Del Boca (1925 – vivente), giornalista, scrittore e storico italiano.

Citazioni di Angelo Del Boca

  • [Il generale Pietro Maletti rinunciò] a servirsi dei battaglioni eritrei, composti in gran parte da cristiani, e utilizzava ascari libici e somali, di fede musulmana, e soprattutto — parole sue — "i feroci eviratori della banda Mohamed Sultan".[1] (da Italiani, brava gente?[2])
  • Cadorna è stato per ventinove mesi il vero, indiscusso padrone dell'Italia. Nessuno, prima di lui e dopo di lui (Mussolinicompreso), si è arrogato il diritto di vita e di morte su tutti gli abitanti della penisola. Disponeva, a suo piacimento, di uno degli eserciti più potenti del mondo, continuamente rafforzato con immani trasfusioni di sangue. Disponeva di propri tribunali di guerra, che imponevano la sua legge. Attraverso la censura militare metteva un bavaglio a combattenti e a civili. In accordo con Sidney Sonnino, poteva senza battere ciglio decretare la morte per fame di 100.000 prigionieri. Per finire, era l'uomo che non aveva il minimo imbarazzo nel diramare direttive di questo tenore: «Deve ogni soldato essere certo di trovare, all'occorrenza, nel superiore il fratello o il padre, ma anche deve essere convinto che il superiore ha il sacro potere di passare immediatamente per le armi i recalcitranti ed i vigliacchi» (da Italiani, brava gente? Neri Pozza,, Vicenza, 2005, p. 67)
  • Non dimentichiamoci che la sua vittoria alle ultime elezioni è stata contestata dall'opposizione dell'etnia Oromo che è maggioranza nel paese mentre lui appartiene a una minoranza, i Tigrini. Zenawi è sempre più fragile. Per questo non lo vedo cacciarsi in una guerra.[3]
  • Gli Stati Uniti, che hanno aiutato Zenawi fino ad oggi, potrebbero chiedergli di intervenire in Somalia. Si sa che l' America è molto preoccupata per l' avanzata di queste Corti Islamiche, che rappresenterebbero una possibile base per Al Qaeda.[3]
  • Andarsi a scontrare contro un gigante come l'Etiopia che ha settanta milioni di abitanti non ha senso. Anche l'Eritrea lo ha capito a sue spese.[3]
  • Per la Somalia vedo soltanto un futuro di guerra civile, come è stato per gli ultimi quindici anni, ma non estesa a tutto il Corno d' Africa. A meno che non entrino in gioco interessi superiori internazionali.[3]

Dall'intervista dell'Unità 1

«L'Etiopia sogna il mare» Del Boca: con Asmara non è solo guerra di confine, L'Unità, 20 febbraio 2000

  • La grande guerra di Hailè Selassiè è stata fatto per questa ragione, per i porti eritrei che l'Etiopia perse solo all'ultimo. Ma non si tratta solamente di questo è chiaro che è in gioco l'egemonia nell'area.
  • Il Sudafrica controlla le economie dei paesi vicini. Solo il 2% del commercio mondiale riguarda l'Africa e il Sudafrica controlla la metà degli scambi.
  • Zenawi era stato accusato di aver ceduto agli eritrei solo perchè questi ultimi lo avevamo aiutato nella guerra contro Menghistu e così ha ceduto per poter governare.
  • Non si tratta di una guerra intertribale come poteva essere quella nel Biafra all'interno della Nigeria, ma di una guerra dichiarata combattuta con grandi mezzi, cannoni, carri armati. È la prima guerra africana combattuta con metodi europei.

Dall'intervista dell'Unità 2

«Così si affossano le speranze dell’Africa», L'Unità, 14 maggio 2000

  • La maggioranza degli etiopici non ha visto di buon occhio la separazione dall’Eritrea e la perdita dei porti di Massawa e Assab e Zenawi, in difficoltà, sta cercando di ottenere appoggi.
  • «Non è un conflitto simile a quella che abbiamo visto in passato in Etiopia ed oggi in Sierra Leone, non c’è guerriglia, ma guerra di posizione come in Africa non si era mai visto. Sia Zenawi che Afeworki, con i loro nazionalismi, stanno dando un cattivissimo esempio a tutta l’Africa, sono stati mobilitati 600.000 uomini nelle trincee.
  • La granparte delle armi arriva dalla Russia. Se si blocca da una parte, le armi arrivano dall’altra. In una guerra come questa vengono utilizzati grandi quantitativi esplosivi e i mercanti d’armi le benedicono, forse sono loro a soffiare sul fuoco.

