Rosario Bentivegna

Da Wikiquote, aforismi e citazioni in libertà.
Rosario Bentivegna nel 1945 circa

Rosario Bentivegna (1922 – 2012), partigiano italiano.

Achtung Banditen![modifica]

  • La creazione dei GAP fu l'espressione di una prima vittoria politica nel PCI e nel C.L.N., contro le varie forme di attendismo e le sollecitazioni per i rischi di una vera guerra partigiana, e segnò l'inizio della guerra di liberazione nazionale. (p. 25)
  • Il cospiratore sa che nel corso della sua azione solo la sua vita è in gioco. Questa è una sensazione che, con l'orgoglio del sacrificio, esalta chi la prova, e dà una forte carica di coraggio civile. Il partigiano, invece, raggiunge nel combattimento una sorta di equilibrio nei confronti del nemico: educato dalla sua precedente esperienza cospirativa al rischio per sé, sente una profonda ripugnanza per un tipo di lotta in cui sarà costretto ad uccidere. La violenza e gli atteggiamenti dei nemici, anche la loro viltà e i tradimenti di cui si erano macchiati, non riuscirono mai a farci dimenticare (e anche questo ci differenziava da loro) che avevamo di fronte degli uomini, né che spesso quegli uomini - soprattutto i più giovani - contro cui puntavamo le armi erano essi stessi vittime incoscienti, avevano madri e figli, amavano ed erano amati. (p. 80)
  • Chi non li ha visti, i fascisti di allora, non li può certo immaginare: la violenza di cui erano capaci si manifestava nel loro abbigliamento con simboli e truculenza che suscitavano il ridicolo e la paura, il disprezzo e la commiserazione. (p. 82)
  • Mi domandavo mille volte se un uomo aveva il diritto di colpire un altro uomo. A una domanda così semplicistica mi rispondevo mille volte di no. Ma la mia guerra era legittima, e soprattutto non l'avevo voluta io, né gli uomini della mia parte. Eravamo stati travolti da un mare di violenza, cercavamo di difenderci da essa e di salvare quanto più fosse possibile dallo sfacelo. Né c'erano altri mezzi, per quanto io potessi pensare, a contenere il disastro in cui eravamo piombati, e l'arbitrio e la violenza del nemico che avevamo di fronte, spietato e senza scrupoli. Tutte queste cose io le sapevo, le avevo discusse con i miei compagni, ne ero stato convinto e a mia volta avevo convinto altri. Ma so per certo, ormai, che di fronte al primo nemico colpito non c'è soldato che non abbia maledetto la guerra. Questa stessa sensazione, mi dicevo, l'hanno provata certamente tutti i soldati, tutti i combattenti, in ogni epoca. A poco a poco prendevo coscienza - ma con quanta pena! - che la guerra civile era cominciata anche per me, spietata, dura, irreversibile. (pp. 83-84)
  • Questa guerra fascista mi aveva costretto a uccidere: era una cosa che non riuscivo a tollerare. Credo di aver odiato, in quel momento, ancora di più il fascismo, che mi aveva obbligato a sparare, a colpire altri uomini i quali, malgrado la loro camicia nera, avevano il destino di vivere che avevo io e che avevano i miei compagni. (p. 85)
  • Tante volte siamo stati vicini, Carla [Capponi] e io, nei momenti che precedevano l'azione. Talvolta era lei che doveva andare al fuoco, talvolta io, talvolta tutti e due insieme. Ma imparavamo sempre più a gustare e a comprendere, in quei minuti, il sapere delle cose belle che chiedevamo alla vita e per le quali ci battevamo. Ogni fatto, in quei momenti, poteva essere l'ultimo; viverlo insieme ne accresceva l'intensità e l'importanza. Poteva essere l'ultima volta... (p. 97)
  • [Sulla Resistenza romana] Abituandoci ogni giorno a rinunciare alla vita, l'amavamo ogni giorno di più, ce ne sentivamo ogni giorno più pieni, capivamo sempre meglio i motivi per i quali combattevamo. (pp. 97-98)
  • Fu in via Rasella che portammo a termine la più importante azione di guerra che i partigiani abbiano condotto a Roma, senza dubbio una delle più importanti d'Europa. (p. 152)
  • Un giorno Mario Fiorentini e Lucia invitarono Carla e me a mangiare qualcosa in una bottiglieria all'angolo di via del Lavatore, che dall'altra parte di via del Traforo fronteggia via Rasella. Mentre mangiavamo, egli mi fece vedere dalla porta della bottiglieria i tedeschi che passavano. Cantavano. Le loro canzoni, la loro voce, il loro passo cadenzato, l'orgoglio del nazismo, il loro incedere da occupatori sprezzanti, suscitavano in chiunque si trovasse a passare di lì un brivido di paura. «Bisogna colpirli, quelli lì» dissi a Mario. Egli sorrise. Aveva una sua aria sorniona di ridere: con gli occhi stretti, si umettava un paio di volte le labbra con la lingua e rovesciava un poco la testa all'indietro. «Per questo siamo qui» mi disse. (pp. 153-154)
  • [Su Francesco Curreli] Era un uomo meraviglioso e modesto, asciutto e duro ma semplice e gentile come sanno esserlo i sardi. (p. 156)
  • Venivano su cantando, nella loro lingua che non era più quella di Goethe, le canzoni di Hitler. Centosessanta uomini della polizia nazista con le insegne dell'esercito nazista, i rappresentanti di coloro che rastrellavano i cittadini inermi, degli assassini di Teresa Gullace e Giorgio Labò. Le divise, le armi puntate, il passo cadenzato, perfino la carretta su cui era piazzata la mitragliatrice, le voci straniere, tutto era un oltraggio al cielo azzurro di Roma, agli intonachi, ai sampietrini, al verde che il parco di palazzo Barberini riverberava dolce sulla via Rasella. Era un oltraggio che si ripeteva, dai millenni e nei millenni; e il Vae victis di Kesselring non aveva di fronte, a rintuzzarlo, che le armi e il coraggio dei partigiani. Oggi il nostro tritolo. Venivano su cantando, macabri e ridicoli e i segni di morte che avevano indosso erano, stavolta, i segni della loro condanna. [...] Si avvicinarono a me, ebbri di sicurezza e di un sole usurpato, che non era il loro. Non erano loro quella primavera, quei colori. Erano loro il terrore, la morte che avevano seminato per le vie deserte di Roma, la guerra che avevano portato dentro le case e nelle scuole, ma anche la morte che era in agguato sulle montagne e dietro gli angoli delle nostre strade, cui non servivano da freno il coprifuoco e la fame, le rappresaglie e le torture, la morte che li colpiva improvvisa, che li terrorizzava e dava l'avviso di una giustizia che non avrebbe tardato troppo a sopraggiungere. (pp. 164-165)
  • Il carcere è il luogo più triste che abbia mai conosciuto, più triste del campo di battaglia, dell'ospedale, persino del cimitero. (p. 236)

Citazioni su Rosario Bentivegna[modifica]

  • Sasà oltre ad essere stato un grande combattente nei sette mesi di guerriglia urbana, nella vita è stato un grande uomo, come medico si è preso cura degli altri. Purtroppo ha dovuto sopportare tutto il peso di via Rasella anche se quel giorno eravamo circa venti gappisti e l'azione l'avevo ideata io. Ma le persone non ragionano, non pensano, non sanno. (Mario Fiorentini)

Bibliografia[modifica]

  • Rosario Bentivegna, Achtung Banditen! Roma 1944, Ugo Mursia Editore, Milano, 1983.

Voci correlate[modifica]

Altri progetti[modifica]