Moïse Schwab

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Tomba di Moïse Schwab al cimitero Père-Lachaise di Parigi

Moïse Schwab (1839 – 1918), scrittore, traduttore e bibliotecario francese.

Storia degli ebrei dall'edificazione del secondo tempio fino ai giorni nostri[modifica]

  • Tito mise [...] l'assedio davanti a Gerusalemme. Questa città era difesa da forti mura e numerose torri, le quali separando e proteggendo i cinque quartieri della città, ne facevano altrettante fortezze indipendenti, l'una all'altra per tal modo sovrapposte, che ciascuna richiedeva un assedio a parte. Il generale romano, apprezzando il valore de' suoi nemici e prevedendo una vigorosa resistenza, fece loro proposizioni di pace. Ma gli Ebrei non volevano né potevano trattare. Accettare la dominazione romana era abdicare alla loro nazionalità e rinunciare alla propria fede; entrambe sarebbero in breve scomparse sotto l'abile e prodigioso lavoro d'assimilazione, al quale Roma sottometteva i popoli amalgamati nel suo vasto impero. La lotta offriva loro altre alternative: vincitori, ristabilivano il governo nazionale e la religione di Dio; vinti, la loro caduta era un'ultima protesta contro l'abuso della forza e cadendo, il sangue di ogni martire ravvivava le sorgenti della fede. D'altronde il partito della resistenza era già padrone della città, ed i zelanti esaltati, pei quali la moderazione stessa era un delitto, punivano coll'estremo supplizio ogni velleità di accomodamento coi Romani. (cap. I, pp. 33-34)
  • Tutti i mezzi di cui può servirsi l'arte di difendere e di assalire le città, tutti gli stratagemmi che essa può inventare, tutto il coraggio, l'eroismo e la perseveranza che possono ispirare l'accanimento dell'assalto e la disperazione della difesa, tutto fu messo in opera da ambe le parti con un ardore senza pari. I Romani ricominciavano per la terza volta i loro immensi lavori. Tito fece agli assediati nuove proposte di pace, che furono respinte. Allora, per spaventare gli Ebrei colla vista dei supplizi che loro riserbava, il generale romano, con una barbarie ben lontana da quel carattere di bontà che gli storici, gli attribuiscono, fece mettere in croce davanti ai bastioni tutti i prigionieri che cadevano nelle sue mani. Gli Ebrei dall'alto delle mura rispondevano con imprecazioni e col supplizio di quelli che proponevano di entrare in accordo col nemico. (cap. I, p. 35)
  • Gli Ebrei così rinchiusi [in Gerusalemme], non tardarono a provare tutti gli orrori dell'assedio. Le provvigioni accumulate nei granai non potevano bastare a lungo ai numerosi abitanti ed alla popolazione accorsa dal di fuori per cercare uno scampo contro il furore del nemico. Ben presto la fame invase l'infelice città e la ridusse agli estremi; i pochi viveri rimasti salirono ad un prezzo esorbitante; i ricchi ed i sospetti di favoreggiare il partito degli accordi coi Romani furono accusati di nascondere le provvigioni e fatti segno ai più crudeli oltraggi; si divorarono gli animali più immondi, gli alimenti più schifosi; si mangiarono pelli, cuoio, scorze macinate e fieno pilato, in una parola tutte le sostanze colle quali la fame s'ingegna d'ingannare i bisogni dello stomaco. Il pensiero rifugge alla vista degli atti inauditi ispirati dal rabbioso stimolo della fame. I soldati entravano nelle case, penetravano in tutti i ripostigli ed involavano agli infelici abitanti i pochi alimenti che avevano conservalo. In quelle perquisizioni una disgraziata madre gettò davanti ai guerrieri spaventati gli avanzi d'un pasto esecrabile; essa aveva mangiato il proprio fanciullo, divorato il frutto delle sue viscere... (cap. I, 36-37)
  • Per operare un ravvicinamento tra il giudaismo e la filosofia, era necessario un ingegno superiore, calmo e chiaro, quanto energico e profondo, capace col suo sapere e colla sua critica intelligente di illuminare tutto il dominio della religione colla fiaccola della scienza e di separare esattamente la speculazione dalla fede. Il grand'uomo che tentò quest'opera così difficile, fu l'illustre Mosè ben Maimon, volgarmente detto Maimonide [...]. (cap. IX, pp. 148)
