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Steve Berry

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(Reindirizzamento da Le ceneri di Alessandria)
Steve Berry nel 2012

Steve Berry (1955 — vivente), scrittore statunitense.

Incipit di alcune opere

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Cotton Malone

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L'ultima cospirazione

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Parigi, Francia,
gennaio 1308

Jacques de Molay sapeva che la salvezza non gli sarebbe mai stata offerta perciò anelava la morte. Era il ventiduesimo maestro dei Poveri Soldati di Cristo e del Tempio di Salomone, un ordine religioso al servizio di Dio da duecento anni. Ma da tre mesi lui, come altri cinquemila confratelli, era un prigioniero di Filippo IV, re di Francia.
«Alzatevi», ordinò Guillarme Imbert, dalla porta.
De Molay rimase sul letto.
«Siete arrogante persino dinanzi alla vostra dipartita», commentò Imbert.
«L'arroganza è tutto ciò che mi resta.»

Le ceneri di Alessandria

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Palestina,
aprile 1948

Mentre George Haddad guardava con astio l'uomo legato alla sedia, la sua pazienza si esaurì. Come lui, il prigioniero aveva la pelle scura, il naso aquilino e gli occhi marroni infossati di un siriano o di un libanese. In quell'uomo, però, c'era qualcosa che a Haddad non piaceva.
«Te lo chiedo per l'ultima volta. Chi sei?»
I soldati di Haddad avevano catturato lo sconosciuto da tre ore, da poco prima dell'alba. Camminava da solo, disarmato. Era una cosa sciocca: sin da quando gli inglesi avevano deciso, il novembre prima, di suddividere la Palestina in due Stati – uno arabo e l'altro ebraico – tra le due parti la guerra infuriava, eppure quello stupido si era infilato dritto in una roccaforte araba, senza opporre resistenza. Da quando era stato legato alla sedia non aveva detto una parola.

L'ombra del leone

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Babilonia,
maggio 323 a.C.

Alessandro Magno aveva deciso di uccidere lui stesso quell'uomo. Di solito simili compiti li delegava, però non in quell'occasione. Suo padre gli aveva insegnato molte cose che gli erano state utili, ma una lezione in particolare non aveva mai dimenticato: le esecuzioni capitali servono ai vivi.
Aveva riunito seicento delle sue guardie migliori, uomini senza paura che di battaglia in battaglia avevano superato scontri frontali o protetto disciplinatamente il suo fianco vulnerabile. Grazie a loro l'indistruttibile falange macedone aveva conquistato l'Asia. Ma oggi non ci sarebbero stati combattimenti. Nessuno portava armi o armatura, e, anche se stanchi, si erano radunati in abito leggero, copricapo in testa, sguardo attento.
Anche Alessandro studiava la scena con occhi insolitamente affaticati. Era sovrano di Macedonia e Grecia, signore dell'Asia, governatore della Persia. Alcuni lo definivano re del mondo, altri un dio. Uno dei suoi generali, una volta, gli aveva detto che era l'unico filosofo mai visto con le armi in pugno.
Ma era anche umano, e il suo amato Efestione giaceva morto.

La tomba di ghiaccio

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Novembre 1971

L'allarme suonò e Forrest Malone si attivò immediatamente. «Profondità?»
«Centottanta metri.»
«Cosa c'è sotto di noi?»
«Altri seicento metri di acqua gelata.»
Lo sguardo di Malone scrutò i quadranti, gli indicatori e i termometri attivi. Nella minuscola torretta di comando, il timoniere era seduto alla sua destra e l'addetto ai timoni di profondità era stipato sulla sinistra. Entrambi gli uomini tenevano le mani strette sulle leve di controllo, mentre la corrente elettrica andava e veniva. «Rallentare a due nodi.»
Il sottomarino sbandò.
L'allarme smise di suonare e nella torretta scese il buio.

