Paolo Emilio Pavolini

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Paolo Emilio Pavolini (1864 – 1942), filologo e traduttore italiano.

Buddismo[modifica]

Incipit[modifica]

Se nulla sapessimo delle forme religiose e dei sistemi filosofici che hanno nell'India preceduto il buddismo, esso ben più di una stranezza e ben più di un enimma offrirebbe ad osservatori anche superficiali. L'India è stato chiamato il paese dei miracoli, e soltanto come miracolo si potrebbe concepire una religione che nega l'esistenza della divinità, affermando chi ogni cosa è instabilità e dolore: che nega l'esistenza dell'anima individuale, affermando la metempsicosi: che pone a fondamento della sua morale il retto operare, indicando come scopo supremo ed ultimo la cessazione di ogni esistenza.

Citazioni[modifica]

  • La concezione pessimistica, a cui tutto il buddismo è informato, è ignota alle prime età della cultura indiana; i più vetusti monumenti di essa, gli inni vedici, ci ritraggono un popolo forte e sereno, contento di vivere, e che a déi forti e sereni, tuonanti dalle nubi, ridenti nell'aurora, vivificanti nei raggi del sole e negli scrosci della pioggia, chiede abbondanza di armenti, numerosa e balda progenie, forza per debellare i nemici. (cap. I, p. 2)
  • Mentre dalle poche pagine degli Evangeli la figura del Cristo ci appare in tutta la sua grandezza, quella del Buddha non ci è mostrata che in modo assai vago e scolorito dall'immenso Tipitaka[1]. Né poteva essere altrimenti, dato il contrasto fra le due dottrine, l'antitesi perfetta tra lo spirito e le tendenze del cristianesimo e del buddismo. Brevi e semplici le parole del Redentore, quali si convenivano alle turbe che lo ascoltavano: ma nella loro brevità quanto significanti e quanto sublimi nella semplicità! Lunghe, uniformi, monotone, gelide le prediche dell'Illuminato: non il dolore dell'individuo è dinanzi ai suoi occhi o in fondo al suo cuore, ma il dolore universale, la miseria di ogni cosa creata: e di questa miseria ei dimostra la natura, le cause ed i mezzi di distruggerla, con una serie di ragionamenti astratti e severi, modellati tutti sopra uno stesso schema, svolti tutti con le stesse formule, con infinite tediose ripetizioni. Mai forse lo stile rispecchiò il pensiero come in questi libri buddistici: stile schematico, uniforme e scolorito, espressione di quietismo, di indifferenza, di assenza di individualità. (cap. II, pp. 40-41)
  • Come il cristianesimo è stato definito la religione dell'amore, così si potrebbe chiamare il buddismo la religione del dolore. L'esistenza è dolore, col cessare dell'esistenza cessa ogni dolore: e dall'esistenza può liberarsi soltanto chi conosca le quattro sublimi verità e segua l'ottuplice sentiero. (cap. III, p. 51)
  • [...] si può concludere che per essa [l'ontologia buddistica] niente esiste e niente non esiste: ma «ogni cosa diventa» ogni cosa è soggetta ad un continuo mutamento, πάντα ῥεῖ[2] (cap. III, p. 69)
  • [...] è evidente la parentela della filosofia dello Schopenhauer con la metafisica del Buddha: per ambedue ogni esistenza è dolore, per ambedue la liberazione dal dolore sta nella negazione della volontà ossia dell'esistenza; e solo la scienza (vidyá[3]) ci conduce a questa negazione che ha per termine ed effetto il nirvana. (cap. III, p. 69)
  • È facile capire come in una religione senza Dio [il buddismo], il concetto del bene e del male debba essere ben diverso da quello che ci è familiare nelle nostre religioni teistiche. Il peccato è peccato in quanto ostacola e ritarda il raggiungimento della verità, o meglio delle quattro sublimi verità: ma ciò che c'impedisce di riconoscere queste ultime non è che l'«ignoranza» e da questa, come vedemmo, non possiamo liberarci che liberandoci dal desiderio, dalla cupidigia e dalle passioni. Quindi male e bene, vizio e virtù, diventano sinonimi di ignoranza e scienza, di cupidigia e assenza di desiderî. (cap. III, p. 70)
  • In una religione che non riconosce alcuna divinità [il buddismo], è naturale che non s'incontri nessuna forma di culto. La «meditazione» tien luogo di preghiera; la «confessione» poi è l'unica pratica diretta a mantenere i membri dell'Ordine nell'osservanza di quelle regole morali e disciplinari che il Buddha ritenne necessarie al conseguimento della santità e quindi della liberazione finale. (cap. IV, p. 88)
  • Abbiamo già notato, come una delle caratteristiche della religione buddistica, la mancanza di una gerarchia. Non v'è dubbio che questa circostanza abbia contribuito a far nascere e ad aumentare gli scismi, affrettando così la decadenza della fede. (cap. IV, p. 91)
  • Alla teoria delle influenze buddistiche sul cristianesimo o cristiane sul buddismo, non sono mancati ardenti sostenitori: come già ad alcuni parve di riscontrare affinità e parentela fra il culto e le leggende relative ad alcune divinità indiane (p. es. Krsna[4]) e il culto e le tradizioni cristiane. Tanto queste che quelle teorie appaiono ora, grazie al progresso degli studi ed allo spirito di più sana critica che li anima, o del tutto o in parte inattendibili. Il cristianesimo primitivo non può aver influito sul primitivo buddismo, perché questo si era già svolto un cinque secoli prima di quello; né dogmi e leggende del buddismo primitivo possono esser passate nel cristianesimo perché è ora dimostrato impossibile che potessero esser conosciute e diffuse nella Palestina (anche col tramite dei Persiani o dei Siri) prima della nascita di Cristo; infatti di esse nessuna traccia si trova nella letteratura giudaica di poco anteriore all'E. V.[5] (cap. VI, pp. 156-157)

Note[modifica]

  1. Canone buddistico, dal sanscrito Tripiṭaka, il triplice canestro.
  2. Pánta rheî o Panta rei, in greco antico "tutto scorre", celebre aforisma attribuito a Eraclito.
  3. Vidyā, in sanscrito "conoscenza".
  4. Trascrizione dal sanscrito, Krishna.
  5. Era volgare.

Bibliografia[modifica]

  • Paolo Emilio Pavolini, Buddismo, Ulrico Hoepli, Milano, 1898.

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