Cesare Brandi

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Cesare Brandi

Cesare Brandi (1906 – 1988), storico dell'arte, critico d'arte e saggista italiano.

Citazioni di Cesare Brandi[modifica]

  • Andate a Palermo per mare, e vi accorgerete se arrivate in un paese qualsiasi. Le montagne che fanno corona alla città appaiono splendide, come d'agata, e Monte Pellegrino come un meraviglioso spalto naturale. Certo, dovrete digerire anche diversi chilometri di cattiva architettura e chiedervi se è qui la città degli emiri, delle delizie di Federico II, la Palermo orientale che meravigliava gli scrittori arabi. Ma poi la troverete, con i suoi mosaici che neanche a Venezia hanno maggior fulgore e con l'architettura araba che splende nella Zisa come neanche a Marrakesh.[1]
  • Bagheria è un ammasso informe di casupole, ma le sue ville si ergono fra quelle casupole, e il verde dei limoni, che è un verde perenne, che non teme l'alternarsi delle stagioni, sicché in Sicilia, solo che vi sia il sole, è sempre primavera.[2][3]
  • [su Matera] Davvero rimasi sorpreso della bellezza e della nobiltà antica di questo antico aggregato edilizio, fra i più antichi e meglio conservati di tutta l'Italia. (da Pellegrino di Puglia, Laterza, 1960, p. 150)
  • In Sicilia, solo che vi sia il sole, è sempre primavera, anche più primavera se ci sarà la neve sull'Etna e sulle Madonie, con quel contrasto che è così dolce tra la neve all'orizzonte e le pendici fitte di agrumi in cui occhieggiano aranci e limoni, e se aranci e limoni potete trovarli anche altrove, mai saranno così come li vedete in Sicilia, in questa contraddizione di inverno e di primavera. Sì, lo so, uno spettacolo del genere può esserci anche in Marocco o in Andalusia, con altri fascini sicuramente, ma qui in Sicilia vi appare come una cosa naturale, per cui non c'è bisogno di andare in terre esotiche. È la natura naturale qui in Sicilia di mettere assieme l'arancio e la neve. Non è esotica la Sicilia, è favolosa.[2]
  • [...] la Cattedrale di Monreale, dove vedere un simile vascello d'oro con la solennità romana di una basilica e la terribilità addolcita della cristianità trionfante?[2][4]
  • [Canaletto] La precisione miracolosa, la purezza incandescente del più piccolo tratto, della più piccola lineetta resteranno, in queste beate pitture, fra i più grandi raggiungimenti di una civiltà al suo culmine. Solo un pittore che era l'erede qualificato di tutta la pittura italiana, poteva arrivare a fondere in una concezione formale d'una così osata perfezione, la prospettiva italiana e l'evidenza di Vermeer. Sarà chiaro ormai come un'altra interpretazione semplicistica da scartare sarebbe quella che facesse discendere unicamente la specialissima ellissi cromatico-luminosa di Canaletto, dal suo impareggiabile virtuosismo di disegnatore e di incisore. Nella progressiva maturazione dello stile di Canaletto [...] si è constatato come disegno e pittura non siano che fasi di un'unica visione: né, per il fatto che, cronologicamente, il disegno precede la pittura "finita" corrispondente, si può dedurre questa da quello. Uno era l'artista, una l'intenzione formale. La particolare ellissi stenografica non nasce per ragioni di formula disegnativa, di affidare cioè alla linea tutto il fardello dell'immagine, ma proprio per la inconfondibile necessità spaziale [...], per cui luci e ombre, per determinare la visione stereoscopica, devono continuamente avanzare o retrocedere rispetto all'oggetto cui si riferiscono: dissociarsene e scaglionarsi in profondità. Donde qualsiasi modulazione chiaroscurale o plastica deve per forza essere risolta in giustapposizioni, in scaglionamenti, in trapassi secchi. È in quanto che il piccolissimo punto bianco (che poi sarà un naso o un bottone) avanza più del dovuto – per così dire – che nella totalità dell'immagine riuscirà a ristabilire il nesso spaziale, lo spessore dell'oggetto, senza bisogno di termini intermedi. Chi rimprovera ciò a Canaletto non ha capito nulla dell'altissima ricerca formale e non imitativa che ha sempre retto la sua pittura. Senza quella particolare ellissi, senza quella sottile tecnica quasi ad intarsio, né a Vermeer né a Canaletto riuscirebbe di raggiungere la loro inarrivabile spazialità, che è come uno scandaglio nel mare. Non è una spazialità affiorante, non chiede la sua valenza al medium della luce: ma si serve della luce, come per messa a punto definitiva. È in quei punti luminosi, che brillano simili a pagliette, che si ha come la riprova dell'operazione riuscita [...]. Altro che naturalismo, obbiettività manuale, inerte virtuosismo ottico. E quelle vedute ideate, come le chiamò lui stesso, che arrivavano fino al capriccio di impianto, allora quasi panniniano, quanto mal celato fastidio hanno sempre dato ai suoi critici, fissi nel volerlo vedere nei suoi panni reali solo quando sembra che copi esattamente dal naturale. [...] Che colpo, per chi ambirebbe farne il coscienzioso pre-impressionista, sempre in plein air.[5]