Il tesoro dell'imperatore

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Piana di Giza, Egitto,
agosto 1799

Il generale Napoleone Bonaparte smontò da cavallo e alzò lo sguardo verso la piramide. Ce n'erano altre due lì vicino, una dietro l'altra, ma quella che gli stava davanti agli occhi era la più grande.
Che trofeo eccezionale aveva fruttato la sua conquista.
La cavalcata verso sud dal Cairo del giorno prima, attraverso campi delimitati dai fangosi canali d'irrigazione, e il breve ma faticoso superamento a piedi di aree sabbiose sferzate dal vento, erano stati del tutto privi di elementi di rilievo. L'avevano accompagnato duecento uomini armati, dato che per lui sarebbe stata una leggerezza avventurarsi da solo così all'interno del paese. Aveva lasciato il suo contingente accampato per la notte a circa un chilometro e mezzo da lì. La giornata era stata torrida come al solito, e aveva quindi atteso di proposito il tramonto per visitare quel luogo.
Era sbarcato vicino ad Alessandria quindici mesi prima con 34.000 uomini, 1000 armi da fuoco, 700 cavalli e 100.000 proiettili. Aveva avanzato rapidamente verso sud e conquistato la capitale, il Cairo, al fine di mettere scompiglio in qualunque eventuale resistenza grazie alla velocità e alla sorpresa. Poi aveva combattuto contro i mamelucchi non molto lontano da lì, in un glorioso conflitto che aveva chiamato Battaglia delle Piramidi. Quegli ex schiavi turchi avevano governato l'Egitto per cinquecento anni, ed era stato un vero spettacolo vedere migliaia di guerrieri vestiti con abiti multicolori e in sella a magnifici stalloni. Poteva ancora sentire l'odore della cordite, il rombo dei cannoni, lo schiocco dei moschetti, le grida degli uomini morenti. Le sue truppe, formate da molti veterani della campagna d'Italia, avevano combattuto valorosamente. E con la perdita di soltanto duecento francesi, aveva virtualmente catturato l'intero esercito nemico, ottenendo il completo controllo del Basso Egitto. Un cronista aveva scritto che «un pugno di francesi aveva sottomesso un quarto del globo.»
Non era proprio così, ma suonava benissimo.

L'esercito fantasma

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Territori del Nord, Pakistan,
venerdì 18 maggio, ore 08.10

Un proiettile sibilò passando accanto a Cotton Malone, che si tuffò sul terreno roccioso cercando quel po' di riparo offerto dai pioppi radi. Cassiopea lo imitò e i due strisciarono sulla ghiaia tagliente fino a trovare un masso abbastanza grande da proteggerli entrambi.
Arrivavano altri spari.
«La faccenda si fa seria», disse Cassiopea.
«Credi?»
La scarpinata, fino a quel momento, era stata tranquilla. Erano circondati dalla più imponente congrega di vette del pianeta. Il tetto del mondo, a più di tremila chilometri da Pechino, nell'estremo angolo sudoccidentale della regione autonoma cinese dello Xinjiang - o nei Territori del Nord pakistani, a seconda dei punti di vista -, proprio in corrispondenza di un confine aspramente conteso.
Ecco spiegati i militari.

Il sigillo dei traditori

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New York,
sabato 8 settembre, ore 18.13

A Cotton Malone, un errore non bastava.
Ne commise due.
L'errore numero uno fu quello di recarsi al quindicesimo piano del Grand Hyatt Hotel. Era stato convocato lì due giorni prima dal suo ex capo, Stephanie Nelle, tramite un messaggio inviato per posta elettronica. Aveva bisogno d'incontrarlo a New York, per una questione che, a quanto pareva, poteva essere discussa solamente di persona. E che, a quanto pareva, era molto importante. Lui aveva tentato ugualmente di contattarla, telefonando al quartier generale della Sezione Magellano, ad Atlanta, ma l'assistente gli aveva risposto: «È fuori ufficio da sei giorni, per un NC.»
Malone non le aveva chiesto dove fosse andata. Conosceva bene il significato di quella sigla. NC, Niente Contatti. «Cioè non chiamarmi, ti chiamo io.»

Le chiavi del potere

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Palazzo di Whitehall, 28 gennaio 1547

Caterina Parr capì che la fine era vicina. Restavano pochi giorni, forse soltanto poche oere. Da mezz'ora stava in silenzio a guardare i medici che concludevano i loro esami. Adesso dovevano pronunciare il loro verdetto.
«Sire», disse uno di loro. «Qualunque opera d'uomo è ormai vana. È meglio che passiate in rassegna la vostra vita e vi rimettiate alla misericordia di Dio, per il tramite del Cristo.»
Caterina osservò Enrico che meditava sul consiglio dei medici. Il re, disteso sul letto, aveva appena lanciato alte grida di dolore. Ora sollevava la testa per guardare l'uomo che gli aveva parlato. «E quale giudice vi ha mandato per trasmettermi questa sentenza?»
«Siamo i vostri giudici. Questo è un giudizio senza possibilità di appello.»
«Fuori. Tutti quanti», ruggì Enrico.
Benché gravemente malato, il re sapeva ancora dare ordini. Gli uomini uscirono in tutta fretta dalla camera da letto, assieme a tutti i cortigiani, terrorizzati.
Anche Caterina fece per andarsene.
«Vi prego di restare, mia buona regina», disse Enrico.
Lei annuì.
Erano soli.

