Anita Raja

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Anita Raja (1953 – vivente), scrittrice, germanista e traduttrice italiana.

La traduzione come pratica dell'accoglienza

asymptotejournal.com, 25 novembre 2015.

  • Da trentacinque anni svolgo un'attività secondaria, laterale, e tuttavia costante, come traduttrice letteraria dal tedesco. Ho tradotto e traduco essenzialmente per piacere. Poiché tradurre non è mai stato il lavoro che mi dava da vivere, ho potuto sempre scegliere testi che mi interessavano, che avevano buone, se non elevate, qualità letterarie e che comportavano un forte coinvolgimento. 
  • Che cosa è per me tradurre letteratura? È stabilire una relazione, più o meno intensa, che si svolge tutta all'interno della parola scritta, una relazione che partendo da un testo scritto produce un altro testo scritto: non solo quindi un rapporto tra due lingue ma soprattutto un rapporto tra due scritture, tra due atti di parola scritta che per loro natura sono fortemente individualizzati. Questa relazione non è paritaria, anzi è caratterizzata dalla disparità. Essa richiede un'attitudine particolare: bisogna tirarsi indietro per accogliere la lingua dell'altra o dell'altro, per lasciarsene invadere, per ospitarla. Intendo naturalmente del tradurre il testo di una grande scrittrice o di un grande scrittore, di una persona cioè con una capacità di linguaggio molto elevata. In tal caso chi traduce subisce l'autorità, la fascinazione del testo di partenza, e offre il proprio linguaggio con amore, con passione, con ammirazione, con devozione. Se si verifica una condizione del genere, tradurre significa disporsi ad accogliere un testo fortemente strutturato, piegarsi parola dietro parola, frase dietro frase, alle sue necessità, forzare la propria, più modesta capacitá di linguaggio obbligandola a crescere per essere all'altezza dell'originale. 
  • Un testo ci tiene stretti nella sua rete già come lettrici/lettori, anche se – quando leggiamo un libro che amiamo – è difficile capire dove finiamo noi, dove il personaggio, dove ci pieghiamo alle intenzioni di chi ha prodotto il testo, dove inseriamo le nostre intenzioni. Tradurre significa accettare quella disparità, vedere con chiarezza la rete del testo, farsene lucidamente intrappolare. Un testo che suscita la nostra ammirazione, che ci domina, dà la sensazione che chi l'ha scritto sia riuscito a dire cose per le quali non avevamo le parole. Mentre leggiamo, avvertiamo che quel testo ci esprime, che se avessimo saputo scrivere ci sarebbe piaciuto scriverlo proprio così come è scritto, che chi l'ha scritto è come se l'avesse scritto pensando proprio a noi. L'atto del tradurre deve accogliere e potenziare queste impressioni. Accettare che quella parola è più potente della propria parola significa cercare la via per colmare la divaricazione, per arrivare nei limiti del possibile a far combaciare testo originale e testo d'arrivo. Nei limiti del possibile, appunto. 

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