  • La storia della pittura di Guttuso comincia da quella Fuga dall'Etna durante un'eruzione che Natale Tedesco ha chiamato la «Guernica siciliana», però siciliana è un po' anche la Guernica di Picasso; e forse Picasso ha studiato lo schema compositivo del Trionfo della morte di Palermo più di quanto Guttuso abbia dipinto la Fuga sotto l'impressione della Guernica che Cesare Brandi gli aveva allora mandato in cartolina. (da Scritti sull'arte contemporanea, Einaudi, Torino 1976, pp. 401-404)
  • [Il Giardino di Ninfa] [...] luogo extraterritoriale ed extratemporale [...].[6]
  • Ma può esserci al mondo un paese più bello della Sicilia?[1]
  • Ma via Garibaldi è bella come una cosa perduta, è misteriosa e assente come una strada di Pompei...la sua sostanza è di essere vuota, impraticabile come una pittura, sospesa nella sua bellezza come da un incantesimo. E se è da poco, possedere una via simile, e percorrerla in silenzio, come ascoltando, e invece vedere, guardare all'infinito. (da Terre d'Italia, Bompiani, Milano, 2006, pp. 81-82)
  • [Il Giardino di Ninfa] Non esiste, non può esistere una città morta che sia più ardente, vitale di questa: non può esistere un luogo dove il tempo si sia fermato come nel Paradiso terrestre, sicché ti senti sempre in colpa a camminare su quell'erba fiorita, sciuperai qualcosa, rintuzzerai il bulbo prezioso: un angelo infine verrà, con la spada, a ricacciarti nella terra di tutti.[7]
  • Ora, Procida, è tutta in quell'arrivo che si fa a Marina Grande, venendo da Napoli o da Pozzuoli; e che mi lasciò senza fiato. Perché da lontano, tanto è schiacciata l'isola quasi non si vede, o sembra la predella di quel grande altare che è Ischia. Procida, la predella d'Ischia, non ci godrebbero affatto i procidani, che amano solo se stessi e neppure vogliono sentire dire che sono napoletani; ma l'immagine vale nella prospettiva del Golfo, dove Procida, se non si sa come è fatta, non si distingue da Ischia, sembra una propaggine di Ischia. Per questo la sorpresa si ha tutta insieme. Ed ecco la sorpresa. Un allineamento di case di tutti i colori, strette come una barricata, con tante arcate chiuse a mezzo, come strizzassero un occhio. E sopra un verde intenso, prepotente, quasi selvaggio, tanta è la forza dei getti e dei tralci: viti e limoni. Vi posso assicurare che Procida è tutta qui, e nell'interno, e fino all'altro capo del paese la Chiaiolella, ripete lo stesso spettacolo. Ma è impossibile stancarsene. Perché, almeno fino a qualche anno fa, niente era più autentico della palazzata senza palazzi, della barricata di case che sembra sbarrare l'ingresso a chi entra, al forestiero. (da Terre d'Italia, Bompiani, Milano, 2006, p. 467)
  • [Gli affreschi del Coro della Cattedrale di Atri dipinti da Andrea De Litio] [...] un pittore raro, che quasi non si vede quasi da nessun'altra parte [...] il Delitio [...] ha l'attaccamento tenace al passato e quasi direi una transumanza nel futuro. [...] un artista così interiormente bizzarro che deliba la nuova pittura rinascimentale e si rispecchia quella gotica divertendosi con cani che ringhiano, gatti che saltano nel bel mezzo di scene solenni della vita di Maria.
    L'artista non è solo bizzarro è soprattutto pieno di fantasia e ogni aspetto del reale diviene per lui uno spunto narrativo a sé [...]. È così naturalmente arcaico, proprio perché parla due lingue contemporaneamente, proprio perché pensa in gotico e parla in stile del Rinascimento. Donde una pittura che non potrebbe essere più saporosa, certamente affine a quella di alcuni grandi senesi, come il Sassetta, di cui sembra di cogliere l'eco perfino in certe fogge muliebri, e che al solito risospingono la datazione assai più in alto di quel che è verosimile.
    Ma nessuno pensi che si tratti di un semplice fenomeno di ibridazione provinciale; componendo il suo centerbe di gotico e di Rinascimento, di umbri e di senesi, di marchigiani e di fiorentini, Andrea Delitio sa benissimo quello che fa: il suo impegno è quello di assecondare tutti e di non impegnarsi con nessuno, sguscia dalle mani come fosse insaponato, si intrufola in tutti i buchi, stramazza e si rialza più fresco di prima, e sempre con un'aria che è insieme furba e angelica: «Eccomi – dice – sono qui, non chiedetemi d'essere quel che non sono, ma non mi prendete neppure per quello che sembro, io sono sempre un po' al di là della linea che traccio, dentro e fuori da questo cerchio fatato della pittura; e quando racconto forse non so neppure quel che racconto, ma ci metto dentro tutte le cose che trovo sottomano: il gatto, il cane, l'asinello, la mia felicità agreste raccattata come si colgono i fiori sul ciglio di un precipizio».[8]
  • Ed ecco l'arrivo del mare a Palermo, che era una volta come ad una città sognata, o riflessa dalla fata Morgana su un mare di seta, diviene ad un tratto l'approdo ad un congolomerato amorfo e a tratti ossessivo, a ranghi serrati come una rivista militare, accanto al quale si è come appiattita, vicina ad andare in polvere, la città antica, che era ancora la città di Goethe. ("Il Patrimonio Insidiato", Editori Riuniti, 2001, pagina 35)

