John Fante

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John Fante (1909 – 1983), scrittore statunitense.

Citazioni di John Fante[modifica]

  • Figli – bah, borbottò. Odiano il loro padre.... Si vergognano della propria carne e del proprio sangue.... Meglio morire. Ti seppelliscono. Ti dimenticano...[1]
  • Le donne di Napoli sono dei maiali. Sono maiali grassi con dei vestiti sciatti, di solito neri, macchiati di salsa di pomodoro, urina, grasso, o dalla cacca di un bebè. [...] Ma devo anche spiegare che sono meravigliose, ognuna ha il volto della madre di Dio e le mani contorte, incallite e tenere delle donne che hanno passato la vita a badare ai propri figli e ai propri uomini.[2]

Chiedi alla polvere[modifica]

Incipit[modifica]

Una sera me ne stavo a sedere sul letto della mia stanza d'albergo, a Bunker Hill, nel cuore di Los Angeles. Era un momento importante della mia vita; dovevo prendere una decisione nei confronti dell'albergo. O pagavo o me ne andavo: così diceva il biglietto che la padrona mi aveva infilato sotto la porta. Era un bel problema, degno della massima attenzione. Lo risolsi spegnendo la luce e andandomene a letto.
Al mattino mi svegliai, decisi che avevo bisogno di un po' di esercizio fisico e cominciai subito. Feci parecchie flessioni, poi mi lavai i denti. Sentii in bocca il sapore del sangue, vidi che lo spazzolino era colorato di rosa, mi ricordai cosa diceva la pubblicità, e decisi di uscire a prendermi un caffè.

Citazioni[modifica]