  • Nell'Aragona, il domenicano Raimondo Martino, convinto della superiorità della sua fede, sperò convertire tutti gli Ebrei colla forza del suo ragionare. Si preparò adunque per ordine del re Giacomo[1] una conferenza religiosa, nella quale il domenicano fu messo alla presenza del celebre rabbino Mosè bar Naham. La conferenza non tocco il suo termine, ed ebbe soltanto per conseguenza di far cancellare da lutti i lavori rabbinici le espressioni che potevano offendere i cristiani. (cap. IX, pp. 153-154)
  • Durante la guerra contro gli Arabi o Mori, gli Ebrei si erano incaricati dello approvvigionamento degli eserciti reali, ed avevano fallo regnare nel campo spagnuolo l'abbondanza ed il benessere. I re cattolici aspettarono prudentemente a bandire gli Ebrei, quando non ebbero più bisogno di loro. Ma una volta presa Granata, ogni tolleranza fu bandita. Per celebrare la vittoria riportata, bisognava indirizzare all'Eterno, al Dio della clemenza, un'azione di grazia che doveva consistere nel costringere tutti i sudditi Spagnuoli ad entrare nel grembo della Chiesa ed abbracciar la religione dello Stato.
    A tal effetto tutte le fatte promesse svanirono: i re si credettero ormai sciolti verso gli Ebrei da ogni debito di riconoscenza; e ciò per una ragione essenzialissima ai loro occhi, perché non si credevano legati verso eretici, e perché gli impegni contratti fra religiosi ed infedeli non potevano essere validi. (cap. XI, pp. 196-197)
  • Dopo aver felicemente terminata la guerra fatta ai Mori, Ferdinando ed Isabella non pensarono più che a rovinare le sinagoghe ed a disfarsi degli Ebrei. Ferdinando il cattolico promulgò prima, nel mese di marzo 1492, un editto col quale ordinava a questo popolo di uscire dal regno di Spagna entro quattro mesi, o di abbracciare il cristianesimo, e gli Ebrei cominciarono ad essere banditi da tutte le città dell'Andalusia. (cap. XI, p. 197)
  • Non senza ragione la maggior parte dei principi europei ed in ispecie il Parlamento di Parigi biasimarono acerbamente la follìa di Ferdinando e di Isabella d'aver espulso dai loro territorii una classe di cittadini [gli ebrei] tanto utili. A questo alludeva il sultano Bajazet quando esclamava: «Voi dite che Fernando è un re saggio, lui, che ha immiserito il suo regno per arricchire il nostro!» (cap. XI, pp. 204-205)
  • Altri mali attendevano i poveri esuli [ebrei, espulsi dalla Spagna] nell'approdare a Genova, come ne fa fede il contemporaneo Senarega. Secondo un'antica costumanza della città, gli Ebrei non potevano soggiornare più di tre dì; ora i vascelli sui quali quegl'infelici dovevano essere trasportati in paesi più lontani avendo bisogno di essere raddobbati, il consiglio deliberò che potessero rimanere non nella città, ma sulla riva vicina al molo fino a che i bastimenti fossero allestiti e potessero far vela. Quei disgraziati uscirono allora dai vascelli, simili a fantasmi, magri, pallidi, senz'alito, coll'occhio spento, tali insomma che non avendoli veduti abbandonare il naviglio si sarebbero presi per tanti cadaveri. I fanciulli morenti di fame si lasciavano trascinare in Chiesa e battezzare per un tozzo di pane dai cristiani, i quali non contenti a ciò, pigliavano eziandio piacere a rimandarli fra i loro fratelli col pane in una mano e la croce nell' altra. (cap. XI, p. 205)
  • I cabalisti si dividono in due scuole fondate quasi contemporaneamente in Palestina verso la metà del secolo XVI; l'una da Mosè Cordovero[2], d'origine spagnuola, che fioriva a Sefat nella Galilea inferiore; l'altra, da Isacco Loria[3], morto pure a Sefat nel 1572, e considerato da alcuni Ebrei come il precursore del Messia. Il primo, senza penetrare molto addentro nello spirito dei monumenti originali, sta piuttosto attaccato al loro senso proprio ed al loro significato reale; il secondo invece se ne allontana quasi sempre per isciogliere la briglia alla sua immaginazione e prevale ordinariamente nell'opinione. (cap. XII, p. 229)

Note[modifica]

  1. Giacomo I d'Aragona, detto il Conquistatore (1208-1276).
  2. Moses ben Jacob Cordovero (1522-1570).
  3. Rabbi Isaac Ashkenazi Louria, o Loria (1534-1572).

Bibliografia[modifica]

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