La congiura del silenzio

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Washington,
10 settembre 1861

Abraham Lincoln manteneva il contegno, sebbene la donna di fronte a lui stesse mettendo a dura prova la sua pazienza.
«Il generale ha fatto solo ciò che qualunque persona per bene riterrebbe giusto», disse Jessie Benton Frémont.
Era la moglie di John Frémont, generale dell'esercito degli Stati Uniti, l'uomo a capo di tutte le operazioni militari dell'Unione a ovest del fiume Mississippi. Eroe della Guerra Messicano-Statunitense e famoso esploratore, Frémont aveva ricevuto il suo ultimo incarico di comando nel maggio di quell'anno. Poi, un mese prima, mentre la Guerra Civile infuriava al Sud, aveva emesso di propria iniziativa un proclama che sanciva la liberazione di tutti gli schiavi dei ribelli del Missouri che avevano impugnato le armi contro gli Stati Uniti. Ciò era abbastanza grave di per sé, ma il decreto di Frémont disponeva addirittura che tutti i prigionieri di guerra venissero giustiziati.

Il patto dei giusti

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Casa Bianca,
giovedì 31 dicembre 1936, ore 17.00

Franklin Roosevelt detestava trovarsi nella stessa stanza con l'ignobile persona venuta a fargli visita, ma si rendeva conto della necessità di un colloquio. Era presidente da quattro anni, ma di lì a tre settimane avrebbe avuto luogo il suo secondo insediamento, il primo della storia a tenersi il 20 gennaio. Prima di allora, i giuramenti erano sempre stati pronunciati il 4 marzo, lo stesso giorno in cui, nel 1789, era entrata in vigore la Costituzione. La data era cambiata con il XX Emendamento. A conti fatti era una buona idea, perché riduceva l'attesa dopo le elezioni di novembre, durante la quale il presidente aveva un potere troppo limitato. Se quel periodo durava troppo, era come se il presidente non esistesse nemmeno. Roosevelt era contento di prendere parte a quel cambiamento: detestava i vecchi metodi, soprattutto chi li propugnava. Per esempio, il suo visitatore.
Andew Mellon era stato segretario del Tesoro per dieci anni e undici mesi. Aveva cominciato sotto Harding, nel 1921, poi aveva lavorato per Coolidge e infine era stato scalzato da Hoover. Aveva completato la carriera governativa ricoprendo la carica di ambasciatore presso la Corte di San Giacomo, per poi andare in pensione nel 1933. Mellon, che già all'epoca era un repubblicano di ferro, adesso era uno degli uomini più ricchi degli Stati Uniti e incarnava proprio quegli ideali del vecchio ordine che il New Deal mirava a modificare.
«Ecco la mia offerta, signor presidente. Mi auguro che sia realizzabile.» Mellon gli porse un foglio.
Roosevelt aveva invitato questo paria per un tè pomeridiano perché i suoi consiglieri gli avevano fatto presente che non si può passare la vita a prendere a calci un cane idrofobo. E ormai era da tre anni che lui prendeva a calci Mellon.

Il giorno del giuramento

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Città del Vaticano,
lunedì 7 giugno 1982