  • Ho un consiglio molto semplice da dare a tutti i giovani scrittori. Non tiratevi mai indietro di fronte a una nuova esperienza. Vivere la vita fino in fondo, prendetela di petto, non lasciatevi sfuggire nulla.
  • A parte il contorno del viso e il candore dei denti, [Camilla Lopez] non era bella.
  • Si cominciava a scorgere, in distanza, il luccichio tremolante della canicola. Risalii il sentiero fino alla Ford. Presi la copia del mio libro, del mio primo libro, la aprii e scrissi a matita sul risguardo: "A Camilla, con amore, Arturo". Percorsi un centinaio di metri verso sud-est e, con tutta la forza che possedevo, gettai il libro nella direzione che lei aveva preso. Poi montai in macchina, avviai il motore e partii per Los Angeles.
  • Camilla Lopez se n'è andata, il deserto l'ha inghiottita. Può essere che qualcuno l'abbia tirata su e l'abbia portata in Messico. Può darsi che sia tornata a Los Angeles e sia morta in una stanza polverosa. Quello che so io è che è sparita, che il cane è sparito, e nulla ne è rimasto a parte la sua storia che vi voglio raccontare.
  • [...] e la biblioteca con i grossi nomi degli scaffali, il vecchio Dreiser, il vecchio Mencken, tutta la banda riunita che andavo a riverire. Salve Dreiser, ehi Mencken, ciao a tutti, c'è un posto anche per me nel settore della B, B come Bandini, stringetevi un po', fate posto ad Arturo Bandini. Mi sedevo al tavolo e guardavo verso il punto in cui avrebbero messo il mio libro, proprio lì, vicino ad Arnold Bennett; niente di speciale quell'Arnold Bennett, ma ci sarei stato io a tenere alto l'onore delle B, io, il vecchio Arturo Bandini, uno della banda.
  • Questo non è che l'inizio, ma potrei anche raccontarti la storia di una sera passata sulla spiaggia con una principessa bruna, parlarti della sua carne senza significato, dei suoi baci come fiori di cera, privi di profumo nel giardino della mia passione.
  • Due persone in una stanza: una è una donna, l'altra Arturo Bandini, che non è né carne, né pesce, né niente.
  • Una sera capitai, a santa Monica, dove Camilla e io eravamo stati a fare il bagno, i primi tempi che ci frequentavamo. Mi fermai a guardare i frammenti spumeggianti, la nebbia misteriosa. La rividi correre nella schiuma rombante, giocare eccitata dalla libertà gioiosa del momento. Oh, Camilla! (Arturo Bandini)
  • Los Angeles, dammi qualcosa di te!
  • Dio Onnipotente, mi dispiace di essere diventato ateo, ma hai mai letto Nietzsche?! Ah, che libro!
  • – Ti odio – mi disse.
    Lo sentivo quest'odio, potevo quasi annusarlo, o udirne il suono, ma sogghignai di nuovo. – Lo spero bene, ribattei. – Chi si attira il tuo odio non può essere altro che un tipo in gamba.
  • Andai al burlesque e per un dollaro e dieci presi un posto da un un dollaro e dieci, uno dei migliori, proprio sotto i quaranta sedili flaccidi del balletto; un giorno sarebbero stati tutti miei e io me li sarei portati in crociera nei Mari del Sud sul mio yacht privato. Nei pomeriggi assolati le ragazze avrebbero ballato per me sul ponte. Sarebbero state tutte belle, il fior fiore della buona società, e si sarebbero fatte in quattro per accaparrarsi i favori della mia cabina. Ma anche questo va bene, è tutta esperienza. Sono qui per una ragione ben precisa; questi momenti – il lato brutto della vita – si trasformeranno in altrettante pagine.
  • Impossibile ritrovare la mia solitudine, dopo che se ne fu andata, o sfuggire al suo strano profumo.
  • A volte un'idea fluttuava innocente per la stanza, come un uccellino bianco. Non aveva cattive intenzioni. Voleva solo aiutarmi, l'uccellino. Ma io lo colpivo, lo abbattevo con i tasti, finché mi moriva tra le dita.
  • – Giovanotto, – mi disse. – È messicano per caso?
    Mi indicai e mi misi a ridere.
    – Messicano, io? – scossi il capo. – Sono americano, signora Hargraves. E quello non è un racconto sui cani. Parla di un uomo e non è niente male. Non c'è nemmeno un cane, lì dentro.
    – Non ospitiamo messicani in quest'albergo, – insisté.
    – Non sono messicano. E il titolo l'ho tratto da una favola. «E il cagnolino rise a vedere uno simile spasso».
    – E nemmeno ebrei, – concluse.
  • Pregai; certo, pregai. Per ragioni sentimentali. Dio Onnipotente, mi dispiace di essere diventato ateo, ma hai mai letto Nietzsche? Ah, che libro! Dio Onnipotente, voglio essere onesto. Ti farò una proposta. Fai di me un grande scrittore e io tornerò alla Chiesa. A proposito, Signore, devo chiederti un altro favore: fa' in modo che mia madre sia felice. Del vecchio non mi interessa; lui ha il suo vino e la sua salute, ma mia madre si tormenta sempre. Amen.
  • Fui sopraffatto dalla consapevolezza del patetico destino dell'uomo, del terribile significato della sua presenza. Il deserto era lì come un bianco animale paziente, in attesa che gli uomini morissero e le civiltà vacillassero come fiammelle, prima di spegnersi del tutto. Intuii allora il coraggio dell'umanità e fui contento di farne parte.

Citazioni su Chiedi alla polvere[modifica]

  • Così l'ho intitolato Chiedi alla polvere, perché in quelle strade c'è la polvere dell'Est e del Middle West, ed è una polvere da cui non cresce nulla, una cultura senza radici, una frenetica ricerca di un riparo, la furia cieca di un popolo perso e senza speranza alle prese con la ricerca affannosa di una pace che non potrà mai raggiungere.
    E c'è una ragazza ingannata dall'idea che felici fossero quelli che si affannavano, e voleva essere dei loro. (dalla prefazione)

Il mio cane Stupido[modifica]

  • Il matrimonio abbrutisce l'uomo. (Henry Molise: III; p. 23)
  • «È top secret», disse l'agente, il che significava che ne erano al corrente tutti gli scrittori e tutti gli agenti della città. (VI; p. 47)
  • Sii libero, capo. È l'unica cosa che conta. (XIII; p. 82)
  • Per scrivere bisogna amare, e per amare bisogna capire. (XIX; p. 119)

La confraternita dell'uva[modifica]

