Federico Quercia

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Federico Quercia

Federico Quercia (1824 – 1899), filologo, letterato, critico letterario e teatrale italiano.

In morte di Vittorio Emanuele II Primo Re d'Italia[modifica]

Incipit[modifica]

Che mai è questo cordoglio universale, onde dall'un capo all'altro l'Europa piange la morte di un Re? Che è mai questa meravigliosa consonanza di lodi ad un uomo, il quale nacque re, e di antichissima stirpe, visse da re, e re muore in mezzo al lutto del popolo suo? E chi è mai questo re, la cui morte non è lamentata dai vecchi partiti, fedeli alle tradizioni ed al tempo che fu, ma da coloro che amarono e pugnarono per la libertà, e alla cui morte la civiltà allaccia le brune bende alle sue insegne?
Re Vittorio Emanuele una crudele accusa cancellò dalla storia, che i re siano cioè inimici a libertà. Una famosa sentenza suonò in seno all'assemblea francese in su i primordii della rivoluzione, e parve che contenesse la ragione storica dei re: la storia dei re è il martirologio de' popoli. Toccava ad un re, ad un principe italiano di stirpe, la nuova gloria che un re possa essere il fondatore della libertà della sua nazione. E tale fu Vittorio Emanuele.

Citazioni[modifica]

  • Con le leggi Siccardi, ministro ardito e riformatore, lo stato riconquistava i diritti suoi rispetto alla Chiesa. Se ne menò grandissimo scalpore: la vecchia aristocrazia, efficacissima in corte, se ne dolse con acerbe censure, e colse il destro di tre infortunii domestici, la morte della madre e della moglie diletta del re, quella dell'amatissimo fratello, il valoroso Duca di Genova, per ammonirlo a scorgere in quei mali la visibile condanna dal cielo. Ma egli stette fermo, e proseguì. Non erano i suoi ministri, come alcuni giornali e nel Piemonte e fuori propalarono, era desso, re Vittorio, che andava di mano in mano svolgendo e traducendo in atto il ben ponderato divisamento. (p. 9)
  • Egli era la più splendida personificazione dell'Italia redenta: niun partito predeliggeva, e li amava tutti. Li riguardava come parte, come membra della istessa patria comune. Nell'animo suo elevato iscorgea chiaramente, che ognuno fra essi era concorso a formare l'Italia, e ne volea la grandezza e l'indipendenza. I rancori, gli odii, le accuse, mormoravano in una regione più bassa, in cui egli vivea sereno: gl'italiani tutti erano la sua famiglia; non si accomunava egli con loro nelle repugnanze e nelle diffidenze partigiane, si univa loro bensì e con ardore nell'istesso affetto per la indipendenza, nell'istesso rispetto per la libertà. (p. 14)
  • È fama che nel giorno, in cui egli nell'accanita battaglia di Custoza[1], nome due volte infausto all'Italia, investiva, capitanando un bellissimo reggimento di cavalleria, impetuosamente gl'inimici, un ufficiale austriaco prigioniero domandò: chi è mai quel giovane e prode generale? gli fu risposto, il Duca di Savoia; e quegli abbassò il capo sospirando. Nell'animo suo presago vide il tempo in cui quel Duca, divenuto re, avrebbe espulsi gli austriaci dalle belle terre d'Italia. (pp. 19-20)

Note[modifica]

  1. Si riferisce alla prima battaglia di Custoza del 1848.

Bibliografia[modifica]

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