Ronald Reagan capì che era stata la mano di Dio a portarlo lì. Non c'era altra spiegazione. Due anni prima, quando per la terza volta si era presentato alle primarie del Partito Repubblicano, si era impantanato in una campagna presidenziale contro dieci rivali, ma ne era uscito vincitore. E alla fine aveva battuto il candidato democratico, il presidente in carica Jimmy Carter, aggiudicandosi quarantaquattro Stati. Poi, quattordici mesi prima, un sicario gli aveva sparato, ma invano: Ronald Reagan era il primo presidente degli Stati Uniti a sopravvivere a un attentato. E adesso eccolo qui, al terzo piano del Palazzo Apostolico, nello studio privato del papa, a conferire con l'uomo che guidava quasi un miliardo di cattolici.
Rimase colpito dalla sobrietà di quella stanza: mobilia parca, e sole oscurato da pesanti tendoni. Eppure quelle erano le finestre dalle quali, ogni domenica, il papa pregava assieme a migliaia di pellegrini raccolti in piazza San Pietro. C'era un semplice tavolo con quattro sedie imbottite ai lati lunghi, due per parte, e un orologio d'oro, un crocefisso e un sottomano in pelle. Sotto, un tappeto orientale sul pavimento in marmo.

La chiave dell'inferno

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Washington,
24 gennaio 1865, ore 14.45

Notò l'espressione allarmata del padrone di casa. Scena insolita: Joseph Henry aveva fama di persona posata, era uno dei più illustri scienziati d'America, per non parlare della prestigiosa carica che ricopriva. Segretario dello Smithsonian Institution.
Lui, seduto su un comodo divanetto in pelle nell'austero ufficio di Henry, aveva quasi concluso l'accordo. Aveva preso appuntamento con settimane di anticipo, fissando l'incontro a ieri, ma aveva tardato di un giorno per via della guerra civile che infuriava sull'altra riva del fiume, in Virginia. Ora pareva che le ostilità stessero per cessare. Dopo Gettysburg era cambiato tutto. Erano caduti più di duecentocinquantamila uomini degli Stati Confederati, e altrettanti languivano nei campi di prigionia federali. A questi si aggiungevano i centoventicinquemila feriti o menomati a vita. Se in un primo momento era parsa possibile una vittoria del Sud, adesso era chiaro che gli Stati Confederati erano sulla china discendente.

Il momento della verità

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Oggi

Com'è ironico che tutto sia cominciato con un omicidio e che - forse - si concluderà allo stesso modo.
Mi hanno convocato a un indirizzo famosissimo: il 501 di Auburn Avenue, Atlanta Georgia. La casa è in stile regina Anna, a due piani, con un portico, finiture in legno intagliato, una finestrella rotonda e il tetto spiovente. Si trova in un quartiere dal nome altrettanto famoso: Sweet Auburn. Abitata un tempo da famiglie lavoratrici della classe media, sessant'anni fa questa zona è diventata l'epicentro di un movimento che avrebbe cambiato gli Stati Uniti. La coppia afroamericana che viveva in questa casa non voleva che i propri figli nascessero in un ospedale segregazionista, perciò li aveva fatti venire al mondo proprio qui. La prima, Christine, era nata prematura e aveva trascorso le prime notti della sua vita in un cassetto del guardaroba, perché non le avevano ancora preso una culla. L'ultimo, Alfred Daniel, era venuto alla luce in una calda giornata di luglio. Il figlio di mezzo era nato - ironia della sorte - nella stanza di mezzo al primo piano, il 15 gennaio 1929. L'avevano chiamato Michael, come suo padre. Cinque anni dopo, però, tornato da un viaggio a Berlino, il padre aveva cambiato il suo nome e quello del figlio in Martin Luther King.
Sono al piano terra, nell'ingresso immerso nel silenzio. L'invito è arrivato per posta una settimana fa nella mia libreria di Copenaghen. La busta riportava scritto a mano il mio nome - Cotton Malone - e conteneva un bigliettino che diceva soltanto:

Sono passati cinquant'anni.
Porti tutto con sé.
3 aprile. Casa King, MLK Center, h23

Niente firma.
Ma so chi è il mittente.

I cavalieri dell'Apocalisse

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Lago di Como,
sabato 28 aprile 1945, ore 15:30