  • La cucina: il vero regno di mia madre, l'antro caldo della strega buona sprofondato nella terra desolata della solitudine, con pentole piene di dolci intingoli che ribollivano sul fuoco, una caverna d'erbe magiche, rosmarino e timo e salvia e origano, balsami di loto che recavano sanità ai lunatici, pace ai tormentati, letizia ai disperati. Un piccolo mondo venti-per-venti: l'altare erano i fornelli, il cerchio magico una tovaglia a quadretti dove i figli si nutrivano, quei vecchi bambini richiamati ai propri inizi, col sapore del latte di mamma che ancora ne pervadeva i ricordi, e il suo profumo nelle narici, gli occhi luccicanti, e il mondo cattivo che si perdeva in lontananza mentre la vecchia madre-strega proteggeva la sua covata dai lupi di fuori. (VII; 2006, p. 73)
  • Poi accadde. Una sera, mentre la pioggia batteva sul tetto spiovente della cucina, un grande spirito scivolò per sempre nella mia vita. Reggevo il suo libro tra le mani e tremavo mentre mi parlava dell'uomo e del mondo, d'amore e di saggezza, di delitto e di castigo, e capii che non sarei mai piú stato lo stesso. Il suo nome era Fëdor Michailovič Dostoevskij. Ne sapeva piú lui di padri e figli di qualsiasi uomo al mondo, e cosí di fratelli e sorelle, di preti e mascalzoni, di colpa e di innocenza. Dostoevskij mi cambiò. L'idiota, I demoni, I fratelli Karamazov, Il giocatore. Mi rivoltò come un guanto. Capii che potevo respirare, potevo vedere orizzonti invisibili. L'odio per mio padre si sciolse. Amavo mio padre, povero disgraziato sofferente e perseguitato. Amavo anche mia madre, e tutta la mia famiglia. Era tempo di diventare uomo, di lasciare San Elmo e andarmene nel mondo. Volevo pensare e sentirmi come Dostoevskij. Volevo scrivere. (VIII; 2006, pp. 81-82)
  • È meglio morire di bevute che morire di sete. (Angelo Musso: XXVIII; 2006, p. 204)

Sogni di Bunker Hill[modifica]

Incipit[modifica]

Il mio primo impatto con il successo non fu per nulla memorabile. Facevo l'aiuto cameriere alla tavola calda di Marx. L'anno era il 1934. Il luogo, l'incrocio fra la Third e Hill, Los Angeles. Avevo ventun anni, e per me il mondo era delimitato a ovest a Bunker Hill, a est da Los Angeles Street, a sud da Pershing Square e a nord dal Civic Center. Ero un aiuto cameriere veramente unico, con grande verve e molto stile vista la professione, e sebbene fossi terribilmente sottopagato (un dollaro al giorno più i pasti), attiravo una considerevole attenzione quando scivolavo fischiettando di tavolo in tavolo con un vassoio in equilibrio su una mano, strappando sorrisi ai miei clienti.

Citazioni[modifica]

  • Entrò in bagno e chiuse la porta. Io mi sedetti sul letto e mi tolsi i vestiti. Quando ritornò ero nudo. Cercai di nascondere il mio disappunto. Era pulita e lavata, ma in qualche modo impura. Il suo sedere stava lì appeso come un orfanello. Non ce l'avremmo mai fatta.
  • Da quell'esperto di culi che ero, rapidamente mi accorsi delle contrazioni del suo sedere, indice sicuro di collera in una donna.
  • A questo punto successe una cosa strana. Guardai Edgington, i capelli e il corpo fradici, e non mi piacque. Non mi piacque per niente. C'era qualcosa di osceno nella nostra nudità, nel manoscritto che bruciava, nel pavimento inzaccherato di pioggia, nei nostri corpi che tremavano al freddo e nel sorriso insolente sulle labbra di Edgington. Mi scostai da lui e gli diedi la colpa di tutto.
  • Non avrei dovuto colpire Edgington. Era stato ospitale e cortese, generoso e cordiale. Ma non potevo sopportare la sua arroganza. Aveva troppo successo per i miei gusti. Doveva aspettarselo.
  • Muovendomi con il traffico, mi domandavo quanto altri come me prendevano la strada semplicemente per sfuggire alla città. Giorno e notte, la città formicolava di traffico ed era impossibile credere che tutte quelle persone avessero una ragione purchessia per guidare.
  • Mi ero autoingannato. Non era stato piacevole vedere Sin City. Non ero per niente compiaciuto del fallimento di Velda. Per la verità mi dipiaceva per lei, per tutti gli scrittori, per la miseria di quel mestiere.
  • Leggevo e leggevo, ed ero affranto e solo e innamorato di un libro, di molti libri, poi mi venne naturale, e mi sedetti li, con una matita e un lungo blocco di carta, e cercai di scrivere, fino a che sentii di non poter più continuare perché le parole non mi sarebbero venute come ad Anderson, ma solamente come gocce di sangue dal mio cuore.
  • Era vestita di velluto verde. Mi accorsi immediatamente del suo culo sbalorditivo. Vero Hollywood.