Così andai al Sud[modifica]

  • Vi sono dei panorami che rappresentano assai più che una bellezza naturale o lo spettacolo di una grande città, addirittura le fattezze della Patria.
    In Italia, per quanto ricca si creda, sono in numero limitatissimo. Ad esempio la vista dal Viale dei Colli sulla città e le colline di Firenze; quella dal Gianicolo su Roma; la Riva degli Schiavoni a Venezia: ma su tutte, inutile negarlo, troneggia il panorama del Golfo di Napoli, sia dall'alto del Vomero o di San Martino sia all'arrivo dal mare. È questa la porta celeste dell'Italia, la porta che non è rettorico chiamare augusta, e provoca nostalgia e rimpianto non solo ai napoletani emigrati. (p. 34)
  • Napoli, questa meravigliosa città, che ora fa arricciare il naso a raffinati e a villani, e nessuno ci va più, se non per vedere Pompei, come se questo palinsesto di culture non valesse che per le sue ossa. (p. 39)
  • L'Italia deve salvare Napoli, riportarla al suo rango di capitale della cultura quale ottava meraviglia, non lasciarla abbruttire dalla spazzatura nel traffico immondo. Napoli deve vivere: non ha bisogno di tornare una stella, è una stella, non un buco nero, come si è fatta diventare. La responsabilità è di tutti gli italiani: Napoli appartiene all'Italia. (p. 42)
  • E Luca Giordano, sempre più grande ai nostri occhi, cosciente com'è, si direbbe, del passato e del presente, del Veronese e del Settecento francese, con quei pimenti, quei velluti consunti, quei cilestrini che hanno superato tanti bucati, e le trasparenze che hanno l'Oriente delle perle. [...] questo suo quadro composito [il San Michele della Chiesa dell'Ascensione a Chiaia] non anticipa meno Sebastiano Ricci e Pellegrini, Guardi e Fragonard, di Pergolesi e Cimarosa. Che macchina, che intrighi, che festevolezza! (p. 52)
  • Napoli, nel '700 non fu provincia ma grande capitale europea in competizione con Madrid, Vienna ed anche Parigi; posseddette una fioritura artistica di prim'ordine, pari a quella di Venezia e assai superiore a Firenze e a Roma. (p. 54)
  • Quel Palazzo Reale, che fa sempre piacere rivederselo, con i saloni spropositati e lo scalone che sembra dare accesso non ad un palazzo, ma ad un'intera città. (p. 61)

Terre d'Italia[modifica]