Benito Amilcare Andrea Mussolini sapeva che il destino stava per sopraffarlo. L'aveva capito il giorno prima, quando i partigiani della 52a Brigata Garibaldi l'avevano bloccato mentre procedeva verso nord, arrestando la colonna tedesca che lo aiutava nella fuga in Svizzera. Il comandante della Wehrmacht aveva ammesso apertamente di essere stanco dei combattimenti e di voler evitare le truppe americane con una tranquilla ritirata all'interno del Terzo Reich. Il che spiegava come mai fossero bastati un albero abbattuto e trenta partigiani per catturare trecento soldati tedeschi armati fino ai denti.
Mussolini aveva governato l'Italia per ventun anni ma, quando gli Alleati avevano conquistato la Sicilia e invaso lo Stivale, i suoi soldati fascisti e re Vittorio Emanuele III avevano colto l'occasione per destituirlo. Ci era voluto Hitler, per salvarlo dal carcere e metterlo a capo della Repubblica Sociale Italiana, con sede governativa a Salò. Non era nulla più di uno Stato fantoccio della Germania, con lo scopo di mantenere un'illusione di potere. E ormai era andata anche quella. Gli alleati erano avanzati a spron battuto, fino ad arrivare a Milano, e lui si era visto costretto a fuggire ancora più a nord, verso il lago di Como e il confine svizzero, a pochi chilometri da lì.

Il marchio della fenice

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Varsavia, Polonia,
lunedì 9 agosto 1982, ore 15:45

Janusz Czajkowski avrebbe voluto distogliere lo sguardo dalla scena cruenta che si stava consumando davanti a lui, ma sapeva che avrebbe solo peggiorato le cose. Era stato portato lì proprio per guardare.
Il carcere di Mokotów aveva un'importanza storica. Costruito dai russi agli inizi del XX secolo, usato ampiamente dai nazisti e, dopo la guerra, dai comunisti, dal 1945 era il luogo in cui venivano imprigionati, torturati e giustiziati gli attivisti clandestini, i membri dell'inteligencija e, in generale, chiunque potesse costituire una minaccia al governo controllato dal Soviet. Aveva raggiunto l'apice dell'attività nell'epoca staliniana, quando i detenuti si contavano a migliaia. A quei tempi, molti polacchi lo chiamavano więzienie na Rakowieckiej, il «carcere su Rakowiecka», perché sorgeva su quella via, ma c'era ancora chi lo ricordava come uno dei luoghi del Nacht un Nebel, la «notte e nebbia» in cui i nazisti gettavano i loro prigionieri: un luogo senza ritorno. Non si contavano nemmeno più, quelli che erano stati uccisi nel locale caldaie di questo edificio. Ufficialmente, certe atrocità erano cessate con Stalin, ma, nonostante i decenni passati da allora, i dissidenti continuavano a essere portati lì per un «interrogatorio».
Come quello che stava avvenendo dinanzi a Janusz.

La rete del Führer

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Stato Libero di Baviera,
sabato 8 giugno, ore 10:40

Danny Daniels amava la libertà che derivava dal non essere più il presidente degli Stati Uniti. Per carità, ricoprire quella carica gli era piaciuto da morire, e per otto anni aveva svolto quel lavoro al meglio delle proprie capacità. Ma adorava la sua vita attuale. Poteva fare ciò che voleva. Andare dove gli pareva. Quando gli faceva comodo.
Aveva rifiutato la protezione da parte dei servizi segreti, com'era suo diritto, con la scusa di non voler pagarsi la scorta coi soldi dei contribuenti. Ma la verità era che non gli andava di avere bambinaie al seguito. Qualcuno voleva fargli del male? Si accomodasse. Non era poi così inerme. Oltretutto, quando mai un ex presidente aveva costituito una minaccia per qualcuno?
Certo, la gente lo riconosceva per strada.
Svantaggi del gioco.

La stanza segreta dello zar

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Campo di Concentramento di Mauthausen, Austria. 10 aprile 1945

Gli altri prigionieri lo chiamavano "orecchie" perché era l'unico russo della baracca 8 che capisse il tedesco. Il suo nome di battesimo era Karol Borya, ma nessuno lo chiamava così.
Yxo, che significava per l'appunto orecchie, era diventato il suo soprannome fin dal giorno in cui era entrato nel campo, ormai più di un anno prima. Era un nomignolo che portava con orgoglio, una responsabilità che aveva a cuore.
«Che senti?» gli sussurrò uno dei prigionieri nel buio della baracca.
Orecchie era accucciato vicino alla finestra, schiacciato contro il vento gelido, col fiato che gli usciva dalle labbra sottile come una ragnatela nell'aria secca e tetra.
«Vogliono divertirsi ancora un po'?» chiese un altro.
Due notti prima, le guardie erano entrate nella baracca 8 a prendere un russo. Era un soldato di fanteria di Rostov, una città a pochi passi dal Mar Nero. Era arrivato da poco. Le sue urla avevano echeggiato per tutta la notte, ed erano cessate solamente con lo scoppio improvviso di un'arma da fuoco. Il mattino seguente, il suo corpo insanguinato era stato appeso al cancello principale in modo che tutti potessero vederlo.
Orecchie spostò rapidamente lo sguardo dalla vetrata. «Zitti. Col vento è difficile sentire.»