Dall'intervista dell'Unità 3

«Al Qaeda punta sulla Somalia terra di nessuno», L'Unità, 31 luglio 2005

  • Stiamo parlando di un Paese che da 13 anni non ha un governo, non ha più nulla, è un autentico “deserto”. Per questo motivo è l’ambiente più adatto per creare scuole di terrorismo come è già stato più volte accertato.
  • La storia della crisi della Somalia nasce con la caduta di Siad Barre nel 1981: da allora si sono fatti diversi tentativi di riportare la legalità in Somalia: non dimentichiamo la missione appoggiata anche dall’Onu, la Restore Hope, che purtroppo, nonostante avesse mobilitato oltre 30mila soldati, è fallita miseramente. Da allora si sono fatti tentativi di riconciliazione non più militari ma politici. Siamo arrivati al quattordicesimo tentativo che ha portato alla indicazione di un presidente, un governo e un parlamento. Peccato che però non possono operare nel paese e vivono in un albergo di Nairobi. La Somalia è come si fosse staccata dal Continente africano e andasse alla deriva nell’Oceano indiano.
  • Il fatto è che la Somalia era e resta un coacervo di clan in lotta da sempre. E in questa lotta Al Qaeda si è incuneata stabilendo legami ideologici e operativi con i gruppi più legati all’Islam radicale.

Da Menghistu l'uomo che uccise il suo Paese

L'Unità, 14 agosto 2010

  • Tra il 1974 e il 1991 l'Etiopia conobbe il suo periodo più infausto, tanto da far impallidire le sanguinose scorrerie di Gragne, detto il Mancino, e la stessa brutale aggressione dell'Italia fascista. Il colpo di Stato, operato dai militari del Derg, che avrebbe dovuto far crollare l'antico impero di Hailè Selassié, giudicato troppo lento nel realizzare le necessarie riforme, in realtà non generava affatto libertà e democrazia, ma soltanto un nuovo ordine contrassegnato dalle peggiori brutalità e da una guerra civile che avrebbe spento intere generazioni.
  • Dapprincipio il suo solo scopo è quello di far ricadere l'intera responsabilità dell'atroce carestia che ha devastato il paese sull'imperatore Hailè Selassiè, e quando si accorge che è impossibile demolire l'immagine del Negus, lo sopprime soffocandolo con un cuscino.
  • Di recente, ad Addis Abeba, lo hanno condannato a morte, in contumacia, ma questa sentenza non sana alcuna piaga. Ha soltanto il sapore di un'assurda ed atroce beffa.