Incipit di alcune opere[modifica]

A ovest di Roma[modifica]

Era gennaio, faceva freddo. era buio e pioveva, ero stanco e mi sentivo malissimo, i tergicristalli non funzionavano, avevo i postumi di una lunga serata passata a bere e a parlare con un regista milionario che voleva farmi scrivere un film sui Tate Murders «tipo Bonny & Clyde, pieno di brio e stile».[3]

Full of life[modifica]

Era una casa grande perché eravamo gente con progetti grandiosi. Il primo era già lì, una sporgenza all'altezza del suo punto vita, una cosa dai movimenti sinuosi, striscianti e contorti come un groviglio di serpi. Nelle tranquille ore prima di mezzanotte appoggiavo il mio orecchio su quella zona e sentivo un gorgoglio come da una sorgente, dei gorgoglii, dei risucchi e degli sciabordii.
Dicevo: — Si comporta proprio come il maschio della specie.
— Non necessariamente.
— Nessuna femmina scalcia così tanto.

Aspetta primavera, Bandini[modifica]

Avanzava, scalciando la neve profonda. Era un uomo disgustato. Si chiamava Svevo Bandini e abitava in quella strada, tre isolati più avanti. Aveva freddo, e le scarpe sfondate. Quella mattina le aveva rattoppate con dei pezzi di cartone di una scatola di pasta. Pasta che non era stata pagata. Ci aveva pensato proprio mentre infilava il cartone nelle scarpe.

La strada per Los Angeles[modifica]

Ho fatto un sacco di lavori al porto di Los Angeles perché la nostra famiglia era povera e mio padre era morto. Il mio primo lavoro, poco dopo la maturità, fu quello di spalatore di fossi. Di notte non potevo dormire per via del mal di schiena. Stavamo facendo uno scavo in un terreno, non c'era neanche un po' d'ombra, il sole picchiava dall'alto di un cielo senza nuvole, e io giù in quella buca a scavare insieme con due cani da valanga che avevano una vera passione per lo scavo, sempre là a ridere e a raccontarsi barzellette, ridendo e fumando un tabacco puzzolente.

Note[modifica]

  1. Da Full of Life, traduzione di Alessandra Osti, Fazi, 1998.
  2. Da Lettera a Joyce Fante, c. 28-30 luglio 1957; in Tesoro, qui è tutto una follia: lettere dall'Europa, 1957-1960, traduzione di Alessandra Osti, Fazi, 1999.
  3. Citato in Giacomo Papi, Federica Presutto, Riccardo Renzi, Antonio Stella, Incipit, Skira, 2018. ISBN 9788857238937

Bibliografia[modifica]

  • John Fante, Aspetta primavera, Bandini, in Le storie di Arturo Bandini, a cura di Emanuele Trevi, Einaudi, Torino, 2011. ISBN 978-88-06-20872-1
  • John Fante, Chiedi alla polvere (Ask the dust, 1939), traduzione di Maria Giulia Castagnone, Marcos y Marcos, Milano, 1994.
  • John Fante, Full of Life, traduzione di Alessandra Osti, Einaudi, Torino, 2009. ISBN 978-88-06171421
  • John Fante, Il mio cane Stupido, in A ovest di Roma (West of Rome, 1986), traduzione di Alessandra Osti, Fazi, Roma, 2007. ISBN 978-88-8112-855-6
  • John Fante, La confraternita del Chianti (The Brotherhood of the Grape, 1977), traduzione di Francesco Durante, Marcos y Marcos, Milano, 1995.
  • John Fante, La confraternita dell'uva (The Brotherhood of the Grape, 1977), traduzione di Francesco Durante, prefazione di Vinicio Capossela, Einaudi, Torino, 2006.
  • John Fante, La strada per Los Angeles, in Le storie di Arturo Bandini, a cura di Emanuele Trevi, Einaudi, Torino, 2011. ISBN 978-88-06-20872-1
  • John Fante, Sogni di Bunker Hill (Dreams from Bunker Hill, 1982), traduzione di Francesco Durante, Einaudi, Torino, 2004.

Filmografia[modifica]

Altri progetti[modifica]

Opere[modifica]