La profezia dei Romanov

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Palazzo Aleksandrovskij,
Carskoe Selo, Russia,
28 ottobre 1916

Alessandra, imperatrice di tutte le Russie, udì la porta aprirsi e si voltò di scatto, interrompendo la veglia al capezzale. Per la prima volta, distolse lo sguardo dal suo povero bambino, disteso a pancia in giù sotto le lenzuola.
Quando vide l'amico irrompere nella stanza, si abbandonò al pianto.
«Finalmente, padre Grigorij. Grazie a Dio. Alessio ha un disperato bisogno di voi.»
Resputin si precipitò accanto al letto e fece il segno della croce. La casacca di seta blu e i pantaloni di velluto dell'uomo emanavano un odore d'alcol che stemperava il suo afrore abituale, paragonato dalle dame di corte al puzzo delle capre. Alessandra tuttavia non badava agli odori, almeno non a quelli di padre Grigorij.

Il terzo segreto

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Fatima, Portogallo,
13 luglio 1917

Lucia levò gli occhi sgranati al cielo e vide scendere la Signora. L'apparizione proveniva da oriente, come le due volte precedenti: un puntino luminoso che emergeva dalla profondità di un cielo ricoperto di nubi. Si avvicinò veloce, planando senza fluttuazioni, e la sua figura risplendette di luce non appena si fu posata sul leccio, a un paio di metri da terra.
La Signora stava in piedi, la sua immagine cristallizzata avvolta in un bagliore che sembrava risplendere più del sole. Di fronte a quella bellezza accecante, Lucia abbassò lo sguardo.
A differenza di due mesi prima, quando la Signora era apparsa per la prima volta, ora la fanciulla era circondata da una grande folla. Quel giorno, là nei campi, c'erano solo Lucia, Giacinta e Francesco, che badavano al gregge di famiglia. I suoi cugini avevano sette e nove anni. Lei, a dieci anni, era la più vecchia, e tale si sentiva. Alla sua destra, era inginocchiato Francesco, coi calzoni lunghi e col berretto di lana. A sinistra, Giacinta, gonna nera e un fazzoletto a coprirle i capelli scuri.

Il sepolcro segreto

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Cristoforo Colombo si rese conto che il momento decisivo si stava avvicinando. Da diverse ore lui e i suoi uomini avanzavano con fatica nella rigogliosa foresta di quella terra tropicale, guadagnando entroterra e quota in modo costante. Di tutte le isole che aveva scoperto dal primo approdo, nell'ottobre del 1492, quella era senza dubbio la più bella su cui avesse posato lo sguardo. Le coste rocciose si allargavano alle spalle del mare in una stretta pianura, ma l'interno era montuoso, tanto da formare una dorsale velata dalla nebbia; le montagne crescevano lentamente da ovest per poi culminare, a est, nella tortuosa catena di vette che in quel momento circondava lui e i suoi uomini. Il suolo era composto per la maggior parte da pietra calcarea porosa, ricoperta da una fertile terra rossa. Nel sottobosco delle antichie e fitte foreste prosperava un'incredibile varietà di piante. Gli indigeni chiamavano quel luogo Xaymaca. Colombo aveva imparato che significava isola delle sorgenti, un nome azzeccato, visto che l'acqua abbondava ovunque. E poiché in castigliano la X era sostituita dalla J, aveva cominciato a chiamarla Jamaica.