  • Ma via Garibaldi è bella come una cosa perduta, è misteriosa e assente come una strada di Pompei...la sua sostanza è di essere vuota, impraticabile come una pittura, sospesa nella sua bellezza come da un incantesimo. E se è da poco, possedere una via simile, e percorrerla in silenzio, come ascoltando, e invece vedere, guardare all'infinito. (pp. 81-82)
  • [...] vedere nei portici come un basso continuo, su cui il profilo delle case che stanno dietro ha come un andamento melodico, e i vari colori, dal rosso spento dei mattoni all'argento delle absidi, al bruno profondo del palazzo del Popolo, sono l'orchestrazione sapiente che dà tutte le vibrazioni senza rischiare l'omofonia. Allo stesso modo, è aperta e chiusa, è un grande interno e un esterno, una piazza ed una sala. (da La piazza di Ascoli Piceno, Roma 1991, p 286[9])
  • Ora, Procida, è tutta in quell'arrivo che si fa a Marina Grande, venendo da Napoli o da Pozzuoli; e che mi lasciò senza fiato. Perchè da lontano, tanto è schiacciata l'isola quasi non si vede, o sembra la predella di quel grande altare che è Ischia. Procida, la predella d'Ischia, non ci godrebbero affatto i procidani, che amano solo se stessi e neppure vogliono sentire dire che sono napoletani; ma l'immagine vale nella prospettiva del Golfo, dove Procida, se non si sa come è fatta, non si distingue da Ischia, sembra una propaggine di Ischia. Per questo la sorpresa si ha tutta insieme. Ed ecco la sorpresa. Un allineamento di case di tutti i colori, strette come una barricata, con tante arcate chiuse a mezzo, come strizzassero un occhio. E sopra un verde intenso, prepotente, quasi selvaggio, tanta è la forza dei getti e dei tralci: viti e limoni. Vi posso assicurare che Procida è tutta qui, e nell'interno, e fino all'altro capo del paese la Chiaiolella, ripete lo stesso spettacolo. Ma è impossibile stancarsene. Perché, almeno fino a qualche anno fa, niente era più autentico della palazzata senza palazzi, della barricata di case che sembra sbarrare l'ingresso a chi entra, al forestiero. (p. 467)
  • Proprio sotto la Terra Murata, il porticciolo minuscolo con le barche da pesca, come gli insetti neri che si vedono nelle acque morte, o come foglie secche, o come gusci vuoti: e la loro cava occhiaia quasi riproduce nell'acqua le cave occhiaie delle porte e delle finestre: quelle case povere e bellissime che si soprammettono sulla riva, più scavate nella roccia che costruite. Un paese formicolante, una termitiera, eppure così umano, così umile e splendente, nella notte, coi suoi colori leggeri e stinti. Come sciacquati nel lume della luna. (p. 470)

Note[modifica]

  1. a b Citato in Ernesto di Lorenzo, Brandi. Cento anni di Sicilia, la Repubblica, 8 aprile 2006.
  2. a b c Dalla serie di documentari Rai-Tv A tu per tu con l'opera d'artePalermo e la Conca d'Oro, testo di Cesare Brandi, regia di Franco Simongini, 1984. Video disponibile su Youtube.com.
  3. Da Sicilia mia, Sellerio, Palermo, 2003, pp. 22-23. Citato in Rosario Scaduto, Per la conservazione, fruizione e valorizzazione delle ville storiche di Bagheria, in Eleuterio e Mìlicia. Storia e paesaggio di una terra tra due fiumi. Atti della prima giornata di studi. Bagheria 17 dicembre 2016, Plumelia Edizioni, p. 230, iris.unipa.it.
  4. Da Sicilia mia, Sellerio, Palermo, 1989, p. 17.
  5. Citato in Canaletto, I Classici dell'arte, a cura di Cinzia Manco, Rizzoli/Skira, Milano, 2003, pp. 181-188.
  6. Citato in Paolo Fancelli, Paesaggi brandiani, in AA. VV., Cesare Brandi e la Sardegna. Archeologia e paesaggio. Atti del Convegno di Studi, (Castelsardo, 10 settembre 2007), a cura di Bruno Billeci e Stefano Gizzi, Gangemi Editore, Roma, p. 102. ISBN 978-88-492-9192-6
  7. Da Viaggi e scritti letterari, Bompiani, Milano, 2009. Citato in Vittorio Sgarbi, Dalla Russia alla foce del Nilo: viaggi di un artista-turista, ilgiornale.it, 30 marzo 2009.
  8. Da Cesare Brandi: a tu per tu con De Litio: Le stravaganze di un artista del Quattrocento, video disponibile su raicultura.it, min. 2:14-7:18.
  9. Citato in AA. VV. Cesare Brandi e la Sardegna. Archeologia e paesaggio, Gangemi Editore, Roma, pp. 100-101. ISBN 978-88-492-9192-6

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Bibliografia[modifica]