Il Negus

  • [Su Menghistu Hailè Mariàm] Era lui che il 23 novembre 1974, nel cortile della prigione di Akaki, aveva aperto il fuoco per primo per sterminare i 60 massimi dignitari dell'impero. Era lui che, il 3 febbraio 1977, aveva abbattuto con raffiche di mitra il capo provvisorio dello Stato, generale Taferi Bante. Era lui che aveva deciso l'eliminazione di un altro rivale, Atnafu Abate, e che, in nome del socialismo, aveva distrutto gran parte dell'intellighenzia etiopica progressista. (p. 9)
  • Hailè Selassiè non aveva mai molto amato l'Africa, anzi si può dire che sino al 1955 l'avesse quasi ignorata. Del resto, non era un mistero per nessuno che la classe dominante etiopica non si considerasse affatto africana, ma indo-europea. (p. 235)
  • [Sull'appoggio di Amhà Selassié per il Colpo di Stato in Etiopia del 1960] Su questo episodio non è mai stata fatta chiarezza. Asfa Wossen dirà più tardi di aver letto il proclama alla radio mentre un ufficiale ribelle gli teneva puntata una pistola alla tempia. Ma l'ufficiale in questione, capitano Asrat Deferresu, smentirà molti anni dopo questa circostanza precisando che il principe ereditario non aveva opposto alcun rifiuto all'invito degli insorti. Comunque siano andate le cose, Asfa Wossen annunciava al popolo etiope la fine della tirannide e l'inizio di una nuova era, di libertà e di benessere. (p. 252)
  • [Sul fallimento del Colpo di Stato in Etiopia del 1960] Troppe forze, nel paese, erano ancora contrarie ai cambiamenti radicali: non soltanto l'esercito, saldamente in pugno a uomini devoti all'imperatore, e la Chiesa copta, che si era affrettata a condannare i «traditori», ma lo stesso popolo etiopico, che pure soffriva in silenzio. Germamè Neway si era illuso che i tempi fossero maturi per la rivolta ed era uscito allo scoperto, innalzando pateticamente, lo stendardo della rivoluzione. In questo errore non cadranno, tredici anni dopo, i militari del Derg, i quali agiranno con un'esasperante gradualità servendosi persino dell'imperatore per svuotare il regime sino a farlo morire. (p. 255)
  • Il colpo di Stato in Eritrea, meditato da Hailè Selassiè sin dal giorno in cui aveva ratificato ad Addis Abeba l'atto federale, era tanto più grave in quanto in palese contraddizione con la politica che egli aveva inaugurato, a partire dalla seconda metà degli anni '50, nei confronti del continente africano e dei paesi non allineati. In poco tempo si era conquistato una solida reputazione di «pelegrino della pace», predicando l'unità degli africani, la moderazione, la concordia, le virtù del negoziato, e condannando severamente l'impiego della forza come mezzo di risoluzione delle controversie e intervenendo più volte come abile, ostinato e fortunato mediatore. Ma questa volontà di conciliazione, che egli manifestava nei riguardi di tutti i problemi esterni all'Etiopia, evidentemente non doveva ritenerla valida per le questioni interne dell'interne dell'impero, se è vero che egli decideva di rispondere con la repressione alle richieste di autonomia prima degli eritrei e poi dei somali, degli oromo e dei sidamo. (p. 274)

Explicit

Hailè Selassiè ha sicuramente commesso molti errori durante il suo lunghissimo regno, prima fra tutti quello di essere stato sempre in bilico tra riforma e conservazione, senza mai operare una scelta risolutiva. Ma la rivoluzione che lo ha travolto nel nome della libertà e del progresso, si è rivelata cento volte più infausta del suo regime; ha causato all'Etiopia danni irreparabili; l'ha sprofondata in quella guerra civile che Hailè Selassiè aveva sempre cercato di scongiurare; ha accelerato, anziché bloccare, il processo di disintegrazione del paese. [...] Qualunque sia il giudizio definitivo su Hailè Selassiè, la sua figura merita rispetto e considerazione. È impossibile non provare un sentimento di grande ammirazione e di riconoscenza verso l'uomo che il 30 giugno 1936, dalla tribuna ginevrina della Società delle Nazioni, denunciava al mondo i crimini del fascismo e avvertiva che l'Etiopia non sarebbe stata che la prima vittima di quella funesta ideologia. Per questo suo messaggio, malauguratamente non ascoltato, gli siamo un po' tutti debitori. (p. 336)

Note

  1. La citazione si riferisce alla strage di Debrà Libanòs che seguì l'attentato contro il viceré italiano ad Addis Abeba, Rodolfo Graziani.
  2. Citato in Gian Antonio Stella, E Graziani massacrò i monaci etiopi, Corriere della Sera, 18 febbraio 2017, p. 45.
  3. a b c d Citato in L'offensiva è solo all'inizio: le Corti islamiche avanzeranno, La Repubblica, 21 luglio 2006.

Bibliografia

  • Angelo Del Boca, Italiani, brava gente?, Neri Pozza, Vicenza, 2005.
  • Angelo Del Boca, Il Negus, Editori Laterza, 2007.

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