Il sigillo della Vergine

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Pirenei,
tarda primavera 1428

Gli inseguitori guadagnavano terreno, perciò Jan van Eyck scalciò all'indietro per dare di sprone al cavallo. L'animale, probabilmente comprendendo il pericolo, accelero l'andatura, emettendo rauchi sbuffi nell'aria fresca delle montagne.
Jan era solo, braccato, su un suolo estraneo e ostile. Al primo avvistamento dei mori, prima di mezzogiorno, ne aveva contati nove a cavallo. Dopo di allora, se n'erano aggiunti altri due. La missione che gli era stata affidata era importantissima per il suo benefattore. Farsi catturare era fuori discussione, perciò con uno schiocco di redini incitò il destriero a correre più forte.
Lo conosceva bene. Un'ottima bestia - tanto per agilità quanto per intelligenza - che l'aveva tratto d'impaccio in più di un'occasione. I cavalli, quando si ammalavano, ricevevano cure migliori di quelle garantite a buona parte dei cristiani. Era grazie a loro che prosperavano i regni. Corsieri, palafreni e - soprattutto - destrieri ricambiavano l'affetto umano con una lealtà senza pari. Jan aveva sentito parlare di un cavaliere che, di ritorno dalla guerra, non era stato riconosciuto dalla promessa sposa, ma era stato accolto assai festosamente dal fedele equino.

Bibliografia

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  • Steve Berry, Cotton Malone. L'ultima cospirazione, traduzione di Gianluigi Zuddas, Editrice Nord, 2006. ISBN 978-88-429-1453-2
  • Steve Berry, Cotton Malone. Le ceneri di Alessandria, traduzione di Anna Martini, Editrice Nord, 2007. ISBN 978-88-429-1520-1
  • Steve Berry, Cotton Malone. L'ombra del leone, traduzione di Elisa Villa, Editrice Nord, 2008. ISBN 978-88-429-1578-2
  • Steve Berry, Cotton Malone. La tomba di ghiaccio, traduzione di Elisa Villa, Editrice Nord, 2009. ISBN 978-88-429-1628-4
  • Steve Berry, Cotton Malone. Il tesoro dell'Imperatore, traduzione di Elisa Villa, Editrice Nord, 2010. ISBN 978-88-429-1670-3
  • Steve Berry, Cotton Malone. L'esercito fantasma, traduzione di Anna Martini, Editrice Nord, 2011. ISBN 978-88-429-1830-1
  • Steve Berry, Cotton Malone. Il sigillo dei traditori, traduzione di Alessandro Storti, Editrice Nord, 2012. ISBN 978-88-429-1949-0
  • Steve Berry, Cotton Malone. Le chiavi del potere, traduzione di Alessandro Storti, Editrice Nord, 2013. ISBN 978-88-429-2333-6
  • Steve Berry, Cotton Malone. La congiura del silenzio, traduzione di Alessandro Storti, Editrice Nord, 2014. ISBN 978-88-429-2521-7
  • Steve Berry, Cotton Malone. Il patto dei giusti, traduzione di Alessandro Storti, Editrice Nord, 2015. ISBN 978-88-429-2657-3
  • Steve Berry, Cotton Malone. Il giorno del giuramento, traduzione di Alessandro Storti, Editrice Nord, 2016. ISBN 978-88-429-2859-1
  • Steve Berry, Cotton Malone. La chiave dell'inferno, traduzione di Alessandro Storti, Editrice Nord, 2017. ISBN 978-88-429-3016-7
  • Steve Berry, Cotton Malone. Il momento della verità, traduzione di Claudia Valentini, Editrice Nord, 2018. ISBN 9788842930938
  • Steve Berry, Cotton Malone. I cavalieri dell’Apocalisse, traduzione di Alessandro Storti, Editrice Nord, 2019. ISBN 9788842932215
  • Steve Berry, Cotton Malone. Il marchio della fenice, traduzione di Alessandro Storti, Editrice Nord, 2020. ISBN 9788842932949
  • Steve Berry, Cotton Malone. La rete del Führer, traduzione di Alessandro Storti, Editrice Nord, 2021. ISBN 9788842933977
  • Steve Berry, La stanza segreta dello zar, traduzione di Flavio Iannelli, Tre60, 2016. ISBN 978-88-6702-318-9
  • Steve Berry, La profezia dei Romanov, traduzione di Beatrice Verri, Editrice Nord, 2018. ISBN 978-88-429-1398-6
  • Steve Berry, Il terzo segreto, traduzione di Carla Gaiba, Editrice Nord, 2005. ISBN 978-88-429-1409-9
  • Steve Berry, Il sepolcro segreto, traduzione di Paolo Scopacasa, Editrice Nord, 2013. ISBN 978-88-429-3016-7
  • Steve Berry, Il sigillo della Vergine, traduzione di Alessandro Storti, Editrice Nord, 2021. ISBN 978-88-429-3016-7

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Opere

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